vincono pace e speranza, è l`era obama
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vincono pace e speranza, è l`era obama
ISRAELIANO DAL MESSAGGIO PACIFISTA, IL LEONE D’ARGENTO A WOMEN WITHOUT MEN, SUI DIRITTI DELLE DONNE IN IRAN, E IL GRAN PREMIO DELLA GIURIA A SOUL KITCHEN, FILM SCACCIAPENSIERI. TRE SEGNALI POSITIVI DA UN FESTIVAL CHE RACCONTA DI PROBLEMI E CATASTROFI. DI MAURIZIO ERMISINO VINCONO PACE E SPERANZA, È L’ERA OBAMA Com’è il cinema ai tempi della crisi? Dal punto di vista del prodotto, alla Mostra di Venezia la congiuntura negativa si era sentita di più lo scorso anno, quando dall’America erano giunti pochi prodotti non solo a causa della crisi economica, non ancora esplosa, ma soprattutto per lo sciopero degli sceneggiatori che aveva creato un certo stallo all’interno del sistema cinema. Quest’anno il direttore della rassegna Marco Muller ha deciso di spostare il festival avanti di una settimana, riuscendo a portare a casa molti più film importanti, che in questo modo hanno potuto essere presentati quasi a ridosso della distribuzione nelle sale. E rispetto al 2008 il cinema americano si è presentato più in forze. La qualità media del festival ne ha giovato, visto che è stata superiore allo scorso anno, anche se è mancato quel capolavoro che nell’edizione precedente era stato The Wrestler. Dal punto di vista dei contenuti, la crisi si è fatta sentire eccome, con molti film cupi e pessimisti. Ma proprio per dare un segnale di speranza, la giuria ha premiato delle pellicole che a loro modo comunicavano pace, libertà, ottimismo. È l’era Obama, bellezza. E così, a vincere il Leone d’Oro è stato Lebanon, di Samuel Maoz, un film israeliano che ancora una volta (dopo Valzer con Bashir) racconta il senso di colpa prima rimosso e poi ammesso di Israele per la guerra in Libano e la strage di Sabra e Chatila. Maoz aveva combattuto nell’esercito israeliano e solo vent’anni dopo è riuscito a elaborare l’accaduto. Lebanon è un grande film, rigoroso e coerente: è girato interamente dentro un carro ar- mato, durante un’incursione. I soldati sono rinchiusi nella cabina del veicoli, immersi nella penombra. E l’unico occhio con cui possiamo vedere all’esterno è quello del mirino. Lebanon è un film che funziona su più piani. A livello di racconto, mostra la brutalità della guerra in soggettiva, in primo piano, portando lo spettatore nell’occhio del ciclone, direttamente dentro l’azione. Ma è un’opera potente anche dal punto di vista metaforico: mostrarci dei soldati chiusi dentro un carro significa farci capire l’impossibilità per un ragazzo di uscire dal servizio militare, e dalla guerra in cui si trova catapultato. E il mirino, l’unico sguardo possibile verso l’esterno, è un simbolo della visione limitata di chi si trova a combattere seguendo degli ordini, senza avere una visione d’insieme, senza sapere la portata di quello che gli sta accadendo intorno. Quello di Maoz è un film con un messaggio forte, come quello che ha vinto il secondo premio al Lido, Women Without Men di Shirin Neshat, una videoartista iraniana. Racconta le storie di alcune donne nell’Iran del 1953. La regista viene dalla fotografia, e il suo film è una serie di inquadrature curatissime a livello cromatico che però non riescono mai ad amalgamarsi e a diventare racconto. Evidentemente però il suo film ha convinto la giuria proprio in forza della necessità di raccontare la condizione della donna in un paese come l’Iran, dove ancora oggi la libertà è un miraggio, per le donne come per gli uomini. Viene invece dalla Turchia, nel senso che è nato in Germania da immigrati turchi, Fatih Akin, il Sotto, ‘Lebanon’ di Samuel Maoz, film ambientato completamente all’interno di un carro armato, ha vinto il Leone d’Oro della 66a edizione della mostra del cinema di Venezia. A sinistra, una scena di ‘Women Without Men’ dell’artista ìraniana Shirin Neshat, premiata con il Leone d’Argento. 21 273 TV Key MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 IL LEONE D’ORO DELLA SESSANTASEIESIMA EDIZIONE DELLA MOSTRA DI VENEZIA VA A LEBANON , FILM MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 regista di Soul Kitchen, che ha vinto il Gran Premio della Giuria grazie a un film ottimista e irresistibile, simbolo di fiducia e di ripartenza, perché parla di qualcuno che riesce a farcela. E non è un caso che arrivi dalla Germania, nazione che da sempre è stata il motore dell’economia europea. Akin, che finora conoscevamo per i suoi film drammatici, sorprende cimentandosi con una commedia esaltante, ricca di gag slapstick e di sorprese. Il protagonista è Zinos, ragazzo greco che ad Amburgo gestisce un ristorante, il Soul Kitchen, dove gli avventori amano il suo junk food. Mentre la sua fidanzata parte per Pechino, Zinos si ritrova con un terribile mal di schiena ed è costretto ad assumere un cuoco che cambia il suo modo di cucinare: non più spazzatura, ma cibo per l’anima. Farà TV Key 273 scappare i suoi avventori abituali ma conquisterà i rockettari giunti nel locale per sentir suonare la band del cameriere. Si ride e si viene conquistati dalla musica, dal ritmo, dall’allegria, in Soul Kitchen. Non a caso, scusate il gioco di parole, si tratta di un film che ha un’anima. Parla di ‘Heimat’, la parola tedesca che significa patria, terra natale, ma anche casa, intesa come il luogo della famiglia e degli amici. È questo il Soul Kitchen per Zinos e i suoi. Ci saranno molti problemi per Zinos, ma tutto si concluderà con un evento risolutivo, come in un film di Frank Capra. A proposito di pacifismo: a Venezia, fuori concorso, è stato presentato un film divertente e geniale che è coinciso con uno dei momenti di maggior divismo della Mostra. Il film è Il cast di ‘Soul Kitchen’, divertente commedia del regista turco-tedesco Fatih Akin, meritato vincitore del Gran Premio della Giuria. In basso, George Clooney in ‘The Men Who Stare at Goats’ di Grant Heslov. The Men Who Stare at Goats e il divo in questione è George Clooney. Pensate a una scena di Full Metal Jacket in cui a impartire gli ordini ai marines, al posto del sergente Hartman, ci sia il Drugo de Il grande Lebowsky. Jeff Bridges qui non è Drugo, ma gli somiglia molto. Il suo Bill Django ha la stessa filosofia: è un ex soldato del Vietnam che, dopo aver frequentato i movimenti hippy, ha deciso che per cambiare il mondo bisogna cambiare gli eserciti. E il suo nuovo esercito non combatte con le armi, ma con la mente. È lo strampalato universo creato da Grant Heslov, già sceneggiatore di Good Night and Good Luck, che confeziona ancora un film con protagonista un giornalista, e ancora un film politico, anche se completamente diverso nei toni. Se nel lungometraggio sul maccartismo la chiave di lettura era la libertà di stampa e di espressione, in quest’opera, ambientata durante la guerra in Iraq, lo sceneggiatore è interessato alla libertà dagli eserciti e dalla guerra. Heslov non sceglie lo stile della satira pungente, quanto una sorta di farsa sfrenata e liberatoria, vicina al M.A.S.H. di Altman e ai Fratelli Coen. Come Good Night and Good Luck era un film sim- 22 bolo di un’epoca (il maccartismo come specchio dell’era Bush), The Men Who Stare at Goats è un’opera che la chiude. L’esercito non violento rappresenta la spallata definitiva alla presidenza di Bush e alla sua politica guerrafondaia. ‘CAPITALISM’ E ‘THE ROAD’: LA CRISI ECONOMICA E AMBIENTALE Se pure hanno vinto la pace, la libertà e l’ottimismo, il festival è stato soprattutto un insieme di scenari foschi. A partire dalla crisi economica, raccontata dal documentarista star Michael Moore. Capitalism: A Love Story ci mostra subito tutte le persone che in seguito alla crisi sono state costrette con la forza ad abbandonare le proprie case. Soli, sulla strada, senza più risorse e senza un futuro. Capitalism: A Love Story è il vero film catastrofico della Mostra di Venezia, perché lavora sul reale. La catastrofe è già qui. Ma non si tratta di una fatalità, è una truffa studiata ad arte. È il capitalismo: un sistema di prendere e dare. Prendere, soprattutto: ognuno approfitta della sfortuna di qualcun altro. Per raccontarci la crisi, Moore parte da lontano, dal boom economico del dopo- Sopra, una scena di ‘Capitalism: A Love Story’, nuovo documentario di Michael Moore. In basso, un fotogramma da ‘Life During Wartime’ di Todd Solondz e una scena dall’apocalittico ‘The Road’ di John Hillcoat. guerra, quando l’industria americana volava dopo aver distrutto quella giapponese e quella tedesca, all’avvento di Ronald Reagan, il più grande portavoce delle aziende mai visto sulla scena politica. Con lui il paese diventa un’impresa, i ricchi si vedono diminuite le tasse e la gente viene incoraggiata a prendere denaro in prestito. Fino all’arrivo di Alan Greenspan, colui che convince gli americani ad attingere i soldi dalla propria casa, impegnandola per avere i prestiti. Basta distruggere ogni regolamentazione sui mutui ed ecco la frode perfetta, orchestrata per far perdere la casa alla gente. È riduttivo chiamare documentari i film di Michael Moore: si tratta ormai di un genere a sé, un mix perfetto di satira e denuncia, con una rara lucidità di analisi. Diffidate dalle imitazioni: c’è stato chi ha provato a essere divertente come lui (Morgan Spurlock, Larry Charles), ma si è scordato l’obiettivo principale: quello di informare. Moore lo fa sempre benissimo. Alla catastrofe che è già tra noi si aggiunge quella che deve ancora arrivare. The Road, il film di John Hillcoat tratto dal romanzo di Cormac McCarthy, è una delle pellicole più cupe e inquietanti proiettate sullo schermo negli ultimi tempi, lo scenario più vicino alla fine del mondo che abbiamo mai visto. Ogni giorno diventa più grigio e freddo: non c’è più raccolto, non ci sono più animali, non c’è più cibo. Gli alberi muoiono e cadono da soli, all’improvviso. È un mondo virato in grigio, un grigio sporco. La terra è solcata da bande armate, uomini che sono costretti a cibarsi di al- guerra che finisce per influenzare anche le persone, che però sono alle prese con una guerra molto più dura, quella all’interno di sé stessi. Life During Wartime è uno spietato affresco familiare: i personaggi si dicono cose terribili, e sono i tempi e i modi in cui le battute vengono scandite a far scattare un mezzo sorriso, a creare lo straniamento tra parole ed espressioni e tra parole e situazioni. Tutto ruota intorno a due sorelle. Trish ha un nuovo amore, con cui inizia una nuova vita dopo che quella precedente si era conclusa quando aveva scoperto che il marito era un pedofilo. Joy invece ha appena lasciato il marito Allen, neanche lui guarito da un suo peculiare ‘disturbo’. È una sceneggiatura intelligente, quella di Solondz, che mette in scena un’umanità serenamente disperata. Il film è formato da una serie di quadri che propongono quasi sempre situazioni a due, spesso al tavolo di un ristorante o in una cucina, luoghi dove avvengono atti e discussioni di circostanza e che sono teatro di confessioni spesso drammatiche. Life During Wartime è un film tutto basato sul contrasto. I suoi colori sono accesi solo esteriormente: se potessimo vedere le anime delle persone, probabilmente sarebbe nere come la pece. E il loro tormento interiore stride con la quiete degli scenari ovattati tipicamente middle-class in cui vivono. tri uomini. C’è ancora chi, come un padre e un figlio che si muovono da soli verso il mare e verso il sud, non vogliono ridursi a diventare cannibali, che ci tengono a essere ‘quelli buoni’. È molto diverso dal solito cinema catastrofico, The Road. Perché non spettacolarizza il disastro, ma inizia in medias res, quando l’inevitabile è già accaduto. Non cerca luoghi famosi da distruggere, o momenti di azione che alzino il ritmo del film. E non dà spiegazioni, perché non serve: 23 273 TV Key MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 in un modo o nell’altro siamo arrivati a un collasso ambientale. È impossibile non chiederci cosa faremmo in determinate situazioni. The Road è un monito verso il futuro, ma anche la metafora del mondo di oggi, senza più risorse, nel nostro caso economiche. Non sono poche le persone che a causa della crisi hanno perso la propria abitazione e sono stati costretti a improvvisarla. Per questo l’atmosfera del film sembra essere in sintonia con lo stato d’animo di molti in questo delicato momento storico. È un mondo in crisi anche quello raccontato da Todd Solondz. Il suo film, che ha vinto il Premio Osella per la migliore sceneggiatura, si chiama Life During Wartime: la vita durante la guerra. Si tratta della guerra all’Iraq, ma il conflitto non è al centro del film, anche se torna spesso a ricordarci l’epoca buia in cui è ambientato, gli anni di Bush. È una MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 L’attrice russa Ksenia Rappoport, a destra, ha vinto la Coppa Volpi come miglior protagonista per ‘La doppia ora’ di Giuseppe Capotondi. Sotto, una scena del kolossal ‘Baarìa’ di Giuseppe Tornatore. ITALIANI, BRAVA GENTE E gli italiani? È da tanto, troppo tempo, che Venezia non assegna un Leone d’Oro all’Italia. Una volta persa l’occasione con Nuovomondo di Crialese tre anni fa, c’era il sentore che sarebbe potuto succedere quest’anno. Non è accaduto, e sinceramente ci sentiamo di dire che nessuno dei film tricolori era da Leone. All’Italia sono stati dati comunque due premi: la Coppa Volpi per la migliore attrice a Ksenia Rappoport (quella per l’interpretazione maschile è andata a Colin Firth per A Single Man) è da considerare un riconoscimento a tutto il film La doppia ora, del regista Giuseppe Capotondi. È un caso singolare che un filmmaker esordiente venga selezionato per il concorso, ma la scelta si è rivelata giusta e La doppia ora si può considerare a buon diritto la sorpresa italiana del festival. Si tratta di un thriller dell’anima, ambientato in un ‘non luogo’ come un al- TV Key 273 bergo e girato in una Torino priva di sole. Un ragazzo e una ragazza si incontrano a uno speed date, un appuntamento dove ci si conosce in pochi minuti: continueranno a frequentarsi e lui, ex poliziotto, la inviterà nella villa dove fa il custode. Solo che durante la sua visita lui viene assalito. Da quel momento inizia un viaggio misterioso tra sogno e realtà in cui le carte si mescolano e la percezione si fa meno lucida: i personaggi non capiscono, e noi con loro veniamo trascinati in un vortice dove non sappiamo in che direzione stiamo andando. Piace, La doppia ora (il titolo si riferisce a quegli orari, come le 23:23, in cui un numero si ripete e si dice che possano accadere cose strane), perché è un film che ha poco del cinema italiano come siamo abituati a considerarlo. È un thriller che si muove dalle parti di Mulholland Drive, in quelle zone grigie del nostro inconscio dove non ci sono certezze. Capotondi è bravo a muovere la macchina da presa negli spazi e a lasciarla sui volti per quei pochi secondi in più che riescono a creare inquietudine. La Rappoport, attrice russa ormai abbonata al nostro cinema (era La sconosciuta di Tornatore) ha il volto di un cerbiatto e gli occhi di un cucciolo disorientato, allo stesso tempo seducenti e bisognosi di protezione. È anche il suo sguardo a confonderci e a contribuire alla riuscita del film. Il secondo riconoscimento italiano è per un’altra donna, Jasmine Trinca, protagonista de Il grande sogno di Michele Placido, cui è andato il Premio Mastroianni per la miglior attrice emergente. È inevitabile che la scelta sia stata discussa: non per la bravura dell’attrice, quanto per il fatto che considerare emergente un’attrice che siamo abituati a vedere sulla scena dal 2003, anno del suo folgorante esordio ne La meglio gioventù, sia alquanto singolare. Jasmine Trinca, in ogni caso, è brava: oltre a recitare col volto, ora recita con il corpo, è diventata finalmente donna, intensa e sensuale. E tutto il cast de Il grande sogno funziona: se Riccardo Scamarcio offre quello che ci aspettiamo (sguardi carichi d’ardore), ancora una volta la sorpresa è Luca Argentero, che dopo essere stato un padre single dolcissimo (Solo un padre) e un gay convincente e fuori dai clichè (Diverso da chi?), ora è un leader comunista macho e carismatico. Il passo non è breve: eppure ancora una volta Argentero ce la fa. Il grande sogno è un film auto- Jasmine Trinca e Luca Argentero ne ‘Il grande sogno’, film di Michele Placido per il quale la Trinca ha ricevuto il premio come attrice emergente. 24 Sopra, Margherita Buy ne ‘Lo spazio bianco’ di Francesca Comencini, e una scena di ‘Cosmonauta’ di Susanna Nicchiarelli, film che ha vinto la sezione Controcampo italiano. biografico, o quasi. Nicola (Scamarcio), il protagonista del film, è un ragazzo pugliese che arriva a Roma per fare il poliziotto ma con il sogno di diventare attore. Esattamente come Placido. Incontra Laura (Trinca), una giovane studentessa di fisica all’Università La Sapienza, proprio mentre scoppia la contestazione del ’68. Infiltrato dalla polizia, partecipa all’occupazione e si innamora di lei. Ma dopo essere tornato a lavorare in divisa, si troverà a sedare una manifestazione dall’altra parte della barricata. Laura allora si avvicinerà a Libero (Argentero), leader del movimento studentesco. Placido nel raccontare la storia però va di fretta, corre senza soffermarsi sulle cose, e per andare veloce, inevitabilmente, semplifica. Così Il grande sogno è un bignami del ’68, che mette in scena tanti fatti storici, tanti personaggi, senza che nessuno riesca a fissarsi e a rimanere. Ci sembra più che altro un problema di sceneggiatura, che schematizza ogni personaggio e ogni ruolo cristallizzandolo, e rende prevedibile ogni scena. È un problema che ha anche Baarìa, il film di Giuseppe Tornatore, il grande sconfitto della Mostra. Racconta la storia di un paese della Sicilia, quello in cui Tornatore è nato e cresciuto, dal fascismo fino agli anni ’80. In un affresco corale che dura tre generazioni, spicca una vicenda alla Giulietta e Romeo: quella di Peppino e Mannina, divisi dal censo e dalla politica. Peppino è comunista, e affronta lungo tutto il corso della storia prima il fascismo, poi la mafia e la Democrazia Cristiana. Baarìa è un film che vive in maniera circolare, con l’andamento di una sinusoide, anche per quanto riguarda l’incipit e il finale. Volti e personaggi scompaiono e riappaiono, mentre i temi si ripresentano più volte durante il film per caratterizzarlo. Ci sono i libri, simbolo di libertà e affrancamento, divorati letteralmente dalla provenienza contadina di Peppino (cioè dalle capre) e simbolicamente dal fascismo che osteggia la libertà di parola. C’è il cinema, che – 25 273 TV Key MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 come sappiamo da Nuovo Cinema Paradiso – ha formato la vita del giovane Tornatore: anche qui vediamo un ragazzo salvare alcuni fotogrammi di pellicole. E ci sono le donne, perché in Baarìa c’è anche Malèna (ovviamente Monica Bellucci), la donna fatale che ha fatto parte dell’immaginario di un paese e di chi ci abita. Girato in maniera impeccabile, Baarìa però è un film che non emoziona come dovrebbe, non scalda quasi mai il cuore, non arriva in fondo al discorso che aveva iniziato. Il problema è soprattutto di scrittura: una sceneggiatura troppo schematica e didascalica finisce per rendere tutto prevedibile. Con Baarìa Tornatore cerca di fare contemporaneamente il suo Amarcord e il suo Novecento, ma non ha la fantasia sfrenata di Fellini e soprattutto non ha quel senso dell’impegno politico e quel sacro fuoco che fece del film di Bertolucci un capolavoro. Resta la soddisfazione di vedere un cinema italiano che pensa in grande e produce in grande. Nessun premio neanche all’altro film italiano in concorso, Lo spazio bianco di Francesca Comencini, forte di un’interpretazione come quella di Margherita Buy, che fino all’ultimo è stata una seria candidata alla Coppa Volpi. Racconta la storia di una madre single che si trova a concepire un figlio prematuro (nasce dopo sei mesi di gravidanza) ed è costretta a osservarlo in una stanza d’ospedale, attraverso il vetro di un incubatrice. È lo spazio bianco: bianco come quello dell’ospedale, ma anche come un metaforico spazio vuoto su un foglio, dove ci si è fermati nello scrivere e non si è ancora ricominciato. Ed è bianca, luminosissima, la Napoli resa magistralmente da Luca Bigazzi, uno dei nostri migliori direttori della fotografia, che riesce a dare al film un tono etereo, sospeso, ovattato, quasi incantato. Lo spazio bianco è un film tutto basato sull’attesa, e la MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA 2009 Comencini è brava a intervallarla con momenti surreali come quello della danza nel reparto maternità. A proposito di Italia: a Venezia è stata inaugurata una nuova sezione, Controcampo italiano, tutta dedicata ai film di casa nostra. Un altro modo per soffiarli a Roma? In ogni caso, a vincere è stato Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, un’altra storia legata al comunismo che (vedi anche Le ombre rosse di Citto Maselli) è stato uno dei fili conduttori del festival. IL CINEMA DI GENERE Alla mostra c’è stato molto spazio anche per il cinema di genere. A partire dall’horror e da [Rec] 2, seguito del film che aveva spaventato il Lido giusto due anni fa. [Rec] 2 inizia pochi secondi dopo la fine di [Rec]: vediamo una squadra tipo SWAT pronta a intervenire nel famoso condominio A sinistra, ‘Survival of the Dead’, nuovo capitolo della saga sugli zombi di George A. Romero. A destra, ‘The Hole’, horror per famiglie di Joe Dante, presentato nella versione in 3D. messo in quarantena. Il film, come molti sequel, lavora per accumulo e moltiplicazione. Per superare il primo capitolo si tende a fare di più e si moltiplicano le videocamere: in scena ce n’è una principale, ma ogni agente delle squadre speciali ne ha una personalizzata. Così i nostri occhi non coincidono più con un unico occhio (che nel primo film era quello della telecamera della troupe televisiva) bensì con più sguardi, quelli dei vari agenti. Ma [Rec] 2 è un film che si moltiplica anche in un altro senso. Dopo pochi minuti, come si intuiva nel primo capitolo, capiamo che l’infezione che trasforma le persone in una sorta di zombi non è semplicemente un virus, ma una pos- Un fotogramma della pellicola horror ‘[Rec] 2’ degli spagnoli Jaume Balagueró e Paco Plaza. TV Key 273 sessione demoniaca. Così [Rec] 2 moltiplica anche i sottogeneri dell’horror nei quali inserirsi, contaminando lo zombie movie con le storie sovrannaturali di possessione: La notte dei morti viventi incontra L’esorcista, nello stile di The Blair Witch Project (che fu il primo horror in soggettiva). Un’ultima contaminazione è quella con i videogame: le scene dei poliziotti sparano agli zombie sembrano uscire dai videogame sparatutto in prima persona sullo stile di Doom. Il festival di Venezia, comunque, non è mai stato così horror. Senza dimenticare La horde, velocissimo film a base di zombi – anche questo debitore a una certa estetica da videogame – divertente perché è senza mezzi termini un B movie a tutti gli effetti, gli zombi a Venezia sono associati soprattutto al nome di George Romero, colui che ai tempi de La notte dei morti viventi li ha praticamente reinventati. Survival of the Dead, cult movie per definizione ma ancora in attesa di una distribuzione, almeno in Italia, rappresenta un ulteriore passo avanti nella saga dei morti viventi: è ambientato su un’isola dove alcuni umani, invece di distruggere le mostruose creature, le tengono in vita – si fa per dire – inca- 26 tenandole e cercando di insegnare loro a non mangiare carne umana. Diciamo la verità: gli zombi di Romero non fanno più paura – fanno pena, al limite – se mai l’hanno mai fatta. Quel che conta è il discorso politico: il regista riesce a parlarci di eutanasia – tenere in vita chi vivo non lo è più – e di una razza umana bravissima a distruggersi da sola, che in realtà è più pericolosa degli zombi stessi. Gli zombi siamo noi, insomma. L’ultimo maestro horror in scena a Venezia, fuori concorso, è Joe Dante. Il suo The Hole è un horror all’acqua di rose che, se non fosse per il fatto di essere stato girato in 3D, sarebbe il classico filmetto da pomeriggio televisivo: vediamo una famiglia alle prese con un buco in cantina, capace di materializzare tutte le nostre paure. Da salvare il finale, con scenografie oblique degne dell’espressionismo tedesco. Dall’horror passiamo al poliziesco, che a Venezia, fuori concorso, è stato rappresentato da Brooklyn’s Finest. È un nuovo racconto di polizia corrotta, ideale seguito ed evoluzione di quel Training Day che qualche anno fa aveva rivelato Antoine Fuqua. Brooklyn’s Finest ha il pregio di parlarci di poliziotti corrotti o falliti, ma anche di farci capire le loro ragioni. C’è l’agente (Ethan Hawke) che ruba i soldi delle retate agli spacciatori e li tiene per sé, perché 11A A sinistra, una scena del poliziesco ‘Brooklyn’s Finest’ di Antoine Fuqua. A destra, Matt Damon ingrassato e coi baffetti in ‘The Informant!’ di Steven Soderbergh. sce a conquistare: la pellicola di Fuqua ha tutto quello che ci si aspetta da un film del genere: è sboccata, violenta, spinta, scorretta. Di tutt’altro genere The Informant! di Steven Soderbergh, anche questo fuori concorso. È la storia di Mark Whitacre, interpretato da un Matt Damon con diversi chili in più e dei baffetti che lo trasformano in un ometto anonimo, che lavora in un’azienda che estrae un componente dal mais al fine di realizzare prodotti alimentari. Whitacre scopre che le aziende di questo tipo formano un cartello in cui si mettono d’accordo per decidere il prezzo del loro prodotto. Così decide di informare l’FBI, e comincia a lavorare per loro, continuando a operare all’interno dell’azienda. Ma quando pensiamo di trovarci di fronte a una classica storia alla The Insider, lo scenario cambia e capiamo che Whitacre mente. È questo che rende The Informant! una storia insolita. È un The Insider raccontato con un sorriso, virato in commedia e srotolato a ritmo di swing. E forse è proprio un sorriso che ci vuole, di questi tempi, per combattere la crisi. 12 Ciak sicuro con LMA LMA Broker di Assicurazioni è specializzata in coperture assicurative per case di produzione. Copertura di testimonial, personale saltuario, weather day, polizza multirischi. Prima di ogni film o di ogni spot telefona a Roberto Casabona. 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