Due Poeti nel travagliato 700 salentino

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Due Poeti
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L'idea di rievocare storicamente le mal note figure di due Poeti, fioriti dal patriziato leccese nel movimentalo e turbinoso Settecento — Isabella
Castriota-Skanderberg e Pietro Belli — sorse in me anni or sono, quando
una signora di nobile famiglia, che ad essi fu imparentata, mi fece vedere un piccolo vecchio libro manoscritto, trovato fra polverose carte familiari e forse destinato alle fiamme.
Ma di quel manoscritto aveva compreso il valore un dotto magistrato
e cultore di belle lettere, marito della signora, che me ne fece dono.
Scritto su fine carta bambacina filogranata, era quello il w Libro di
Ricordi di me D. Alessandro Castriota-Skandergerg in anno 1682 » cioè
del padre di Isabella ; e, tra conti familiari e consigli alla figliolanza, tra
notizie di avvenimenti pubblici e di segreti di famiglia, tra elenchi di pergamene ed estratti di albarani ed atti notarili, conteneva qua e là quasi
tutto il curriculum vitae della Poetessa in brevi note che, criticamente coordinate e valutate, permettevano di ricostruire, almeno in parte, la tragica
esistenza di colei che, buttata a sedici anni tra le braccia di un sessantenne inabile marito, dopo varie dolorose vicende unì il suo destino a quello
che fu il prescelto del suo cuore, il poeta e filosofo cui non meno avversa
fu la sorte, Pietro Belli.
Per qualche tempo l'idea ho fecondala, consultando vecchie pubblicazioni in Biblioteca ed antichi repertori notarili in Archivio; ed oggi che,
per la inazione forzata in cui il periodo bellico costringe la classe forense,
ho tempo da dedicare a lavori che dànno pane, abituato come sono a lavorare per amor del lavoro, come è tradizione nella mia famiglia, mi son
messo a scrivere della Castriota e del Belli, movimentandone le poliedriche
figure nell'ambiente storico salentino in cui vissero e soffrirono e poetarono,
nella prima metà del Settecento,
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Epoca fu quella politicamente ed economicamente assai triste pel Salento, nel trapasso dalla lunga deprimente dominazione spagnola e dalla
breve austriaca al Regno napoletano di Carlo III; ma, d'altra parte, feconda di alti valori spirituali in Arte, nella Scienza e nella Politica, perchè gli uomini veramente superiori, estraniandosi dall'ambiente che li opprimeva, cercarono negli studi un più libero ed ampio respiro.
Non ho la pretesa di dire molle cose nuove: mi propongo soltanto
di dare una visione panoramica ed armonica, direi quasi dinamica, di quella
che fu la vita leccese del Settecento, seguendo ed illustrando le traccie dei
< Ricordi » di D. Alessandro Castriota, attorno alle figure centrali dei due
Poeti, che al loro tempo ebbero rinomanza e che dai più furono ingiustamente dimenticati.
I Castriota a Lecce
Fu sullo scorcio del 1682 che don Vitantonio Castriota-Skanderberg
dei signori d'Albania e il figlio don Alessandro lasciarono la natia Copertino per venire a stabilirsi in Lecce, capoluogo di Terra d'Otranto,
che allora aveva una popolazione di 3300 fuochi, pari a circa 15000 abitanti, ed era per civiltà e nobiltà di vita la seconda città del Mezzogiorno.
Essi si trasferivano nel capoluogo obbedendo al fenomeno di urbanesimo,
che la scaltra politica del Vice-reame spagnolo incoraggiava ed imponeva
per tenere più da vicino e sorvegliati, nella Capitale e nelle Città regie,
i nobili viventi alla periferia; ma specialmente perchè don Alessandro si
era promesso sposo in Lecce ad una fanciulla del dovizioso casato dei
Giustiniani.
Poco più che ventenne, il Castriota figlio era allora uscito dalle Scuole
di Nardò, ancor fiorenti, acquistandovi una certa cultura; e con la venuta
a Lecce, iniziando vita nuova, incominciò a scrivere un libro di suoi ricordi in cui, prima con sicura e ferma mano giovanile e poi col carattere
incerto e tremante della senilità, andò brevemente annotando le principali
vicende sue, della famiglia e della città.
La prima notizia, da lui in quel libro lasciata, riguarda il suo primo
matrimonio — perchè don Alessandro in ottantaquattro anni di esistenza
ebbe tre mogli -- : K Addì 25 settembre 1682 si fecero li capitoli matrimoniali tra me D. Alessandro Castriota e la sig. Caterina Giustiniani,
fatti in Lecce da notar Staibano ».
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Discendeva egli da quel Giorgio Castriota, principe di Albania, detto
lo Skanderberg che, sbarcato in Puglia nel 1460, a premure di papa Pio . Il,
in aiuto di Federico d'Aragona contro gli Angioini, si ebbe in premio
alcuni feudi, dove, a guerra finita, lasciò suoi luogotenenti per tornare in
patria minacciata dai turchi. Invasa e soggiocata da questi l'Albania, e morto
Giorgio in Alessio, il figlio Giovanni con la madre Andronica Comneno
cercò scampo in Italia e fu ascritto al patriziato veneto; un figlio di costui,
un altro Giorgio, passò nel Napoletano, dove nel 1513 fu Tesoriere del
duca di Amalfi e dove i suoi discendenti furono conti di Copertino e di
Atripalda, duchi di Galatina e Soleto, baroni di Cagliano e signori di
molte altre terre. Dal ramo galatinese, estintosi nel 1565 con Irene, lasciando di sè triste memoria nei vassalli, germinò quello che ebbe a capostipite Pardo, nato in Galatina nel 1570, da cui venne Costantino e
da costui Alessandro, che si trasferì per matrimonio a Copertino e fu padre di Vitantonio ed avo di quell'Alessandro, che hanno dato inizio a
questa nostra narrazione.
Nulla più tratteneva il giovane gentiluomo e il padre nella terra natale : morta era la madre, morta una giovane sorella e passata a nozze
l'altra ; il magnifico castello, che fu già degli avi e che un architetto militare paesano, Evangelista Menga, aveva nel 1540 edificato, decorandolo
in sull'ingresso delle figure dei grandi condottieri del Casato, era purtroppo
passato col feudo nel dominio degli Squarciafico, mercanti genovesi di recente nobilitati.
Il desiderio di sottrarsi alla soggezione dei nuovi padroni, la speranza
di iniziare nell'ambiente cittadino una miglior vita, il miraggio del prossimo
matrimonio che li imparentava con una delle famiglie più ricche e potenti
del patriziato leccese, insieme alle ragioni politiche ed urbanistiche di cui
abbiamo fatto cenno, spinsero i due Castriota a cambiar cielo.
La famiglia della sposa, i Giustiniani, emergeva allora per ricchezza
e fasto: veniva da Genova, ove ebbe dogi e capitani di mare, magistrati e
commercianti ; e proprio nel 1682 aveva acquistato il marchesato di Caprarica, di cui Fabiano, marito di Lucrezia Tafuri, fu il primo marchese. Il suo
palazzo, tra Porta S. Biagio e la Chiesa di S. Matteo, sorgeva, come
tuttora si vede, alto nobile e massiccio, col caratteristico portone di motivo gotico, che servì poi di modello a molti altri ingressi di palazzi signorili, Il più maestoso portone del genere • lo chiama il barone Filippo
Baciie, che di storia d'arte locale se ne intendeva; e mostrava scolpita
nella cornice superiore, sullo scudo inclinato, l'Arma di famiglia, ripro-
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dotta a colori sulla volta dell'androne : di rosso alla torre d'argento ed al
capo di oro caricato di un'aquila di nero (1).
Le famiglie genovesi venute tra noi a scopo di commerci, e che poi
acquistarono feudi e titoli nobiliari, erano numerose : gli Adorni, discendenti di quell'Almirante che costruì il bello e severo palazzo Cugnato,
nella odierna via Umberto arieggiante l'architettura fiorentina di Palazzo
Strozzi, i baroni Cicala grandi guerrieri e letterati, i Vernazza duchi di
Castrì, i Graffoglietti, i Levanto, gli Squarciafico, gli Imperiali principi di
Francavilla, i D'Ospina, i Venneri e i Pieve-Sauli ricchissimi commercianti di olio in Gallipoli, i Saluzzo duchi di Corigliano e i Castelli marchesi di Grottaglie, i Centurione feudatari di Torre Pinta, i Castagneto
baroni di Carovigno, i De Leone di Vanze, i D'Oria di Ginosa e Lequile, i Gentile di Castellaneta, gli Spinola di Galatina e di Soleto, per
nominarne soltanto qualcuna, formavano una colonia genovese così fiorente
che ottenne un Tribunale speciale per la trattazione dei suoi piati giudiziari ( 2 ), ed ebbe nella chiesa del Carmine, sin dal 500, propria sepoltura (3).
Furono a palazzo Giustiniani, il 25 settembre 1682, celebrate le nozze
tra Caterina e don Alessandro, dopo che notar Staibano ebbe redatto i
capitoli matrimoniali, in cui Fabiano Giustiniani, marchese di Caprarica,
dava alla figlia vergine in capillis mille ducati in pecunia, 300 in ori e
gioie, 700 in rami vesti e biancheria, più un fondo detto il Pugliese di
orte nove con casa e palmento e pilacci in feudo di Lequile, ed un credito di ducati mille verso il barone di Galugnano.
Ma la vita in Lecce, per chi volesse nobilmente viverla, era a quel
tempo assai costosa; e perciò i Castriota vendettero alcune proprietà lontane, e si equipaggiarono in modo da mettersi alla pari con i migliori gentiluomini della città, che facevano sfoggio di spagnolesche vesti, di bei
cavalli da sella e da tiro, e di tutto un treno di lusso così poco confacente allo stato generale di miseria in cui languiva la popolazione ed a
quello di quasi tutti gli stessi nobili, che erano indebitati fino ai capelli
con mercanti usurai ebrei e cristiani, i quali sulla rovina degli aristocratici del sangue andavano costruendo una nuova nobiltà del danaro.
Il bel nome che portava e il recente matrimonio aprirono, nel 1685,
al Castriota le porte del Seggio di Città, ed il 3 giugno di quell'anno,
(1) B a c il e, Scritti vari di arte e storia, p. 55.
(2) De Simone, Lecce e t suoi monumenti, vol. 1, p. 36.
(3) In fantino, Lecce sacra, in Lecce presso Micheli 1634, p. 46.
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come egli stesso annota, « fu accettato nella nobiltà leccese e nominato
capitano della paranza del Portaggio di S. `Masi, insieme ad Oronzo dell'Jlntoglietta, Diego Maremonti e lato quarino ».
« La città tutta -- scrive l'abate Infantino — era divisa in quattro compagnie, sotto quattro capitani gentiluomini leccesi. I quattro capitani con
lor compagnie, avevano poi obbligo di star pronti ad ogni occasione d'armata nemica lutto l'anno » (1).
Per mettersi, però, stabilmente a posto capitan Castriota sentiva bisogno di avere una casa propria, ed anche in questo la fortuna gli andò
propizia, perchè i Padri domenicani, avendo necessità di far danaro per
menare a termine la loro nuova chiesa — l'odierno Rosario — che era stata
iniziata nel 1691, gli vendettero un'abitazione, attaccata a palazzo Giustiniani « per ducati 513, così apprezzata da mastro Leonardo Protopapa », abitazione in cui nel 1695 egli andò con donna Caterina ad abitare, dopo di « averci speso altri ducati 165 per mastri d'ascia e fabbricatori, per porte nuove, scale per salire da dentro e chiancate alle camere ».
Questo palazzetto esisteva fino a quasi cinquanta anni a dietro, ed
il Palumbo, che lo vide, così nella sua Storia di Lecce ne scrive : « Meno
esteso del palazzo dei Giustiniani, sorgeva accanto quello dei Castriota
loro parenti, di data alquanto posteriore. Sembra una costruzione veneziana, guardando il mignano non sporgente incoronato da tre archi sostenuti da svelte colonnine e con modiglioni eleganti. Sull'arco dell'alcova,
nella camera nuziale, spiccava su sfondo d'oro l'aquila bicipide con la
stella splendente nello scudo triangolare, emblema dei Castriota ».
Ma donna Caterina non potè godere a lungo della nuova casa, e sotto
la data del 20 novembre 1702 il non inconsolabile marito nel libro di
suoi ricordi annotava : « passò da questa a miglior vita la Beata Memoria di mia moglie Caterina Qiustiniani, havendola havuta in moglie anni
venti e mesi sette meno sei giorni, ed è sepelita nel Convento degli Antoniani. »
Per i funerali della moglie Don Alessandro, che per gran parte della
vita si dibattè tra i debiti, pur ogni tanto rimpinguando il patrimonio con
eredità donazioni e benefici che gli venivano dal largo e facoltoso parentado, dovette « pigliare a censo ducati 200 dalle donne Monache delli
Cheta, alla ragione del sette e mezzo per cento, come appare dall'atto
di notar Leonardo Pizziniaco di Lecce, e detto danaro ha servito per li
(1) Infantino, o. c., p. 215.
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funerali di detta signora mia Moglie, che sono stati ducati 115, ed il resto per le mille messe lasciate in contemplazione della donazione fattami ».
Così si chiude il primo ventennale periodo della vita leccese del
gentiluomo, che doveva essere padre della Poetessa di cui ricostruiremo
la tragica vicenda; periodo incolore di decaduto signore di campagna non
ancora completamente inurbato e riarricchito : periodo tutto occupato dal
matrimonio con la Giustiniani; matrimonio d'interesse, come quelli contratti in seguito, che fu come la catapulta da cui il casato dei CastriotaSkanderberg di Lecce prese nuovo impulso per ritornare in primo piano
sulla scena della vita leccese del tempo.
Un « Portaggio » di Lecce del 700
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Guardiamo un po' i luoghi in cui le persone di questa narrazione
vissero ed operarono; facciamoci un'idea del < Portaggio di S. Biagio >
dove sorgevano i loro palazzi e dove in gran parte le vicende della loro
vita si svolsero.
Era questo uno dei quattro Portaggi o quartieri della città di Lecce,
che pigliavano nome dalle quattro porte che vi davano accesso e che si
aprivano nella muraglia di cinta, edificata dal barone Giangiacomo dell'Acaia, celebre architetto militare leccese, per ordine di Carlo V imperatore: Rugge, S. Biagio, S. Martino e S. Giusto, che prese poi nome
di Porta Napoli o Arco di Trionfo o anche Porta Reale. .
I portaggi si dividevano in isole, denominate per lo più da chiese o
cappelle che ne facevano parte; e le vie ancora non avevano nome nè
numerazione le case.
A guardia dei Portaggi vigilavano le quattro Paranze di milizia cittadina, comandate, come abbiamo visto, da quattro capitani scelti tra giovani nobili.
La via che Porta S. Biagio univa a quello che è tuttora il centro
di Lecce, tra la piazza detta allora « dei Mercanti » e il quadrivio delle
< Quattro spezierie > e le strade 4, dei Librai » dei « Notai > degli « Scarpari » era una delle vie principali e più frequentate, perchè menava alla
pubblica passeggiata sul < Viale del Parco » e nei giardini che cingevano la torre di Giovanni Antonio del Balzo-Orsini. Inoltre da S. Biagio
irraggiavano verso il Capo di Leuca le vecchie vie, risalenti all'epoca preromana, maltenute, incavate nel masso, consunte dal transito secolare e
solo praticabili alle cavalcature e a cani pesanti trainati da muli o da bovi;
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come da Rugge s'iniziava la via che per Arnesano Novoli e Campi portava a Napoli, e quella verso Nardò e Gallipoli; come da S. Giusto si
svolgeva la via per Brindisi e come fuori porta S. Martino s'incontrava
tutta una rete viaria, tracciata dal transito millenario, che andava al vecchio porto di S. Cataldo ed a tutta quella distesa di oliveti di terreni
sativi di boschi di paludi, che formava la
Grande foresta di Lecce »
Entrando a Lecce da Porta S. Biagio, si trovava a sinistra il palazzo dei mercanti bitontini Altilia, che dava il nome alla via, e che nel
1747 per matrimonio passò ai Foscarini, che ancor lo possiedono; a destra il palazzo dei Castriota ed, attaccato ad esso, quello dei Giustiniani;
di rimpetto avevano loro case i Cattani, altri ricchissimi mercanti e, poi
i Perrone giuristi e filosofi, nel palazzo detto del « Pollicastro » da cui
l'intera isola prendeva nome. Era così chiamato, perchè nell'alto del portone mostrava scolpito — come pur oggi si vede — un Angelo discendente
dal Cielo, recante tra mani un pezzo di pane (vulgo « pollicastro »), scultura
su cui i secoli hanno intessuto una leggenda, che ancora a Lecce si ripete, e che il cronista Piccinni ci ha tramandata:
Dimorando a Lecce (1219) S. Francesco di Assisi, girava secondo
il solito dei mendicanti religiosi, limosinando per la città; giunse davanti
il palazzo di un patrizio (oggi si possiede dai Perrone ed è immemorabile tradizione tra i leccesi che questo fosse stato anticamente il palazzo
del nostro primo Vescovo S. Oronzo), vi picchiò la porta, e chiese per
l'amor di `Dio la limosina; in un subito vaghissimo un paggio dietegli un
bianco e grande pane, e disparve. Al picchiarsi della porta, era accorso
un familiare di casa, a cui Francesco renda le grazie in nome di Dio per
il pane ricevuto e che fino a quel punto teneva in mano. Disse colui non
esser pane di loro casa; onde, conosciutosi da S. Francesco il tratto della
Divina Provvidenza, e da quelli della casa il miracolo, ne dia l'uno i
ringraziamenti all'Altissimo, e gli altri conservar ne vollero perpetue le memorie mentre fecero nell'arco della porta scolpire un Angelo in atteggiamento di scendere dal Cielo ed ogrire un pane ».
Di lato al palazzo dei Perrone era quello grandioso dei fratelli dottor fisico Giuseppe e dottore di leggi Bernardino Grassi di Ruffano, che
poi venne in potere dei baroni Rossi, e nei pressi altri palazzi di gran
signori sorgevano : quelli dei Castromediano, dei Vernazza, dei Personè,
degli Stomeo, dei De Marco, degli Antoglietta, dei Prato e dei Lubelli.
Nella piazzetta, su cui palazzo Grassi faceva angolo, al principio del
700 era stata innalzata la chiesa di S. Matteo col Monastero delle Pao-
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lotte; e rimpetto alla chiesa si vedeva — e vi rimase sin circa il 1832 ( I ) —
la « Colonna infame » che dicevano messa a memoria di un tradimento
consumato ai danni della città da un suo governante. Ecco come il barone Antonello Coniger, sotto la data del 1157, ne scrive nelle sue Cronache, tanto aspramente criticate nel 700 dal neritino Bernardino Tafuri
e strenuamente difese dal leccese dottor Pasquale Ampolo:
« Rpgieri 'Duca di Calabria, primogenito di ne Guglielmo il Malo,
per non li aver voluto dare obbedienza la Citò de Lecce e tutte le altre
del 'Duca di Jlthena et conte de Lecce, per retrovarse in Francia detto
Duca d',/lthena, venne in campo ad Lecce cum molto esercito, dove la
tenne assediata anni tre. Infine la pillao per tradimento che fè lo Camberlingo, entran dentro dillo`Rogieri, iettao le mura et tutte le case a terra,
reservato quelle l'addimandao de grazia, et a lui li fè talliare la testa » (2).
Porta S. Biagio, ai primi del 700 quasi cadente per vetustà, nel 1774
fu riedificata, come oggi appare, essendo sindaco il marchese Nicola Prato.
Alla porta s'addossava una cappellina che le dava il nome, « devotissima
per rispetto del mal di gola, particolarmente dacchè è arrivato a queste
nostre parti questo pestifero morbo; che perciò nel giorno di S. Biagio vi
concorre divotamente il popolo, raccomandandosi con ogni affetto alla intercessione del Santo Vescovo » (Infantino).
Attorno alle mura la campagna era triste e spianata, perché, quando
Carlo V volle edificare la nuova cinta e il castello, espropriò ai privati
le terre vicine e, sino ad un tiro di spingarda e più oltre, abbattè i vecchissimi opimi oliveti, che da ogni parte lambivano col loro verde perenne l'abitato, impedendo la visuale ai difensori e il tiro alle bocche da
fuoco dei baluardi e delle cortine.
Nella spianata erbosa, fuori porta, nel 1679 fu messa la fontana che
era già nella piazza dei mercanti, e — nota il Cino, altro autorevole cronista « buttò acqua per due giorni continui » !
Un lungo viale menava alla Torre, cinta di fossato, tra giardini ombrosi e artificiosi zampilli d'acqua; e nella Torre e nei contigui edifizi,
oggi scomparsi, risiedè per molto tempo con la sua Corte il Preside della
Provincia.
La passione dei pubblici passeggi alberati e infiorati è, come si vede,
tradizionale nel popolo leccese, che ha sempre avuto il gusto del verde
e del fiore; passione che è poi prettamente italiana. Sui primi anni del(1) De Simone, o. c., pag. 300 vol. I.
(2) Conige r, Cronache della Città di Lecce, ediz. Brindisi, 1700 p. 3.
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1'800 Gaetano Stella, medico ed agronomo, diede sviluppo a questa tendenza, alberando riccamente i viali estramurali e dotando Lecce di un
Pubblico giardino e di un Orto Botanico, prima tra tutte le città del Mezzogiorno. Sicchè non diceva cosa rispondente al vero lo Stendhal quando
nelle sue « Passeggiate romane » proprio ai giorni dello Stella, affermava
che « gli italiani del tempo abborrivano gli alberi, e dove in Italia si vede
un passeggio alberato, si può essere sicuri che è opera di un governante
francese ».
Che cosa era il Parco, quando fu centro della suburbana vita leccese? Pel viale, fiancheggiato da alberi d'ombra e da piramidi sorreggenti
vasi di fiori — così ornato nel 1632 dal preside Ferrante Caracciolo duca
di Airola — s'accedeva al Parco, che nell'atrio d'ingresso, dopo l'arcata con
le insegne del Re e del Duca, accoglieva un'altra più antica fontana « fatta
dai leccesi per soddisfazione di donna Caterina Acquaviva duchessa di
Nardò e moglie di Giulio Acquaviva
Entrando « dentro al dilettevole Parco » come ci fa sapere l'Infantino, attorno alla torre edificata nel 400 dal figlio della Regina Maria,
« per propria sua delizia » erano giardini sempre in fiore ed orti di varie
frutta e un bosco profumato di aranci con artificiose fontane e fresche e
segrete grotte. Con la dominazione spagnola il Parco divenne luogo di
pubblico diporto; e nei tiepidi pomeriggi invernali e nelle calde serate
estive richiamava la migliore nobiltà del sangue e del censo, che vi andava a passeggio con berline e cavalli e portantine.
Qui nel giorno di S. Giacomo, durante la caldura estiva, s'adunavano la nobiltà e le milizie, scortando il labaro della città portato da un
barone, ed issandolo sulla torre a sicurtà del mercato, che attorno al Parco
per otto giorni si svolgeva col concorso di numerosi produttori e mercanti,
convenuti da ogni parte di Puglia e dalle opposte sponde adriatiche e sin
da Venezia e dalle Isole Ioniche. « Tale mercato o fiera — aggiunge l'Infantino — prima che il Turco occupasse la Grecia, era il maggiore d'Italia » I).
La sgargiante cavalcata della nobiltà e delle milizie, dopo le evoluzioni di parata e lo sfilamento sotto la loggia del Preside, era accolta in
grandi mense all'aperto, dove il fortunato barone vessillifero per otto giorni
teneva a sue spese tavola imbandita. In compenso, però, egli aveva dritto
di liberare un condannato a morte.
(1) Infantino, o. c., pag. 214.
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Fu nei viali del Parco che, agli ultimi di Carnevale del 1698, quando
don Alessandro Castriota era giovane sposo, sfilò la cavalcata e la mascherata dei nobili in onore del nuovo Preside marchese di Santa Fiora — Tra le
altre cose — narra il Cino — « ci fu un carro trionfale fatto in modo di
galera, che aveva a poppa il Governatore della città ed altri signori mascherati lussuosamente da marinai, e un'altra mascherata di nobili a cavallo che buttava confetture a guisa di grandinata ».
Fu in una domenica del maggio 1716 che passò pel Parco, tra due
ali di popolo plaudente « la ricchissima quadriglia di Signore nobili con
un carro trionfale sontuosissimo, tutto fregiato di trofei imperiali con musica, su cui sedevano quattro nobili, rappresentanti le quattro parti del
mondo, con cavalli scapoli e sfrenati, coverei di ricche qualdrappe, guidati
da staffieri e montati da gentiluomini vestiti da antichi imperatori ». Arrivata in piazza la cavalcata, furono dai gentiluomini che la formavano « buttate al popolo molte monete di argento, mentre il sindaco faceva lo stesso
da sopra il Sedile ».
Oggi di tutto ciò non restano, pallido ricordo, che il viale e la Torre,
priva di ponte levatoio e di merli e di difese, già fatta prigione di monaci e poi modesta abitazione borghese. Guarda attorno, incalzata dalle
modernissime costruzioni stile Novecento, che dalla città dilagano verso
quelli che furono i giardini orsiniani, sentendosi estranea in un mondo così
lontano e diverso da quello in cui il magnifico figliuolo della Regina Maria
e di Raimondello la eresse a sua villeggiatura principesca e diletto.
In fondo al Parco erano gli orti, dove si coltivava la verdura per
pubblica alimentazione, così come tuttora si pratica; e quegli orti, verso
la metà del 700, erano tenuti in fitto da tal Lorenzo De Paulis « alias
Scozzese » che, non contento dei guadagni dell'industria ortalizia, si dilettava anche di strozzinaggio, facendo prestiti a signori della nobiltà sopra pegni di ori e di gemme.
Nasce donna Isabella
La vedovanza di don Alessandro non durò a lungo. Uomo freddo
e calcolatore, quale egli si dimostrerà per tutta la vita, e non essendo più
a quarant'anni un giovane di primo pelo, pensò con un nuovo matrimonio
di migliorare la sua posizione economica e di impedire che il ramo del
casato in lui si spegnesse, giacchè donna Caterina non era riuscita in vent'anni di matrimonio a dargli un erede.
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La sua scelta cadde su di una donzella gallipolina, Irene Pieve-Sauli,
appartenente a ricca famiglia di mercanti di olio, anche essi, come i Giustiniani, di illustre origine genovese.
Menando la vita degli oziosi signori del tempo, tra giuoco cavalli cicisbeismo e cerimonie religiose, poco curanti d'amministrare le loro proprietà lontane e spesso in luoghi di malaria ed esposti alle incursioni dei
pirati, il vedovo consolato si trovava però, come al solito, in ristrettezze
finanziarie; e, per affrontare le spese matrimoniali e fare buona figura verso
i doviziosi nuovi parenti, fu costretto a € pigliare a censo dal Seminario
di Lecce ducati 270 alla ragione del sette e mezzo per cento, con istrumento per not. Pizziniaco »: alcuni giorni dopo le nozze, il 30 gennaio 1704,
a stipulare altro censo per ducati 150 con l'abate Bacco canonico della
Cattedrale; e poco appresso fin anche a vendere lo schiavo di casa, Giovanni, a don Franco Capece per ducati 80.
Le nozze furono celebrate a Gallipoli con quella magnificenza che
era abituale nelle grandi famiglie gallipolitane, il 17 decembre 1703, vale
a dire un anno dopo la morte della Giustiniani; e furono a differenza delle
prime assai brevi e fecondissime, perchè, quando i nove mesi non erano
del tutto trascorsi, donna Irene mise al mondo non una ma due bambine,
assistita dalla « ostetrica approbata Caterina Mucciato ». Così annota il
marito: « II 1. settembre 1704, giorno di lunedì, ad bore venti in circa
partorì D. Irene Sauli e fece due figliole, una delle quali nacque e le fu
data l'acqua benedetta e se ne andò ín Paradiso. L'ultima nata fu battezzata dal padre don Gaetano Zunica, cherico regolare teatino, il laico
il sig. D. Cesare Belli, la commare la signora Ippolita Guarini, e le fu
imposto il nome dí Isabella Giuseppa eXCaria Petronilla ».
Ma la duplice maternità costò cara alla Pieve-Sauli, che, ammalatasi di febbre puerpuerale, otto giorni dopo era in fin di vita e dettava il
suo testamento in cui costituiva erede universale la neonata Isabella.
Nota don Alessandro con la sua solita insensibile laconicità « Addì
9 settembre 1704 se ne andò in Paradiso la Beata 7Z'emoria di mia moglie
donna Irene, ad hore 24, e fu sepolta nella chiesa dei Padri Domenicani
in San Giovanni » Quasi con le stesse parole con cui, due anni
innanzi, aveva annotato la scomparsa della prima moglie !
In queste tragiche circostanze venne al mondo Colei che sarà la protagonista centrale di questo studio sul Settecento salentino ; nacque dando
la morte alla giovanissima madre e alla sorella e — ironia della sorte presaga l — fu tenuta al fonte battesimale da un Belli e da una Guarini, cioè
da due di quelle famiglie in cui ella doveva nella sua vita dolorosa en-
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`rinascenza Salentina
trare per vivere e soffrire, sposando prima, a soli sedici anni, il vecchio
barone don Filippo Guar ini, e, vent'anni dopo, quello che fu l'eletto del
suo cuore di Poetessa, ma che le diede altri dieci anni di vita travagliata,
Pietro Belli, il poeta e filosofo caro a Giambattista Vico.
Venne al mondo per portare coi primi suoi vagiti una contrarietà al
padre, sempre avido di danaro, che nell'atto della moglie morente, che
lo diseredava a favore della figlia, vide un'offesa alla patria potestà ed una
menomazione al suo smodato desiderio di ricchezza. E tale suo stato d'animo verso la figliuola doveva certamente acuirsi ed invelenirsi al pensiero
che due giovani spose, e .specie la madre di lei, che tanto si era manifestata feconda, non gli avevano dato un figlio maschio.
Forse sin d'allora nell'animo del Castriota sorse l'idea di seppelire
in un convento la sua creatura, seguendo l'uso del tempo che ai figli
primogeniti delle nobili famiglie dava ricchezze ed onori, ed i cadetti, e
specie le donne, destinava alla vita claustrale.
Ancora la piccola non aveva l'uso della ragione, e il padre si rivolse ad un chiromante perchè ne avesse predetto la sorte; e dal docile
divinatore del futuro, conforme al suo divisamento gli venne il responso,
che ci tramandò nel libro dei ricordi : « sarà Monaca. Sui quattro anni
entrerà in Monastero e sarà aConaca sui diciotto. Negli anni 42 sarà abbadessa, ed altri honori minori riceverà successivamente. Sarà inferma, patirà di dolori alla matrice e flussioni al collo e dolori di testa acuti con
riscaldamento anche di testa. Avrà amicizie con persone grandi. Avrà ingegno assai, spiritosa e pronta. »
Come vedremo, fu profetico il chiromante quando la disse di alto ingegno e di spirito e circondata di grandi amicizie, ma errò nel profetizzarla monaca a diciotto anni, chè Isabella Castriota entrò in Convento,
ma a soli sedici anni ne uscì per andare sposa ad un uomo che poteva
esserle più che padre, e che non seppe sfogliare i suoi immacolati fiori
d'arancio.
Nel vero fu la profezia che la disse di alto ingegno, spiritosa e pronta
ed onorata dell'amicizia dei grandi, perchè ella fu una delle poche donne —
tre o quattro — che nella vita intellettuale del Settecento salentino emersero per altezza d'ingegno e di cultura, il cui nome è giunto fino a noi,
quantunque ancora avvolto in un alone incerto ed evanescente, che ci
siamo proposti di chiarire.
Vedovo di due mogli, solo nella casa piena di ricordi e di rimpianti,
col vecchio padre e con la piccola figlia affidata alle cure della nutrice
Saveria Buttazzo di S. Pietro in Lama, don Alessandro volle correre l'alea
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N. De Simone-Paladini - Due Poeti nel travagliato 700 salentino 77
di un terzo matrimonio, ed andò a scovare sino a Trani un'altra moglie
nobile e ricca, donna Giuseppa De Torres, di famiglia romana, che a
Trani si era trasferita seguendo uno zio, l'Arcivescovo Pietro De Torres.
Ancora due anni non erano passati dalla morte di Irene Pieve-Sauli,
e don Alessandro annotava il terzo matrimonio, come scrivendo di altri:
« A 13 giugno 1706 affidò con procura don Alessandro Castriota la signora D. Giuseppa De Vorres della Città di Trane. 11 procuratore don
Domenico de Nicastro di Lucera, cognato di detta signora. Li capitoli matrimoniali per mano di noi. Francesco dell'Aquila di 'nane ».
Come sempre, le spese di quest'altro matrimonio furono dal Castriota
sostenute contraendo debiti con don Angelo Panico, con la signora Anna
Maria Galassi, con mastro Gioacchino Panareo e col reverendo don Bartolo Libetta, pagando l'interesse allora strozzatorio del nove per cento.
Donna Peppa » come egli chiama sempre la terza moglie nei « Ricordi gli diede finalmente, tra gli altri, due figli maschi, Francesco Paolo
e Vitantonio; e naturalmente, come tutte le matrigne, non ebbe che un
desiderio condiviso dal marito: disfarsi della piccola figliastra, che ormai
era un'intrusa nella casa paterna, e solo affetto trovava nella fedele nutrice; disfarsi della disgraziata creatura, chiudendola in convento e godendone le rendite.
Dopo di essere stata cresimata nel Vescovado di Lecce, avendo a
madrina donn'Anna Giustiniani, Isabella dunque, seguendo il suo destino,
si preparava ad entrare educanda in un monastero, come il chiromante
alla sua nascita aveva predetto.
Miseria e nobiltà del 700
Mentre Isabella passa la prima adolescenza nella casa che le diventa
sempre più estranea, diamo uno sguardo alla vita leccese del tempo con
tutte le sue miserie e i suoi splendori : vita turbinosa quanto in altra epoca
fu mai, nel succedersi e nell'accavallarsi di tre regimi politici che imperversarono in pochi anni nel Napoletano, sovrapponendo miserie politiche
ed economiche su miserie, pronunciamenti di nobili e di ecclesiastici, generose insurrezioni e dure repressioni, lotte di fazioni cruente e vuote accademie di arcadi, in un ambiente di usurai e di nobili dilapidatori, di
guerrieri e di cicisbei, di prelati onnipotenti e di civici amministratori gelosi di lor prerogative, di monaci e monache salmodianti in quaranta con-
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venti, di soldati mercenari, di negromanti, di schiavi, di popolino abbrutito nelle città dall'ignoranza e di contadini vassalli, legati alla gleba da
ingordi feudatari.
Solo raggio di sole tra tanta tenebra, addensata da secoli di malgoverno, veniva da un piccolo gruppo di intellettuali, economisti e filosofi,
poeti e teologi, cronisti e traduttori, pittori, scultori, architetti, sopra tutto
architetti, che tra la fine del 600 e i primi del 700 innalzarono in Lecce
le più fastose chiese barocche e i più bei palazzi.
Nati per lo più dal patriziato erano gli uomini d'arme e di pensiero
e gli alti prelati; venivano dal ceto dei civili e arricchivano e insignorivano col lavoro medici e legali; le classi più modeste davano il basso
clero; e dal popolo sorgevano quegli artigiani-artisti che senza laure e diplomi diventavano spesso, per la innata genialità di nostra gente, grandi
architetti civili e militari, pittori, scultori, argentieri, incisori. Nella indigenza più nera, nella ignoranza e nella superstizione cresceva e prolifica va
nei quartieri eccentrici della « Misciagna » e del < Pittacio » la plebe.
E non mancavano neppure gli schiavi, di cui in casa Castriota-Skanderberg troviamo, oltre a quel Giovanni venduto al Capece, « il schiavo
Becchi da Coron fatto cristiano e postoli nome Domenico »; una fedele
schia vetta di quindici anni a nome Zaira, « comprata per ducati cinquanta
e dopo due mesi fatta cristiana e chiamata 2`'eresa » che visse e morì
ottantenne nella casa dei padroni; un altro schiavo di tre anni « comprato
dal Governatore di Brindisi don Luis Francisco De Leon, con istrumento
per notar laco di quella città ». Altro schiavo a nome Amet era in casa
Tafuri, parenti dei Castriota, e fu fatto libero per testamento di D. Orazio, a patto che per altri dieci anni avesse servito la famiglia; ed una
« piccola schiava bianca » serviva i Pieve-Sauli di Gallipoli, che coi Castriota s'erano recentemente imparentati.
Era nei porti di mare, e specialmente a Taranto e a Brindisi, che
si esercitava il mercato degli schiavi. « Non solo i cristianissimi capitani
delle galere dell'Ordine di Malta vendevano schiavi, ma l'Arcivescovo di
Taranto era giudice chiamato a dirimere le vertenze. E non si trattava
soltanto di nemici presi in combattimento, o di ciurme di galere avversarie, ma molto spesso di fanciulli e di donne » (1).
Su questi ceti sorgeva e si imponeva una novella aristocrazia, formata da mercanti genovesi veneziani lombardi napoletani fiorentini e ra-
(I) Spezial e, Storia militare di Taranto, Bari, ed. Laterza, 1930, pag. 103, nota 1.
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N. De Simone-Paladini - Due Poeti nel travagliato 700 salentino 79
gusci, che nei fondachi sotto le .< Capanne » vendevano telerie e seterie,
generi coloniali, legnami e ferramenti, mentre dal porto di S. Cataldo
esportavano lino, cotone, olio e vino, e nei retrobottega esercitavano l'usura per lettere di cambio e sopra pegni.
Di queste ultime operazioni si occupavano anche i conventi, che ogni
giorno più arricchivano per lasciti, donazioni, cappellanie, ,benefizi, tanto
da essere padroni di oltre una metà del territorio.
Usufruendo di rendite superiori ai loro bisogni, gli enti ecclesiastici,
dopo di aver edificato chiese grandiose e comodi e sfarzosi conventi, impiegavano il danaro superfluo in prestiti redditizi.
Le memorie del nostro D. Alessandro sono piene di note riguardanti
debiti da lui contratti con le monache delle Chetrì della Nova e delle
Angiolille, col convento di Santa Croce, col priore di S. Francesco, col
Seminario di Lecce, coi domenicani di Galatina, con l'abate Bruno, col
canonico Bacco, nonchè coi più noti negozianti di piazza come l'Arigliani,
il Farraroli, il Libetta, il Veneziani, il Buia, il Casotti. E come lui, con
i conventi e con i mercanti erano indebitati tutti o quasi tutti i patrizi,
come appare dal Catasto onciario della città, compilato per ordine di
Carlo III nel 1755.
Oltre ai censi ed ai debiti contratti su cambiali, troviamo nei « Ricordi » del Castriota annotati molti prestiti ottenuti sopra pegni. « A 5
gennaio 1709 da don Domenico Arcudi di Galatina per mano di Domenico mio Schiavo ricevuto ducati 30 di argento per li quali tiene in
pegno una crocetta d'oro con smeraldi, due para di orecchini con perle
e una tazza d'argento -- Fatto biglietto a don Cola Filippi di ducati 68
e questi per il pegno di una cortina ricamata in oro d'armisino turchino,
nella fine del mese di luglio 1716, quale dice tenerla in pegno Agostino
Albanese di S. Cesario fattore di Torrepinta — addì 6 gennaio 1725 dato
in pegno da me, nella chiesa di S. Antonio di Lecce, al signor Giuseppe
Ampolo un anello di smeraldi ed una catenina d'oro per ducati 10 —
Don Domenico della Ratta tiene pegno per ducati 76 in circa una catena a maglie d'oro di oncie cinque con cinquantasette rubini ».
Lo strozzinaggio era esercitato anche da gente di cattiva fama e da
pubbliche meretrici, ed il Piccinni, altro cronista, ci narra che nel maggio
del 1729 fu nella sua casa « uccisa con ventidue ferite, e cinque particolari nella parte putenda, una donna di malaffare detta Caterinella dal
signor Pasquale Cerasino nobile, a causa che tenendo essa alcuni pegni
di lui e chiestogli più volte il suo danaro, alfine l'uccise, levandole da
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casa non solo i pegni ma quanto teneva. d non ebbe pena, chè prima si
rifugiò in una chiesa e poi ebbe l'indulto ».
Incosciente e noncurante, come tutte le clasi in decadenza, la nobiltà s'adagiava in un apparente lusso esteriore; ed ogni giorno più s'indebitava ed andava in prigione per debiti, ma non rinunziava al gioco di
azzardo, ai bei cavalli da sella, alle dispendiose lotte di fazione, alle sfarzose parate e mascherate, cui si aggiunsero gli spettacoli teatrali.
Questo nuovo genere di pubblico divertimento ebbe inzio nel 1637,
quando venne a Lecce il conte di Conversano, che fu ospitato dal Preside Boccapianola « nella cui casa si fecero balli e commedie »; e nel
Carnevale del 1709 un altro Preside, il conte di Montuoro « fece le commedie a musica e recitative, e fece venire da Napoli diverse canterine ed
eunuchi, tassando ogni ceto di persone, ed in Lecce concorsero molti filolati e forestieri »
L'invadenza del Clero
Dietro una lustra di manierata allegria, su tutta la vita leccese del
Settecento incombeva una grigia cappa di piombo: la gente viveva come
entro una campana pneumatica, da cui monaci e preti e mercanti e percettori d'imposte toglievano continuamente l'aria. E furono preti e percettori che diedero causa a due degli avvenimenti più gravi che turbarono
il paese nei primi decenni del 700.
L'onnipotenza sacerdotale, sino all'avvento al governo di Bernardo
Tanucci, ministro di Carlo III, ingombrò ed oppresse ogni altra attività ed
iniziativa. Monaci, abati, preti e monsignori facevano a lor libito il sereno e la tempesta.
Ogni sera, verso due ore di notte, due padri di S. Giovanni di Dio
si ferma vano ad ogni capo di strada della città e davano segno col campanello e poi con voce alta e sonora ricordavano a tutti « che lasciassero
il peccato, ricordassero di essere mortali e di fare qualche bene per le
anime del Purgatorio » ( 2 ) .
I frati cappuccini si occuparono sin anche del modo di vestire delle
donne, imponendo il velo alle vergini. Gli stessi Vescovi promulgarono
(I) De Simone, o. c. p. 79 - Piccinni, Priorlsla 1709.
(2) Infantino, o. c., p. 28.
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scomuniche contro gli osti che annacquavano e sofisticavano il vino. I confessori, assistendo in estremis i moribondi, consigliavano donazioni e lasciti di migliaia di messe al clero ed ai monasteri.
E ce ne erano tanti di monaci e di preti! . Dal Catasto onciario risulta che, verso la metà del 700, oltre ai canonici ed alle altre dignità
del Duomo, Lecce aveva un clero regolare di 132 sacerdoti e 369 chierici; che i monaci e le monache affollavano circa 40 conventi: benedettine, clarisse, francescane, angiolille, domenicane, teresiane scalze, cappuccinelle, pentite, paolotte, oltre a un gran numero di bizzoche, centinaia di
donne sottratte alla famiglia ed alla santa maternità; teatini, celestini, carmelitani, alcantarini, agostiniani, gesuiti, francescani, domenicani, gente che
viveva quasi fuori della legge comune, solo dipendente dai suoi superiori
spirituali, e che si credeva privilegiata e non soggetta al braccio civile.
Certo fra di essi non mancavano elementi di alta levatura mentale
e morale; e sulla schiera incolore si ergevano personalità come l'abate Infantino, l'Arcidiacono Domenico De Angelis e il canonico Palma, che
illustrarono le antiche memorie civiche; il beato Bernardino Realino e il
padre Onofrio Paradiso, due gesuiti di gran cuore e di santa vita, che
profusero tesori di bontà, che soccorsero i poveri i malati i sofferenti, che
precorsero i tempi e, dicendo una parola di pace tra le fazioni in lotta,
fondarono ospedali, asili per le donne traviate, monti di pietà e scuole di
economia domestica e di buon governo della casa; il teologo e parroco
di S. Maria della Porta don Saverio De Blasi, accademico degli Spioni,
che, in tempo di carestia fece a pezzi minuti le statue d'argento della
sua chiesa per distribuirli ai poveri, dicendo che « la Madonna non amava
di essere adorata in vesti di argento ( i ) * E dai conventi e dai seminari
del Salento uscì quella schiera di colti sacerdoti e frati che, tra i carbonari e i giacobini dal 1792 al 1799 congiurarono per la libertà e finirono nelle galere borboniche e sulle forche, come il brindisino abate
Monticelli ed il leccese Ignazio Falconieri.
Tutto questo clero officiava in 109 chiese e cappelle ed ogni giorno
ne sorgevano di nuove, mentre altre 20 cappelle erano state demolite in
seguito a breve pontificio dell'8 maggio 1596, ad istanza dell'Università,
che voleva destinarne il suolo a case di abitazione.
La ricchezza del clero, se da una parte impoverì il paese, dall'altra incoraggiò le belle arti, perchè fu una gara tra ecclesiastici in elevare
(I) P i c e i ne i. Cronache, Annata sterile 1760.
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chiese, nel dotarle di torri campanarie e decorarle di statue e di quadri,
dando lavoro ad artigiani e ad artisti, nel fondare scuole ed istituzioni
culturali. La vita del nostro 700 non fu soltanto baraonda molle di cicisbei e salmodiare di frati e prepotenza di abati e signori in parrucca e
calze bianche di seta, ma vide dagli studi dei conventi e dal fervore delle
arti e delle scienze sorgere un contrasto di energie, da cui scattarono spiriti ribelli nella fatale maturazione delle rivolte spirituali e di piazza che
incendiarono la fine del secolo.
S'era iniziata nel 600 e s'andò sempre intensificando la febbre di
rinnovamento edilizio della città : nel 1681 si mise la prima pietra della
colonna romana in piazza; nel 1682 lo Zimbalo finì di edificare il campanile del Duomo; l'anno appresso s'iniziò la costruzione della chiesa e
del convento di S. Pietro d'Alcantara; nel 1687 si cominciò a fabbricare
la chiesa di S. Chiara, e nel 1691 quella dei Domenicani, ambedue sotto
la direzione dello Zimbalo, che era diventato il grande architetto del barocco leccese; di quel fantastico caratteristico nostro barocco che culminò
nel 1697 con la facciata fantasmagorica della basilica di S. Croce, dovuta a lui ed a Gabriele Ricciardi. Nel 1694 l'architetto Cino, che fu
anche scrupoloso cronista, diè principio, per incarico del vescovo Pignatelli, alla costruzione del Seminario in cui un sobrio ed elegante Rinascimento armonizza con delicati accenni al Barocco; nel 1700 il Carducci
edificò la chiesa di S. Matteo, che poi il Gregorovius definì Panteon
del barocco leccese »; nel 1711 lo stesso Cino riedificò quella del Carmine; nel 1728 fu aperta al culto la chiesa del Rosario, lavoro originalissimo del grande Zimbalo; nel 1709 il Preside Diego Genoino ricostruì
il Palazzo del Pubblico Governo.
La vasta mole delle nuove costruzioni diede anche lavoro e rinomanza a pittori, scultori e decoratori. Negli ultimi del 600 il gallipolino
Coppola dipinse, tra l'altro, il bel quadro di S. Oronzo per l'altare eretto
in Duomo dalla Università, altare che nella linea architettonica non ha
nulla di sacro e ricorda quelli del Tempio Malatestiano dedicato paganamente dal signore di Rimini alla sua divina Isaotta; tutta una famiglia
pure gallipolina, i Genuino — architetti scultori e pittori -- innalzava cattedrali, dipingeva scolpiva alluminava; due alessanesi fratelli, Cesare e Placido Buffelli, decoravano la chiesa di S. Matteo con , le statue degli Apostoli e la Piazza dei mercanti col monumento equestre di Carlo V; il sacerdote Liborio Riccio di Muro dava le sue tele a chiese e palazzi feudali; i leccesi Serafino Elmo ed Oronzo Tiso, canonico del Duomo, ambo
allievi del Solimene, dipingevano grandi quadri per la Cattedrale di Lecce
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N. De Simone-Paladini - Due Poeti nel travagliato 700 salentino 83
e per le parrocchie della provincia; un altro leccese, l'orafo ed argentiere
Domenico Gigante, modellava in argento la bella statua del nuovo Patrono S. Oronzo.
Bei gesti erano spesso compiuti da patrizi e mercanti di larghe vedute con istituzioni di pubblica utilità e di beneficenza; e tra tanti piace
ricordare quello di don Prospero Lubelli barone di S. Cassiano e Guagnano, che con testamento del 25 decembi e 1700 per mano di notar Gervasi « lasciò ducali 500 per farsene la Porta nuova di Rugge, quanto
più galante e bella si poteva, ordinando alla figlia ed erede Waimondina
che subito dopo la sua morte si desse principio all'opera, vendendo a tale
scopo tutti gli argenti di famiglia, consistenti in due sotto-coppe, dodici
posate, due cucchiaioni, un tortello, un trinciante, tre bicchieri, un bacile
ed uno sicchio di libre 2, ed il compimento per detta somma di ducati 500
pigliando dalla vendita delli grani »
Questo risveglio di opere non nasceva però, generalmente, da sincero
sentimento religioso e assistenziale, poichè allora la religione era più forma
che sostanza: essa era diventata una specie di feticismo. Si erigevano
chiese ed oratori per impiegare gli ingenti capitali dei monasteri e per
mania di grandezza tra rivali ordini monastici; si fondavano istituzioni di
beneficenza e si facevano larghe elemosine, non tanto per il piacere di
compiere opera buona, ma nella comoda credenza di salvare l'anima peccatrice dalle fiamme dell'Inferno e di alleviare quelle del Purgatorio a
suon di ducati.
Per farsi un'idea di questo modo di sentire la religione basta leggere nel libro dell'Infantino — sacerdote osservante e scrupoloso ma anche uomo colto e spregiudicato — l'elenco delle reliquie che si adoravano
nelle chiese di Lecce: in S. Matteo il cordone della Maddalena, in
S. Maria degli Angeli il sangue delle Undicimila Vergini, in Duomo la
camicia di S. Carlo Borromeo, in S. Teresa un pezzo di carne della Santa,
in Santa Croce i capelli della Maddalena il latte della Madonna il sangue di S. Giovanni Battista la gola di S. Cristoforo e un pezzo dell'altare di S. Pietro celestino « la cui polvere, bevuta dagli infermi, che
patiscono mal di petto per terzana o febbre quartana, ricevono ordinariamente la salute » (2).
Per la posizione privilegiata del clero, non era casa patrizia o anche
(I) Archivio di Stato di Lecce, Atti not. Gervasi - gennaio 1700,
(2) lnfantin o, o. c., pag. 122.
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civile che non contasse tra suoi cadetti un figlio prete o monaco o semplicemente chierico beneficiato; ed uno di questi in casa metteva l'intera
famiglia quasi fuori legge, incominciando dal pagamento delle gabelle, che
tutte gravavano sulle classi meno abbienti.
Fu a causa di questa invadenza che il malcontento generale, covato
per tanti anni sotto la cenere di una bigotta passiva obbedienza, ad un
tratto esplose dando luogo ad un agitato caratteristico periodo della storia
leccese, di cui la memoria arrivò fino a noi, tramandataci dai cronisti sotto
il nome di c 'Dieci anni d'Interdetto .
L' Interdetto »
L' Interdetto ! » Di questo strano decennio, dal 10 febbraio 1710,
quando il sindaco Brunetti, autorizzato dal Vice-Re cardinal Grimani —
essendo Vescovo Don Fabrizio Pignatelli — « Ordinò che ai preti si lasse
un rotolo di pane al giorno in franchigia, e che si dovessero levare tutti
li molini dalli monasteri e conventi e pure quelli di fuori la città, mettendosi alli posti le statele per misurarsi le farine » ( 1 ), sino al 24 aprile 1719,
quando Monsignor Pignatelli tornò dall'esilio, il Cino, cronista contemporaneo, ci ha lasciato dettagliata notizia. Come tutti gli altri storiografi, che
poi se ne occuparono ( 2), egli afferma in modo indubbio che i provvedimenti presi contro gli ecclesiastici — da cui vennero interdizioni e scomuniche — fossero dovuti al generale malcontento per la intollerabile posizione di privilegio fiscale e politico goduta dal clero, da cui derivarono
le angustie finanziarie in che Università e popolazione languivano.
Contro tutta una letteratura sincrona e posteriore, per quella mania
venuta di moda per cui certi studiosi moderni si compiacciono, a dir cose
nuove, di andar contro corrente, cercando di prospettare sotto altra luce
fatti e figure già pienamente lumeggiate dalla storia, Luigi Guglielmo in
un sua libro sull' « Interdetto di Lecce » consultando esclusivamente gli Archivi Vaticani, ha sostenuto che i provvedimenti repressivi del Sindaco
Brunetti e del Vice-Re contro il clero, non alle ragioni innanzi dette fos-
(1) Cino, o. c., anni dal 1710 al 1719.
(2) De Simone, o. c.; P a I u m b o, Storia di Lecce; Guerrieri, Interdetto
contro la Diocesi di Lecce; Barrella, 1 Gesuiti nel Salento; Paladini, La Chiesa
Cattedrale di Lecce; B r i g g s, Nel Vallone d'Italia ecc.
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sero dovuti, ma ad antica ruggine esistente tra Governo e Università ed
Episcopio per certi diritti feudali in contesa.
A sfatare questa tesi basta solo osservare che in Vaticano il Guglielmo non poteva trovare se non carte provenienti da gente interessata
a travisare i fatti per sua discolpa — Vescovo, Vicario e prelati su cui
gravava la responsabilità di avvenimenti che certo dovevano spiacere alla
Santa Sede — mentre il cronista cittadino, timorato di Dio e della Chiesa
e legato al Vescovo da vincoli di amicizia e di gratitudine dirigendo per
di lui ordine i lavori di costruzione in atto del Palazzo del Seminario, e
di alcune chiese della città, andò annotando giorno per giorno le varie
fasi di quel movimentato periodo come si svolgevano sotto i suoi occhi e
con un certo senso di doloroso rincrescimento e mai pensando che il suo
manoscritto dovesse un giorno diventare fonte di storia.
Basta leggere l'ingenuo annotatore per convincersene e per vedere
con quale esultanza egli annotò l'arrivo di un procaccia latore del dispaccio
vicereale « ordinante di togliere il sequestro ad affitti e rendite della Mensa
Vescovile » con cui si preludiava alla fine dell'Interdetto.
Seguiamo, dunque, col Cino la narrazione degli avvenimenti.
Appresa l'abolizione delle franchigie, Monsignor Pignatelli, strenuamente secondato dal suo battagliero Vicario don Scipione Martirani, « fece
citazione di scomunica al Sindaco e al Governo, chiamandoli a comparirgli innanzi nelle ventiquattr'ore ». In risposta il Sindaco « pose le guardie
alle porte per impedire i contrabandi »; e il Vescovo affisse alle chiese
i cedoloni di scomunica.
Ma la sera del 17 febbraio il Cancelliere di Curia D. Domenico
Colelli, a sfida delle autorità civili, entrò a cavallo da Porta S. Giusto,
portando due tomoli di grano. Invitato a pagar la gabella, rifiutò; gli fu
sequestrato il grano; ebbe braccio forte da due preti che strapparono il
grano alle guardie; nacque una baruffa in cui un tal Mongiò gli ruppe
la testa.
Informatone il Vicerè-Cardinale, venne da Napoli al Vescovo ordine
di recarsi alla Capitale per discolparsi; il Vescovo non obbedì, e il 28
maggio gli furono confiscati i beni della Mensa.
Si imponevano mezzi più persuasivi, e nei « Ricordi » del nostro Castriota infatti leggiamo : « Addì 11 novembre 1711 fu trasportato, per
ordine regio, da questo signor Preside D. Saverio Rocca l'ill.mo D. Fabrizio Pignatelli Vescovo di Lecce per la volta de Trane per trasportarlo
poi alli confini del Regno ».
A mezzanotte l'Episcopio fu circondato da quaranta soldati di cam-
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pagna e il Vescovo fu arrestato e guardato a vista da ministri e scrivani per non dargli tempo a rimaner solo per fulminare censure e interdetti. Ma ciò nonostante, fingendo voler fare positivo bisogno corporale,
sotto un lampione vicino alla porta dei comuni, ebbe il tempo di firmare
li monitori e l'Editto d'Interdetto senza accorgersi nè ministri nè scrivani
della R. Udienza, e di consegnarli al Vicario Generale D. Scipione Martirani » (I).
Una vittima dell'Interdetto
Fu il Martirani inflessibile oppositore agli ordini del Vice-Re e del
Sindaco, e tale si mantenne nell'esilio del Vescovo, tanto che venne anche lui arrestato e il 22 novembre, messo su di un calesse, spedito manu
militari fuori Regno.
Narra il cronista che il calabrese Vicario cercò in ogni modo di opporsi alla abolizione dei privilegi più nel suo interesse privato che in quello
del Clero, poichè -- come anche il Guglialmo, apologista del Pignatelli,
afferma nel suo libro — egli esercitava per suo conto la mercatura ed anche il contrabando, tanto da essere denunziato al Tribunale della Nunziatura. E non smise tale esercizio illecito — continua il Guglielmo — neppure quando col Vescovo tornò a Lecce ad Interdetto finito, e perciò gli
fu tolta la carica di General Vicario (2).
Il Cino rincara la dose e, narrandone la morte, scrive: « Il 19 luglio 1722 passò a miglior vita il Vicario Martirani nel casale di S. Donaci, nelle sue masserie ivi comprate, pel dolore di essere stato levato da
Vicario. Uomo veramente degno, ma per essere calabrese non aveva riguardo a niuno ; nunc iacet inter pecora el stercora » (3).
Come amato e stimato, malgrado le divergenze, era Monsignor Pignatelli, una corrente contraria doveva avere il suo Vicario, se il mite e
buon Cino, cdsì propenso alla cristiana indulgenza, e pur riconoscendolo
veramente degno di stima, non seppe di lui darci, quantunque in lingua
latina, epitaffio meno oltraggioso!
Ma, dopo quasi due secoli e mezzo, lo studioso sereno, giudicando
(I) Cino, o. c. Secondo anno doloroso dell'Interdetto.
(2) Cuglielrn o, o. c. Nota a pag. 21.
(3) C i n o, o. c. Anno 1722.
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senza veli di passioni politiche, religiose e fazionali, non può fare a meno
di diradare, attorno alla memoria del tanto discusso prelato, quella foschia
denigrante che i contemporanei in buona o mala fede avevano addensato.
E fuor di dubbio che, venendo da Tropea a Lecce al seguito del Pignatelli, don Scipione non era un qualunque prete e un qualunque squattrinato. Apparteneva a nobile famiglia calabrese, che in patria ebbe onori
e cariche pubbliche e religiose e che era dedito al commercio. Non dunque può far meraviglia se a quei tempi, in cui i sacerdoti esercitavano le
arti liberali e si occupavano anche di mercatura, a Lecce egli avesse per
suo conto avviato scambi di merci con la Calabria, e che ne avesse tratto
buon guadagno, impiegato in acquisti di palazzi e di masserie, avendo a
socio il nipote Antonio, venuto tra noi pel suo matrimonio con una di
casa Guarini.
Buon calabrese testardo e pugnace, ed insieme sacerdote zelante ed
inflessibile nel sostenere gli interessi di casta, e senza riguardi per alcuno,
il Martirano fece il suo dovere quando tenne obbedienza al Vescovo e
ne pubblicò i bandi di scomunica ed affrontò le ire delle autorità vicereali e municipali e le subdole manovre dello stesso clero, che con severità richiamò al dovere e denunziò anche alla Curia Romana per i metodi accomodanti coi quali applicava l'Interdetto.
Contro di lui si scatenarono quindi, e per opposte ragioni, le ire dell'Università e del Governo e del Clero, e fu accusato di contrabando alla
Nunziatura, mentre il Papa fece sospendere il processo che non fu mai
riaperto; e fu perseguitato anche nei suoi parenti di Tropea, che furono
arrestati e privati delle cariche e dei beni (1).
Lo stesso suo ultimo gesto, quando, vecchio ormai e malato e stanco
di più lottare, e dolente p" el perduto Vicariato, si ridusse a vivere lontano dai rumori e dalle passioni cittadine, nelle masserie di S. Donaci,
per finirvi, dimenticato e dimenticando la vita, ci mostra l'anima altera
e disdegnosa di questo prelato che in Lecce fu una delle figure più emergenti dell'epoca, e che fu molto calunniato per aver molto operato : un
forte carattere stagliato nella roccia dura delle sue montagne silane, in un
secolo frollo ed accomodante come il 700 leccese.
(I) Guglielmo, 'Per la storia dell'Interdetto pag. IO.
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Verso la fine dell'Interdetto : muore il
Sindaco scomunicato.
Gli anni dell'Interdetto per una città come Lecce, allora cattolica
fino al fanatismo, furono da principio assai duri : proibito il suono delle
campane; proibito dar sepoltura ai morti in chiesa; proibito ascoltar la
Messa ed accedere ai Sacramenti, proibite le prediche in pubblico.
Ma, poco per volta, con quel tale senso di apatia tradizionale che
non è ancora tra noi scomparsa, tutti si abituarono a questo ordine di cose;
e il nuovo Vicerè mandò quattro cappellani ad officiare nelle chiese di
regio patronato; alle Moline di Rugge, nel Torrione della Strèttola vecchia e presso Porta S. Biagio s'improvvisarono Cimiteri di fortuna; i padri Gesuiti — gente colta e di signorili abitudini che non s'interessava d'esenzioni di gabelle — compirono regolarmente le funzioni religiose nella
Casa dell'Ordine e confessarono, comunicarono e tennero anche un corso
di esercizi, spirituali ( 1 ); nei giorni solenni, come Natale e Pasqua, per
concessione pontificia tutte le chiese si aprirono al pubblico.
E quando nell'ultimo giorno delle Feste Patronali — il 26 agosto
1714 — ebbe a morire il Sindaco Giuseppe Paladini « essendo scomunicato per l'Interdetto, la Città gli fece grandi onori, avendogli fatto un
baulle foderato di seta color mosco, guarnito di galloni d'oro con coltra
della stessa maniera, con quattro cuscini consimili con le armi gentilizie,
portandolo per la città associato da tutta la nobiltà con torcie alli quattro
angoli della bara. I quattro eletti ossiano decurioni, portavano le bandiere
negre in mano, e dietro il cadavere tutto il seguito della città, lo condusse con tale pompa sopra il Sedile, ed ivi fu seppellito (2).
Ma il dotto e venerando abate Domenico De Angelis, Canonico penitenziere della Cattedrale ed autore delle « Vite dei letterati salentini »
e di altre opere, uomo di spiriti superiori ed amantissimo della sua città,
dove era ritornato dopo lunghi anni di assenza in cerca di riposo, si preoccupò dalla piega che le cose andavano prendendo, e malgrado la tarda
età e le sofferenze fisiche, si recò a Napoli e a Roma per cercare una
conciliazione tra potere civile ed ecclesiastico, che era poi sentita ed
. auspicata dalla cittadinanza. Egli trovò la via spianata da un altro lec-
(I) P. Barrella, I Gesuiti nel Salento p. 87.
(2) C i n o, o. c. Anno 1714.
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tese, il gesuita padre Domenico Viva dei baroni di Specchiarosa, ed aveva
già bene avviate le trattative con papa Clemente XI, quando venne a
morire nell'agosto del 1718. Ma il buon seme da lui sparso presto fruttificò, e un anno di poi, festosamente accolto, Monsignor Fabrizio Pignatelli, tornava a Lecce.
Il nostro don Alessandro Castriota in quel giorno annotava : « Addì
24 settembre 1719 arrivò in Lecce Don Fabrizio Pignatelli, vescovo di
Lecce, e finì l'Interdetto di detta Città, ed assolse tutti li censurati con
giubilo e fede di tutta la Città e la Provincia ».
E tanto fu il giubilo e tale lo scampanio delle torri campanarie pel
ritorno del Presule, che il campanone del Duomo si ruppe, e un mercante veneziano, Pier Maria Ferraroli, fece voto a S. Oronzo di rifarlo
a sue spese (I).
Per la storia diremo che, oltre ai Gesuiti, non tutti religiosi leccesi
furono solidali col Vescovo nell'Interdetto ; ed un esposto al Cardinal Segretario Paolucci, a firma di un Giovanni Antonio Caputo, in data 18 novembre 1711, sta a provarlo. Si accusa in quell'esposto il P. Rettore dei
Gesuiti che ostentatamente si faceva vedere a passeggio col Preside Rocca,
cioè con lo scomunicato che aveva arrestato il Vescovo, dando con ciò
pubblico scandalo; il P. Luna e il P. Franzini, anche gesuiti, a che non
si sono arrossiti di scrivere contro la sentenza di scomunica, dichiarandola
nulla »; il P. Maestro Alari dei Carmelitani, che in un'assemblea di teologi, indetta nel R. Castello « non si vergognava di dire che, non ostante
l'Interdetto, poteva darsi sepoltura ai cadaveri in ogni chiesa »; e si finisce con l'accusare « lo restante Clero regolare, che va sparlando contro
dette censure, di modo che gli stessi censurati se ne ridono » (2).
Fu provvidenziale per ciò il ritorno di Monsignor Pignatelli, specie
negli interessi della Chiesa, chè, se egli avesse ancora tardato a riprendere il governo della Diocesi, forse avremmo visto sorgere nel Salénto e
svilupparsi un centro ereticale, così come, in tempi di Riforma, se n'erano
qua e là costituiti in Italia; e forse noi oggi saremmo qualche cosa come
i Valdesi di Puglia.
(Continua)
Nicola De Simone-Paladini
(1) Picc in n i, priorista - Anno 1725 - La campana rotta era stata fusa nel 1701
da re Berardino Cricelli nostro paesano - C i n o, o. c., anno 1701.
(2) Guglielmo, o. c, pag. 66.