“si può fare”: la commedia della diversità

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“si può fare”: la commedia della diversità
Pensieri e Parole
“SI PUÒ FARE”:
LA COMMEDIA DELLA DIVERSITÀ
È uscito anche in dvd che racconta una battaglia di civiltà che
ha segnato la storia del nostro Paese: quella per la chiusura dei manicomi
n vecchio adagio basagliano diceva che “da vicino nessuno è normale”.
A 30 anni dalla legge 180/1978, è arrivato sugli schermi e ora in dvd
“Si può fare”, un film -con la partecipazione di Claudio Bisio- che racconta il reinserimento sociale e lavorativo di un gruppo di disabili mentali. Ispirato alla storia vera di una cooperativa, mette in scena, con i
toni della commedia, le vite di tanti “matti”. E i loro colori, a confronto con la grigia e rassicurante normalità. Il regista Giulio Manfredonia ci ha raccontato la nascita e il senso di questo film.
Perché un titolo come “Si può fare”?
«Il titolo nasce da una frase di Basaglia: “noi non possiamo vincere e
non possiamo convincere, ma solo mostrare quello che si può fare”. Ci
sembrava che questo film parlasse del “fare”, il “dire pragmatico” degli
psichiatri basagliani, il dire attraverso un'azione. È un film che parla
dell'agire come terapia, del lavoro che restituisce dignità alle persone».
Perché l'urgenza di raccontare questa storia proprio adesso?
«È un film dalla gestazione lunga: ci pensavamo già nel 2004, ed è stato
realizzato nel 2008. Il film racconta di un momento storico importante
per l'Italia, in cui si apriva il “dopo anni 70” con due strade maestre:
quella del rampantismo e della concorrenza sleale, che poi ha vinto, e
quella del volontariato e della solidarietà, durata in modo sommerso
negli anni, e che in questo periodo di crisi si sta riscoprendo come risorsa. Dietro la 180 c’è tutto un modo di vedere e concepire la società».
Come si inserisce il film nella difficoltà di comunicare il disagio
mentale?
«L'Italia è l'unico paese al mondo dove c'è stata una rivoluzione come
quella di Basaglia. Credo che il film, al di là del disagio mentale, parli
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di
Maurizio
Ermisino
Pensieri e Parole
«L’assistenza
samaritana
non basta»
della diversità, e del modo di affrontarla. In questo senso è molto attuale: siamo un paese che ha paura della diversità di qualsiasi tipo. In
quegli anni c'era chi credeva, e lo fa anche oggi, che la diversità sia una
risorsa. Qualcosa da valorizzare. Da vedere senza buonismi o pietismi: anche un'assistenza di tipo “samaritano” non coglie l'essenza della
legge. Qui non c'è nessuna forma di commiserazione, ma si dice: tu
puoi fare delle cose. E questo rimette le persone al centro del discorso».
La storia è ispirata alla cooperativa Noncello di Pordenone, che
avete visitato insieme a una comunità protetta di Milano. Che
esperienze sono state?
«È stata un'esperienza molto forte, un viaggio di conoscenza. La cosa
più clamorosa che abbiamo scoperto è che sono posti dove ci si diverte
anche molto: come si vede nel film, il dramma è mescolato alla voglia
di sorridere e la parte di commedia che si vede non è una forzatura».
«L’incontro con il
disagio mentale
crea stupore»
Nella parte dei disabili sono stati utilizzati degli attori, ma non
ce ne accorgiamo...
«Inizialmente avevamo pensato di usare veri portatori di disagio mentale. Ma il cinema deve ricostruire una realtà e non riproporla come un
documentario. Abbiamo scelto attori professionisti, ma con volti inediti, perchè il pubblico avesse la nostra stessa sensazione di stupore
dall’incontro con il mondo del disagio mentale. Non riconoscere l'attore quindi, ma entrare in contatto con il personaggio, con un volto comune, confondibile con quello di un disabile vero. Abbiamo provato
molto, e messo gli attori in condizione di approfondire: sono state preparate cartelle cliniche, in modo da scandagliare la vita e i progressi
dei personaggi. Abbiamo provato al Santa Maria della Pietà, l'ex ospedale psichiatrico di Roma, di cui assorbivamo l’aria nei tempi morti.
Abbiamo lavorato su effetti dei farmaci, modi di camminare, gesti».
Come si trova il tono giusto per raccontare un film del genere?
«Il merito va alla penna di Fabio Bonifacci, che ha scritto la sceneggiatura. E ha centrato da subito il tono del film, di divertimento, dove
si rispettano le regole della commedia senza scadere mai nel grottesco
o nel farsesco. La chiave per trovare il tono giusto è stato il realismo
degli attori, che sono riusciti a condurre in porto una commedia innervandola di verità».
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