- Mario De Rosa
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- Mario De Rosa
More di gelso Da la cella scura scura l’angiulillo chiagne e sbatte, dice ‘e metterse paura! Ma ‘a Madonna, quanno ognuno sta durmenno a suonne chine, annascuso ‘e tuttequante va e lle porta ‘e mandarine! Ferdinando Russo – ‘Nparaviso Solo due tipi di macchie erano capaci di scoraggiare Maria: le macchie delle “pezze da notte” stracci o ritagli di vecchi asciugamani che si usavano per fasciare il culetto dei bambini -, e le macchie sulle sue scarpe di tela leggera che usava per andare a lavoro. Maria affrontava entrambi i tipi di macchie con la stessa resistenza di gomito e polso, lavando a mano: “Queste scarpe si macchiano sempre”, oppure “Ma quando crescono queste creature e la vanno a fare per fatti loro nel vasino?”. Quella mattina Maria si svegliò presto: a destarla da un sogno in cui lei abitava in un fico dolce, fu la solita misteriosa forza che la trascinava verso la cucina per preparare un’ingolfata macchinetta di caffè. Scrutò il tempo alla finestra, intanto che la posa bolliva e le altre si svegliavano per andare a contendersi il bagno – che era un bugigattolo con la porticina in legno senza chiave, con la catena da tirare, che era posto fuori, sul balcone, usato in condivisione dalle due famiglie di quel piano. Anche quella mattina, Maria, si ripulì bene le scarpe prima di uscire di casa. All’epoca aveva diciannove anni; lavorava dalla signora Carmen già da cinque. Senza contare due anni e mezzo in cui aveva fatto da “apprendista”, circa trenta mesi a lavorare da sarta per sdebitarsi della concessione speciale di poter imparare quello stesso mestiere. Camminava svelta, Maria, come i veneziani: qualcuno glielo aveva gridando per richiamare la sua attenzione, giusto un paio di volte, ma abbastanza per battezzarla per sempre, per tutti quelli del rione, La Veneziana. « Veneziana, come corri, e fermati un momento! » Maria nemmeno si voltava. Solo quando il mistero della caffeina si manifestava in tutta la sua potenza dentro di lei, rispondeva nervosetta: « Sto andando a Venezia, infatti! » Ma senza però interrompere il flusso dei suoi passi, dettato dalla meccanica perfetta di un corpo asciutto, elasticamente compatto e sano. Sano anche grazie ai lavori di casa che aveva fatto fin dall’infanzia vita natural durante… qualche metro più avanti, fra sé e sé, nell’intimità di piccole parole pronunciate appena, Maria si diceva: « Io volerei, a Venezia, se potessi. » *** Arrivò al negozio di abiti Di Prisco, dopo aver attraversato tutto il paese, calpestando marciapiedi su cui qualche donna di casa che aveva iniziato di buonora a lavare il pavimento lanciava secchiate d’acqua che odoravano di detersivo e candeggina… cavalcando le onde del profumo dei panini all’olio, attraversando la strada per non sentire il lezzo delle cassette di polistirolo della pescheria… era il 1974. Maria all’epoca abitava in un paese della provincia di Salerno, dove l’aria era frizzante di ossigeno e le cose importanti del mondo erano tre o quattro e tutti le conoscevano. Donna Carmen, anche lei mattiniera, faceva colazione in negozio, intanto che Maria arrivava per aprire. Nel tempo, avevano trovato un posto dove imparare un lavoro anche altre apprendiste, poco più piccole di Maria, che arrivavano in genere verso le nove. Le compagne di Maria erano come lei: giovani donne volenterose, perlopiù figlie di madri-operaie e di padri-illustri-sconosciuti. Maria, quella mattina, aveva il compito di allestire da capo le vetrine, oltre quello di consegnare un abito prima di mezzogiorno; riuscì a fare entrambe le cose prima che le sue compagne arrivassero insieme sul posto di lavoro. Loro venivano da fuori e talvolta Maria, ripiegata su se stessa nell’intento di mettere una scarpa a un manichino, nel vederle arrivare insieme le aveva invidiate un po’. Non amava dare confidenza per strada, ma le piaceva la compagnia. Sopra il negozio, al secondo piano di quel contesto residenziale, tutto di proprietà dell’avvocato Di Prisco, marito di donna Carmen, c’era un immenso salone che si raggiungeva per mezzo di alcune scalinate di marmo, e al terzo piano il sontuoso appartamento dove vivevano i coniugi Di Prisco senza figli. La signora si occupava del negozio, di spicciare i clienti e di farsi lunghe e piacevoli chiacchierate. Di tanto in tanto saliva al laboratorio per vedere come procedevano i lavori, per mettere gli abiti a misura, per fare i tagli sulle stoffe che Maria e le sue compagne avrebbero dovuto imbastire. Nello stanzone c’erano tre tavoli in legno lunghi cinque sei metri e altrettante postazioni singole con macchine professionali a marca Singer, sulle quali Maria e le altre riscattavano giorno dopo giorno il diritto di partecipare alla vita. Ma quello non era tempo di cucire… Quella settimana di giugno, la signora Carmen scelse di dedicarla solo alle pulizie, e quindi, quella madonna scura con le spalle ripiegate in avanti, lenta nei gesti e risoluta nelle azioni, dirigeva i lavori con la punta delle dita piegate dall’artrite, indicando i mobili da spostare, i tappeti da sbattere, i manici da lucidare, gli avanzi di filo da usare per rifare delle bobine, quali cose andavano buttate e quali no… “Tutto nuovo, vita nuova!”, diceva donna Carmen a Maria, sorridendole per incoraggiarla. Finito il laboratorio, sarebbe stata la volta dell’appartamento al piano di sopra. Ma solo Maria poteva metterci le mani. Era un privilegio tutto suo. Quel pomeriggio, dopo aver fatto merenda con dei biscotti di crusca e della frutta fresca, la madonna scura proclamò: « Ve lo siete meritate ragazze, un po’ di musica, ci vuole! » Una compagna accese la radio a tutto volume, scegliendo una stazione dove davano spesso musica americana, che a Maria non faceva impazzire, ma tant’è… si divertiva anche lei quando come le altre si metteva le pattine sotto i piedi e iniziava a ballare scivolando con le suole sul pavimento dove da poco era stata passata la cera, spintonandosi l’un l’altra, facendo accenni di piroette… e ridendo tanto forte da coprire la musica. Verso sera, Maria, fece un altro paio di chilometri a piedi per un’altra consegna. Il cielo era spugnoso e dolce. C’era stato un maggio piovoso; i primi di giugno addirittura lampi e tuoni. Agli occhi leggermente a mandorla, da forestiera, di Maria, quella sera non poteva che sembrare speciale: finalmente il sereno dopo tante settimane di nevrastenia e fastidio che si appiccicavano ai vestiti, fra i capelli, fra i pensieri. Al ritorno verso casa, Maria vide un manifesto: in agosto sarebbe uscito un nuovo film con Tomas Milian: Milano odia: la polizia non può sparare. Fra sé e sé: « E lo mettono già adesso il manifesto?, Mado’, come ti sei fatto brutto, Tomas! » Eccola Maria… la vedo: Si ferma in piazza Municipio per alleggerire la stanchezza, rinfrescandosi i polsi con l’acqua fredda di una fontana a forma di conchiglia. Poi passa la mano umida sulla fronte, domando all’istante una ciocca dei suoi capelli corvini… adesso sta guardando in un angolo di cielo, sopra gli alberi, i palazzi e le teste della gente, dove ci sono delle nuvole colorate dal tramonto… delle nuvole così belle da spaventare… lei non lo sa, ma in questo momento preciso è l’unica a stare ferma, in questa piazza del sud. I suoi occhi orientali, marroni ma dalle graziose aureole verdi se guardati in controluce, si spalancano a questa bella sera, così pacifica, con questa luce che proprio adesso le fa sembrare i lineamenti meno tondi, che sta risaltando i tratti belli del mento e del collo. Sta per dire qualcosa, Maria… la sento: « Ah, che bello… si stanno allungando le giornate! » E vista da qui, sembra la reincarnazione di un fiore antico. *** Se qualcuno glielo avesse chiesto, Maria avrebbe risposto che a casa sua non mancava niente. Solo che siccome nessuno glielo chiedeva mai a lei non dispiaceva dirlo ad alta voce se ne aveva l’occasione. E in effetti era vero. La madre di Maria, donna Rita, lavorava in una fabbrica in un paese vicino, dove facevano lavorazione di prodotti in scatola: fagiolini, fagioli, pelati, eccetera… Portava spesso a casa lattine ammaccate che costituivano le fondamenta della sua dieta e di quella delle figlie. La sorella Sofia, di tre anni più piccola di Maria, faceva l’apprendista pasticciera alla famosa Pasticceria Biancomangiare: lei a casa portava, di tanto in tanto, sfogliatelle, creme, e anche le Zeppole di San Giuseppe una volta l’anno. La nonna di Maria, detta da tutti Mammell‘, pagava il pesone con la sua pensione minima; ci sapeva fare nelle cose del mondo, quella nonna: era lei, per esempio, che si prendeva il disbrigo di girare fra le bancarelle del mercato a fine giornata, spuntando sempre un buon prezzo sulla frutta troppo matura che non era stata venduta. Maria era l’unica che non portava qualcosa da mangiare; al massimo lei portava il lavoro-extra a casa, quando al ritorno di una giornata già di per sé infinita rientrava sbandierando qualche sacchetto del negozio Di Prisco con dentro dei capi da aggiustare o rifinire. Sebbene quella di Maria fosse la più povera del rione, grazie a quella santa volpe di Mammell’, fu la prima famiglia a possedere un televisore. Quella nonna, anni addietro, firmò delle cambiali con una X seguita da un paio di roccocò, portandosi a casa un enorme prodigio della tecnica in bianco e nero. Almeno un paio di sere a settimana, tutte le signorine del vicolo – con qualche concessione anche per le maritate rimaste sole e per i maschietti che non avevano ancora fatto lo sviluppo – si ritrovavano a casa di Maria per guardare un po’ di televisione. Quando faceva caldo, donna Rita offriva ai suoi ospiti delle glaciali indigestioni di acqua fredda di rubinetto, mentre d’inverno un po’ di frutta secca e qualche copertina da mettere sulle gambe. Anche quella sera stavano guardando la tv a casa di Maria. Più tardi, prima di andare a letto, declamò a voce alta una lettera d’amore che Sofia aveva ricevuto da un ragazzotto di un paese vicino. Sofia ne riceveva tante e continuò a riceverne per molti anni, senza mai scegliere nessuno di quegli spasimanti letterati. Risero molte, le due sorelle: Maria sapeva leggere bene e conosceva l’arte di prendere in giro in modo sofisticato chi si prende troppo sul serio nello scrivere smancerie. Quella notte appoggiò la testa sul cuscino e in meno di tre secondi si addormentò, sognando una nuvola rosa che circondava il suo letto. Nel sogno Maria si pettinava i capelli con una conchiglia, cantando a voce alta un calendario che in quella fantasia era uno spartito, rimanendo senza voce sulle note più alte delle domeniche e dei giorni segnati in rosso. *** La mattina dopo era giovedì. La Veneziana correva verso il mercato con dietro di lei la piccola Sofia che la implorava di camminare più piano. Mammell’ quella mattina era uscita di casa ancora prima delle nipoti, prendendo con sé la bicicletta – era l’unica della famiglia a saper adoperare uno di quegli attrezzi coi pedali e le ruote. Era finalmente giorno di mercato dopo aver saltato tanti, troppi giovedì a causa della pioggia forte. Era appena nuvoloso, ma il vento stava cambiando l’aria, spostando le nuvole per far passare luce nuova, incontaminata, che arrivava da lontano; Maria godeva di quell’aria estendendo in avanti il collo e stiracchiandosi le braccia. Brillavano i riflessi neri dei suoi capelli fini, e pensava a niente guardandosi intorno. Un commerciante regalò a Sofia una manciata di olive dolci; sgranocchiandone una, ne offrì alla sorella, che rifiutò per conservare ancora un poco il forte aroma della scodellona di caffè che aveva bevuto poco prima. Si accostarono a una bancarella di pezze americane, che vendeva anche tessuti e articoli di merceria; a Maria servivano un paio di ciappe e delle spingole francesi. Stava frugando fra dei campionari di stoffe a fiori, quando da dietro la montatura del baracchino comparve un giovanotto quattro dita più alto di lei, che a Maria sembrò subito bellissimo, ma al quale non ricambiò immediatamente il saluto. « Sono belle, vero?, queste vengono dal Piemonte. » Maria, col tono di chi vuole far intendere che non si lascerà impapocchiare per l’acquisto: « Che cosa fine… sì, si vede, comunque… » Il ragazzo replicò: « So che tu sei di Venezia, ma non hai l’accento veneziano… ti avevo visto qui tempo fa, stavi guardando i bottoni, ti ho detto buongiorno e sei filata via senza salutare… quello dirimpetto mi ha detto lasciala stare quella, quella è veneziana!. » Maria, occhi bassi, tono irritato… « Sono di Sarno! » Lui continuò: « Eppure sembri davvero una forestiera, sai? Ma non di Venezia, di un posto più esotico. » Maria, addolcendosi un po’: « Ah, veramente? E di dove? » « Non lo so di preciso… hai gli occhi da egiziana, la bocca francese, i capelli di una spagnola… io non l’ho mai vista una ragazza come te! » « E tu che ne sai di come sono le egiziane, le spagnole e quelle altre pure? Sei stato in giro per il mondo? » Lui sorrise all’impertinenza di Maria, poi cambiò argomento. E parlarono per un’eternità, considerando la riservatezza di Maria: due minuti. Lei, in uno slancio di inusuale concessione di familiarità, gli disse che lavorava da Di Prisco in corso Roma, e che avrebbe parlato di lui alla sua padrona, perché aveva dei prezzi buoni. Lui si chiamava Vincenzo ed era di tre anni più grande di Maria. Aveva le spalle larghe, gli occhi intensi e mielosi e una bella camicia sgargiante. Il mistero della caffeina provocò una reazione dentro il sistema nervoso di Maria, che fino alla sera prima aveva contemplato il cielo serenamente: sentì la gola che si stringeva, per via di un’elettricità del sangue che le faceva battere il cuore… all’improvviso tutto il rumore del mercato si manifestò nelle sue orecchie, favorito dal vento che le soffiava via i capelli dalle spalle. Sofia aveva ormai rosicchiato tutta la polpa dal nocciolo dell’ultima oliva, quando si aggrappò al braccio della sorella, per chiederle Che vi siete detti? « E tu che ne vuoi fare di cosa ci siamo detti? » « E perché, io le mie lettere non te le faccio leggere? » « Sì, ma perché ti piace come leggo a voce alta. » « Guarda che quello è un passaguai, io lo so chi è quello là! » «…» « Tiene una figlia… si è separato dalla moglie. » « E allora?, buon per lui, il matrimonio è una bella cosa. » « Non c’è da fidarsi, non gli dare più confidenza. » « Senti, Sofia, a chi vuoi uccidere la salute? » « A te! A te la voglio uccidere! Perché io ti conosco, a te piace spettegolare, già solo il fatto che fai la disinteressata significa che ti interessa! » Poi Maria accelerò il passo, tanto che non solo lasciò Sofia indietro di molto, ma sembrava anche che ci dovesse arrivare davvero a Venezia, prima di mezzogiorno. *** Quel pomeriggio, da Di Prisco, Maria sospirava, tormentata dall’idea di quella bocca attraente, e da quegli occhi persuasivi. Sentiva un vuoto dentro lo stomaco che una merenda di acqua e zucchero non era riuscita a colmare. In traspirazione, sentì di colpo tutta la stanchezza che aveva combattuto e tenuto a bada nelle settimane precedenti. Alle sei di sera scese in strada con una busta di plastica dentro cui c’erano dei vestiti da imbastire, che donna Carmen le aveva concesso di portare a casa per imparare a fare il girocollo con un punto diverso… Le sembrò un’allucinazione dovuta a un calo di pressione troppo forte, quando vide Vincenzo che la aspettava, dritto dritto e sorridente con i suoi pantaloni leggeri blu scuro e una camicia a fantasia con dei ghirigori viola e oro. Avrebbe voluto correre via per la vergogna, Maria. Ma rimase immobile, senza sapere come comportarsi e senza ricambiare il sorriso che stava attraversando la strada per andarle incontro. Vincenzo le porse una cartelletta di pelle nera, che conteneva un campionario di tessuti, tutti stravaganti e a fantasia, perlopiù a pois… « E così, quella è la tua? » « Sì, è l’Ape di mio papà, la usa in campagna. Io la macchina non ce l’ho ancora, ma conto di comprarmela dopo l’estate… Mio padre è di San Marzano, è un’artista dell’agricoltura… pensa che mette le guide dei pomodori talmente precise che se guardi da una certa angolazione la prima, non riesci a vedere l’ultima. » Poi imbarazzo… Maria sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa a quel ragazzo così gentile, ma era troppo tesa, concentrata su se stessa per non alzare le braccia perché si vergognava di quanto aveva sudato a lavoro quel giorno… la busta con dentro i vestiti le sembrò pesare un quintale, nel momento in cui rispose la prima cosa che le passò per la testa: « Buon per lui, la verdura è una bella cosa. » *** « Sembra piccola, ma ci stiamo in due. Ti porto a casa se vuoi. » « Sei gentile, davvero, troppo, ma a me piace farmela a piedi… no… no, lascia stare, è troppo lunga, non ti conviene, vado da sola! » « Vuole dire che se mi stanco mi prendi in braccio tu, va bene? » « D’accordo… eh, tu scherzi, ma guarda che io sono forte, cosa credi?… no, no… lascia stare, questa la porto io, sto bene così! » Maria riscoprì una cosa che aveva provato anni prima: quell’intensità del sangue di quando sei in presenza di una persona che ti piacerebbe guardare solo da lontano, senza che quella persona se ne accorga. Presa da un improvviso disagio, rimase in silenzio per molto tempo, mentre Vincenzo si raccontava con la sua parlantina travolgente… e quando guardando in alto, in un vicolo, vide delle lenzuola gonfiarsi per mezzo di uno sbuffo di vento, per un attimo le parve di stare in un posto in cui non era mai stata: su una barca. *** Donna Rita vide arrivare sua figlia Maria con quel tizio sconosciuto di cui la madre di Maria sapeva già abbastanza, per i suoi gusti. Vide la figlia tirare indietro la testa quando Vincenzo cercò di darle un bacio sulla guancia… lui scelse allora una buffa stretta di mano, che fece ridere entrambi e che suscitò in donna Rita un Che pagliaccio! La sequenza di quel contatto fra la mano di sua figlia e di quel debosciato separato riuscì a ripetersi per intero nella mente di donna Rita almeno un paio di volte, il tempo necessario a Maria di riprendere fiato, sospirando forte, in trepidazione, nell’androne delle scale, mentre scavava a forza dal fondo di se stessa il coraggio di rientrare a casa in ritardo. Ci sono due tipi di liti domestiche al sud. Ci sono quelle in cui corrono le guardie, i pompieri e l’ambulanza. E poi quelle silenziose, le guerre psichiche: per i figli, il nemico è costituito dalla mentalità doppiogiochista e ricattatoria dei genitori; per i genitori, il nemico è invece il desiderio dei figli, un desiderio che un educatore non può più contenere o placare. Quella sera donna Rita si lasciò sfuggire un paio di affermazioni sibilline, alle quali Maria rispose gettando a mo’ di sfida la busta degli abiti e il campionario di Vincenzo, sul tavolo – andando a letto senza lavorare e senza cena. Rimase da sola nella stanzina da letto, dopo che Sofia, mortificata dal senso di colpa, farfugliò la parola Scusa, masticandola insieme a un’oliva amara al punto che quella notte se ne sarebbe andata a dormire nello stanzone con donna Rita e Mammell’. Nel suo buio intimo, Maria sciolse il suo nervosismo in un pianto febbrile, fra le lenzuola, quelle lenzuola che sembravano un convoglio di serpenti della sua passione sbocciata male. Stava per urlare, avvilita da un dolore alla gola che la stava facendo morire due volte, quando la mano di Mammell’ arrivò a rinfrescarle la fronte prima di quell’urlo contro la morte: « Povera nennella » « Io non ho fatto niente, nonna. Non me ne importa nemmeno, voglio solo essere lasciata in pace da tutti! » « Lo so, povera nennella mia, non ci pensare più… tie’, queste me le hanno date al mercato… sono appena tardive perché questa primavera ha piovuto molto, ma sono buonissime… sono tutte per te… non dire a tua mamma che te le ho date se no mi fai passare un guaio. » Maria rimase di nuovo sola, tenendosi vicino alla fronte il fazzoletto dentro cui c’erano delle more di gelso. Poi si alzò la maglietta e appoggiò quel drappello di frutti di bosco sulla sua pancia nuda… ne scelse uno, quello che al tatto le sembrava il più sodo, e tenendolo fra le dita se lo strofinò dolcemente prima sulla fronte, poi sulla linea del naso, poi sul collo e sulla gola per esorcizzare l’ansia… infine sulla labbra. Le sembrò di essersi calmata, ma proprio quando accolse in un morso quella bacca acerba, le risalì fino agli occhi l’amaro del sangue, pensando a Vincenzo… e per un istante, lo odiò sinceramente, per aver osato avere una vita prima di conoscere lei… e l’amaro che ingoiava Maria sembrava non finire mai, se, con un altro sforzo di paranoica immaginazione, lo vedeva abbracciato con una moglie qualunque. Ah, disgraziato!, pensò Maria… e in un attimo raccolse le more dalla sua pancia, e portandosele alla bocca tutte in una volta strappò coi denti affilati di rabbia quella polpa acre, e poi non contenta mangiò pure i serpenti a sonagli delle lenzuola… pure le nuvole dei sogni che galleggiavano intorno al suo letto, si mangiò, quella Maria impazzita. *** Schiarito il giorno, intravide fra le lenzuola, sulle federe e sui suoi indumenti, quelle macchie di more che non conosceva, che avrebbe dovuto imparare a far sparire senza aloni. Mentre il caffè borbottava, guardò fuori dalla finestra della cucina: là, sopra le case, il cielo era pulito, l’aria nuova dell’estate che arrivava le aveva fatto piombare addosso qualcosa di non richiesto, ma che – ne era sicura! – avrebbe imparato a gestire, non l’avrebbe piegata… e dove non poteva arrivare lei, avrebbero messo le mani il Tempo e il Caso. Sta per dire qualcosa, Maria… la sento: « Gloria, Alleluia. »