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ISSN 2284-0354 periodico di cultura dell’Università del Salento maggio periodico di cultura dell’Università del Salento www.ilbollettino.unisalento.it www.ilbollettino.unisalento.it “Io ci provo”: dieci attori-detenuti in uno spettacolo tratto da “La panne. Una storia ancora possibile” Agnese Del Giudice e gli Studenti di Procedura penale e Diritto dell’esecuzione penale del professor Rossano Adorno Ma il teatro e l’arte hanno questa funzione, quella di rimescolare le carte, di riattivare possibilità rimosse, e permettere di vedere la possibilità dell’impossibile. L a Casa Circondariale di Lecce è una moderna fortezza, essenziale e lineare; è una “vasca” in cemento armato, infuocata dal sole nella stagione estiva e invasa dalla torrenziale pioggia in inverno. Un celere controllo ci accoglie all’entrata: nonostante il “lieto” evento la giustizia non ammette contraccolpi; ci dirigiamo, sotto l’occhio attento dei nostri “accompagnatori”, verso il tunnel imponente che, dopo i cancelli d’entrata, immette nel complesso delle due sezioni con gli annessi servizi (accettazione, matricola, cucine, infermeria, magazzini, lavorazioni e teatro). L’odore di vernice fresca richiama la mia curiosità come quella di molti altri studenti che, uno dopo l’altro, iniziano a guardarsi intorno: è un piacere per i miei occhi vedere che al grigio austero che un anno fa mi aveva accolta in quello stesso tunnel, è stato sostituito un tenue glicine e un frizzante verde mela: una boccata d’aria fresca che lascia ben sperare su altri futuri cambiamenti dell’istituto penitenziario. I detenuti, nelle loro vesti sceniche che riecheggiano l’eleganza borghese del ‘700, ci attendono nel teatro, seduti variamente sul palco: una struttura centrale con 20 due piccoli spalti laterali e tre basse pedane situate a un passo dagli spettatori. Si respira un’aria professionale: gli attori sorridono timidamente dai loro posti, lo staff interviene qua e là per i ritocchi dell’ultimo minuto, la regista (Paola Leone) è lì ad accoglierci con gioia e orgoglio, un orgoglio palpabile e visibile, una fiamma nei suoi caldi occhi tanto forte da farmi credere, inizialmente, che lei stessa faccia parte dello spettacolo come protagonista. Invece no. I suoi occhi bruciano di passione per la “sua compagnia”, “per i suoi attori”, “per il suo progetto”, perché il suo incessante chiedere e credere fermamente in questo tipo di rieducazione finalmente sta dando i suoi frutti: è la terza delle quattro date dedicate allo spettacolo del “laboratorio-percorso teatrale nella Casa Circondariale-Borgo San Nicola di Lecce” intitolato “L’ultima cena di Alfredo Traps”, con in scena gli attori detenuti della Compagnia IO CI PROVO. Saluti veloci delle autorità, scroscianti applausi e la sala viene finalmente avvolta dall’oscurità. Una musica, un tango, arriva improvvisamente alle nostre orecchie e un cono di luce illumina le tre piccole pedane sulle quali passano lentamente, uno ad uno, guardandoci, quattro dei dieci attori. Lo spettacolo è iniziato. Le loro quattro voci introducono la storia: una Maserati “in panne” costringe il protagonista, il Sig. Traps (alias Alessio Pallara), umile rappresentante di tessuti, a chiedere ospitalità nell’abitazione vecchio stile di un giudice a riposo che lo invita alla sua cena, in compagnia di alcuni suoi amici, tutti ex uomini di legge. Quattro pensionati – un giudice, un avvocato, un pubblico ministero e un boia – che ammazzano il tempo inscenando i grandi processi della storia - a Gesù, Socrate, Giovanna d’Arco -, ma che, potendo aggiungere un nuovo componente alla loro allegra “combriccola”, possono metter su un nuovo e più entusiasmante processo, con un imputato in carne e ossa. Il protagonista accetta divertito, ma è rammaricato: non ha commesso, ahimè, nessun delitto. Niente paura, lo rassicurano, «un reato si finirà sempre per trovarlo», «che lo si voglia o no, c’è sempre qualcosa da confessare». Traps si ritrova, allora, inconsapevolmente, fra squisite portate, inebrianti vini d’annata e brindisi tintinnanti, a rispondere alle insidiose ed incalzanti domande di uno degli anziani che riveste il ruolo del pubblico ministero. In un’atmosfera sempre più inquietante, il gioco prosegue: Traps parla, racconta di sé, della sua vita fatta di imbrogli e adulteri, del suo lavoro, di aver ottenuto il ruolo di rappresentante generale dopo la morte del suo capo, un certo Gygax. Fiumi di parole da Traps che non ascolta le esortazioni alla prudenza che gli vengono costantemente rivolte dal suo difensore. Ad ogni utile rivelazione lo spettacolo si interrompe e i cinque commensali, marionette nelle mani dei camerieri, vengono spostati per essere riposizionati nel punto e nel modo in cui dovranno continuare la scena successiva. Tano scandisce il tempo di quella notte grottesca, ora dondolandosi sulle note di una canzone antica, ora con in mano una tazza di thè, un pacco di pop-corn o una scintilla accesa. Un personaggio tutto da interpretare: Tano è una semplice esigenza scenica? Rappresenta, forse, la cadenza cui inevitabilmente il processo soggiace? Potrebbe essere lo spettro di un’opinione pubblica che reclama a gran voce “il colpevole”? La scelta agli spettatori. Nonostante l’atmosfera allegra e assolutamente leggera della serata, man mano che il processo va avanti, tra gioco e realtà, attorno all’opulento banchetto inizia ad aleggiare “l’odore della verità”: Traps si svela attraverso un esercizio di raffinate sevizie mentali, confessando incautamente di aver «consolato», in una storia extraconiugale, la signora Gygax. Con il passare delle ore l’innocente protagonista si palesa, agli occhi di quella strana corte, come un freddo calcolatore: egli avrebbe intrapreso una relazione con la moglie del suo capo, debole di cuore, solo per provocargli un infarto e potergli subentrare nel lavoro. Il reato esiste, dunque. Il reato è stato commesso; un reato «perpetrato in modo così raffinato da essere brillantemente sfuggito, è ovvio, alla giustizia dello Stato». Galoppa, allora, in Traps una nuova, fredda consapevolezza, e la scena si blocca ancora una volta: tutto è immobile tranne il protagonista che lentamente, nella semioscurità della sala, avanza tra gli spettatori. Si avvicina all’orecchio di una ragazza, di un’altra e un’altra ancora, ripetendo sempre la stessa domanda: 21 «e se fossi davvero un delinquente? E se davvero avessi ucciso Gygax?». Inaspettato, poi, l’evolversi della scena. Emerge una sorta di orgoglio nell’essere stato accusato del cosiddetto “delitto perfetto”. Traps scopre in sé l’artefice di un delitto che merita «ammirazione, stupore e rispetto», un delitto capace di rendere «più difficile, più eroica, più preziosa» la sua miserabile vita. Traps non può che ringraziare i giudici per questo. L’atmosfera diventa, quindi, surreale; gli ospiti, euforici, iniziano a festeggiare per la strabiliante sincerità dell’imputato: nuovi brindisi invadono la scena, e tra vorticose risate si alzano i calici in onore della veritas finalmente raggiunta, una verità esclusivamente umana non certo giudiziaria, libera dai farraginosi ingranaggi della macchina processuale. È lo stesso giudice a sottolinearlo: «Noi quattro qui seduti a questo tavolo siamo ormai in pensione e perciò ci siamo liberati dell’inutile peso delle formalità, delle scartoffie, dei verbali, e di tutto il ciarpame dei tribunali. Noi giudichiamo senza riguardo alla miseria delle leggi e dei commi». Il processo giunge finalmente a conclusione. Tutti, completamente ubriachi, si addormentano, ma non Alfredo Traps che, dopo la sua ultima cena, si impicca nella sua stanza. Un’esclamazione dei giudici dinanzi al corpo immobile di Traps, stagliato nella fredda luce della luna, chiude lo spettacolo: «Alfredo, mio caro Alfredo! Ma che cosa ti sei messo in testa, santo cielo? Ci rovini la più bella serata della nostra vita!». Pochi secondi per focalizzare l’ennesima emozione e la platea scoppia in un giubilo di applausi e tra dolci lacrime e freschi sorrisi gli attori ricevono il loro meritato riconoscimento. Lo spettacolo è stato tratto da “La panne. Una storia ancora possibile”, romanzo del 1956 di Friedrich Dürrenmatt, in cui il drammaturgo svizzero ha delineato un mondo nel quale il destino e la giustizia hanno battuto in ritirata lasciando campo libero solo a incidenti del caso: anche una banale panne automobilistica è in grado di cambiare il corso di un’esistenza dove “non vi è più un Dio che incomba, una giustizia, un fato come nella Quinta Sinfonia”. “La panne” è un focus sull’ordinamento giudiziario e sulle “strade tortuose, grottesche, spesso feroci, lungo le quali la giustizia trova la sua realizzazione”. La giustizia è il tema su cui il testo di Durrenmatt e i dieci attori-detenuti (Gjeli Luftar, Alessio Pallara, Gertian Zaho, Gaetano Spera, Maurizio Mazzei, Marco Errini, Francesco Chiarillo, Benjamin Islamaj, Elis Dedei, Pierluigi Bolognese), in nome della giustizia stessa, invitano a riflettere, mai fornendo facili e retoriche risposte, ma proponendo ardue domande. Una rappresentazione, questa, in cui vanno in scena un diritto e una giustizia dai nuovi connotati. 22 Il laboratorio teatrale trova la sua ragion d’essere nella necessità, espressamente contemplata dall’Ordinamento penitenziario, di organizzare negli istituti, anche nel quadro del trattamento rieducativo, “attività culturali, ricreative e sportive” (art. 27 l. n. 354/1975) e nell’esigenza di perseguire la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati tamite la partecipazione della comunità esterna (art. 17 l. n. 354/1975). La littera legis è particolarmente limpida al riguardo: “la finalità del reinserimento sociale dei condannali e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa” (art. 17 comma 1 l. n. 354/1975); e ancora: “negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative e ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati, anche nel quadro del trattamento rieducativo” (art. 27 comma 1 l. n. 354/1975). Il modello partecipativo regolato dagli artt. 17 e 27 dell’Ordinamento penitenziario costituisce una delle espressioni più significative del rifiuto di una pena detentiva intesa come becera coercizione e fredda emarginazione. L’obiettivo della risocializzazione deve essere perseguito, dunque, anche mediante il contributo partecipativo delle varie espressioni della comunità esterna in grado di favorire lo svolgimento di quell’insieme di attività funzionali all’evoluzione della personalità dei detenuti. Una di queste è il teatro, un teatro per crescere, un teatro per capire, un teatro per rieducare; un teatro per attraversare territori prima estranei, per saggiare le proprie capacità, per dimenticare chi si è stati e per trovare chi si vorrebbe essere. Se nella vita quotidiana le emozioni arrivano all’anima filtrate, stanche, come se avessero fatto un viaggio troppo lungo per giungere a destinazione, sul palco no, sul palco è un’altra storia. Lì un filo diretto e invisibile lega il cuore degli attori agli occhi commossi, felici ed attoniti della gente: è una rivalsa sulla vita. Il teatro è un’attività in grado di spezzare le catene dei pregiudizi e andare al di là della prigionia del corpo. Teatro è libertà, è sentirsi liberi da detenuti. L’iniziativa è stata organizzata assieme al professor Luciano Nuzzo. Gli organizzatori ringraziano il Direttore della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce, Antonio Fullone, il Magistrato di Sorveglianza di Lecce, Maria Immacolata Gustapane e la regista, Paola Leone. in vendita online e presso le officine cantelmo