Il fallimento della societa` di fatto fra societa` di capitali
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Il fallimento della societa` di fatto fra societa` di capitali
Prof. Andrea Tucci IL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ DI FATTO FRA SOCIETÀ DI CAPITALI* 1. La società di fatto fra diritto dell’impresa (in crisi) e diritto delle società. 2. La partecipazione di società di capitali a società di fatto. 3. Partecipazione di fatto e assunzione di partecipazioni. 4. La sentenza di Cass., n. 1095/2016. 5. Società di fatto e disciplina societaria. 1. Nel contesto della crisi d’impresa, la società di fatto fra società di capitali è una tecnica argomentativa, volta a estendere la responsabilità patrimoniale per atti d’impresa e a reprimere gli abusi della personalità giuridica, in virtù dell’applicazione del disposto dell’art. 147, l. fall. e, dunque, della “estensione” del fallimento alle società-socie1. A questo risultato conduce un’utilizzazione “selettiva” del diritto societario, fondamentalmente, quale disciplina dell’imputazione di un’attività d’impresa effettivamente svolta, pur in assenza della spendita del “nome sociale”, nel compimento dei singoli atti. Il che può apparire paradossale, ove si consideri che, come noto, l’esercizio effettivo dell’attività non costituisce un requisito per l’assunzione della qualifica di imprenditore, da parte di una società, là dove, nel caso in esame, è proprio la “constatazione” dell’esercizio effettivo (e “collettivo”) di un’impresa a costituire il presupposto per l’accertamento di una società2. A quest’ultimo riguardo, va detto che, nell’accertamento dell’esistenza del sodalizio, la giurisprudenza procede a una semplificazione della fattispecie prevista dall’art. 2247, cod. civ., espungendone il requisito del patrimonio comune, risultante dai conferimenti, e, dunque, trascurando, nel fenomeno societario, la disciplina dell’organizzazione di una determinata attività e dei beni destinati al finanziamento dell’attività medesima3. Per questo aspetto, la locuzione “società creata di fatto”, coglie, forse, meglio – nella sua ambiguità lessicale – il fenomeno della qualificazione ex post di determinati comportamenti, ritenuti * Il testo costituisce una rielaborazione della Relazione tenuta il 17 marzo 2016 presso l’Università di Foggia – Dipartimento di Giurisprudenza, nell’ambito dell’Incontro di studio dal titolo L’estensione del fallimento per le società di capitali 1 Il rilievo circa la natura puramente “retorica” del richiamo alla disciplina delle società è risalente. Cfr., ad es., SRAFFA – BONFANTE, Società in nome collettivo fra società anonime?, in Riv. dir. comm., 1921, I, 611: “opera di alchimia giuridica in un giuoco dialettico”, volta a estendere la responsabilità patrimoniale per atti di impresa e a reprimere gli abusi della personalità giuridica, chiamando a rispondere le società-socie “per obbligazioni che di sociale non avevano né la forma né il contenuto”. In argomento si veda, inoltre, la ricostruzione storica di GALGANO, Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, 132 ss. 2 Cfr., per il rilievo, ANDRIOLI, Fallimenti sociali, in Dir. giur., 1972, 794; ANGELICI, Società di fatto, in Enc. giur., XXIX, 1993, 2. In una prospettiva di portata più ampia, cfr. COTTINO, Considerazioni sulla disciplina dell'invalidità del contratto di società di persone, in Riv. dir. civ., 1963, I, 273. 3 “L’organizzazione economica posta in funzione di uno scopo produttivo” (G. FERRI, Diritto commerciale, Torino, 1950, 125). Con specifico riferimento al tema in esame, cfr., A. NIGRO, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974, 168, sulla scia di P. FERRO-LUZZI, I contratti associativi, Milano, 2001 (rist. ed. 1969), 280 ss., spec. 316 ss. 1 Prof. Andrea Tucci sintomatici della (o, comunque, equiparati, quoad effectum, alla) esistenza di un vincolo societario, non “formalizzato” e, dunque, soggetto alla disciplina della “società irregolare”, di cui agli artt. 2297 e 2317 c.c. I problemi che questa costruzione pongono derivano dalla sovrapposizione e dalla difficile conciliazione di princìpi del diritto dell’impresa (elaborati, poi, con riferimento all’imprenditore persona fisica) e princìpi del diritto societario (e delle società di capitali, in particolare). È, questo, un tipo di conflitto di tutta evidenza nel diritto fallimentare, la cui disciplina è, fondamentalmente, pensata per il fallimento dell’imprenditore persona fisica4. Più in generale – e prescindendo, dunque, dalla “partecipazione” di società di capitali –, può dirsi che la teorica della società di fatto presenta punti di contatto con quella dell’imprenditore occulto, sotto il duplice profilo della svalutazione della spendita del nome, quale criterio di imputazione dell’attività, e dell’approccio sostanzialistico, fondato su quella che Lorenzo Mossa ha icasticamente definito la “sovranità sull’impresa”5. L’analogia è evidente anche sotto un profilo pratico, trattandosi, in entrambi i casi, di costruzioni teoriche, che mirano a realizzare un incremento della massa attiva, così attenuando le conseguenze di quello che Tullio Ascarelli indicava – con la consueta sensibilità verso i risvolti pratici delle costruzioni teoriche e gli interessi concreti ad esse sottesi – come l’inevitabile “inconveniente” della dichiarazione di fallimento, ossia la “diminuzione assai sensibile del valore dell’attivo” e “l’aumento del passivo, non foss’altro per le spese del fallimento”; donde la “naturale” tendenza dei curatori fallimentari e dei giudici delegati a “reperire estensioni” e ricercare soci o imprenditori occulti6. Se gli interessi sottesi alla costruzione in esame possono risultare meritevoli di attenta considerazione, è doveroso valutare se lo “strumento” a tal fine utilizzato risulti rispettoso dei princìpi e delle regole del diritto societario e dello stesso diritto dell’impresa in crisi. A entrambi questi profili di “compatibilità” sono dedicate le riflessioni che seguono. 4 Si tratta di una constatazione diffusa, in dottrina. Cfr., ad es., A. NIGRO (nt. 3), 55, il quale giudicava “sempre più anacronistica e sfasata, rispetto alla realtà economica, la tradizionale visione del nostro legislatore fallimentare che - con una singolare distonia rispetto all’impostazione del coevo codice civile - considera l’imprenditore individuale-persona fisica il quasi esclusivo “protagonista” delle procedure concorsuali”. 5 Cfr. MOSSA, Apparenza della società e responsabilità del socio, ivi, 1934, II, 361 (“l’obbligazione del socio nasce […] dal fatto della sua sovranità, o potere di disposizione sull’impresa”); ID., Società interna e responsabilità esterna, in Riv. dir. comm., 1939, I, 29, 41, per la precisazione secondo cui “il problema della responsabilità dei soci è ora quello della responsabilità per la creazione e la vita dell’impresa”). Si noti, peraltro, che Lorenzo Mossa richiamava l’attenzione sull’importanza dell’effettiva “ricerca di elementi essenziali e tangibili della esistenza della società commerciale di fatto” (MOSSA, Società interna e responsabilità esterna, cit., 29). Il richiamo alla riflessione di Lorenzo Mossa ricorre, non a caso, in BIGIAVI, Società occulta e imprenditore occulto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 15. 6 ASCARELLI, Ancora in tema di imprenditore occulto, in Riv. soc., 1958, 1153 ss., e in Problemi giuridici, Milano, 1959, II, 504-506. Per analoghe considerazioni, cfr., più di recente, A. NIGRO (nt. 3), 5, 146, 177. 2 Prof. Andrea Tucci In termini generali, la teoria della società di fatto prende le mosse dalla constatazione, secondo cui l’esteriorizzazione dell’azione sociale non è richiesta dall’art. 2247 c.c. e non può, pertanto, costituire oggetto dell’onere della prova, per chi affermi l’esistenza dell’esercizio collettivo di un’impresa societaria e invochi, di conseguenza, l’applicazione della relativa disciplina7. Il passaggio ulteriore – e, per vero, più discutibile – della costruzione in esame riguarda la ricordata semplificazione della fattispecie “società” e, di conseguenza, dell’onere della prova che incombe su chi affermi l’esistenza del sodalizio. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai tralatizio, “l’esistenza di una società di fatto può ben essere desunta da manifestazioni comportamentali rivelatrici di una struttura sovraindividuale indiscutibilmente consociativa, assunte non per una loro autonoma valenza, ma quali elementi apparenti e rivelatori, sulla base di una prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell’azienda, in quanto ciò che viene in considerazione non sono gli elementi essenziali del contratto di società (costituzione di un fondo comune ed affectio societatis), rilevanti esclusivamente nei rapporti interni, ma l’esteriorizzazione del vincolo sociale, rilevante nei rapporti esterni”8. Traspare, in questo approccio, una sovrapposizione fra società di fatto e società apparente. In realtà, la “confusione” è voluta, essendo finalizzata a pervenire alla dichiarazione di fallimento dei “sovrani” dell’impresa, prescindendo dalla prova (i) della qualità di imprenditore, per le persone fisiche (la costruzione della società di fatto, sotto questo profilo, realizza un sensibile alleggerimento dell’onere probatorio, rispetto alla teorica dell’holder persona fisica); (ii) della stessa società di fatto, i cui requisiti risultano, in tal modo, “annacquati”, non essendo richiesta la prova rigorosa della comunione dei conferimenti e della condivisione dell’alea economica relativa ai risultati dell’attività comune9; (iii) dell’insolvenza dei soci (non richiesta dall’art. 147, l. fall.) e della stessa società di fatto, all’uopo soccorrendo l’applicazione della teoria della “unicità e identità dell’impresa”, elaborata con riferimento alla fattispecie regolata dall’attuale quinto comma dell’art. 147, l. fall.10, ma, sostanzialmente, riproposta anche in relazione alla (diversa) fattispecie di cui al primo comma11. 7 Cfr., per tutti, G. FERRI, La società, in Trattato di diritto civile, fondato da Filippo Vassalli, Torino, 1985, 61: “l'esteriorizzazione dell'azione sociale, anche se presupposta nella disciplina dei vari tipi, non è richiesta dall'art. 2247 e non può quindi essere fatta assurgere dall'interprete a requisito essenziale”. 8 Cfr., ex multis, Cass. 20 gennaio 2006, n. 1127; Cass., 22 febbraio 2008, n. 4529; Cass., 14 febbraio 2001, n. 2095. 9 Cfr. RONDINONE, Tecniche di coinvolgimento di domini e holders nel fallimento delle imprese eterodirette e «superamento» della spendita del nome, in Riv. soc., 2015, 1048. 10 Cfr. Cass., 30 gennaio 1995, n. 1106. 11 Come testimonia la recente sentenza di Cass., 21 gennaio 2016, n. 1095, a dispetto delle enunciazioni di principio, in essa 3 Prof. Andrea Tucci La semplificazione, cui fa ricorso la giurisprudenza, può destare qualche perplessità, sotto il profilo della sua compatibilità con la disciplina del fallimento dei soci illimitatamente responsabili e della ratio ad essa sottesa. In particolare, un indizio normativo dell’essenzialità di un patrimonio sociale, è presente nell’art. 148, 2° co., l. fall., dal quale si desume il senso della disciplina del fallimento “in estensione”, nella regola, in virtù della quale “il patrimonio della società e quello dei singoli soci sono tenuti distinti”. La disposizione normativa conferma il rilievo, secondo cui il fallimento della società, autonomo e distinto da quello (eventuale) dei soci, ha quale presupposto logico-giuridico la presenza di un patrimonio, che possa formare oggetto dell’esecuzione concorsuale. Il punto è stato ben colto da Virgilio Andrioli, il quale osservava che “postoché il fallimento ha per sua ultima, se non esclusiva, finalità la liquidazione della massa attiva del soggetto fallito e il patrimonio sociale è autonomo dal patrimonio dei singoli soci illimitatamente responsabili il fallimento di società, apparente perché priva di fondo comune, rischia di essere chiuso per mancanza di materia prima”12. La (sostanziale) irrilevanza di un patrimonio, d’altronde, non può trovare supporto nel richiamo alla “presunzione” disposta dall’art. 2253, 2° co., cod. civ., che presuppone una precisa individuazione dell’oggetto sociale, in sede di costituzione della società; onde poi stabilire “quanto è necessario” al suo perseguimento13. 2. Una “complicazione” ulteriore sussiste, nel caso in cui si proceda all’accertamento di una società di fatto fra o con società di capitali, dovendosi valutare la “tenuta” della costruzione in esame, anche alla luce delle regole che disciplinano l’organizzazione corporativa. Queste ultime possono, pertanto, essere percepite dall’interprete come un ostacolo da “demolire” ovvero da “aggirare”, come testimonia la recente sentenza di Cass., n. 1095/2016, che procede, dapprima, a una sostanziale “neutralizzazione” della disciplina contenuta nell’art. 2361, 2° co., per poi pervenire a una sua disapplicazione, rispetto alla fattispecie della società di fatto (in particolare – ma non soltanto –, allorché ad essa partecipi una società a responsabilità limitata). contenute, in tema di accertamento dell’insolvenza della società di fatto. Si veda, in particolare, il § 8, alla luce delle statuizioni delle corti di merito: Trib. Foggia, 23 marzo 2013, che aveva accertato l’insolvenza della società di fatto “attraverso la verifica dell’insolvenza di una delle società socie”; App. Bari, 31 dicembre 2012, che ha ritenuto sussistente l’insolvenza della “super-società di fatto”, in quanto coincidente con quella della società-socia già dichiarata fallita. Questo approccio, peraltro, conduce al fallimento, in via ascendente, dal socio alla società, per poi “discendere” alle società-socie, in virtù di una sorta di applicazione congiunta dell’art. 147, commi primo quinto; quest’ultimo, poi, esteso al caso del fallimento di società. 12 ANDRIOLI (nt. 2), 810. 13 Cfr., per il rilievo, A. NIGRO (nt. 3), 175-177. 4 Prof. Andrea Tucci In questo contesto, si comprende il costante “confronto” e “scontro” con il tema – in realtà non coincidente e, per certi aspetti, non pertinente, rispetto ai problemi della società di fatto – della assunzione di partecipazioni, da parte di società di capitali in società di persone. E ciò sebbene non sia mancata, in dottrina, la percezione e la distinzione dei problemi. Emblematica la posizione di Salvatore Satta, il quale ammetteva la formale assunzione di partecipazioni, ma escludeva la società di fatto fra società di capitali, sulla base di argomenti ancora oggi meritevoli di attenta considerazione (cfr. infra, § 5). Prima della riforma organica del diritto societario, il dibattito sulla partecipazione di società di capitali a società di fatto era condizionato dalla risalente (e, si ripete, del tutto differente) questione della ammissibilità della assunzione di partecipazioni in società di persone, da parte di società di capitali14. La tesi della inammissibilità era stata accolta dalle Sezioni Unite, nella sentenza 17 ottobre 1988, n. 5636, considerata come una “pietra tombale” sulla configurabilità di società di fatto fra o con società di capitali, anche in considerazione della circostanza che la Corte si era pronunciata, con riferimento una fattispecie, rispetto alla quale si registravano maggiori aperture, anche da parte della dottrina più “intransigente” (i.e., la partecipazione a società in accomandita semplice, in veste di socio accomandante)15. Sebbene la vicenda sottoposta alle Sezioni Unite riguardasse una formale assunzione di partecipazione, da parte di una società per azioni, in una società regolare (per di più, al di fuori del contesto della crisi d’impresa), quel precedente è stato puntualmente invocato – da ultimo, anche nella sentenza di Cass., n. 1095/16 (si veda, in particolare, il § 4.1 della motivazione) – in controversie concernenti “società create di fatto”, nel senso sopra chiarito. La riforma del diritto societario, come noto, ha sancito l’ammissibilità, a determinate condizioni (artt. 2361 e 111 duodecies disp. att. c.c.), della partecipazione di società di capitali in società di persone, così rimuovendo il principale ostacolo alla costruzione della società di fatto con o fra società di capitali. Per vero, l’ambito di applicazione dell’art. 2361, 2° co., c.c., si estende, più in generale, all’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante responsabilità illimitata per 14 Ma, per la chiara la percezione della distinzione fra le due fattispecie, cfr. SRAFFA – BONFANTE (nt. 1), 611; G. FERRI, Ammissibilità di una collettiva fra anonime, in Giur. Comp. Dir. Comm., III, 1938, e in Scritti giuridici, Napoli, 1990, III, 820. 15 La sentenza menzionata nel testo si legge, fra l’altro, in Foro it., 1988, I, 3248. La pronuncia è stata commentata, per lo più, criticamente, in dottrina. Cfr., tra gli altri, BORGIOLI, Partecipazioni di società di capitali in società di persone, in Riv. dir. comm., 1989, I, 301; SCOTTI CAMUZZI, Società per azioni accomandante di società in accomandita semplice, in Contr. impr., 1989, 97; COLOMBO, La partecipazione di società di capitali ad una società di persone, in Riv. soc., 1998, 1513. 5 Prof. Andrea Tucci le obbligazioni delle medesime. Non di meno, la disposizione di nuova introduzione sancisce, implicitamente, (anche) l’ammissibilità dell’assunzione di partecipazioni in società di persone, riaprendo il dibattito su una questione, che sembrava sopita, dopo l’intervento delle Sezioni Unite. La novella ha, pertanto, riproposto all’attenzione degli interpreti il problema (e le “opportunità”) della società di fatto fra società di capitali, nel contesto della crisi d’impresa, in qualche modo “rilegittimando” la tecnica argomentativa, volta a estendere il fallimento ai soci di una società di fatto, anche in funzione repressiva di abusi della personalità giuridica. Un’ulteriore conferma del riconoscimento normativo della piena legittimità di società di fatto fra e con società di capitali è stata ravvisata anche nel disposto dell’art. 147, 1° co., l. fall. – così come novellato dal d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 –, che commina l’estensione del fallimento di una società in nome collettivo ovvero in accomandita, semplice o per azioni, ai soci illimitatamente responsabili, “pur se non persone fisiche”. In realtà, il richiamo alla disposizione della legge fallimentare non appare decisivo, ben potendosi ritenere circoscritto il suo ambito di applicazione alla sola fattispecie della formale assunzione di partecipazioni. In altri termini, e come ovvio, l’art. 147 l. fall. non regola lo statuto organizzativo dell’ente partecipante, ma si limita a trasporre, in sede fallimentare, l’eventuale responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali, coordinando una risalente disposizione con la riforma del diritto societario. Conforta questa lettura il riferimento alla società in accomandita per azioni, che, evidentemente, non può essere una società di fatto. Più in generale, l’art. 147, 1° co., l. fall. ha la funzione di circoscrivere le ipotesi di estensione del fallimento, ai casi in cui, in base alla disciplina societaria, il socio di una società (anche non di persone) risponde illimitatamente per le obbligazioni sociali, al contempo escludendo fattispecie in passato discusse (i.e., unico quotista e unico azionista di società per azioni)16. 3. Se, in precedenza, il principale ostacolo (vero o anche soltanto percepito), rispetto alla teoria in esame, era costituito dal “diritto vivente” delle società di capitali, a seguito della riforma del diritto societario, l’attenzione degli interpreti si è spostata sul “diritto positivo” e, in particolare, sulla dis/applicazione dell’art. 2361, 2° co., cod. civ., con l’ulteriore complicazione (statisticamente tutt’altro che irrilevante, nella prassi) derivante dall’assenza di analoga disposizione nel contesto della società a responsabilità limitata. 16 Cfr., per il rilievo, BELVISO, La nuova disciplina dell’estensione del fallimento delle società ai soci, in Studi in onore di Vincenzo Starace, Napoli, 2008, 1657; BUONOCORE, Azionista unico, «sovrano», «tiranno»: functi sunt munere suo?, in Giur. comm., 2009, II, 305. 6 Prof. Andrea Tucci La novella del codice civile trova la sua origine storica nell’obiettivo di risolvere la questione, di diritto societario, della ammissibilità dell’assunzione di partecipazioni in società di persone da parte di società di capitali, alla luce delle norme imperative che disciplinano l’amministrazione del patrimonio sociale e il bilancio, anche nell’interesse dei terzi, così come interpretate e applicate dal “diritto vivente”, soprattutto a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite. E ciò sebbene la fattispecie regolata non coincida con quella dell’assunzione di partecipazioni in società di persone. L’inammissibilità della partecipazione (e la nullità virtuale del contratto di acquisizione, ex art. 1418, 1° co., c.c.) sarebbe discesa – ad avviso di Cass., Sez. Un., n 5536/88 – dal “contrasto che, nell’amministrazione del nuovo ed abnorme ente sociale verrebbe a determinarsi con la normativa dettata per la società azionaria, dove la legge riserva inderogabilmente agli amministratori la gestione del patrimonio sociale, mentre, ammettendosi la partecipazione ad una società di persone e a fortiori di fatto, priva di ogni garanzia di pubblicità, il patrimonio verrebbe fatalmente gestito, almeno in parte, da soggetti diversi, e, quindi, sottratto ai controlli predisposti per l'amministrazione della società di capitali”. In sintesi, la Cassazione riteneva inammissibili “una delega permanente delle funzioni di amministrazione della partecipazione sociale” e “la dissociazione fra i poteri di amministrazione e l'impegno del capitale sociale nell'esercizio dell'impresa, che nella società per azioni non è ammessa”. Argomento ulteriore – pur sempre lato sensu riconducibile al tema dell’amministrazione del patrimonio della società partecipante – era desunto dalla disciplina del bilancio e, in particolare, dal riscontrato “svuotamento” delle competenze degli amministratori (della società di capitali partecipante), in virtù della “perdita del controllo” della gestione contabile del capitale investito nella partecipazione. Donde l’enunciazione della massima, secondo cui “poiché la partecipazione di una società per azioni in qualità di accomandante ad una società in accomandita semplice comporta la violazione di norme inderogabili concernenti l'amministrazione ed i bilanci della società per azioni, quella partecipazione è nulla per violazione di norme imperative”17. 17 Il ragionamento delle Sezioni Unite riecheggia, in più punti (estendendo – forse in modo eccessivo – il ragionamento dalla società di fatto a qualsiasi società di persone, ivi compresa la s.a.s.), il breve, ma incisivo, saggio di AZZOLINA, Sull’ammissibilità di una società di fatto tra società di capitali e persone fisiche, in Riv. dir. comm., 1958, I, 496, spec. 500, ove il rilievo, secondo cui “se una società di capitali potesse partecipare ad una società di fatto con persone fisiche (e i termini del problema non varierebbero neppure se la combinazione avesse luogo con altre società) la parte del capitale investita dalla società regolare nella società di fatto sarebbe sottratta al sistema legale di amministrazione e di controllo che agisce esclusivamente rispetto al corpo sociale regolarmente costituito; e per di più sarebbero svincolate da ogni controllo le varie operazioni eseguite, e le relative obbligazioni contratte, dagli amministratori della società di fatto (che ben potrebbero essere diversi da quelli della società socia di questa) con assunzione di responsabilità che pure si ripercuoterebbero in misura illimitata sul patrimonio dei soci della società di fatto e quindi anche su quello della società di capitali”. Questo approccio è, peraltro, più risalente. Cfr. G. FERRI (nt. 14), 820, ove il richiamo a BRODMANN, 7 Prof. Andrea Tucci La riforma del diritto societario ha fornito una soluzione alternativa (rispetto al divieto), che si fa carico delle obiezioni mosse dalle Sezioni Unite e, coerentemente, (i) rimette ai soci, riuniti in assemblea, la decisione in merito all’opportunità di siffatta “delega permanente”; (ii) dispone un “adattamento” della disciplina della redazione del bilancio della società di persone partecipata (art. 111 duodecies, disp. att., c.c.). E si noti che, su questo secondo aspetto, già le Sezioni Unite avevano indicato la strada da seguire, là dove osservavano che “il problema andrebbe rimeditato alle luce di eventuali modifiche (in aderenza a direttive o proposte di direttive della C.E.E., in G.U.C.E. n. 144 dell'11 giugno 1986) volte a stabilire sui bilanci il principio dell'estensione delle norme sui bilanci concernenti le società sui capitali alle società personali partecipate dalla prime”. La ricostruzione della genesi dell’art. 2361, 2° co., c.c., per vero, già dovrebbe orientare l’interprete, in merito alla questione concernente l’applicabilità dell’art. 2361, 2° co., alla società a responsabilità limitata, al di là dell’argomento letterale, a favore di un’applicazione diretta, incentrato sul tenore letterale dell’art. 111 duodecies, disp. att., cod. civ. Ma sul punto si tornerà, nel prosieguo (infra, § 5). Non senza avere precisato che non si tratta di una questione davvero decisiva. Se questa è l’origine storica della disposizione - che, dunque, affronta un problema di diritto societario -, la sua introduzione ha ri-legittimato la tesi del fallimento in estensione nel territorio delle società di capitali, avendo rimosso quell’ostacolo che il diritto vivente frapponeva, a seguito della più volte ricordata sentenza delle Sezioni Unite. Ferma restando, dunque, la sopravvenuta insostenibilità della tesi dell’inammissibilità dell’assunzione di partecipazioni in società di persone da parte di società di capitali, si prospetta l’esigenza di un confronto con la disciplina di nuova introduzione, ai fini della soluzione dei problemi evocati dalla ipotizzata partecipazione di fatto di società di capitali a società di persone (irregolari), nel contesto della crisi d’impresa. In tal senso si era chiaramente espressa la Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, 5° co., l. fall., nella parte in cui non contempla l’ipotesi di estensione del fallimento originariamente pronunciato nei confronti di una società di capitali, proprio per l’omessa considerazione della questione concernente l’ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società di fatto, alla luce del disposto dell’art. 2361, 2° co. cod. Juristiche Wochenschrift, 1922). Nella dottrina successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite, cfr. C. AMATUCCI, La partecipazione di società di capitali a società di persone, Napoli, 1996. 8 Prof. Andrea Tucci civ.18. In altri termini, le condizioni cui l’art. 2361, 2° co., cod. civ., parrebbe subordinare la legittimità dell’assunzione (da parte di società per azioni) di partecipazioni comportanti responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali potrebbero rivelarsi un serio ostacolo, rispetto all’ammissibilità di un riscontro successivo di un sodalizio di fatto; non preceduto, cioè, da una formale deliberazione assembleare e non “documentato” nella nota integrativa del bilancio della società partecipante. Rispetto a questo problema, l’ammissibilità della società di fatto fra società di capitali può essere sostenuta, alternativamente, sulla base di (i) un “depotenziamento” della disciplina di nuova introduzione, che, in termini generali, svilisca la rilevanza esterna dell’assenza di una preventiva deliberazione assembleare, anche alla luce della disciplina dei poteri di gestione e di rappresentanza degli amministratori (artt. 2384 e 2475 bis, cod. civ.); (ii) una sua “disapplicazione” alla fattispecie della società di fatto, in virtù del rilievo – di per sé corretto – secondo cui la partecipazione a un sodalizio sarebbe fattispecie diversa da quella – regolata dall’art. 2361, 2° co., cod. civ. – della assunzione di partecipazione. 4. Entrambi i percorsi argomentativi sono sviluppati nella sentenza di Cass., n. 1095/16, con ampia e, per certi aspetti, “sovrabbondante” argomentazione, ove si consideri che gran parte della motivazione (§§ 1-4) costituisce, in realtà, un obiter dictum. Il “depotenziamento” della disciplina contenuta nell’art. 2361, 2° co., cod. civ., è incentrato, fondamentalmente, sulla qualificazione della deliberazione assembleare in termini di autorizzazione, dotata di una mera valenza organizzativa interna, ma del tutto irrilevante nei rapporti con i terzi, alla luce della disciplina della rappresentanza degli amministratori, che rende inopponibile – salva l’exceptio doli – l’eventuale dissociazione del potere rappresentativo dal potere gestorio e finanche l’estraneità dell’atto all’oggetto sociale. Sarebbe, questa, una precisa scelta del legislatore, che tutela l’affidamento dei terzi, d’altronde in conformità con il diritto comunitario (attualmente: Direttiva 2009/101/CE). Questa conclusione sarebbe valida anche per la società a responsabilità limitata, in virtù della analoghe disposizioni contenute nell’art. 2475 bis, anche a voler prescindere dal problema dell’applicazione analogica o estensiva dell’art. 2361, 2° co. L’omessa informazione della partecipazione nella nota integrativa di bilancio, d’altronde, sarebbe un adempimento successivo all’assunzione della partecipazione, che non ne potrebbe inficiare la validità, pena la troppo agevole elusione della disciplina fallimentare, in virtù di condotte pur sempre imputabili agli amministratori della società-socio. 18 Cfr. Corte Cost., 12 dicembre 2014, n. 276, in Giur. cost., 2014, 4705. 9 Prof. Andrea Tucci La “disapplicazione”, in termini generali (non soltanto, dunque, per la società a responsabilità limitata), dell’art. 2361, 2° co., cod. civ. si fonda, come si è anticipato, sul rilievo - di per sé condivisibile - secondo cui la fattispecie sottesa alla disciplina in esame è quella dell’assunzione espressa di partecipazioni, là dove, in materia fallimentare, si discute, principalmente, di società di fatto, nell’accezione di “sociétés créées de fait” e, dunque, di qualificazione giuridica ex post dell’effettiva cooperazione di più soggetti - fra i quali, in ipotesi, società di capitali - alla gestione di una medesima impresa. Per questo aspetto, la sentenza di Cass., n. 1095/16, mostra di condividere la posizione dottrinale che enfatizza l’assetto “imprenditoriale-societario” concretamente realizzato e ne predica la rilevanza anche quando non riconducibile a un contratto, che programmi il futuro svolgimento di un’attività19. La valutazione, in termini oggettivi, delle condotte poste in essere nello svolgimento di un’attività d’impresa condurrebbe alla conclusione, secondo cui, allorché siffatti comportamenti corrispondano a quelli tipici del rapporto societario, troverà applicazione la relativa disciplina, senza che occorra individuare una genesi contrattuale del rapporto (e, dunque, senza che rilevino eventuali limiti all’autonomia privata), se non quale “espediente retorico”, sulla scia dell’esperienza francese, là dove si è osservato che la société créée de fait consente all’interprete l’individuazione di una società al solo fine di poterla “liquidare”20. L’esercizio di fatto di un’attività di impresa in forma societaria, in questa prospettiva, esulerebbe dall’orbita “contrattuale”, collocandosi, per contro, nel contesto della “realizzazione dell’attività societaria”. Il tipo di problema che, in tal caso, l’ordinamento giuridico contempla e regola non avrebbe a che fare con la verifica dell’assunzione di un vincolo contrattuale (come nella fattispecie regolata dall’art. 2361, 2° co.), bensì con quello della qualificazione di un’attività effettivamente svolta, ai fini dell’applicazione di una disciplina, ove risultino integrati gli estremi dell’esercizio collettivo di un’attività d’impresa, ex artt. 2082 e 2247 c.c. L'inapplicabilità dell'art. 2361, co. 2, alla società di fatto, in definitiva, sarebbe la conseguenza della irrilevanza dell’elemento volontaristico-programmatico (i.e., la deliberazione assembleare). La partecipazione alla società di fatto può non essere voluta e programmata, ma “l’impresa societaria” è, comunque, “volontariamente attuata”. Il problema si riduce alla qualificazione, in termini 19 Il riferimento è alla riflessione di ANGELICI, Note minime su “La libertà contrattuale e i rapporti societari”, in Giur. comm., 2009, I, 403. 20 Cfr. LE CANNU, P. – DONDERO, B., Droit des sociétés, Paris, 2014, 930. 10 Prof. Andrea Tucci oggettivi, di un’attività21. 5. L’inammissibilità della partecipazione di una società di capitali in società di fatto può essere sostenuta, sulla base di un diverso percorso argomentativo, che prenda le mosse dalla considerazione della società quale disciplina organizzativa e non, invece, (soltanto) quale tecnica di imputazione di un’attività, secondo il diffuso approccio della giurisprudenza fallimentare. Un’attenta dottrina aveva bene sintetizzato il problema della in/ammissibilità di società di fatto con/fra società di capitali, osservando che “la società di capitali costituisce una normativa chiusa, che non consente evasioni, e così attività che non siano direttamente e immediatamente riconducibili a quella normativa. In altre e più semplici parole, la società, che è un ente essenzialmente strumentale, non può operare attraverso un altro strumento, quale è un’altra società, quasi sostituendo questa a se stesso, a meno che ciò non sia reso possibile dalla legge stessa della società, con una specifica previsione delle norme statutarie”22. In effetti, la teorica della società di fatto fra società di capitali realizza una sostanziale “demolizione” dell’organizzazione corporativa delle società di capitali, attribuendo una determinata qualificazione (i.e., atti di un’impresa sociale) ad atti dei soci o degli amministratori, posti in essere in violazione della disciplina positiva. Il che si traduce, a ben vedere, in un uso strumentale della teoria della persona giuridica, poiché, enfatizzando la visione “antropomorfica” della società personificata – e, dunque, trasponendo un modello ricostruttivo di comportamenti di persone fisiche –, ne trascura la realtà di una disciplina, la cui osservanza soltanto legittima la “finzione” dell’imputazione degli atti a un soggetto distinto dai soci. Il fenomeno dell’abuso della personalità giuridica, per contro, pone un problema di responsabilità della società per gli atti illeciti dannosi posti in essere dai suoi amministratori, anche in violazione della disciplina positiva, ovvero della responsabilità dei soci, per analoghe forme di interferenza nella gestione di un’impresa. In tal caso, l’eventuale imputazione della responsabilità è pur sempre coerente con la realtà di una speciale disciplina del finanziamento d’impresa e della sua organizzazione. In questa prospettiva dovrebbe essere letta la disciplina contenuta nell’art. 2361, 2° co., nel contesto della più generale riforma del diritto delle società; non da ultimo, della disciplina della 21 Cfr., per questa impostazione, DI SABATO, Società in generale. Società di persone, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2005, 107; BARTALENA, La partecipazione di società di capitali in società di persone, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, a cura di Abbadessa e Portale, Torino, 2006, 99; MURINO, Sulla fattispecie di società di fatto tra società di capitali, in Giur. comm., 2014, I, 914. 22 S. SATTA, Società di persone tra società di capitali, in Riv. dir. comm., 1968, I, 3. 11 Prof. Andrea Tucci responsabilità per l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di società. La stessa collocazione delle disposizioni di nuova introduzione, nel comma successivo all’immutato art. 2361, 1° co., non sembra priva di rilevanza, per coglierne la ricaduta sistematica. Il legislatore della riforma parrebbe avere enunciato una regola, secondo cui, nella società per azioni, non è consentito ai gestori porre in essere atti che stravolgono il programma di destinazione di un patrimonio al finanziamento dell’impresa sociale, così come definito dai soci, esponendo la società a un rischio imprevedibile e, per di più – come rilevato dalle Sezioni Unite, nella citata sentenza n. 5636/88 –, non governato dagli organi della società, in conformità con le regole che disciplinano l’organizzazione corporativa. L’introduzione dell’art. 2361, 2° co., c.c., nella società per azioni riformata, trova una sua giustificazione sistematica nella ridefinizione della ripartizione di competenze fra assemblea e amministratori, nel tentativo di superare le incertezze del regime previgente. Nel contesto della s.p.a. riformata – nel quale le gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori (art. 2380 bis) e le (eccezionali) competenze gestorie dell’assemblea non possono essere integrate dall’autonomia statuaria, come nel regime previgente (art. 2364, n. 4, previg.) –, il legislatore (art. 2361, 2° co.) ha, doverosamente (art. 2364, n. 5, prima parte), precisato che l’assemblea (ordinaria) è competente a deliberare su una materia che, ancorché astrattamente riconducibile alla gestione dell’impresa, altera sensibilmente l’operazione di investimento partecipativo dei soci, sotto il profilo del rischio accettato, al momento della destinazione del risparmio al finanziamento di una determinata impresa, e del governo di quel rischio. Vero è che l’argomentazione incentrata sul richiamo al pericolo dell’assunzione di un rischio illimitato e non preventivabile ex ante è stata censurata, in dottrina, con il rilievo che anche la concessione di una fideiussione può sortire effetti analoghi (non anche, però, rispetto alla “delega permanente” – da parte degli amministratori della società di capitali – alla gestione del patrimonio sociale, per riprendere una locuzione delle Sezioni Unite, che coglie bene la sostanza economica della questione, al di là dell’imprecisione della sua formulazione). Il parallelismo con il rilascio di fideiussioni, peraltro, non persuade del tutto, poiché il problema che emerge, nel caso di partecipazione a società che comporti la responsabilità illimitata del socio, riguarda la soggezione della società-socio al fallimento ex lege, nel caso di fallimento della società partecipata, ai sensi dell’art. 147 l. fall., indipendentemente dall’insolvenza personale. Situazione, questa, che non ricorre nel caso di rilascio di fideiussione. Mediante l’assunzione di partecipazioni, gli amministratori espongono l’intero patrimonio sociale - non soltanto la quota corrispondente 12 Prof. Andrea Tucci all'investimento - alla responsabilità patrimoniale per le obbligazioni sociali della società partecipata e al concorso di creditori (imprevedibili, ex ante), alla cui garanzia quel patrimonio non era destinato (con pregiudizio anche dei creditori della società partecipante) e per effetto di una gestione diversa da quella programmata o “prevedibile”, in sede di investimento iniziale. Il principio desumibile dall’art. 2361, 2° co., c.c., è che un siffatto stravolgimento del programma di destinazione patrimoniale deve essere deliberato dai soci, riuniti in assemblea. La norma, dunque, non ha natura permissiva – come si legge in un passaggio della motivazione di Cass., n. 1095/16 –, bensì proibitiva del compimento di un determinato atto, se non a determinate condizioni, sancendo un limite alle competenze gestorie degli amministratori23. Donde l’inconferenza del richiamo alle “sentenze gemelle” delle Sezioni Unite, nn. 26724 e 26725 del 2007, per escludere la possibile “nullità virtuale” dell’acquisto non preceduto da deliberazione assembleare24. La materia esula, pertanto, dall’ambito delle competenze che la legge attribuisce o consente di attribuire agli amministratori, configurando una eccezionale competenza gestoria dell’assemblea, che nulla ha a che fare con le eventuali “autorizzazioni”, di cui all’art. 2364, n. 5, ovvero con quelle espressamente previste da specifiche disposizioni di legge (es., artt. 2343 bis, 2357, 2390). Ma se così è, l’assenza di previa deliberazione assembleare dovrebbe essere opponibile ai terzi (e comportare l’inefficacia dell’atto), al di là degli angusti limiti previsti dall’art. 2384, 2° co, non sussistendo nessuna valida ragione per tutelare l’affidamento dei terzi, rispetto a operazioni che esulano dall’ambito delle competenze che la legge consente di attribuire agli amministratori. La recente presa di posizione (in senso contrario) della Corte di Cassazione sembra evidenziare, sul punto, una “sfasatura” fra i princìpi enunciati e la fattispecie concreta. In particolare, nel ragionamento sviluppato dalla Corte, sfuma del tutto la sensibile differenza – rispetto alle esigenze di tutela dei terzi e, in primis, dei creditori delle società insolventi – fra il compimento di un atto, nella qualità di amministratore di società, e la condotta, priva della spendita del nome sociale e della “qualifica”. Sintomatico di questa incomprensione risulta il passaggio della motivazione, nel quale si afferma che “il terzo deve poter confidare sull’efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente, esistano i presupposti procedimentali ‘interni’ previsti dalla legge” 25 . La Corte sembra qui alludere 23 Cfr. GUERRERA, Note critiche sulla c.d. supersocietà e sull’estensione del fallimento in funzione repressiva dell’abuso di direzione unitaria, in Dir. fall., 2014, II, 63. 24 Si veda, in particolare, quanto affermato da Cass., Sez. Un., n. 26724/07, § 1.7. 25 Cass., n. 1095/16, cit., § 4.5, p. 18. 13 Prof. Andrea Tucci all’affidamento dei terzi, che entrino in contatto con gli amministratori della società di capitali socio dell’ipotizzata società di fatto. Sennonché, sembra evidente che le operazioni concluse dagli amministratori della società-socio non saranno mai poste in essere con spendita del nome sociale della società di fatto, bensì (eventualmente) in nome della società di capitali amministrata, con conseguente affidamento dei terzi sulla garanzia generica offerta da un determinato patrimonio autonomo. Non si comprende, dunque, il richiamo alla disciplina della rappresentanza degli amministratori, che presuppone, per contro, il compimento dell’atto in nome della società e, di conseguenza, l’imputabilità degli effetti alla società medesima, anche nel caso in cui vi sia stato eccesso di potere rappresentativo o violazione delle regole che disciplinano il compimento di specifici atti gestori. È appena il caso di precisare, infine, che, nella fattispecie della società di fatto, non sussiste nessun atto di assunzione di partecipazioni, rispetto al quale invocare il legittimo affidamento dei terzi. Anche sotto questo profilo, non persuade il richiamo alla disciplina della rappresentanza degli amministratori. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, eccessivamente “rapido” e tranchant risulta l’esame della disciplina della società a responsabilità limitata, nella parte finale della motivazione di Cass., n. 1095/16 (costituente, peraltro, l’effettiva ratio decidendi). Per vero, si ha l’impressione che la competenza decisionale dei soci, nella materia in esame, sussista, a fortiori, nella società a responsabilità limitata, la cui disciplina non attribuisce la gestione dell’impresa alla competenza esclusiva degli amministratori (art. 2479) – e, anzi, riserva ai soci decisioni gestorie “di interesse primordiale” (art. 2479, 2° co., n. 5, cod. civ.) – e, pertanto, non reca una previsione espressa, come nella società per azioni, per derogare alla regola generale, con riferimento a determinate fattispecie. Non di meno, la competenza dei soci può essere desunta: (i) dall’art. 111 duodecies disp. att.26; (ii) da un’applicazione analogica dell’art. 2361, 2° co., cod. civ., ove si escluda la natura eccezionale della disposizione in esso contenuta, al di fuori del perimetro della s.p.a.27; (iii) da una lettura sistematica delle competenze dei soci, di cui all’art. 2479 c.c., e, in particolare, alla fattispecie della rilevante modificazione dei diritti dei soci, ex art. 2479, 2° co., n. 5, c.c.28. Se le regole contenute nell’art. 2361, 2° co., possono incidere sulla validità degli atti degli 26 Cfr., in tal senso, ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, in Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger, diretto da Busnelli, Milano, 2010, I, 922. Ma, in senso contrario, Cass., n. 1095/16, § 5.2, 24. 27 Cfr. BARTALENA (nt. 21); contra: ZANARONE (nt. 26). 28 Si sarebbe in presenza, evidentemente, di modificazione non formale, che non incide, cioè, sulle regole statutarie, essendo questa fattispecie oggetto di autonoma e specifica previsione, nel precedente n. 4 dell’art. 2479, 2° co. Anche sul punto, cfr., peraltro, quanto si legge in Cass., n. 1095/16, § 5.4. 14 Prof. Andrea Tucci amministratori (i.e., la formale – ancorché “viziata” – assunzione di partecipazioni)29, il principio da queste desumibili incide sulla qualificazione della condotta degli amministratori, impedendone una riconduzione alla realizzazione di fatto dell’attività societaria. Il tipo di problema che l’ordinamento giuridico “vede” e regola è, in altri termini, la gestione di una società (la società “svuotata” e “asservita” agli interessi di altre società) in violazione dei doveri di corretta gestione societaria e imprenditoriale; fattispecie diversa e incompatibile, nei suoi presupposti di fatto (donde l’inammissibilità di una pluriqualificazione della fattispecie), con quella della gestione in comune di un’attività d’impresa e soggetta a una diversa disciplina, che può essere – ricorrendone i presupposti – quella della responsabilità da direzione e coordinamento ovvero anche soltanto per un’interferenza interessata e non consentita nella gestione di un’impresa, per la realizzazione di interessi personali dell’interferente, non già per il conseguimento di un lucro, in virtù dell’esercizio di un’impresa comune (artt. 2497, 2476, 7° co., 2043 c.c.). In questa diversa prospettiva, l’omesso riferimento al fallimento di una società, nel quinto comma dell’art. 147, l. fall., potrebbe non risultare irragionevole, secondo quanto suggerito dalla Corte Costituzionale. La “costruzione” della società di fatto fra società di capitali evidenzia, dunque, elementi di debolezza, sia sul versante del diritto delle società, sia su quello del diritto fallimentare. Andrea Tucci 29 Per l’opponibilità ai terzi della violazione dell’art. 2361, 2° co., in quanto limite legale alle competenze degli amministratori, sia nella s.p.a., sia nella s.r.l., cfr., rispettivamente, MIRONE, sub art. 2361, in Società di capitali. Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 419 e nt. 45, e TOMBARI, La partecipazione di società di capitali in società di persone come nuovo "modello di organizzazione dell'attività di impresa", in Riv. soc., 2006, 195, il quale ritiene che la deliberazione “sia riservat[a] alla competenza dei soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., potendosi configurare, quanto meno in certi casi, come operazione che comporta "una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale determinato nell'atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci”. 15