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Scuola di
PSICOLOGIA
Corso di Laurea in
Scienze e Tecniche Psicologiche
Indirizzo in
Psicologia dei Processi Cognitivi
MECCANISMI CEREBRALI INNATI DI
RAPPRESENTAZIONE DEGLI
ANIMATE LIVING E ATTEGGIAMENTO
INTENZIONALE DI D. C. DENNETT
UNA CONNESSIONE TRA NEUROSCIENZE E
FILOSOFIA DELLA MENTE
INNATE BRAIN MECHANISMS IN THE
REPRESENTATION OF ANIMATE
LIVING THINGS AND D. C. DENNETT'S
THEORY OF INTENTIONAL STANCE
A CONNECTION BETWEEN NEUROSCIENCE
AND PHILOSOPHY OF MIND
Relatore
Maria Pia Viggiano
Candidato
Gianluca Bartalucci
Anno Accademico 2013/2014
2
INDICE
CAPITOLO 0. Introduzione
3
CAPITOLO 1. La rappresentazione degli animate living
5
1.1 Alla base del concetto di categoria
5
1.2. Categorizzazione nella psicologia cognitiva: alcuni modelli
7
1.3. Nuovi modelli sulla conoscenza concettuale
10
1.4. Controversie sulla formazione delle categorie dei living
12
1.5. I living secondo l’ipotesi dominio-specifica
16
1.6. Gli animate living
19
CAPITOLO 2. L'atteggiamento intenzionale di Daniel C. Dennett
25
2.1. L'evoluzione paradossale dell'intenzionalità
25
2.2. L'atteggiamento intenzionale
28
2.2.1. Animali che leggono intenzioni
32
2.2.2. Antropomorfizzazioni
34
CAPITOLO 3. Animate living e atteggiamento intenzionale: un legame inevitabile? 36
3.1. L'anima dell'animale modello III
36
3.2. Sensing aliveness
39
3.3. Due sistemi interagenti
41
3.3.1. AL, ma non AI
41
3.3.2. AI, ma non AL
43
3.4. Intenzioni altrui nel nostro cervello
44
3.5. Trasformare il cosa in chi
46
3.6. Conclusioni
49
BIBLIOGRAFIA
52
3
0. Introduzione
Il grande astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan sostenne che l'uomo,
costruito con materiale di provenienza stellare, è un mezzo che il cosmo utilizza per conoscere
se stesso. La capacità di esplorare il mondo là fuori deriva dagli strumenti percettivi che
l'evoluzione darwiniana ci ha fornito in miliardi di anni, rendendoci macchine biologiche
estremamente sofisticate, adatte (grazie alla selezione naturale) ed adattabili (grazie alla
plasticità di un cervello che si modifica con l'esperienza) ai vari contesti ecologici in cui
dobbiamo muoverci. Tra tutte le entità che siamo in grado di conoscere ce ne sono alcune che
per il nostro cervello rappresentano qualcosa di davvero speciale: probabilmente ciò è dovuto
al fatto che tali entità, a cui peraltro siamo legati dalla storia filogenetica, ci assomigliano
terribilmente. Esse fuggono, mangiano, aggrediscono e probabilmente provano emozioni di un
certo tipo esattamente come noi. Esse hanno un'intenzionalità, una mente, talvolta persino una
coscienza. O qualcosa che ai nostri occhi gli si avvicina tantissimo.
Questo lavoro intende proporre alcune riflessioni, ispirate dal solido materiale messo a
disposizione dalla ricerca empirica, sul rapporto che viene ad instaurarsi tra la nostra capacità
di classificare e rappresentare a livello cerebrale tali entità senzienti – gli esseri viventi
animati, o animate living – e il tipo di approccio che adottiamo verso di esse nel momento in
cui dobbiamo iniziare un'interazione con loro.
Nel primo capitolo, che ha un'impostazione prettamente neuroscientifica, verranno
passati in rassegna diversi studi, anche piuttosto recenti, che corroborano l'idea secondo cui la
nostra capacità di rappresentazione speciale degli animate living è innata. Fin dai primi giorni
di vita il cervello di un bambino è secondo questa prospettiva capace di discriminare – o
capace di svilupparsi in tal senso – gli organismi viventi da tutti gli altri oggetti, nonché di
riconoscerli in maniera più rapida e precisa valutando caratteristiche come la forma e il
movimento. Queste scoperte sono state rese possibili dall'introduzione delle nuove
metodologie di scansione cerebrale, dall’utilizzo di tecniche elettrofisiologiche e dagli
importanti contributi forniti negli ultimi decenni dalla neuropsicologia, la quale ha evidenziato
l'esistenza di agnosie particolarmente selettive in soggetti reduci da traumi o affetti da
particolari patologie. Alcuni di questi deficit di rappresentazione riguardano proprio le
categorie dei living e degli animate living: la loro scoperta ha spinto diverse ricerche a testare
l'ipotesi che per tali tipi di stimoli esistano meccanismi neurali dedicati.
Nel secondo capitolo verrà introdotto invece il concetto di atteggiamento intenzionale.
4
Si tratta di un'intuizione di cui il filosofo Daniel Dennett si serve per organizzare le sue idee
sulla mente e sulla coscienza. Egli ipotizza che gli esseri umani siano dotati – anche qui, fin
dalla nascita – di processi cognitivi specifici per attribuire intenzionalità agli altri esseri
viventi – e non solo. Il concetto indirettamente rinvia a questioni di cui le neuroscienze si
occupano già da diversi anni, quali la scoperta e il funzionamento dei cosiddetti neuroni
specchio e i meccanismi metarappresentazionali (teoria della mente) che favorirebbero
l'interazione umana facendoci comprendere gli stati mentali altrui.
Che ci debba essere una necessaria interdipendenza tra i processi percettivi e
rappresentazionali che ci consentono di categorizzare automaticamente gli animate living e
quelli che ci permettono di adottare verso di essi l'atteggiamento intenzionale dennettiano è
un'ipotesi che future ricerche potranno indagare empiricamente. Il terzo capitolo prova a
discutere, in maniera esclusivamente speculativa, come modificherebbe la nostra visione del
mondo la negazione di tale interdipendenza. Si tenta qui di introdurre brevemente anche
alcune idee su possibili esperimenti che mirino ad individuare il funzionamento e i limiti di
questo duplice meccanismo. Ulteriori ricerche in questo campo, affascinante ma non semplice
da esplorare, potrebbero contribuire a far luce anche su problematiche di natura clinica e allo
stesso tempo portare elementi utili ad una discussione filosofica che si protrae da tempo
immemorabile.
5
1. La rappresentazione degli animate living
1.1 Alla base del concetto di categoria
Senza una minima ed embrionale capacità di categorizzazione non ci sarebbe la vita.
Se seguiamo l'intuizione di Dawkins (1976/1992) e pensiamo agli organismi viventi come a
macchine per la sopravvivenza dei geni, modellati dall'evoluzione per la miglior resa possibile
in termini di adattabilità all'ambiente e quindi di replicazione del proprio materiale genetico, si
può arrivare a sostenere la tesi provocatoria che i processi di categorizzazione – nelle loro
forme più rudimentali ed essenziali – siano sorti in concomitanza con l'origine della vita.
Possiamo infatti immaginare che gli estremamente semplici organismi che miliardi di anni fa
sono apparsi sulla Terra abbiano fin da subito avuto bisogno, per sopravvivere e per
riprodursi, di suddividere1 il mondo – per esempio – in materiale nutriente e materiale nocivo,
ma anche di discriminare tra compagni con cui riprodursi e nemici da combattere. Tale urgente
necessità di estrazione di significato dall'ambiente, con relativa assegnazione – ovviamente
inconsapevole – dei diversi stimoli ad un numero esiguo di classi, ha rivestito subito un ruolo
di essenziale importanza per gli esseri viventi che cominciavano ad esplorare il pianeta. La
macchina per la sopravvivenza che meglio riusciva nell'operazione aveva infatti un vantaggio
evolutivo nei confronti di quella che invece produceva più errori in fase di discernimento. I
meccanismi che meglio semplificavano la complessità dell'ambiente favorivano la diffusione
della vita. Possiamo supporre che l'incontro con una certa grossolana categoria di stimoli
presenti nel mondo esterno, raggruppati secondo caratteristiche simili, causasse negli
organismi reazioni determinate dalla qualità degli stimoli stessi. Gli oggetti buoni portavano
ad avvicinarsi, e più lo facevano più il vantaggio evolutivo era maggiore. Quelli cattivi
spingevano alla fuga. Due categorie, per quanto rozze e perfettibili, erano già state create.
L'uomo è una macchina per la sopravvivenza incredibilmente complessa. Rispetto ai
suddetti limitati organismi ha sviluppato sistemi di adattabilità all'ambiente di gran lunga più
1
Parlare di rappresentare o di concettualizzare significherebbe attribuire una mente a questi organismi
primitivi (si prenda ad esempio un organismo unicellulare), cosa che suona certamente assai stonata. Come
può un'ameba farsi una rappresentazione mentale? Dove si trova la mente in un'ameba? Per quanto l'idea
possa apparire in un primo tempo assurda, la questione è invece aperta e discussa, almeno a livello
filosofico. Ce lo ricorda tra gli altri Sacks (2014). Tracce, o isomorfismi (Hofstadter, 1979/1984), che
corrispondono agli stati del mondo devono in qualche modo trovarsi anche all'interno di questi organismi
semplici, in modo da guidarne il comportamento – le reazioni – nella maniera più adeguata.
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sofisticati. E un numero di categorie assai più ampio, ordinate in strutture gerarchiche, che
svolgono anche funzioni sociali. Eppure il legame filogenetico con essi rimane innegabile e a
livelli di astrazione sufficientemente elevati si può comprendere come la categorizzazione
degli stimoli, oggi considerata – giustamente – un processo cognitivo di alto livello, abbia
radici collocabili in epoche remote: a ben vedere si tratta pur sempre di dare, oggi come allora,
un'organizzazione il più funzionale possibile alle tracce che l'ambiente lascia dentro di noi
attraverso i sensi. Detto questo, non c'è bisogno di sottolineare ancora una volta quanto la
notevole capacità di creare categorie dentro le quali rubricare gli elementi del reale, nonché
l'abilità nel costruire simboli mentali che stanno per gli oggetti del mondo, siano nell'uomo
assai più articolate e probabilmente in correlazione sia con lo sviluppo filogenetico che con
quello ontogenetico dei processi di coscienza2.
Ma cosa si intende esattamente per categorizzazione? In cosa consiste questa capacità
che nell'uomo è diventata tanto raffinata? Le definizioni e le risposte possono essere
molteplici e variare a seconda del punto di vista che si è adottato. Scegliendo un approccio più
filosofico non si può non citare seppur brevemente ciò che sull'argomento hanno proposto
Aristotele e Kant. Se per il primo le categorie erano gruppi che raccoglievano le qualità
oggettive che si possono predicare di un oggetto, per il secondo – in linea con quella che egli
stesso descrisse come una nuova rivoluzione copernicana nell'ambito della teoria della
conoscenza – le griglie categoriali che l'uomo applica ai fenomeni si trovano all'interno
dell'intelletto dell'uomo stesso e hanno caratteristiche soggettive. Le categorie kantiane sono
dunque degli schemi precostituiti, dei filtri che l'essere umano possiede e che utilizza nel suo
incessante lavoro di percezione e organizzazione dell'universo3. In linea con quanto suggerito
da Kant possiamo intendere la categorizzazione come un processo attivo che gli esseri umani
compiono per semplificare la realtà, raggruppando in classi stimoli in qualche modo
assimilabili, senza però lasciarsi sfuggire il significato e l'essenza di ciò che percepiscono
(Hofstadter 2007/2008). In tal senso le categorie sono un'astrazione e un reticolo di cui ci
serviamo per mettere in risalto analogie e differenze della porzione di mondo che ci interessa
e che stiamo esplorando (Mantovani 2005), una sorta di collante mentale che fonde le
2
3
Secondo Hofstadter (2007/2008), per il quale sé ha lo stesso significato di coscienza, “quanto più ricco ed
efficiente sarà l'apparato che consente di categorizzare, tanto più ricco e sviluppato sarà il suo sé. Viceversa,
quanto più povero sarà il repertorio di categorie di un organismo, tanto più esile sarà il suo sé, fino al punto
di scomparire del tutto”.
Il pensiero di Kant è in realtà – ovviamente – più complesso e la sua analisi va oltre gli obiettivi di questo
lavoro: per esempio egli differenzia tra concetti puri e concetti empirici, una distinzione che nell'ambito della
psicologia potrebbe ricordare a grandi linee quella tra meccanismi geneticamente predeterminati e funzioni
sviluppate in rapporto con l'ambiente. Su possibili parallelismi tra le idee del filosofo tedesco e le
neuroscienze si veda Vallortigara (2014).
7
esperienze passate con l’attuale interazione con l’ambiente. Per dirla in altro modo,
spostandoci un po' di più verso il punto di vista della psicologia cognitiva e delle
neuroscienze, l'attività di categorizzazione è il sistema usato dal nostro cervello per sezionare
il continuum dei fenomeni – di tutte le entità che siamo in grado di percepire – in gruppi
discreti secondo un set di regole che gli studiosi stanno cercando di inquadrare già da alcuni
decenni all'interno di un dibattito tutt'ora aperto. Come risultato finale di tale processo
cognitivo abbiamo le categorie, la cui creazione comporta che la percezione di un elemento
appartenente ad una certa classe provochi all'interno del cervello di chi percepisce una risposta
che sarà simile per ogni altro elemento appartenente alla medesima classe. Cane, gatto e
giraffa, secondo questa ipotesi, faranno lampeggiare in una certa area o in un certo circuito
cerebrale lo stesso simbolo – lo stesso pattern di attivazione di neuroni – che grossomodo
dovrebbe corrispondere al concetto di animale.
Quella di formare categorie e concetti, unità elementari del pensiero, è dunque una
capacità che nell'uomo si è affinata nel tempo, probabilmente in coevoluzione con lo sviluppo
della corteccia cerebrale e con la maturazione del sistema di autocoscienza: si tratta di
processi che – almeno in alcuni casi – paiono piuttosto plastici e che ci permettono di estrarre
sufficiente informazione dal mondo circostante, processi che sono alla base di funzioni umane
complesse come quelle della socializzazione e dell'apprendimento.
1.2. Categorizzazione nella psicologia cognitiva: alcuni modelli
Nell'ambito degli studi cognitivi un lavoro pioneristico sulla categorizzazione e sulla
formazione dei concetti è A study of thinking di Bruner, Goodnow e Austin (Benjafield
1992/1995), che si sofferma in particolar modo sulla relazione tra gli attributi e le categorie, e
sulle caratteristiche che i primi devono avere nella definizione delle seconde. Bruner et al.
affrontano il problema attraverso alcuni esperimenti condotti in laboratorio, i quali mostrano
come nella formazione dei concetti a partire da attributi più o meno rilevanti i soggetti
sperimentali utilizzino strategie diverse (approcci olistici ma anche di natura induttiva) e un
certo numero di regole logiche quali la disgiunzione, la congiunzione e la relazione. Questi
studi sono stati successivamente criticati per la scarsa validità ecologica (Benjafield
1992/1995).
Notevole è stato l'impatto provocato dagli studi della Rosch negli anni '70. Il suo
8
modello, noto come teoria dei prototipi ed elaborato a partire da studi sulla percezione e sulla
rappresentazione dei colori (Rosch 1973), si basava su due principi fondamentali: quello
dell'economia cognitiva e quello della struttura del mondo percepito. Secondo il primo
principio il processo di categorizzazione deve mediare tra due tendenze contrastanti, cercando
un compromesso tra esigenze di conoscenza e sforzo cognitivo. Da una parte saremmo portati
a creare un numero potenzialmente infinito (e quindi inutile) di categorie – in teoria tante
quanti sono i fenomeni del mondo –, con nessuna perdita di informazione ma con costi
cognitivi altissimi. Dall'altra avverrebbe invece l'opposto, con l'utilizzo parsimonioso di un
numero troppo esiguo di classi: la conseguenza sarebbe l'eccessiva perdita di informazione
riguardante ogni singolo evento. Il secondo principio introdotto dalla Rosch è quello della
struttura del mondo percepito, che prevede che al momento della formazione delle categorie
si tenga conto del fatto che alcune combinazioni di attributi tendono a presentarsi assieme più
spesso di altre (Rosch 1978). In tal senso, un'analisi probabilistica inconscia favorirebbe la
creazione di alcune categorie piuttosto che di altre.
Un elemento decisivo del modello emerso dagli studi della Rosch è l'idea secondo cui
la categorizzazione avviene su due dimensioni, una verticale e una orizzontale. La prima
riguarda in particolare l'estensione di una certa categoria e fa riferimento di solito a tre livelli:
un livello sovraordinato, più esteso e più astratto (ad esempio, strumento musicale), uno di
base (chitarra) e uno subordinato (chitarra elettrica)4. Si sottolinea l'importanza del livello
base – i bambini sanno usare meglio parole come chitarra rispetto a strumento musicale e a
chitarra elettrica –, generalmente il più utilizzato, che rappresenta una sorta di compromesso
tra la grande e poco maneggiabile estensione dei livelli sovraordinati e l'eccessiva specificità
di quelli subordinati. La funzione della dimensione orizzontale è invece quella di individuare,
all'interno di ciascun livello di ogni categoria, quegli elementi che sono più tipici di altri.
Questi esemplari sono detti prototipi e condividono molti attributi con i membri della stessa
categoria e pochi – il meno possibile – con i membri di altre categorie (Rosch 1978). Un
studio ha mostrato che, per la categoria sovraordinata veicolo, automobile è forse non a
sorpresa di gran lunga più rappresentativo (prototipico) di skate-board (Rosch, 1975, citato da
Benjafield, 1992/1995, p. 93).
Altre teorie meritevoli di una citazione sono quella delle categorie ad hoc di Barsalou,
che prevede che le categorie abbiano una struttura sfuocata e che possano essere create in
4
Si può immaginare che il processo di categorizzazione possa scendere anche sotto il livello subordinato
(chitarra elettrica), riferendosi a oggetti con ancora minore estensione (chitarra elettrica Fender, la mia
chitarra elettrica etc.).
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risposta a situazioni specifiche, arrivando a contenere anche elementi che non hanno nessun
attributo in comune, e quella dei modelli cognitivi idealizzati di Lakoff. Questo modello
sottolinea come nella creazione delle categorie l'esperienza svolga un ruolo fondamentale:
tutti gli uomini nascono forniti di modelli cognitivi idealizzati, astratti e generali, che si
modificano e si adattano alle circostanze specifiche – storiche, culturali, personali – che i
soggetti sperimentano5. Il risultato di tale adattamento sono sistemi concettuali e categorie che
possono variare anche in maniera significativa da un soggetto all'altro e, soprattutto, da una
cultura all'altra (Benjafield 1992/1995).
Questi modelli – di cui abbiamo presentato solo una breve rassegna – sono stati
sviluppati a partire da studi di tipo quasi esclusivamente comportamentale e non tengono
conto – anche per ovvi motivi storici – di tutto ciò che succede nel sottosuolo, laddove i
processi cognitivi prendono vita: ci riferiamo qui alle basi neurali e alle caratteristiche
fisiologiche del cervello. Un contributo decisivo ad una comprensione più profonda dei
processi di categorizzazione giunge negli anni '80 dalle intuizioni della neuropsicologia e
dallo studio delle agnosie, la cui sorprendente logica apre scenari completamente nuovi
sull'individuazione del ruolo delle varie aree cerebrali e falsifica molte delle teorie fino a quel
tempo ritenute valide. Si impone così la formulazione e l'adozione di modelli che non possano
non tenere conto delle nuove scoperte nonché dell'introduzione di nuovi rivoluzionari metodi
d'indagine. Col perfezionamento delle tecniche di neuroimaging, che si vanno ad affiancare a
quelle fisiologiche e comportamentali e che permettono di osservare in vivo ciò che succede
all'interno del cervello di un soggetto umano che sta portando avanti un determinato compito,
si può avere così una visione più chiara di come ad un certo comportamento corrisponda
l'attivazione di una determinata regione cerebrale. Le neuroscienze cognitive, che vedono
l'utilizzo da parte della psicologia cognitiva di metodi nuovi e spesso non invasivi 6,
cominciano a muovere i primi passi verso la fine degli anni '70 (Gazzaniga, Ivry & Mangun
2002/2005). Inquadrando il rapporto mente/cervello sotto un altro punto di vista, più ampio e
informato, esse rappresentano oggi lo strumento d'indagine privilegiato per la comprensione
di processi di alto livello come, tra gli altri, quelli che riguardano la categorizzazione. I
concetti, si sottolinea con sempre maggior enfasi, sono necessariamente il risultato del
5
6
Il funzionamento dei modelli cognitivi idealizzati può ricordare a larghi tratti quello della conoscenza
linguistica innata di Chomsky.
Quello delle neuroscienze cognitive è un approccio estremamente multidisciplinare: oltre a comprendere – e
a verificare – i classici modelli della psicologia cognitiva, elementi utili allo sviluppo della disciplina
arrivano anche dalla neuropsicologia, dalle scienze cognitive e dagli studi sull'intelligenza artificiale, dalla
psicologia sperimentale, dalla neurofisiologia, ma anche – se vogliamo – dalla psicopatologia, dall'etologia,
dalla biologia evoluzionistica, dall'antropologia e dalla filosofia della mente.
10
reclutamento e dell'attivazione di un certo numero di neuroni all'interno del cervello.
1.3. Nuovi modelli sulla conoscenza concettuale
Il modello proposto dalla Rosch, per anni tra i più influenti, viene superato nel
momento in cui si scopre che ci sono persone che presentano dei deficit specifici nella
rappresentazione di particolari stimoli. Quel principio secondo cui il nostro sistema di
organizzazione della conoscenza opera soprattutto su una dimensione verticale, trattando tutti
gli stimoli in maniera uniforme, viene meno quando ci si trova a dover spiegare tipi di agnosie
insospettabilmente selettive, che riguardano alcune categorie e sottocategorie di fenomeni ma
non altre, e fa luce su un fatto che pare sempre più incontrovertibile: per il cervello gli stimoli
non sono tutti uguali. Molti di essi vengono infatti processati in maniera differente, in aree
cerebrali specifiche e con tempistiche diverse.
La letteratura sui tipi di deficit selettivi che sono stati osservati (soprattutto) a partire
dagli anni '80, in quella che Martin e Caramazza (2003) definiscono l'era moderna degli studi
sulla rappresentazione concettuale degli oggetti, è pressoché sterminata. Tra i lavori più
meritevoli di citazione ci sono senza dubbio quelli della Warrington e dei suoi colleghi, i quali
si soffermano in particolar modo sulla relazione tra le lesioni subite dai soggetti e l'incapacità
da essi mostrata nella rappresentazione di determinate classi – e sottoclassi – di stimoli. Uno
studio (Warrington & Shallice 1984) riporta come 4 soggetti ricoverati per encefalite da
herpes simplex avessero mostrato dei problemi nel riconoscimento di alcune categorie di
stimoli visivi, mentre la concettualizzazione di altre classi era rimasta intatta. In particolare si
era notata in tutti i soggetti un'improvvisa dissociazione tra il riconoscimento degli oggetti
inanimati (nonliving) da una parte e gli organismi (living) – e il cibo – dall'altra. Ciò significa
evidentemente che gli stimoli erano analizzati da due sistemi (o circuiti) esperti. Uno dei
pazienti aveva inoltre mostrato alcune difficoltà nella comprensione della parole concrete,
mentre non aveva alcun problema con quelle più astratte. Un'altra ricerca (McCarthy &
Warrington 1986) mostra invece come un soggetto senza altre apparenti disfunzioni trovasse
difficoltoso riconoscere anche gli oggetti più comuni: anomalie riscontrate con l'utilizzo della
risonanza magnetica (MRI) in alcune aree dell'emisfero di sinistra rafforzarono l'ipotesi di un
processamento unilaterale del cervello per alcuni tipi di stimoli, in particolar modo gli
strumenti (tool) (Warrington & McCarthy 1983). Evidenze sul ruolo dell'emisfero sinistro – in
11
soggetti destrimani – nella rappresentazione dei tool sono arrivate anche più recentemente da
un gran numero di ricerche che hanno sfruttato le potenzialità delle tecniche di neuroimaging,
caratterizzate da risoluzioni spaziali e temporali sempre più alte 7 (Johnson-Frey 2004; Frey
2008).
Negli anni emerge inoltre come le lesioni possano danneggiare selettivamente i sistemi
che rappresentano e riconoscono i verbi ma non i sostantivi (McCarthy & Warrington 1985), i
nomi delle persone ma non i nomi degli oggetti (Miceli, Capasso, Daniele, Esposito,
Magarelli & Tomaiuolo 2000) e le facce delle persone ma non altri tipi di stimoli8, come
succede nei soggetti affetti da prosopagnosia, anche se la più evidente dissociazione emersa
dagli studi della Warrington e colleghi rimane quella tra living, e cioè organismi biologici, e
nonliving (Mahon & Caramazza 2007). Tutto ciò sta a significare che la costruzione delle
categorie è un fenomeno estremamente complesso che si appoggia ad un molteplicità di
sistemi dedicati, correlati a strutture neurali che possono esser lesionate e/o non funzionanti,
in grado di processare gli attributi degli stimoli in una maniera così dettagliata che fino a
qualche decennio fa era ritenuta impensabile.
Attualmente è in corso un dibattito sul modo in cui i sistemi funzionali che permettono
la rappresentazione delle categorie si formino effettivamente nel cervello. I modelli presentati
sono molteplici ma il dibattito è – in linea con la tradizione degli studi psicologici – ancora
una volta riconducibile all’eterna dicotomia tra natura e ambiente o, più nello specifico, tra
determinismo genetico ed esperienza. Da una parte troviamo studiosi che sostengono
l'esistenza innata di specifici meccanismi e di strutture che ci permettono fin dalla nascita di
categorizzare il mondo in una maniera ben determinata. I meccanismi sarebbero adattativi in
quanto selezionati nel corso del processo evolutivo. Dall'altra si trovano invece coloro i quali
vedono nel ruolo dell'apprendimento un fattore decisivo e che portano avanti l'idea che la
costruzione delle categorie sia una diretta conseguenza della maniera in cui continuamente
esperiamo il mondo. In questo caso l'utilizzo che facciamo degli oggetti dell'ambiente tende a
determinare quindi la modalità con cui li rappresentiamo a livello di strutture neurali.
7
8
Addirittura il solo suono dei tool attiva maggiormente l'emisfero sinistro che il destro, nei soggetti
destrimani. In quelli mancini avviene il contrario (Lewis, Phinney, Brefczynski-Lewis & DeYoe 2006).
Posso non riconoscere il volto di una persona che incontro tutti i giorni ma non confondere assolutamente i
musi delle pecore del mio allevamento (McNeil & Warrington 1993).
12
1.4. Controversie sulla formazione delle categorie dei living
Il dibattito è acceso soprattutto per quanto riguarda la percezione, la rappresentazione e
la categorizzazione dei living. Come si comporta il cervello quando deve estrarre significato
da percetti che altro non sono che esseri viventi? Quali sono le basi neurali della
rappresentazione dei living e, forse ancora più importante, come si sono venute a costituire?
Sono esse hardwired, inscritte fin dalla nascita dentro di noi, o sono invece totalmente
dipendenti dall'esperienza? Percepiamo gli animali in un certo modo perché nasciamo esperti
– in quanto risultato di miliardi di anni d'evoluzione – o il nostro modo di rappresentarli è
determinato dalle contingenza, dall'apprendimento, dalle situazioni particolari della nostra
personale esistenza?9
Innanzitutto, diverse ricerche anche piuttosto recenti confermano che i living sono
stimoli speciali, elaborati in maniera diversa dagli altri all'interno del cervello, sia per quanto
riguarda le basi neurali implicate sia per i tempi di processamento 10. Nel 2003 esistevano più
di 100 studi su pazienti che avevano riportato deficit specifici per le categorie biologiche
(living, specialmente animali a quattro zampe) e non per gli oggetti inanimati, e più di 25 casi
di soggetti che avevano manifestato difficoltà opposte (Martin & Caramazza 2003).
Gli studi hanno utilizzato differenti metodi per suffragare l'ipotesi della doppia
dissociazione. A livello anatomico si è per esempio osservato che disturbando tramite
stimolazione magnetica transcranica (TMS) la regione cerebrale che si trova in prossimità
dell'area di Wernicke, nell'emisfero sinistro, soggetti sani effettuano con significativo ritardo
operazioni di matching disegno-parola quando gli stimoli riguardano gli artefatti ma non gli
animali o altri elementi della (cosiddetta) natura, rivelando così l'esistenza di una
dissociazione e di strutture o processi dedicati ai due differenti domini semantici. L'utilizzo
dei potenziali evento-correlati (ERP) ha inoltre evidenziato come i living elicitino una P300 (o
LPT, late positivity complex) più grande, in special modo nell'area centro-parietale di destra,
di quella correlata alla rappresentazione degli oggetti (Fuggetta, Rizzo, Pobric, Lavidor &
Walsh 2009). Altre differenze che riguardano le regioni implicate nell'elaborazione dei due
stimoli vengono evidenziate da diversi studi che sottolineano ancora una volta come – almeno
9
10
Si può mettere in un altro modo ancora: nel rappresentare mentalmente gli altri organismi viventi conta di
più l'esperienza che la vita sul pianeta ha fatto in miliardi di anni, modellando sensi e strutture cerebrali in un
certo modo per fini pratici quali la sopravvivenza e la riproduzione, o l'esperienza soggettiva di ogni singolo
essere umano – di ogni singolo cervello – in ogni singola esistenza?
Anche se non mancano studi che vanno nella direzione opposta e che citano casi di agnosie che vanno al di
là della dicotomia living/non living (Siri, Kensinger, Cappa, Hood & Corkin 2003).
13
nei soggetti destrimani – l'emisfero sinistro sia, per quanto riguarda i tool, il centro di
processamento principale, mentre la rappresentazione dei living non presenterebbe invece
alcuna differenza significativa tra i due lobi cerebrali (Pilgrim, Moss & Tyler 2005; Giussani
et al. 2011). L'esistenza di aree maggiormente dedicate all'elaborazione della categoria dei
living è stata ipotizzata dopo aver osservato pazienti ai primi stadi della demenza da
Alzheimer, condizione nella quale le strutture temporo-limbiche di entrambi gli emisferi
vengono progressivamente danneggiate: il deterioramento organico correlerebbe con un
deficit nella rappresentazione e nella memorizzazione degli organismi viventi, ma non di altri
tipi di stimoli. Dal momento che anche soggetti che hanno sofferto di encefalite da herpes
simplex presentano lesioni alle medesime aree temporo-limbiche e, spesso, deficit specifici
nella rappresentazione degli organismi viventi, si tende a pensare che queste regioni svolgano
un ruolo decisivo nel processamento di tale categoria di stimoli (Silveri, Daniele, Giustolisi &
Gainotti 1991). Altri studi longitudinali su soggetti che si stanno ammalando di Alzheimer
confermano la correlazione tra il danno cerebrale specifico e il peggioramento più rapido dei
concetti living (Garrard, Lambon Ralph, Watson, Powis, Patterson & Hodges 2001).
Nonostante l'enorme mole di studi anche talvolta divergenti, quel che appare sempre più
chiaro è che ad una difficoltà nella rappresentazione degli organismi viventi corrisponda nella
maggior parte dei casi una lesione bilaterale di determinate aree del lobo temporale, laddove
arriva la cosiddetta via del cosa (o anche via ventrale) del sistema visivo11 (Gainotti 2013).
La letteratura sui tempi di percezione e successiva concettualizzazione degli stimoli in
relazione alle differenti categorie è meno vasta rispetto a quella che, tramite studi di
neuroimaging, cerca di individuare le regioni cerebrali coinvolte nella rappresentazione delle
categorie stesse. Eppure, anche per quanto riguarda i tempi di elaborazione, i living paiono
godere di un trattamento esclusivo, dal momento che sarebbero rappresentati nel cervello in
maniera più rapida rispetto ai nonliving. Come se ci fosse l’urgenza di riconoscerli e farsi un
modello mentale di essi il più velocemente possibile. In tal senso arrivano conferme da
osservazioni effettuate utilizzando gli ERP ma anche dalla misurazione dei tempi di reazione
(RT) in esperimenti comportamentali di riconoscimento immagini, nei quali si evidenzia che
gli organismi viventi presentati nelle varie figure necessitano mediamente di minor
informazione per essere riconosciuti – sempre rispetto agli oggetti inanimati. La misurazione
dei RT di 18 soggetti destrimani che dovevano catalogare immagini di animali e di oggetti ha
11
La via del cosa parte dalla corteccia visiva primaria (V1) e si dirige verso la corteccia temporale inferiore ed
è coinvolta – come dice il nome – nel riconoscimento degli oggetti. L'altro output di V1 è la via del dove (o
via dorsale), fascicolo di fibre specializzato nella detezione della posizione degli stimoli e sensibile alle
basse frequenze che si connette alle regioni della corteccia parietale posteriore (Gazzaniga 2002/2005).
14
mostrato come, in fase di riconoscimento, ci fosse una differenza di circa 50 ms a favore dei
living, processati più velocemente – e in maniera più accurata – rispetto ai nonliving.
All'interno del medesimo studio si è inoltre osservato, sfruttando la tecnica ERP, che tra i 120
e 180 ms la corteccia occipito-temporale (via del cosa) di destra si attivava con maggiore
intensità per gli animali piuttosto che per gli oggetti inanimati. Questi ultimi vedevano invece
una maggiore attivazione nelle regioni frontali/centrali tra i 130 e i 160 ms (Proverbio, Del
Zotto & Zani 2007), in linea con altre osservazioni topologiche anche citate in precedenza. La
maggiore velocità nell'elaborazione degli stimoli living rispetto a quelli nonliving è stata
osservata, sempre tramite ERP, anche da Large, Kiss e McMullen (2004).
Se sugli aspetti neuroanatomici e legati ai tempi di elaborazione dei living sembra
esserci dunque generale consenso – ma si attendono ulteriori conferme in tal senso –, il
dibattito attualmente ruota attorno, come anticipato in precedenza, al modo in cui il cervello
umano crea tale specifica categoria di stimoli. Le spiegazioni e i modelli presentati dalla
letteratura sono molteplici e spesso non autoescludentisi. Eppure la discussione viene portata
avanti soprattutto da ricercatori che credono che le categorie siano costruite in fase di
apprendimento, cioè dalla modalità in cui il soggetto si relaziona con i differenti stimoli, e,
dall'altra parte, dagli studiosi che sostengono l'esistenza innata di meccanismi e percorsi
neurali specifici. Le contrapposte posizioni sono sostenute e riassunte principalmente da due
modelli ben distinti. La teoria sensoriale-funzionale (sensory-functional theory) sottolinea
l'importanza degli aspetti legati all'apprendimento e all’ambiente. L'ipotesi dominio-specifica
(domain-specific hypotesis) riconosce invece gli aspetti geneticamente determinati come
fondamentali (Gainotti 2013).
La teoria sensoriale-funzionale si appoggia ad un principio generale chiamato
differential weighting hypothesis secondo il quale la costruzione dei concetti si basa
principalmente12 sulla convergenza in specifiche regioni cerebrali di informazioni motorie e
percettive messe a disposizione dall'esperienza, nonché sul diverso peso che le varie fonti
delle informazioni stesse vengono ad assumere di volta in volta per ogni specifica categoria
(Gainotti 2013). Tutto ciò implica che la dissociazione tra living e nonliving riscontrata in
alcuni pazienti sia causata dalla differenza con cui i soggetti fanno ed hanno fatto esperienza
degli stimoli appartenenti alle due categorie (Ventura, Morais, Brito-Mendes & Kolinsky
2005). Secondo quest'ottima i tool vengono rappresentati nel cervello in funzione del loro uso,
12
Ma non esclusivamente: che i programmi motori determinino da soli la rappresentazione degli strumenti è
infatti il principio su cui si fonda la cosiddetta ipotesi della conoscenza incorporata. Questa relazione
necessaria tra schemi d'azione e rappresentazione dei tool è generalmente non più accettata.
15
del loro essere manipolabili, afferrabili e modificabili, in contrasto col pregiudizio filosofico
secondo cui tutti i concetti, anche quelli che riguardano le azioni o l'utilizzo degli strumenti,
sono simbolici e astratti e quindi processati in regioni corticali diverse da quelle sensomotorie. La teoria sensoriale-funzionale sostiene che gli aspetti funzionali dello stimolo-tool
vanno a rivestire un ruolo di primo piano nel processo di rappresentazione e hanno un peso
maggiore rispetto ad altre caratteristiche di tipo visuo-percettivo. È oggettivamente emerso
che il cervello rappresenta gli artefatti, sia che siano percepiti tramite il sistema visivo sia che
per esempio siano uditi, in regioni corticali implicate nel controllo motorio e premotorio di
alto livello – connesse all'uso dell'oggetto – nell'emisfero controlaterale rispetto alla mano
dominante: ciò smentirebbe l'implicazione di matrice innatista secondo cui i tool sono sempre
rappresentati nel lobo parietale di sinistra, ipsilateralmente rispetto alle aree del linguaggio
(Gainotti 2013; Gallese & Lakoff 2005; Beauchamp & Martin 2007). Conferme indirette su
tale modello arrivano da quegli studi che osservano come, quando le aree che si occupano di
funzioni relative alla presa e all'uso degli oggetti sono danneggiate, come nei soggetti affetti
da aprassia, si abbia un deficit selettivo nella rappresentazione di quei particolari artefatti
(Buxbaum & Saffran 2002).
Questo modello prevede, coerentemente con quanto visto per i tool, che gli organismi
viventi siano invece rappresentati principalmente utilizzando elementi di tipo visuo-percettivo.
Le informazioni che provengono dalla vista – ma anche dall'udito – hanno nella creazione di
tali categorie semantiche un peso più rilevante, sono più importanti rispetto ad altri tipi di dati.
Non è un caso che, come abbiamo visto, gli studi di neuroimaging abbiano evidenziato come
nell’elaborazione dei living sia implicata l'attivazione di aree occipito-temporali, attraversate
dalla via del cosa e dedicate all'analisi di particolari pattern visivi. Il modello suggerisce che
quando vediamo un animale il nostro cervello processa l’informazione come se fosse
prettamente visiva – o comunque percettiva – ed attiva le relative aree di elaborazione, mentre
rimangono – è intuitivo – silenti le regioni implicate nel controllo senso-motorio e nella
manipolazione, proprio perché la nostra esperienza ha plasmato nel tempo i meccanismi
cerebrali in un certo modo, fissando (neuralmente) le modalità con cui ci relazioniamo di volta
in volta con i differenti stimoli.
In sostanza ciò che sostiene la teoria sensoriale-funzionale è che se il senso con cui
solitamente esperiamo l’animale è la vista – e di solito lo è, e si associa ad altri attributi
percettivi come l’udito e l’olfatto –, allora l’animale verrà trattato come un oggetto
(principalmente) visivo e rappresentato in centri di elaborazione dedicati. E’ dunque il modo
16
con cui ci relazioniamo con i diversi stimoli, e l’eventuale uso che ne facciamo, a dare vita
alle differenti categorie (Gainotti, Ciaraffa, Silveri & Marra 2009).
1.5. I living secondo l’ipotesi dominio-specifica
L'altra teoria moderna che nell'ambito delle neuroscienze cerca di spiegare come si
formino le categorie nel cervello umano è chiamata ipotesi dominio-specifica13 ed è stata
divulgata principalmente da Caramazza e colleghi14. Si fonda sull'assunto che un dato
processo cognitivo è dominio-specifico se la sua estensione è delimitata dall'appartenenza
dell'oggetto che sta processando ad una certa classe semantica (Caramazza & Mahon 2006).
Come accennato, il modello è di chiara matrice evoluzionistica ed innatista. Presuppone che
nella fase di categorizzazione la parte svolta dall'esperienza sia limitata – ma non del tutto
assente, dal momento che schemi motori e manipolazione sono ancora importanti per la
rappresentazione degli strumenti15 – e affida un ruolo fondamentale a strutture e processi che
sono iscritti nel cervello fin dalla nascita come risultato fenotipico di miliardi di anni di
selezione naturale. Un fenomeno, quello dei circuiti neurali geneticamente predeterminati, più
volte osservato all'interno del mondo animale (Caramazza & Mahon 2006). Se ne deduce che
le modalità con cui arriviamo a produrre i concetti sono plasmate e indirizzate dalla storia
filogenetica dell'uomo e dei suoi antenati e rappresentano in ultima analisi il sistema più
efficace per ottenere una migliore fitness, ossia una vita più lunga, ossia un più alto numero di
discendenti.
La dissociazione tra living e nonliving, con i correlati e differenti pattern di
connettività, secondo questo modello è dunque presente fin dalla nascita e non è una semplice
risposta adattiva agli stimoli ambientali di cui l'individuo fa esperienza durante la propria vita.
Una conferma in tal senso arriva dagli studi di neuroimaging effettuati su pazienti nati ciechi,
che chiariscono come questi ultimi presentino strutture e processi simili ai soggetti sani
13
14
15
Una variante del modello è conosciuta come ipotesi dei domini specifici distribuiti (distribuited domainspecific hypothesis) e sottolinea con ancora maggior vigore che non ci si riferisce solo a statiche strutture
neurali, ma a veri e propri pattern di connessione che coinvolgono anche regioni distanti del cervello e che
analizzano solo determinati tipi di informazione (Mahon & Caramazza 2009).
La teoria è – innegabilmente – influenzata dalle idee sulla modularità della mente di Fodor e dalla teoria
sull’apprendimento del linguaggio di Chomsky.
Se si assume che la conoscenza concettuale degli strumenti sia soggetta ai principi dell’ipotesi dominiospecifica, allora ci si deve aspettare che ci siano strutture specifiche che codificano i movimenti associati
all’utilizzo degli strumenti stessi, e quindi un’attivazione della corteccia premotoria di sinistra – nei soggetti
destrimani (Mahon & Caramazza 2007).
17
quando devono pensare agli organismi viventi o agli artefatti (Mahon, Anzellotti,
Schwarzbach, Zampini & Caramazza 2009). Si osserva, in altro ambito, il medesimo
fenomeno quando soggetti congenitamente ciechi attivano nella rappresentazione delle parole
scritte in Braille le stesse aree che i vedenti attivano quando leggono (Büchel, Price & Friston
1998). Se i pazienti non vedenti non hanno bisogno dell'esperienza visiva per organizzare le
strutture implicate nella categorizzazione degli stimoli, e se tale organizzazione è pressoché la
stessa dei pazienti sani, significa che tali strutture e tale organizzazione sono presenti nel loro
cervello fin dalla nascita. Detto altrimenti, se l'esperienza fornita dalla visione non è
necessaria perché (soprattutto) nelle aree attraversate dalla via del cosa emergano stazioni
modulari di processamento dedicate ad una specifica categoria, ci deve essere un'innata
connettività tra queste regioni e altre aree neurali che conduce a tale specificità (Gainotti
2013).
Il modello proposto prevede dunque che i sistemi specifici di conoscenza siano per lo
più innati. Se ne può dedurre che, se tali sistemi non sono presenti al momento della nascita e
se – come previsto da tale approccio – il fattore esperienza incide in maniera marginale, allora
il recupero della funzione che dovrebbe essere svolta da quel sistema assente o danneggiato
sarà molto problematico se non addirittura nullo. Ed infatti le cose sembrano andare in questa
maniera. Uno studio di Farah e Rabinowitz (2003) prende in esame la rara condizione del
paziente Adam, il quale presenta una lesione bilaterale delle aree occipito-temporali già nei
primissimi giorni di vita. A 16 anni di età, Adam mostra un grave deficit di memoria
semantica relativa ai living, sia che gli stimoli sia presentati in formato immagine che in
formato parola, mentre il processamento dei nonliving rimane invece normale. È evidente che
il danno cerebrale subito da Adam alla nascita ha reso difficoltoso l'apprendimento di certi tipi
di concetti ma non di altri: generalizzando si può concludere che, prima ancora di fare
qualsiasi esperienza riguardo ai concetti di living e nonliving, il cervello umano è plasmato in
maniera tale da rappresentare le due categorie tramite due distinti substrati neurali16. L'ipotesi
innatista sarebbe così confermata.
L’analisi delle evidenze empiriche effettuata da Mahon e Caramazza (2007) corrobora
inoltre l’idea, punto fermo di questo tipo di approccio, che la conoscenza concettuale sia
organizzata in domini specifici, ognuno dei quali dedicato a particolari stimoli – o ad attributi
di stimoli. Che ci sia una correlazione tra il contenuto di una certa rappresentazione semantica
e l’attivazione di una determinata area neurale è un fatto sul quale convergono anche gli
16
E il genoma umano contiene, dunque, istruzioni specifiche riguardo alla localizzazione anatomica della
conoscenza per i living.
18
studiosi sostenitori della teoria sensoriale-funzionale, e d’altra parte numerose ricerche
fondate su osservazioni fRMI hanno più volte evidenziato una certa segregazione causata
dalle diverse categorie semantiche nella corteccia temporale inferiore e laterale. La differenza
tra le due posizioni teoriche verte, come detto, sul come viene a formarsi tale organizzazione
di informazioni.
Almeno tre fatti sembrano smentire la validità del modello sensoriale-funzionale 17, che
ruota attorno all’importanza della modalità, per abbracciare quello di Caramazza e colleghi,
più centrato sul concetto di dominio. Il primo è legato all'osservazione che esistono pazienti
che mostrano deficit a grana più fine della semplice distinzione living/nonliving. Si tratta di
soggetti che per esempio non hanno problemi nel riconoscimento degli animali (animate
living) ma che mostrano deficit significativi nella rappresentazione dei frutti (inanimate
living)18. O viceversa. Questa doppia dissociazione mette in dubbio l'esistenza di un unico
sistema visuo-percettivo, che era predetto dalla teoria sensoriale-funzionale: se tale sistema
fosse danneggiato, infatti, il deficit per i concetti living sarebbe globale. Al contrario, questa
agnosia così selettiva19 è ben spiegata all'interno del modello dei domini specifici come una
dimensione lungo la quale la conoscenza concettuale è organizzata (Mahon & Caramazza
2007; Caramazza & Shelton 1998). Si solleva inoltre un'ulteriore questione: se sia giusto
parlare, come si è spesso fatto in letteratura, soprattutto negli studi che analizzavano ipotesi
relative alla teoria sensoriale-funzionale, di semplice dissociazione tra living e nonliving o se
da qui in avanti sia preferibile distinguere – come ad alto livello sembrerebbe distinguere il
cervello stesso – tra animate living, inanimate living e nonliving (Martin & Caramazza 2003).
Il secondo fatto riguarda studi che hanno dimostrato l'esistenza di soggetti con deficit
nella rappresentazione dei soli living ma che presentavano uguali deficit di tipo visuopercettivo e funzionale-associativo – e non, come avrebbe previsto la teoria sensorialefunzionale, un maggior disturbo nelle abilità di percezione. Ciò sta a significare,
indirettamente, che la capacità di rappresentare mentalmente i living è indipendente dal
corretto funzionamento del sistema sensoriale ed è con tutta probabilità innata (Mahon &
17
18
19
Caramazza e Mahon (2003) sottolineano comunque che rifiutare la teoria sensoriale/funzionale non significa
non riconoscere la validità di alcuni suoi assunti. Il modello potrebbe in effetti spiegare un vasto numero di
fenomeni empirici. Un giorno si potrebbe anche arrivare alla conclusione, secondo i due autori, che la
conoscenza categoriale/concettuale è organizzata lungo due dimensioni ortogonali: quella del dominio e
quella della modalità.
Il paziente JJ sapeva descrivere un leone ma non un melone. Un leone, diceva JJ, è un grande animale con un
lungo corpo, una testa mostruosa, enormi zanne, che cammina a quattro zampe e che vive in Africa. Sul
melone non sapeva essere altrettanto sicuro, non poteva dirsi certo che fosse un frutto, non ricordava il
colore e ipotizzava fosse di consistenza soffice (Mahon & Caramazza 2007).
Esistono deficit ancora più selettivi e riguardano ulteriori attributi (ad esempio: animali commestibili/non
commestibili), come hanno osservato Caramazza e Shelton (1998).
19
Caramazza 2007).
La terza prova a favore dell'ipotesi dominio-specifica consiste nella constatazione che
esistono soggetti che hanno un deficit sensoriale più grave rispetto a quello funzionaleassociativo ma, al tempo stesso, presentano la stessa difficoltà nella rappresentazione dei
living e dei nonliving. A significare, ancora una volta, che la creazione di tali categorie non
dipenderebbe dall'esperienza (Mahon & Caramazza 2007).
Riassumendo, si può concludere che per l'approccio che punta sulla specificità dei
domini il contenuto di tipo concettuale non può essere riconducibile a specifiche modalità di
input/output, come era invece previsto dalla teoria sensoriale-funzionale. Dietro l'attivazione
di determinate aree in risposta alla rappresentazione di organismi viventi c'è la mano della
selezione naturale, che ha favorito certi meccanismi piuttosto che altri. Sono stati selezionati,
in particolare, quei meccanismi che hanno fatto sì che le macchine per la sopravvivenza della
metafora di Dawkins, citate in apertura di capitolo, si replicassero il più possibile.
1.6. Gli animate living
Come detto, l'ipotesi dominio-specifica spiega piuttosto bene l'esistenza di domini
semantici ancora più circoscritti della ormai classica dicotomia living/nonliving nonché di
moltissime altre dissociazioni tra categorie che sono state nel tempo individuate (Crutch &
Warrington 2003). Ai fini di questo lavoro appare interessante soffermarsi in particolar modo
sul concetto di animate living e su come la rappresentazione di tale sottocategoria possa esser
compresa all'interno dell'approccio innatista, fondato sull'idea di dominio specifico di
Caramazza e colleghi. Il concetto sarebbe così essenziale che secondo alcuni studi la
distinzione animate/inanimate è addirittura l'innato principio organizzativo che i bambini
utilizzano per costruire le proprie ingenue teorie sulla biologia (Opfer & Gelman 2010).
Prima di scendere più nello specifico nell'analisi, è necessario puntualizzare che a tal
proposito la letteratura non è sempre chiarissima e che con il termine living non denota in tutti
gli studi effettuati esattamente lo stesso tipo di oggetti. Mancano definizioni univoche. Alcune
ricerche, per esempio, parlano di living per indicare un range di stimoli che va dagli animali ai
vegetali (frutti, alberi, ortaggi, etc.) mentre altre utilizzano lo stesso termine ma paiono
focalizzarsi principalmente sugli animate living, sugli animali, escludendo più o meno
esplicitamente tutto il resto. Ma anche qui: per animali talvolta si intendono solo esseri a
20
quattro zampe e non si considerano pesci, uccelli e insetti 20 (Capitani, Laiacona, Mahon &
Caramazza 2003). Conseguentemente risulta spesso non agevole mettere a confronto studi che
utilizzano una terminologia comune per contenuti tanto eterogenei21.
Per quanto riguarda la rappresentazione degli animate living in una prospettiva
innatista, tutto ruota attorno al vantaggio evolutivo che deriverebbe dall'aver sviluppato dei
processi e delle strutture neurali apposite per il riconoscimento degli animali. Caramazza e
Mahon (2006) evidenziano come le categorie individuate grazie ai deficit di riconoscimento,
tra cui c'è anche quella degli animate living (Caramazza & Shelton 1998), sono categorie che
hanno sempre un qualche valore di tipo adattativo. Com'è noto, i meccanismi della teoria
darwiniana necessitano di tempi lunghissimi per produrre risultati visibili e sono giocoforza
difficilmente replicabili in laboratorio, anche se si possono utilizzare degli espedienti per
verificarne l'effettiva esistenza in situazioni controllate o addirittura in laboratorio (Dawkins
2009). Ciò premesso è quindi indubbio che le interpretazioni dei fenomeni evoluzionistici, di
rado falsificabili secondo i classici criteri del metodo scientifico, debbano spesso contenere
una parte speculativa che comunque poggia – sempre – sulla unanimemente riconosciuta
connessione tra mutazioni genetiche (casuali) e selezione naturale. Questo duplice
meccanismo, che seleziona i fenotipi meglio adattati e ne permette la replicazione delle
informazioni genetiche, sta alla base dell'evoluzione della vita sul pianeta, della nascita di
nuove specie di animali e del sempre più sofisticato adattamento dei singoli individui,
compreso dunque il modo in cui concettualizzano e categorizzano il mondo.
In tale contesto l'esistenza nel cervello di un sistema dominio-specifico relativo agli
animate living, che ci permette di riconoscerli con basso margine di errore e in tempi più
veloci rispetto agli altri oggetti, piuttosto che – ipotizziamo – di un meccanismo alternativo
aspecifico più lento e impreciso, deve dunque essere giustificata in termini di migliore
adattabilità all'ambiente e di un più alto vantaggio riproduttivo. Questi suoi attributi sono
indipendenti dal sistema culturale di riferimento e sono stati selezionati, in mezzo alle
possibili infinite e casuali varianti, perché devono aver permesso un migliore adattamento alla
macchina per la sopravvivenza che ne era provvista. Si può infatti speculare che fin dai tempi
ancestrali chi era in grado di riconoscere il più velocemente possibile un animale – da cacciare
o da cui fuggire – aveva nel lungo periodo una più alta probabilità di sopravvivere rispetto a
20
21
La medesima confusione riguardo alle definizioni si riscontra anche nell'ambito degli oggetti non biologici
(Capitani, Laiacona, Mahon & Caramazza 2003).
Anche se, come accenneremo nei prossimi capitoli, possiamo pensare che animali e piante si situino in due
differenti e distanti punti all'interno del medesimo continuum degli organismi biologici – della vita sulla
Terra.
21
chi non ce l'aveva. Accorgersi tempestivamente dell'arrivo degli animali era utile, e non è un
caso che il nostro cervello sia stato plasmato secondo questa logica. Le conferme arrivano da
numerosi studi empirici. Come abbiamo visto in precedenza, approcci di tipo
comportamentale o che hanno utilizzato gli ERP hanno mostrato che i living (e in particolare
gli animali) vengono riconosciuti in maniera più rapida e con un quantitativo di informazione
fisica minore rispetto ai nonliving, utilizzando sia strategie top-down (che partono dall'analisi
del contesto per fare continue ipotesi sull'identità dell'oggetto preso in esame) che bottom-up
(in cui il matching avviene a partire quasi esclusivamente dai dati fisici). È stato notato, per
esempio, che gli animali vengono riconosciuti più facilmente a basse frequenze spaziali,
quando l'immagine è meno dettagliata e più confusa, rispetto agli oggetti (Låg, Hveem, Ruud
& Laeng 2006). Continuando con la speculazione riguardante le dinamiche evoluzionistiche,
si può ipotizzare che chi riusciva a scorgere un animale pericoloso in condizioni di scarsa
visibilità avesse un vantaggio maggiore rispetto a chi non ci riusciva. Oltre a tutto ciò si è
detto che gli organismi viventi sono di solito rappresentati a livello neurale in maniera
bilaterale, il che significa che la loro elaborazione coinvolge entrambi gli emisferi: altro
elemento, questo, che permette una maggiore velocità nella detezione degli animali, i quali
possono così essere riconosciuti prontamente sia che arrivino da destra che da sinistra22.
Parlando di rappresentazione di animali, infine, è interessante indagare quali sono – o
quali dovrebbero essere – le caratteristiche essenziali possedute dallo stimolo che fanno sì che
esso venga qualche istante dopo riconosciuto non solo come living, ma più nello specifico
come animate living23. Caramazza e Mahon (2006) ipotizzano che il modello dei domini
specifici sia valido anche per le frazioni di tempo che precedono la fase di concettualizzazione
e che spieghi anche tutto ciò che succede a monte, quando il cervello è impiegato in un mero
atto percettivo che solo successivamente porterà alla costruzione, dopo l'integrazione delle
varie informazioni ricevute, del riconoscimento cosciente vero e proprio. Tra le caratteristiche
percettive (basilari) più indagate dalla letteratura ci sono certamente il movimento, che può
essere semplice o complesso, e la forma.
L'idea che gli animali vengano riconosciuti a causa del loro particolare tipo di
movimento biologico, detetto fin dai primissimi stadi di elaborazione, pare essere inesatta:
sarebbe un più generale e astratto movimento articolato, infatti, a far attivare l'area prossima al
solco superiore temporale, che rimarrebbe silente invece per movimenti più semplicistici e
22
23
Evitando di attraversare il corpo calloso, l'informazione visiva è resa disponibile in tempi più rapidi per le
strutture deputate al riconoscimento.
E cioè, si può ipotizzare, come entità dotata di una propria intenzionalità (vedi terzo capitolo).
22
meccanici (Mahon & Caramazza 2007). Per testare questa ipotesi Martin e Weisberg (2003)
hanno creato utilizzando il computer alcune figure geometriche e poi hanno dato loro vita
facendole muovere in tre modi diversi: come oggetti biologici/sociali (le figure si
rincorrevano o giocavano: movimenti articolati che simulavano movimenti biologici), come
oggetti meccanici (palloni che rimbalzano, palle da biliardo) o come oggetti dal moto casuale
(baseline). Quando hanno fatto vedere la stessa figura geometrica che effettuava i tre diversi
tipi di movimento ad alcuni soggetti – monitorati tramite fMRI – i ricercatori hanno osservato
l'attivazione di due pattern neurali differenti per i movimenti biologici (o meglio, articolati) e
meccanici. Questi ultimi conducevano all'attivazione di aree connesse all'identificazione di
oggetti manipolabili. I movimenti articolati che simulavano quelli biologici, invece,
attivavano circuiti nelle regioni della corteccia posteriore temporale di solito coinvolti nella
detezione delle facce o di altri oggetti animati. Da notare la presenza di una rilevante
attivazione dell'amigdala, implicata nella modulazione delle emozioni, che introduce un
principio che sembra valere in assoluto per la rappresentazione degli animate living: i circuiti
coinvolti nel processamento della forma e del movimento degli organismi viventi comportano
parallelamente un certo tipo di coinvolgimento emotivo (Martin & Weisberg 2003). A
conferma della precocità del fenomeno, studi compiuti su infanti hanno mostrato che già a sei
mesi – e forse anche prima – un bambino è in grado di discriminare con esattezza tra i due tipi
di movimento (Scassellati 2001), e che a quell'età è capace di interpretare il movimento
biologico come animato, in quanto si aspetta che ciò che si muove in maniera
articolata/biologica abbia necessariamente un qualche fine da perseguire (Schlottmann &
Ray 2010). A ulteriore testimonianza della priorità neurale degli animate living, si constata
l'esistenza di ricerche che dimostrano come l'evoluzione abbia modellato il cervello umano in
modo tale da fargli prestare maggior attenzione visiva al movimento animato piuttosto che a
tutto il resto degli stimoli (Pratt, Radulescu, Guo & Abrams 2010).
Tutte queste osservazioni possono essere spiegate e comprese all'interno dell'ipotesi
dominio-specifica. Il fatto che diverse aree cerebrali coinvolte in un sistema di analisi
specifico per modalità (movimento, ma anche forma) rispondano in maniera differente a
differenti categorie semantiche confermerebbe l'assunto base secondo cui tali sistemi di analisi
sono organizzati in domini specifici per ogni oggetto (Caramazza & Mahon 2006).
Per quanto riguarda l'altra importante caratteristica percettiva, la forma globale dello
stimolo, gli studi che cercano di individuarne il ruolo svolto all'interno del processo di
elaborazione dello stimolo animate paiono essere molto più rari. La letteratura disponibile
23
pare comunque generalmente concordare con quanto sostenuto fin qui. In uno studio di
Vannucci, Viggiano e Argenti (2001) si chiede a dei soggetti di riconoscere l'immagine di
alcuni oggetti filtrati spazialmente in 9 differenti livelli di risoluzione, permettendo ai
ricercatori di individuare la soglia di riconoscimento per ciascuna categoria di stimoli. I dati
sottolineano come sia mediamente più facile riconoscere, in condizione di bassa risoluzione,
gli animali rispetto a tutti gli altri stimoli, dagli artefatti ai vegetali: Gerlach (2001) suggerisce
che la grande somiglianza nella forma globale all'interno della categoria degli animali sarebbe
più informativa della forma globale dei nonliving, certamente più eterogenea e meno
prevedibile. D'altra parte è stato osservato che l'identificazione degli artefatti peggiora
notevolmente in studi in cui dell'oggetto che deve essere riconosciuto vengono mostrati solo i
contorni, come a ribadire il fatto che la silhouette degli oggetti inanimati è mediamente poco
informativa rispetto a quella degli stimoli biologici (Lloyd-Jones & Luckhurst 2002). Gli
oggetti sarebbero inoltre penalizzati dalla loro variabilità dentro-lo-stimolo, complessità che
evidentemente deve esser presa in esame in fase di elaborazione, ritardando il riconoscimento
(Laws & Neve 1999). È stato notato un riconoscimento più veloce per gli animate living
anche in esperimenti in cui gli stimoli venivano presentati per un brevissimo lasso di tempo
(Laws & Neve 1999) o nelle regioni periferiche del campo visivo (Gerlach 2001). Tutto ciò
implica – le conferme come abbiamo visto sopra arrivano da studi fondati su metodi di
neuroimaging e elettrofisiologici – che molto probabilmente l'aspetto legato alla forma
globale – il cosa – riveste in fase di identificazione un ruolo più decisivo per gli animate
living che per gli altri stimoli.
Sarebbe infine interessante indagare quali siano gli attributi di questa cosiddetta forma
globale che fanno sì che a prendere in consegna l'elaborazione dello stimolo siano le aree – i
domini – deputate al processamento degli animali piuttosto che le altre. Si può ipotizzare che
differenze fondamentali risiedano nella tipologia dei contorni, più tondeggianti un po' per tutti
gli stimoli di tipo living, caratteristica meno comune nel regno degli artefatti – che hanno
solitamente forme più segmentate, nette e spigolose24.
Parlando di forma, per concludere, non va sottovalutato il fatto che gli animali
possiedono un volto/muso, e cioè un ricorrente pattern di informazioni fisiche pre-categoriali
24
Ramachandran (2011/2012) mostra che se poniamo due forme astratte, una rotondeggiante e una spigolosa,
di fronte ad alcuni soggetti e chiediamo loro quale delle due chiamerebbero kiki e quale bubu, la
maggioranza – a prescindere dalla cultura di appartenenza – associa kiki alla forma spigolosa e bubu a quella
tondeggiante. Il neurologo indiano utilizza quest'esperimento per dimostrare l'innatismo di certe forme di
sinestesia, ma forse non è fuori luogo ipotizzare che a certe forme morbide sia associata automaticamente
anche una vitalità che non viene invece legata a contorni più duri e aguzzi.
24
che, come testimoniano gli studi basati sugli ERP, viene analizzato in maniera assai precoce
dal cervello25(Eimer 2000). Potrebbe essere un altro dettaglio decisivo, questo, che indirizza
l'identificazione verso la categoria degli animate living, un'altra informazione che si rivelerà
utile, qualche millisecondo più tardi, nel costruire una rappresentazione funzionale dello
stimolo.
Per includere anche queste brevi osservazioni sulle caratteristiche fisiche dello stimolo
all'interno del quadro proposto dall'ipotesi dominio-specifica e delle sue assunzioni sul ruolo
della teoria evoluzionistica, si può sostenere che chi era in grado di discriminare forme
tondeggianti da forme non tondeggianti e stimoli-faccia da un sfondo indistinto era in grado,
nei passi successivi compiuti dall'elaborazione cognitiva, di riconoscere un animale con
maggior rapidità rispetto a chi era sprovvisto di tali abilità. La conseguenza è che anche tali
meccanismi neurali hanno portato un vantaggio evolutivo e sono stati selezionati e
implementati all'interno del cervello umano.
25
La componente ERP N170 analizza le caratteristiche prettamente fisiche – strutturali – dello stimolo-faccia e
non dipende dalla familiarità. La N400 e la P600, più tardive, sembrano invece elicitate dal riconoscimento
conscio di un volto familiare (Eimer 2000).
25
2. L'atteggiamento intenzionale di Daniel C. Dennett
2.1. L'evoluzione paradossale dell'intenzionalità
Le macchine per la sopravvivenza descritte da Dawkins che sono state citate nel primo
capitolo, quegli organismi apparsi sulla Terra miliardi di anni fa col solo scopo di favorire la
replicazione dei propri geni utilizzando gli strumenti sempre più complessi ed efficaci forniti
di volta in volta dall'evoluzione, sembrano ai nostri occhi avere una caratteristica peculiare.
Nonostante esse possano essere oggettivamente descritte come involucri passivi di geni,
Dawkins sostiene che:
Una delle proprietà più sorprendenti del comportamento delle macchine da sopravvivenza
è la loro apparente intenzionalità. Con questo non voglio solo dire che è un
comportamento ben calcolato per aiutare i geni a sopravvivere, ma che sembra anche
avere una analogia più stretta con il comportamento intenzionale dell'uomo. Quando
guardiamo un animale che «cerca» il cibo o un partner o un cucciolo perduto è difficile
fare a meno di attribuirgli qualche sentimento soggettivo, che noi stessi proviamo in
situazioni analoghe. Può trattarsi di «desiderio» per qualche oggetto, un «quadro
mentale» dell'oggetto desiderato, uno «scopo» o un «fine». Ciascuno di noi sa, perché ce
lo dice la nostra introspezione, che questa intenzionalità, almeno in una macchina da
sopravvivenza moderna, ha sviluppato le proprietà che noi chiamiamo «consapevolezza»
(Dawkins 1976/1992).
Secondo Dawkins dunque noi ci porremmo nei confronti di questi organismi come se
avessero un'intenzionalità tutta loro, degli scopi, persino dei desideri. Di conseguenza, come
se fossero dotati di una forma più o meno rudimentale di mente. L'argomentazione è tutt'altro
che intuitiva26: se portata ai suoi estremi essa prevede per esempio che gli esseri umani si
comportino nei confronti di entità microscopiche quali le amebe e i virus come se esse
potessero desiderare qualcosa e, perché no, fare scelte all'interno di insiemi di opzioni. A
prima vista quella di Dawkins pare una forzatura o una provocazione, soprattutto quando il
26
Questo però non deve spaventare. Appare infatti plausibile l'idea che, almeno a partire dai tempi di
Copernico, passando per la relatività einsteniana, la fisica quantistica e certe recenti scoperte riguardanti il
funzionamento del cervello, il progredire della conoscenza scientifica sia avvenuto e avvenga sempre più in
contrasto con l'intuizione comune.
26
concetto si applica a forme di vita sempre più elementari. Tuttavia la questione, se analizzata
più in profondità, è meno assurda di quanto si possa pensare. Il fatto di porsi nei confronti di
tali entità come se agissero in modo razionale e coerente, mosse da scopi, potrebbe suggerire
l'esistenza di una nostra innata tendenza ad avere un certo tipo di approccio percettivo verso
ogni forma di vita biologica, dalle più semplici alle più complesse.
Il concetto è stato ripreso e ampliato, fino a farne un cardine fondamentale della
propria concezione della cose mentali e della coscienza27, dal filosofo americano Daniel
Dennett, tra i personaggi contemporanei più rilevanti e influenti per quanto riguarda le
questioni inerenti alla filosofia della mente. Nella edificazione della propria teoria, la quale
passo dopo passo dovrebbe condurre a una piena comprensione del funzionamento della
mente, Dennett innanzitutto propone una personale versione del concetto di intenzionalità28.
La sua definizione si inserisce all'interno di un discorso di tipo evoluzionistico e prende le
distanze da ogni altra precedente accezione.
Probabilmente influenzato da Dawkins stesso, il filosofo prova a immaginare quelli
che possono esser stati i vari passaggi che hanno progressivamente portato dal comportamento
stereotipato delle prime macromolecole – o “robot” – autoreplicanti apparse sulla Terra ai
relativamente più complessi organismi unicellulari, per giungere infine – attraverso il lento e
cieco sviluppo darwiniano della supposta capacità di agire – alla formazione della mente
umana, oggetto estremamente più articolato e imprevedibile rispetto ai suoi distanti
predecessori. Per ricordare come non ci siano soluzioni di continuità tra i primi rigidi passi
compiuti dalla vita sul pianeta e la plastica mente dell'uomo, ma come i due fenomeni siano
invece gli estremi di un continuum, Dennett rimarca il fatto che – non potrebbe essere
altrimenti – “noi siamo i diretti discendenti di questi robot autoreplicanti” (Dennett
1997/2000), queste macromolecole dai compiti limitati a cui nessuno si sentirebbe con troppa
facilità di attribuire una mente, una coscienza o un'intenzionalità. Eppure a ben vedere tali
macromolecole non rappresentano solo i nostri lontanissimi e rudimentali antenati, non sono
solo macchine per la sopravvivenza notevolmente più semplici: in un senso molto forte esse
sono noi29. Anche adesso, esse costituiscono i minuscoli mattoni con cui si costruiscono di
27
28
29
Concetti quali coscienza, intenzionalità, mente e io sono fortemente interconnessi nella filosofia di Dennett.
Dati i limiti di questo lavoro non cercheremo di passare in rassegna tutte le problematiche legate al concetto
di intenzionalità, che ha assunto diversi significati in diversi contesti e che è stato dibattuto in ambito
filosofico fin dal medioevo. Ci limiteremo a sostenere, con Dennett, che i sistemi dotati di intenzionalità
sono, per definizione, tutte quelle entità il cui comportamento è prevedibile o spiegabile assumendo nei loro
confronti un atteggiamento intenzionale (Dennett 1997/2000). Altri concetti, tra cui quello di approccio
eterofenomenologico, assai importanti per lo sviluppo complessivo della teoria di Dennett, non verranno qui
approfonditi per gli stessi motivi.
“Non solo noi discendiamo da questi robot macromolecolari: essi sono anche le unità di cui è fatto il nostro
27
volta in volta il nostro agire e il nostro pensare 30. Infatti, ricorda Dennett, “a meno che non ci
sia qualche altro ingrediente segreto (che è esattamente ciò che pensavano i dualisti e i
vitalisti) noi siamo fatti di robot” (Dennett 1997/2000). In questa prospettiva, scevra di
qualsiasi scappatoia metafisica, la mente di ogni essere umano è dunque costituita da un
insieme di miliardi di macromolecole ed è il risultato della loro costante interazione.
Ciò è paradossale. Perché porta a concludere che in un punto ben preciso durante
l'evoluzione o in un punto ben preciso durante lo sviluppo del singolo individuo si passi
magicamente e drasticamente dall'agire cieco e non intenzionale tipicamente robotico
all'intenzionalità umana. Il rompicapo che la filosofia della mente cerca da tempo di
risolvere31 si manifesta così in maniera perentoria, controintuitivo e sfuggente. Sintetizzando
al massimo, la situazione che viene a crearsi è la seguente: una colonia vastissima di antichi
robot singolarmente privi di mente e dunque di intenzionalità, mossi da quelli che possono
essere considerati semplici interruttori ON/OFF, formerebbe – e forma – una entità
considerata di livello superiore che appare coerente e che comunemente si ritiene32 cosciente
e dotata di una mente33. Come si può risolvere il paradosso?
Forse c'è un unico modo per venirne fuori. Non fare distinzioni arbitrarie: ossia trattare
come dotate di intenzionalità anche queste molteplici e minuscole robotiche componenti. In
risonanza con quanto espresso da Dawkins, Dennett sostiene infatti che:
Noi facciamo una netta distinzione tra questi antichi sistemi e la nostra mente: e tuttavia,
fatto strano, più osserviamo nei dettagli il loro modo di operare, più li troviamo simili a
vere menti! I piccoli interruttori sono come dei primitivi organi di senso, e gli effetti che
vengono prodotti quando essi sono commutati sulle posizioni di ON e di OFF, sono come
azioni intenzionali. Intenzionali in che senso? In quanto prodotti da sistemi orientati a un
fine e modulati dall'informazione. È come se queste cellule […] fossero minuscoli,
30
31
32
33
corpo: le nostre molecole di emoglobina, i nostri anticorpi, i nostri neuroni [...]” (Dennett 1997/2000).
“Sì, abbiamo un'anima”, sostiene Giorello (1997), “ma è fatta di tanti piccoli robot”.
L'annosa questione coinvolge anche il confinante concetto di libero arbitrio – argomento che esula dagli
scopi di questo lavoro. Ovvero: siamo davvero liberi di decidere, come crediamo, o possiamo decidere –
illudendoci – solo ciò che è stato già deciso per noi lassù, a monte, dalla danza caotica di un numero
incalcolabile di microcause? I noti esperimenti condotti da Libet, che sembrano supportare la seconda
ipotesi, hanno ridato nuova linfa al dibattito (Libet, Gleason, Wright & Pearl 1983).
“Si ritiene” in un duplice senso: 1) io ritengo me stesso cosciente e dotato di intenzionalità (per farlo uso
però l'introiezione, processo considerato scientificamente non inattaccabile) e 2) l'essere umano ritiene se
stesso e dunque tutti gli altri come lui coscienti e dotati di intenzionalità (quest'ultima generalizzazione è il
risultato di un processo di tipo induttivo che è pragmatico ma, come già sosteneva Hume, non razionalmente
giustificato).
Hofstadter (1979/1984; 2007/2008) ha utilizzato numerose e convincenti analogie per cercar di spiegare
come possa emergere una (parvenza di) coscienza da un incommensurabile numero di sottostanti e
microscopiche interazioni.
28
semplici, agenti che perseguono razionalmente e ossessivamente
i
loro
particolari
obiettivi agendo nel modo che viene loro dettato dalla percezione delle circostanze […].
Io definisco tutte queste entità, dalle più semplici alle più complesse, sistemi intenzionali
e chiamo atteggiamento intenzionale la prospettiva dalla quale la loro natura di agenti
(autentica o meno) si rende visibile (Dennett 1997/2000).
Dal momento che non è possibile tracciare una linea di demarcazione, né lungo il
sentiero filogenetico né lungo quello ontogenetico, all'interno dell'insieme delle cose
biologiche, che separi senza alcuna discussione e senza generare ulteriori problemi sistemi
con intenzionalità da sistemi che ne sono privi, e dal momento che noi – che ci troviamo
proprio dentro a tale insieme – ci (auto)consideriamo sistemi intenzionali, l'unica via da
perseguire è quella di trattare ognuno di questi sistemi come dotato di intenzionalità,
definendolo sistema intenzionale.
Dovrebbe essere chiaro cosa intende dunque Dennett quando parla di intenzionalità e
per quale motivo il concetto sia intrecciato così saldamente alla teoria evoluzionistica.
Secondo lui possiamo dire che un agente possiede intenzionalità se le sue azioni possono
essere interpretate e comprese all'interno di uno schema di desideri e credenze e se, adottando
verso di lui quello che chiama atteggiamento intenzionale, siamo in grado di prevedere le sue
future mosse (Dennett 1987).
2.2. L'atteggiamento intenzionale
In maniera complementare Dennett definisce dunque atteggiamento intenzionale
quella strategia che invece consente di interpretare il comportamento di un'entità – qualunque
cosa sia: un animale, una persona, ma anche un artefatto o un software – trattandola come se
fosse un agente dotato di (un certo quantitativo di) ragione che orienta la propria scelta
d'azione seguendo le proprie credenze o i propri desideri. Che poi è la prospettiva che gli
uomini adottano l'uno verso l'altro nelle loro interazioni (Dennett 1997/2000). Assumere un
atteggiamento intenzionale significa dunque attribuire dall'esterno intenzionalità ad una
qualche entità percepita – ad un sistema intenzionale34.
34
Bara (2000) parla dell'intenzionalità delle macchine e dice che si tratta di “un'intenzionalità come se. Si
comportano cioè come se avessero un'intenzionalità propria, e un osservatore può descriverle come se
fossero dotate di intenzionalità, ma questa rimane una pura e semplice attribuzione esterna”. La prospettiva
di Dennett è diversa, dal momento che per lui, dal punto di vista dell'atteggiamento intenzionale, la
29
Facendo propria l'idea di Nietzsche secondo cui come esseri umani saremmo da
sempre portati a cercare cause – e soprattutto intenzioni e autori – che spieghino il verificarsi
dei fenomeni che osserviamo, Dennett ipotizza che l'uomo nasca con una predisposizione
genetica che lo porti in automatico ad adottare l'atteggiamento intenzionale, una specie di
modulo fodoriano della teoria della mente35 modellato dall'evoluzione per generare credenze
di secondo ordine, metacredenze, credenze che riguardano credenze altrui (Dennett
1995/2004). Adottare istintivamente questo approccio potrebbe in effetti semplificarci la vita –
ed ecco perché sarebbe stato selezionato dall'evoluzione – in almeno un paio di modi. In
primo luogo ci permetterebbe di relazionarci alle altre entità senza preoccuparci troppo delle
loro caratteristiche di basso livello: posso interagire con una persona o con un cane senza aver
la necessità di conoscere ciò che sta succedendo a livello delle sue cellule, delle sue molecole
o delle sue particelle subatomiche. Diminuisce così la mole di dati che devo elaborare in un
determinato contesto, in una certa situazione che magari richiede risposte veloci e pratiche. In
secondo luogo la strategia dell'atteggiamento intenzionale può aiutarmi a capire a cosa serve
un artefatto – nel momento in cui intuisco quelli che possono essere i suoi scopi (Dennett
1995/2004).
Possiamo comprendere meglio in cosa consiste la strategia dell'atteggiamento
intenzionale dennettiano prendendo in considerazione altre due strategie di previsione che
sono rispetto ad esso meno sofisticate e più elementari, certamente non adatte per interpretare
comportamenti complessi come quello umano. Si tratta dell'atteggiamento fisico e
dell'atteggiamento del progetto (Dennett 1987). Per atteggiamento fisico si intende nient'altro
che il metodo adottato dalle scienze fisiche, utilizzando il quale riusciamo a produrre
previsioni che sono basate sulla nostra conoscenza di leggi fisiche e proprietà della materia. In
questo senso, “quando prevedo che un sasso, lasciato andare dalla mia mano, cadrà a terra, mi
sto servendo di un atteggiamento fisico” (Dennett 1997/2000) e ciò avviene ovviamente senza
che io abbia la necessità di attribuire credenze, intenzioni o qualsiasi altro genere di stato
mentale al sasso stesso. Questa è l'unica strategia utilizzabile con oggetti che non sono vivi – e
che non sono artefatti (Dennett 1997/2000). Per prevedere il comportamento di una sveglia,
che è frutto di un progetto, devo invece adottare un approccio differente che permette di
35
distinzione tra macchina (sufficientemente complessa) e uomo è assai sfumata: ad entrambe le entità
dobbiamo comunque attribuire intenzionalità dall'esterno.
Qui come sinonimo di metacognizione. In psicologia cognitiva il concetto di teoria della mente indica la
capacità dell'essere umano di ponderare e riflettere sui propri stati mentali e su quelli degli altri. Secondo
alcuni studiosi – tra i quali Simon Baron-Cohen – un deficit nella formazione di una corretta teoria della
mente potrebbe essere alla base dello svilupparsi della sindrome autistica.
30
formulare previsioni più elaborate. Devo usare un atteggiamento del progetto: dal momento
che so che l'oggetto con cui sto cercando di interagire è stato progettato per comportarsi in un
determinato modo, do per scontato che “se adesso schiaccio alcuni pulsanti così, allora, a un
certo momento, la sveglia produrrà un suono” (Dennett 1997/2000). In questo caso non ho la
necessità di conoscere nel dettaglio le leggi fisiche che stanno alla base di un oggetto che si
comporta con una simile regolarità: “semplicemente assumo che esso segua un particolare
progetto” (Dennett 1997/2000). L'atteggiamento del progetto rappresenta una sorta di
scorciatoia che mi permette di formulare previsioni che sono comunque più rischiose rispetto
a quelle producibili con l'atteggiamento fisico (infatti se i collegamenti interni della sveglia
fossero in qualche modo danneggiati, allora la sveglia non funzionerebbe a dovere e le mie
previsioni relative al suo comportamento sarebbero imprecise) (Dennett 1997/2000).
Entrambe le strategie, soprattutto la prima, risultano in una certa misura inadeguate 36 quando
devono prevedere le azioni più complicate degli organismi viventi e degli esseri umani in
particolare. In queste situazioni, in una maniera che secondo Dennett è automatica e innata,
noi utilizziamo un più appropriato atteggiamento intenzionale. L'adozione di questa strategia
comporta la formulazione di alcune importanti assunzioni. In primo luogo implica che
l'oggetto di cui vogliamo prevedere le mosse si comporti da agente razionale37. In secondo
luogo si ipotizza che, inserito in un certo contesto, tale agente possa avere delle credenze e dei
desideri relativamente a determinati scopi. Infine si prevede che esso agirà in un certo modo,
sulla base delle sue supposte credenze, per realizzare i propri desideri e per raggiungere i
propri obiettivi.
È fondamentale, sulla base di quanto detto sopra riguardo al rapporto tra minuscole
entità dal comportamento robotico e intenzionalità, comprendere che la strategia funziona
[…] indipendentemente dal fatto che gli obiettivi attribuiti siano autentici o naturali o
«veramente compresi» dal cosiddetto agente – e questa ammissione è fondamentale per
comprendere, prima di tutto, come stabilire l'autenticità dell'orientamento a un fine. La
macromolecola vuole davvero replicarsi? L'atteggiamento intenzionale spiega che cosa
sta accadendo, indipendentemente da come rispondiamo a questa domanda. Consideriamo
un semplice organismo – ad esempio una planaria o un'ameba – che compia dei
movimenti casuali sul fondo di una capsula Petri, sempre dirigendosi verso l'estremità
36
37
Anche se Dennett considera l'atteggiamento intenzionale una sorta di “sottospecie dell'atteggiamento del
progetto, nel quale il frutto del progetto è un agente di un certo tipo” (1997/2000).
“In filosofia della mente, tale vincolo [l'essere razionale] è inteso come condizione di identità personale,
ossia come requisito di coerenza che un insieme di credenze, desideri e azioni deve soddisfare [...]”
(Marraffa 2002).
31
dove è collocata la fonte di nutrimento o allontanandosi da una sorgente di sostanze
tossiche. Questo organismo sta cercando il bene o evitando il male – il proprio bene e il
proprio male, non quello di un essere umano […]. Cercare il bene è una caratteristica
fondamentale di qualsiasi agente razionale, ma questi organismi stanno effettivamente
cercando o solo «cercando»? Non è necessario rispondere a questa domanda. In entrambi
i casi, l'organismo è un sistema intenzionale prevedibile (Dennett 1997/2000).
Noi esseri umani adottiamo l'atteggiamento intenzionale quotidianamente in maniera
pressoché sistematica, senza che ce ne rendiamo conto: esso è per esempio fondamentale
quando dobbiamo formulare aspettative sulle persone – e non solo – con cui siamo soliti
interagire (Dennett 1987). Si tratta a ben vedere di una sorta di euristica modellata
dall'evoluzione che la mente adotta nei confronti della realtà esterna, quando ogni analisi più
rigorosa e scientifica sarebbe troppo lenta, laboriosa o impraticabile. Siamo fatti, in questo
senso, per individuare credenze e obiettivi, concetti non scientifici ma propri della psicologia
del senso comune. Siamo fatti attribuire intenzionalità ad entità che hanno un certo
comportamento. Siamo fatti per scovare menti nel mondo che ci circonda.
L'adozione di tale pragmatico approccio nei confronti di alcune delle entità che si
muovono nella realtà esterna ci consente di fare rapide previsioni sul loro comportamento e di
poter interagire con loro. Per comprendere l'importanza dell'aver sviluppato questo
meccanismo si potrebbe immaginare, per assurdo, l'esistenza di un mondo in cui l'evoluzione
non abbia lavorato a dovere e gli uomini siano sprovvisti della possibilità di utilizzare
l'atteggiamento intenzionale nei confronti dei loro simili (e degli altri animali). Senza poter
supporre quale sarà la prossima mossa della persona che mi trovo di fronte, senza poter
comprendere quali sono i suoi fini all'interno di un certo contesto, senza poter leggere i suoi
pensieri riguardo ad un determinato fenomeno, senza poter cogliere le sue emozioni, il
comportamento dei miei consimili e degli altri organismi viventi mi parrebbe ogni volta
casuale, incoerente e sfuggente, e la sua stessa natura non mi permetterebbe di poter avere
alcun tipo di interazione con loro38. Ma c'è di più. Il mondo stesso mi apparirebbe
38
Secondo la teoria dei neuroni specchio di Rizzolatti, una situazione così difficilmente concepibile, nella
quale non esiste possibilità di socializzazione, è scongiurata dalla presenza, all'interno del nostro cervello, di
neuroni dalle funzioni particolari – i neuroni specchio – che si attivano non solo quando compiano un gesto,
proviamo un'emozione o pronunciamo un discorso, ma anche quando vediamo gli altri compiere un gesto,
provare un'emozione (osservando per esempio la loro espressione facciale) e pronunciare un discorso
(Rizzolatti & Vozza 2008). Neuroni di questo tipo favorirebbero così l'immedesimazione, l'apprendimento e
l'empatia e – si capisce – avrebbero anche un ruolo decisivo nel prevedere le mosse altrui. Non è un caso,
forse, che anche il malfunzionamento dei neuroni specchio sia una delle ipotesi formulate per spiegare
l'insorgere dell'autismo. D'altra parte appare evidente che concetti come quelli di neuroni specchio, di
atteggiamento intenzionale e di teoria della mente – il cui mancato sviluppo, ricordiamo, rappresenta un'altra
32
completamente diverso, privo di qualsiasi forma di intenzionalità. Privo di vita39. Uno scenario
forse possibile è quello in cui solo io – isola di intenzionalità – avrei intenzioni, solo io avrei
una coscienza, solo io avrei una mente. Un altro, ancora più inconcepibile ed estremo, è quello
in cui io – sprovvisto della possibilità di adottare l'atteggiamento intenzionale anche verso me
stesso40 – non sarei in grado di ponderare neppure i miei pensieri, le mie emozioni, la mia
intenzionalità. Sarei privo di autocoscienza e, in quanto tale, inconsapevole di esserlo. Io
stesso non potrei definirmi sistema intenzionale.
È la possibilità di interagire con gli altri, di scovare menti con cui relazionarsi, di
credere che gli altri siano sistemi intenzionali – coscienti, coerenti e razionali – proprio come
crediamo di esserlo noi, di trasformare il cosa in chi, che rende invece il mondo così come lo
percepiamo: un'immensità di materia inanimata entro cui si muove un certo quantitativo di
entità che – il metodo funziona – ci appaiono intenzionali e che siamo portati a giudicare
interessanti.
La strategia ha una sua profonda utilità. La adoperiamo quotidianamente. Eppure,
come abbiamo già visto, la sua adozione apre anche il campo ad una serie di conseguenze
concettuali che rimettono drasticamente in discussione alcune delle nostre credenze più
intuitive e radicate. Almeno un paio di esse hanno a che fare col nostro rapporto con gli altri
animali e sull'idea che ci siamo fatti del loro tipo di mente. Tra di esse figurano il fatto che gli
animali (non) possano adottare un atteggiamento intenzionale e l'ambiguità legata al concetto
di antropomorfizzazione. Analizziamo brevemente ognuna di queste questioni.
2.2.1. Animali che leggono intenzioni41
Assumendo, come fa Dennett e come del resto prescrive la più affermata
interpretazione della teoria dell'evoluzione, che esista continuità biologica tra l'essere umano e
le altre forme di vita, appare lecito supporre che anche gli altri animali possano in una certa
misura adottare l'atteggiamento intenzionale. Si tratta di una strategia per muoversi nel mondo
che non si è evoluta troppo recentemente, ma che ha favorito la fitness di antenati filogenetici
assai lontani, rimanendo implementata nei cervelli degli animali che oggi popolano la Terra42.
39
40
41
42
supposta causa della sindrome autistica – siano fortemente interconnessi. La questione è stata affrontata, tra
gli altri, da Ramachandran (2011/2012), il quale propone anche una serie di ipotesi speculative.
Interessante a tal proposito l'articolo divulgativo di Jabr (2013).
“[...] si usa l'autocoscienza come fonte di ipotesi sulla coscienza altrui, [ma al tempo stesso] ci si rende conto
di poter sottoporre proficuamente anche se stessi allo stesso trattamento” (Dennett 1997/2000).
Sulla coscienza, la mente e gli stati intenzionali degli animali si veda Dennett (1995).
“Dalla tesi darwiniana della continuità tra la mente animale e quella umana discende […] un fondamentale
33
Dennett ritiene dunque che anche gli animali utilizzino una forma probabilmente
semplificata di tale metodo per leggere ed anticipare – senza tener conto delle loro
caratteristiche di basso livello – il comportamento delle altre specie con cui devono
condividere l'ambiente – e coerentemente sostiene anche, in parallelo, che la differenza di
intelligenza tra animali ed esseri umani non sia qualitativa, ma solo quantitativa (Dennett
1997/2000). Sotto questa prospettiva il predatore che insegue la preda la considera in tutto e
per tutto come se fosse un'entità coerente e razionale, dotata di intenzioni – un sistema
intenzionale. Interpreta e prevede le sue mosse – fuga, arresto, adozione di eventuali tattiche
difensive – all'interno di una strategia di interpretazione del comportamento ben precisa, che
probabilmente è di un certo grado meno sofisticata rispetto a quella che noi osservatori umani
adottiamo nei confronti del predatore stesso.
L'osservazione del comportamento degli animali domestici – inquadrati dal punto di
vista della teoria di Dennett – conferma questa visione. Un cane che rimprovera – abbaiando –
il gatto di casa che punta la tavola imbandita, immaginando che stia per saltarci sopra per poi
mangiare del cibo non destinato a lui, è come se – sulla base di indizi comportamentali quali
una certa postura e la direzione dello sguardo – leggesse la mente del gatto. Come se ne
anticipasse le mosse. Come se avesse una teoria della mente. Come se adottasse un
atteggiamento intenzionale nei confronti di un altro animale.
D'altra parte anche un cane che, interpretando la comunicazione non verbale
dell'uomo, capisce – quasi magicamente – che il padrone ha l'intenzione di portarlo fuori per
una passeggiata, si sta facendo un modello sufficientemente accurato della mente dell'essere
umano: prevede il suo futuro comportamento, legge le sue intenzioni. Adotta, ancora, un
atteggiamento intenzionale nei confronti di un sistema intenzionale che, questa volta, è
l'essere umano stesso.
Si possono fare molteplici esempi simili. Alla luce di tutto ciò, prendere per buono il
fatto che anche gli animali possano utilizzare, in una certa misura, l'atteggiamento
intenzionale pare piuttosto plausibile. Eppure ciò fa sorgere lo stesso un paio di problemi. Il
primo riguarda la natura stessa dell'atteggiamento intenzionale dell'animale: il cane immagina
che il gatto voglia saltare sulla tavola, o invece siamo noi che immaginiamo che il cane
immagini che il gatto voglia saltare sulla tavola? Non c'è modo di scoprirlo, ma d'altra parte è
difficile eliminare completamente la tentazione di sostenere che tutto nasca all'interno del
principio metodologico per lo studio della coscienza [e dell'intenzionalità]. Tale studio non può essere
portato avanti dall'alto in basso […], ma dal basso in alto, ossia prendendo le mosse da funzioni mentali più
elementari, quelle dell'animale e dell'infante” (Marraffa 2002).
34
nostro cervello. Che tutti i livelli di intenzionalità siano una nostra creazione. Saremmo noi, in
senso kantiano43, ad imporre l'intenzionalità nel cane, interpretando poi la sua mente a nostro
uso e consumo in modo che possa attribuire – come faremmo noi stessi se fossimo lui – una
certa intenzionalità al gatto.
Il secondo problema è relativo al grado di sofisticazione che una macchina per la
sopravvivenza deve possedere per organizzare una strategia di atteggiamento intenzionale nei
confronti di un altro organismo. Abbiamo visto che un cane può (forse) adottare un
atteggiamento intenzionale. Un gatto pure. Ma una mosca? Un lombrico? Un'ameba? Si può
supporre che tale tipo di approccio richieda una certa complessità a livello neurale. Ma quanta
complessità? Dove tracciare la linea che separi le macchine per la sopravvivenza che possono
adottare una simile strategia da quelle, più povere e meno evolute, che non sono in grado di
farlo? Anche qui, è difficile rispondere. Ma la questione rimane comunque filosoficamente
interessante e problematica.
2.2.2. Antropomorfizzazioni
L'enfasi posta sulla rilevanza esplicativa della teoria dell'atteggiamento intenzionale
nell'ambito delle interazioni con gli altri organismi viventi conduce inevitabilmente a
rimettere in discussione il significato di alcune espressioni e concezioni formulate
comunemente, prese per buone poiché non sottoposte all'esame di riflessioni più profonde.
Consideriamo per esempio il concetto di antropomorfizzazione. Esso viene utilizzato
spesso, per esempio, per descrivere – talvolta in maniera critica – il rapporto emotivamente
intenso che si viene ad instaurare tra un uomo ed un animale domestico a cui è
particolarmente legato. L'uomo parla e presume che l'animale ascolti e perché no comprenda,
sostiene che l'animale provi tutta una serie di emozioni complesse, enfatizza alcuni aspetti
speciali del suo comportamento e gli attribuisce credenze, desideri e scopi che sono
tipicamente considerati umani. In casi simili siamo soliti sostenere, forse un po'
frettolosamente, che l'uomo antropomorfizza – dà forma umana ad – alcuni aspetti
comportamentali dell'animale.
La cosa appare meno ovvia nel momento in cui prendiamo per buona la teoria
dell'atteggiamento intenzionale. In un senso che è se vogliamo sorprendente: se è vero, come
43
La causalità è per Kant una categoria della nostra mente che ci aiuta ad ordinare la realtà. L'intenzionalità,
nella teoria di Dennett, svolgerebbe un ruolo per certi versi simili e nascerebbe anch'essa nella testa di chi
percepisce. Secondo la posizione di Wegner (2004) può essere immaginata una connessione tra i due
concetti.
35
pare implicare la teoria di Dennett, che noi attribuiamo agli altri organismi gli stati mentali
che noi stessi sperimenteremmo se venissimo posti nella medesima situazione, questo vale, in
virtù della definizione di atteggiamento intenzionale, per qualsiasi tipo di organismo vivente,
che sia un essere umano o no. Ciò porta a concludere che è perlomeno impreciso parlare di
antropomorfizzazione quando dobbiamo descrivere l'approccio particolarmente sentito di una
persona verso un animale, poiché la prima sta proiettando nell'animale più o meno le stesse
credenze, le stesse intenzioni e le stesse emozioni che proietterebbe in un essere umano, verso
cui adotterebbe ugualmente l'atteggiamento intenzionale. Non è (filosoficamente) corretto
parlare di antropomorfizzazione proprio perché la medesima strategia si applica anche nei
confronti dell'uomo. Sotto questa prospettiva si può sostenere, paradossalmente, che noi
antropomorfizziamo anche agli altri esseri umani 44. Per essere ancora più precisi, in linea con
la teoria di Dennett, è lecito concludere che adottiamo grossomodo lo stesso metodo di
previsione – ed attribuzione di stati mentali ed intenzionalità – nei confronti di tutti gli esseri
viventi: la relazione con gli esseri umani non è da questo punto di vista privilegiata rispetto a
quella con gli altri animali.
44
Un esempio in tal senso, se vogliamo, potrebbe essere rappresentato dal film Oltre il giardino (Being There)
di Hal Ashby, in cui le concise frasi del protagonista Chance Il Giardiniere (Peter Sellers), banali e mai
davvero appropriate al contesto, vengono costantemente interpretate come se rivelassero verità assolute,
nuove intelligenti concezioni sul funzionamento del mondo. Chi lo ascolta riempie il vuoto delle sue
espressioni proiettando dentro di lui stati mentali, emozioni e intenzionalità (Chance sostiene ciò perché
intende sostenerlo e perché lo ritiene un argomento pertinente) e lo crede un brillante pensatore. Il nocciolo
della questione è affrontato provocatoriamente nel noto esperimento mentale della stanza cinese proposto dal
filosofo John Searle, esperimento che si presta comunque a diverse critiche, una delle quali è proprio di
Dennett (Hofstadter & Dennett 1981/1985; Dennett 1992/2009). Il problema sollevato da Searle viene a
nostro parere risolto in maniera brillante da Hofstadter (2007/2008).
36
3. Animate living e atteggiamento intenzionale: un legame
inevitabile?
Quanto a me: ero giunto alla conclusione che
in me, come in qualsiasi altro essere umano,
non c’era niente di sacro, che eravamo tutti
delle macchine destinate a scontrarci,
scontrarci e ancora scontrarci. Per mancanza
di qualcosa di meglio da fare diventavamo
patiti degli scontri. A volte scrivevo bene di
questi scontri, il che significava che ero una
macchina dattiloscrittrice in buono stato. A
volte scrivevo male, il che significava che
ero una macchina dattiloscrittrice in cattivo
stato. Non albergava in me più sacralità di
quanta ne albergasse in una Pontiac, in una
trappola per topi o in un tornio.
KURT VONNEGUT
3.1. L'anima dell'animale modello III
L'anima dell'animale modello III è un estratto da un romanzo di Terrel Miedaner scelto
da Hofstadter e Dennett perché figurasse all'interno della raccolta di testi narrativi, saggi e
riflessioni inerenti la filosofia della mente intitolata L'io della mente (Hofstadter & Dennett
1981/1985). Si tratta, almeno nella sua prima parte, di una sorta di dialogo platonico sul
significato del concetto di vita biologica45. I protagonisti sono un uomo chiamato Hunt e una
donna, Dirksen. La posizione del primo, in estrema sintesi, è che “la vita biologica [sia] un
fenomeno meccanico complesso”, mentre la sua interlocutrice trova ciò inaccettabile e
sottolinea con convinzione come gli organismi viventi abbiano qualcosa di speciale rispetto
alle cose non viventi e che “il corpo degli animali e degli uomini è qualcosa di più di una
macchina”. Hunt cerca di convincerla del contrario. In un primo tempo le ricorda che:
secondo la teoria neoevoluzionista, il corpo degli animali viene formato attraverso un
processo completamente meccanicistico. Ciascuna cellula è una macchina microscopica,
un minuscolo componente integrato in un congegno più grande e complesso (Hofstadter
45
Quindi, inevitabilmente, anche sui significati di mente ed intenzionalità.
37
& Dennett 1981/1985).
Tuttavia Dirksen rimane scettica. “Io non provo proprie niente per le macchine!”, dice.
“Per esempio, io posso benissimo rompere una macchina senza scompormi ma non sono
capace di uccidere un animale”. A questo punto, per mettere in dubbio tali ben radicate
convinzioni, Hunt conduce la donna in un laboratorio sotterraneo. Qui apre una delle
numerose vetrine presenti e tira fuori quello che ha l'aspetto di “un grosso scarabeo di
alluminio”, la cui superficie levigata è dotata di segnalatori colorati e di protuberanze
meccaniche. Quando Hunt lo capovolge, Dirksen nota le piccole ruote di gomma e la scritta,
sul fondo piatto,
ANIMALE MODELLO
III. Dopo aver azionato l'interruttore che si trova sulla
pancia, l'uomo appoggia la macchina sul pavimento. Lo scarabeo allora comincia a muoversi e
vaga qua e là ronzando impercettibilmente. Per diversi istanti ispeziona il pavimento come se
fosse alla ricerca di qualcosa e poi, come colto da un'illuminazione, individua una presa di
corrente, si avvicina, tira fuori due sottili sporgenze e le infila nella sorgente di energia. Alcuni
segnalatori luminosi posti sul corpo si accendono. Si sente un suono strano, simile ad “un
gatto che fa le fusa”.
Hunt afferra un martello e lo offre a Dirksen. “Uccidilo”, le chiede.
La donna è sorpresa. “Perché dovrei uccidere... rompere... quella macchina?” chiede, e
si rifiuta di prendere in mano l'attrezzo. “Solo a titolo di esperimento […]. Anch'io ho provato
qualche anno fa”, le risponde, “e l'ho trovato istruttivo”. Dopo averla rassicurata sul fatto che
la bestia non ha armi di difesa che possano in qualche modo ferirla, le porge di nuovo il
martello. Osservando “la strana macchina che [ronfa] sonoramente mentre [succhia] la
corrente elettrica”, Dirksten lo afferra e si avvicina all'animale. “Ma... sta mangiando”, dice,
volgendosi di nuovo verso Hunt. Un attimo di esitazione, poi cala il martello. Eppure fallisce,
frantumando invece una mattonella del pavimento. L'animale meccanico, accortosi della
potenziale minaccia, ha in tutta fretta ritratto le due sporgenze dalla presa elettrica ed ha
evitato il colpo producendo “uno stridio acuto, simile a un grido di paura”. Dirksen guarda
prima Hunt, che sta ridendo, e poi torna con gli occhi sulla macchina che – non è possibile –
sembra quasi la stia scrutando in attesa della prossima mossa. La donna allora ci riprova. Una,
due, cinque volte. Ma lo scarabeo – programmato per evitare cose simili a se stesso, come la
metallica testa del martello – le sfugge ogni volta. Infine la donna si arrende, ansimante e
rossa in volto. “Metti giù il martello a prendila con le mani”, le suggerisce Hunt. La macchina,
la informa, è costruita per fidarsi del “protoplasma disarmato”.
38
Dirksen [posa] il martello su un bancone e si [dirige] lentamente verso la macchina.
Questa non si [muove]. Le fusa [sono] cessate; pallide luci arancioni [brillano]
dolcemente. Dirksen si [china] e la [tocca] cautamente; [sente] un lieve fremito. La
[raccoglie] guardinga con entrambe le mani. Le luci [diventano] di un verde limpido e
attraverso il gradevole calore dell’epidermide metallica essa [sente] la vibrazione
tranquilla del meccanismo interno (Hofstadter & Dennett 1981/1985).
Hunt le suggerisce di mettere la macchina sul bancone, a pancia in su. Così potrà
colpirla senza che possa schivare il colpo. “Non ho bisogno di antropomorfismi”, lo
ammonisce Dirksen, ormai decisa ad andare fino in fondo. Una volta trovatasi capovolta, la
macchina accende di rosso le proprie piccole luci. Le sue ruote girano a vuoto per un paio di
secondi. Dirksten impugna il martello e lo cala giù con violenza. Colpisce però lo scarabeo
solo di lato, danneggiando una ruota e facendolo balzare di nuovo a pancia in giù. Esso
comincia a girare su se stesso irregolarmente, mentre produce un balbettante cigolio metallico.
Di lì a poco da sotto il ventre arriva uno schianto. Un dimesso lampeggio di luci, poi la
macchina si arresta. Dirksen, turbata, stringe le labbra e si appresta allora a chiudere ogni
discorso. Eppure, proprio quando il martello sta per compiere il proprio compito per l'ultima
volta, dall'interno dell'animale fuoriesce un suono spiazzante, “un debole gemito lacrimoso
che si [alza] e si [abbassa] come il piagnucolio di un bambino”. A questo punto Dirksen si
arrende. Lascia cadere il martello e arretra. Ma, mentre lo fa, non riesce a non guardare –
l'orrore nei suoi occhi – quella “pozza rosso sangue di lubrificante che si [allarga] sul tavolo
sotto la creatura”.
“È solo una macchina”, le ricorda Hunt. Solo una macchina. Programmata per
accorgersi del pericolo e per gridare nel momento in cui deve chiedere aiuto. Solo una
macchina, senza intenzioni, coscienza o dolore. “Spegnila”, gli ordina la donna. Allora Hunt si
avvicina al tavolo e prova a far scattare l'interruttore, ma si accorge che il meccanismo si è
ormai del tutto deteriorato. “Vuoi darle il colpo di grazia?”, le domanda. Dirksen scuote la
testa. È ancora frastornata. Un istante prima che Hunt cali il martello sulla cosa, che ancora
emette quei suoi strazianti e intollerabili lamenti, lei gli chiede se non sia possibile, in qualche
modo, aggiustarla.
È troppo tardi. La donna, colta da un brivido, volta la testa altrove. Si sente uno
scricchiolio metallico, poi nient'altro. L'agonia è finita. Sul tavolo, una cianfrusaglia priva di
vita.
39
3.2. Sensing aliveness
L'utilità del racconto46 è quella di permetterci di riprendere in mano alcuni dei concetti
introdotti nei precedenti due capitoli per tentare di estrarne una sintesi finale. Scopo di questo
lavoro, ed in particolare di quest'ultimo capitolo, è infatti quello di ipotizzare l'esistenza di
meccanismi neurali innati, secondo quanto suggerito e verificato da Caramazza e colleghi 47,
che ci permettano la rappresentazione degli animate living e allo stesso tempo, in conformità
con le idee di Dennett48, di adottare in automatico – in maniera innata – un atteggiamento
intenzionale nei loro confronti. L'ipotesi speculativa è quella che l'evoluzione abbia modellato
le strutture e i circuiti neurali in modo tale da renderci agevole in primo luogo etichettare
alcune entità come organismi viventi e in secondo luogo utilizzare un pragmatico approccio –
l'atteggiamento intenzionale – quando dobbiamo interagire con essi. Il cervello umano
avrebbe così la tendenza geneticamente predeterminata ad associare un'intenzionalità a tutte
quelle entità che, possedendo caratteristiche standard ben riconoscibili, vengono categorizzate
immediatamente come animate living.
Quando Dirksen percepisce e rappresenta per la prima volta lo scarabeo metallico,
Hunt non ha ancora azionato l'interruttore e la macchina non si è ancora messa in moto.
Possiamo ragionevolmente supporre che per il cervello di Dirksen l'oggetto in questione non
possieda quasi nessuna – se non una forma animale più o meno grossolana – delle
caratteristiche salienti che secondo la letteratura di studi neuroscientifici azionano la
rappresentazione cerebrale speciale per gli animate living. Il racconto prosegue in un
crescendo emotivo e la macchina produce movimenti49 e reazioni che sono progressivamente
sempre più equiparabili a quelli che potrebbero caratterizzare un animale in carne ed ossa. A
questo punto si può ipotizzare che il cervello di Dirksen sia sempre più confuso. Molti dei
segnali che la macchina sta lanciando stanno probabilmente cominciando ad azionare quegli
stessi rilevatori neurali – innati, secondo la prospettiva dell'ipotesi dominio-specifica di
46
47
48
49
Il racconto di fantasia può qui essere utilizzato come una sorta di esperimento mentale. Se per alcuni
l'empatia che Dirksen prova per la macchina può suonare un po' forzata, si immagini una macchina
incredibilmente più sofisticata: che abbia per esempio una pelle sintetica ma indistinguibile al tatto da quella
umana, un certo verosimile odore realizzato in laboratorio, un'ampia varietà di espressioni facciali, occhi ben
progettati, una voce modulabile, la possibilità di apprendere ed utilizzare informazioni sullo stato del mondo
che la circonda.
Vedi primo capitolo.
Vedi secondo capitolo.
Abbiamo visto che il cervello umano non fa (ovviamente) distinzione, per esempio, tra movimento biologico
e movimento articolato non biologico – che simula però quello biologico (Martin e Weisberg 2003). Lo
stesso può succedere per l'emissione di suoni artificiali sufficientemente simili a suoni naturali, e così via.
40
Caramazza e colleghi (Caramazza & Shelton 1998; Caramazza & Mahon 2006; Mahon &
Caramazza 2007) – che ci permettono di rappresentare gli organismi viventi. Per certi versi la
macchina sta diventando viva. Almeno agli occhi di chi guarda.
Ciò che in particolare spiazza e illude Dirksen è che la macchina mette in atto quei
comportamenti che lei stessa – e con lei qualsiasi altro essere vivente – adotterebbe nelle
medesime situazioni. Di fronte alla minaccia fugge e lancia segnali di paura, mostra indizi di
gioia quando viene accarezzata, urla messaggi sonori di dolore e disperde liquido rosso sangue
quando viene danneggiata. Quel che in un primo momento era stato categorizzato come
macchina, e quindi come nonliving, sembra invece per chi osserva assumere pian piano
caratteristiche tipiche degli animate living. Sfuma da una categoria all'altra.
Dellantonio, Innamorati e Pastore (2012) esaminano i concetti di animate ed inanimate
living sostenendo che essi – nucleo del sistema di categorizzazione più della dicotomia
living/non living – si formano sulla base delle informazioni disponibili. Gli autori ipotizzano
che la discriminazione tra i due tipi di oggetti avvenga in relazione anche a dati di origine
propriocettiva, non solo esterocettiva. Il ragionamento seguito è questo: dal momento che
alcuni oggetti del mondo mostrano reazioni, movimenti e comportamenti simili a quelli che il
soggetto che percepisce metterebbe in atto se posto nella medesima situazione dell'oggetto
percepito, il soggetto proietta questa sua conoscenza relativa a se stesso sull'oggetto e lo
definisce animato proprio come sente animato se stesso50. In tal senso il sistema cognitivo
creerebbe analogie tra le informazioni percettive relative alla propria persona e quelle che
arrivano dagli oggetti esterni. È quel che sembra accadere a Dirksen nel racconto di fantasia
che abbiamo utilizzato come introduzione. L'oggetto che si comporta come un organismo
vivente51, come farebbe cioè lei stessa se minacciata o ferita, è sempre meno un semplice
oggetto inanimato e sempre più qualcosa con delle intenzioni e una mente, qualcosa che –
secondo quanto confessa Dirksen stessa all'inizio – non si può uccidere con tanta semplicità.
Il punto merita di essere sottolineato ulteriormente. Risulta evidente come, nel
momento in cui la macchina – biologica o metallica che sia – comincia ad assumere strategie
di comportamento paragonabili a quelle degli esseri viventi, nel momento in cui certe strutture
e certi circuiti neurali dedicati agli animate living cominciano ad attivarsi, il soggetto
50
51
D'altra parte siamo noi stessi, i lettori, ad attribuire a Dirksen – un personaggio di finzione – un'intenzionalità
basata sul fatto che lei si comporta come faremmo noi – presumibilmente – se ci trovassimo nella sua
situazione. È per questo che il racconto, generando empatia (ma anche meta-empatia, e cioè
immedesimazione nell'empatia della donna), funziona. Qui sta forse la magia della narrativa.
Ed ha la forma di un essere vivente. Nel primo capitolo abbiamo visto quanto le caratteristiche fisiche
dell'animale siano importanti ai fini di una sua rapida e precisa detezione.
41
percipiente più o meno contemporaneamente cominci ad adottare un atteggiamento
intenzionale nei confronti dell'oggetto che ha di fronte. A prevederne scopi e desideri 52. Quasi
a supporre, volendo, che abbia degli elementari stati mentali. La questione è quella a cui
abbiamo accennato sopra. Se in un percetto osservo certe reazioni e certi comportamenti,
paragonabili a quelli che potrei mettere in atto io stesso nelle medesime condizioni, attribuisco
delle intenzioni al percetto allo stesso modo in cui le attribuisco alla mia persona.
Sembrerebbe così che il concetto di aliveness (Dellantonio, Innamorati & Pastore
2012) non possa essere dissociato, in ottica dennettiana diremmo quasi per definizione, da
quello di atteggiamento intenzionale. Nel momento in cui rappresento un animate living, sarei
dunque portato ad attribuirgli un'intenzionalità.
3.3. Due sistemi interagenti
Percepire un oggetto come animato significa dunque trattarlo automaticamente come
sistema intenzionale. L'ipotesi ha un carattere speculativo e non è semplice verificarla
sperimentalmente, tuttavia ciò non significa che la questione non possa essere affrontata in
nessun altro modo. Possiamo per semplicità immaginare che esistano due sistemi funzionali
specifici, selezionati dall'evoluzione per motivi che abbiamo discusso nei precedenti capitoli,
per ciascuno dei due compiti. Chiameremo AL (animate living) il primo sistema o modulo,
dalle caratteristiche neurali analizzati nel primo capitolo, e AI (atteggiamento intenzionale) il
secondo, meno circoscrivibile e meno meccanico, ipotizzato dalla filosofia della mente ma
ancora per larghi tratti non investigato dalle neuroscienze – anche se scoperte come quelle dei
neuroni specchio e l'utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie di neuroimaging
potrebbero nei prossimi anni contribuire a far maggiore luce sulla questione. Prenderemo ora
brevemente in esame situazioni ipotetiche o patologie particolari nelle quali i due sistemi
sembrano non funzionare nella maniera corretta, provocando comportamenti anomali e allo
stesso tempo corroborando l'ipotesi che essi normalmente lavorino in simbiosi.
3.3.1. AL, ma non AI
Ipotizziamo che in un cervello umano funzioni perfettamente tutto ciò che serve per
52
Nutrirsi di corrente elettrica, evitare gli urti con altri oggetti metallici, e così via.
42
categorizzare gli organismi viventi, tutti quei circuiti che ci permettono una rapida e precisa
detezione dei living, ma che, invece, per qualche motivo il meccanismo che consente di
adottare un atteggiamento intenzionale verso di essi sia danneggiato. AL funziona, AI no.
Cosa ci dovremmo attendere? Sembra una condizione paradossale, ai limiti dell'immaginabile:
il soggetto così caratterizzato sarà in grado di rappresentarsi mentalmente gli animali e gli altri
esseri umani, di differenziarli dai nonliving, ma non saprà attribuire loro alcuna intenzione,
alcuna mente. Il comportamento altrui sarà per lui imprevedibile e gli sarà impossibile
qualsiasi tipo di interazione. Ad un'analisi superficiale tale sembrerebbe la condizione tipica
dell'autismo, che com'è noto comporta principalmente un certo grado di difficoltà di
comunicazione, proprio perché – è solo una delle ipotesi possibili – i soggetti che ne sono
affetti non sono in grado di costruirsi un modello mentale riguardo la mente degli altri. La
letteratura sull'argomento è vastissima e la sua analisi non rientra tra gli scopi di questo
lavoro. A conferma di quanto detto segnaliamo solo un testo realizzato dalla Novartis
Foundation (2005) che passa in rassegna un gran numero di studi sulle basi neurali
dell'autismo e che sottolinea come in diversi esperimenti (tra cui uno di di Baron-Cohen et al.
pubblicato nel 2000) sia emersa nei soggetti autistici una sottoattivazione delle aree cerebrali
dedicate alla lettura della mente, rispetto a gruppi di controllo, in compiti di interpretazione
del pensiero altrui. Sulla base di ciò si può quindi arrivare a sostenere senza alcuna
discussione che la condizione in cui AL funziona regolarmente e AI no è quella tipica
dell'autismo? Pare di no. Numerosi lavori infatti dimostrano che il soggetto affetto da autismo
e dai caratteristici problemi comunicativi ha in primo luogo un deficit proprio nella
categorizzazione degli animate living. Per esempio uno studio realizzato da Klin, Lin,
Gorrindo, Ramsay e Jones (2009) sottolinea come i bambini autistici falliscano spesso nel
riconoscere il movimento biologico, rispetto a bambini non affetti dal disturbo. Un certo
ritardo medio nella discriminazione degli organismi viventi da parte dei soggetti autistici è
stato più volte riscontrato (Rutherford, Pennington & Rogers 2006). L'anomala relazione,
talvolta morbosamente intensa, che i soggetti autistici sviluppano per gli oggetti inanimati,
stimoli forse più semplici da leggere e interpretare rispetto agli organismi viventi53 (Cafiero
2005/2009), può rappresentare in tal senso un'ulteriore conferma 54. In effetti la difficoltà nel
53
54
Non è un caso forse che le capacità comunicative dei soggetti autistici ad alto funzionamento siano
potenziate dall'utilizzo della comunicazione mediata dal computer, la quale senza dubbio filtra alcuni aspetti
comunicativi e rende per questo l'interazione forse più semplice da gestire. Lo sostiene un recente studio di
Van der Aa, Pollmann, Plaat & Van der Gaag (2014).
Sacks (1985/2009), rimarcando come talvolta sia solo l'interazione con gli altri esseri umani ad essere
difficoltosa, così descrive la condizione di un paziente autistico: “ma la speranza, il rivolgersi agli altri,
l'interazione erano «proibiti» e certo spaventosamente complessi e «pericolosi». José aveva vissuto per
43
categorizzare adeguatamente i differenti stimoli – gli animate da una parte, il resto del mondo
dall'altra – potrebbe condurre in simili situazioni patologiche a cercare di interagire con entità
non adatte allo scopo, non predisposte per l'interazione. I dati in nostro possesso in tal senso
sono ancora piuttosto scarsi, ma stando così le cose si può azzardare che nel caso della
condizione autistica entrambi i domini non funzionino a dovere.
Una conclusione plausibile che si può trarre da quanto detto è che chi ha problemi
nell'attivazione di AI – e quindi nell'interazione con le altre persone – dovrebbe avere
necessariamente anche un malfunzionamento di AL.
3.3.2. AI, ma non AL
Immaginiamo ora la situazione inversa. Adesso funziona AI, che mi consente di
prevedere le intenzioni degli altri organismi, ma non AL, grazie al quale discrimino gli
animate living da tutto il resto degli oggetti del mondo. Questa condizione ipotetica,
altrettanto inconcepibile, prevede che io possa adottare un atteggiamento intenzionale,
potenzialmente, verso qualsiasi cosa. Dennett suggerisce che sia utile utilizzare questo tipo di
approccio anche verso artefatti sufficientemente complessi – come lo scarabeo argentato del
racconto di Miedaner – ma non nei confronti di qualunque entità 55. Non verso un sasso. Non
verso un palo della luce. Non verso un fulmine. Sembra infatti assumere le caratteristiche del
patologico – o dell'antropologicamente antico, si pensi all'animismo 56 delle popolazioni
ancestrali – il fatto di attribuire delle intenzioni anche a siffatte entità. In effetti gli oggetti
inanimati hanno intenzioni, parlano e talvolta sono intenzionalmente minacciosi, per esempio,
per pazienti affetti da alcune forme di schizofrenia57. Anche in questo caso, ipotizzare che un
sistema (AI) funzioni e l'altro (AL) no conduce quindi ad immaginare situazioni abbastanza
paradossali, disfunzionali o comunque atipiche. Anche qui sembra che debba esserci una
correlazione necessaria tra AI e AL. È necessaria l'esistenza di meccanismi che separino gli
55
56
57
quindici anni in un mondo chiuso e sorvegliato, in quella che Bruno Bettelheim […] chiama la «fortezza
vuota». Ma per lui non era e non era mai stata completamente vuota; c'era il suo amore per la natura, per gli
animali, per le piante”.
Per l'interpretazione del comportamento di entità più semplici egli prevedeva infatti l'adozione
dell'atteggiamento fisico e dell'atteggiamento del progetto.
In antropologia si utilizza il termine animismo per descrivere tutte quelle religioni o quei culti in cui vengono
attribuite qualità soprannaturali e intenzioni ad oggetti che sono prettamente materiali. Fenomeni atmosferici,
cibo, utensili, armi e luoghi acquistano per le religioni animiste un certo grado di volontà e di intenzionalità e
vengono venerate affinché favoriscano il benessere di gruppi di persone.
“Questa è l'epoca 'animistica' della malattia. […] I limiti, fra il mondo interiore del pensiero e quello esterno
della realtà, divengono sempre più vaghi finché non scompaiono. Gli oggetti divengono minacciosi, esistono,
ghignano e […] insultano” (Sechehaye 1951/2006).
44
organismi viventi dal resto delle altre entità per poter utilizzare con profitto l'atteggiamento
intenzionale solo verso una determinata selezione di tutte queste entità.
In sintesi, per rimanere all'interno del mondo che siamo abituati a conoscere, non sono
pensabili vie di mezzo: o entrambi i domini funzionano, o entrambi non funzionano.
3.4. Intenzioni altrui nel nostro cervello
Sono sempre più numerosi gli studi effettuati negli ultimi anni, anche con l'utilizzo
delle nuove tecnologie, che intendono indagare dal punto di vista scientifico il fenomeno
dell'intenzionalità, e soprattutto, di come essa venga percepita dall'esterno. Utilizzando
strumenti di neuroimaging Saxe, Xiao, Kovacs, Perrett e Kanwisher (2004), dopo aver
ipotizzato che gli esseri umani interpretano le azioni di un altro agente non solo sulla base
delle caratteristiche fisiche che possiede ma anche sulla relazione tra il suo movimento e il
contesto in cui si trova, individuano una regione che si trova in prossimità del solco temporale
posteriore superiore di destra che non è sensibile al movimento articolato di per sé, ma proprio
alle relazioni tra movimento osservato e l'ambiente circostante. Uno studio più recente (Gao,
Scholl & McCarthy 2012) confermerebbe il ruolo svolto da tale regione cerebrale, indicandola
come area dedicata alla percezione delle intenzioni altrui a prescindere dalle caratteristiche
fisiche dell'oggetto percepito. Sarebbe questa l'area, in ultima analisi, in cui si svolgerebbero
le operazioni del sistema che abbiamo chiamato AI.
Le due regioni che si occupano della categorizzazione degli animate living a partire da
caratteristiche percettive (aree inferotemporali, la via del cosa) e dell'attribuzione di
intenzionalità (solco temporale posteriore superiore) sembrerebbero dunque ben separate
almeno a livello neurale – anche se inevitabilmente interconnesse. Col ragionamento
suesposto abbiamo provato ad ipotizzare che la selezione naturale abbia favorito un loro
necessario e pressoché contemporaneo attivarsi58, dal momento che la negazione di questa
interdipendenza comporta effetti non auspicabili, nonché la percezione di un mondo che ci
apparirebbe estremamente anomalo e arduo da esplorare. Studi specifici, che usufruiscano
delle potenzialità offerte da tecnologie quali la TMS, potrebbero concretamente indagare in
futuro come si modifica la percezione e la rappresentazione degli organismi viventi nel
momento in cui vengono lesionate virtualmente – proprio grazie alla TMS – l'una o l'altra
58
Si può inoltre immaginare che ci sia stata una coevoluzione tra i due sistemi.
45
area, rendendo a turno difficoltoso il funzionamento di AI o di AL. Come ci
rappresenteremmo un organismo vivente se fossimo impossibilitati a elaborarne o le
caratteristiche percettive o la sua intenzionalità? Cosa sarebbero per noi, nell'uno e nell'altro
caso, le entità che abbiamo chiamato animate? Avrebbero ancora qualcosa di speciale rispetto
a tutto il resto?
Altri esperimenti che intendano studiare la relazione tra AI e AL potrebbero essere
progettati – per esempio – per osservare quali aree si attivano nel cervello di un bambino alla
vista dell'orsacchiotto col quale si addormenta la sera, l'orsacchiotto a cui parla e a cui –
probabilmente – attribuisce stati mentali59. Si tratta evidentemente di un oggetto,
l'orsacchiotto, che in un certo senso inganna il sistema così come era successo a Dirksen con
la macchina a forma di scarabeo. Ma cosa inganna, ammesso che lo faccia, nello specifico?
AL, dal momento che la sua forma è molto simile a quella di un essere vivente tipico, AI, o
come ci sentiamo di ipotizzare, entrambi i sistemi – prima l'uno e, dunque, poi l'altro? Quale
delle due aree, inoltre, si attiva con più intensità?
Un altro genere di studi potrebbe inoltre verificare come si comporta il nostro cervello
nel momento in cui deve categorizzare entità biologiche che si trovano in diversi punti del
continuum ai cui estremi si trovano gli organismi unicellulari (se non proprio le
macromolecole primordiali) e l'essere umano. In che modo varia il decorso temporale –
misurato con gli ERP – per la percezione e l'elaborazione dei diversi stimoli? Quali regioni
cerebrali si attivano quando mi rappresento internamente un insetto? Sono le stesse che
utilizzo per la categorizzazione dei cani, o comunque di macchine per la sopravvivenza più
complesse? Attribuisco veramente intenzioni ad un'ameba che osservo al microscopio? Fa
essa scattare i miei sensori specifici per gli animate living?
Verso una pianta sembra invece ancora meno naturale e ovvio utilizzare un
atteggiamento intenzionale. Ma pensiamo per un attimo ad un albero appena nato. Pensiamo
ad una macchina fotografica, piazzata di fronte all'albero stesso, che ne registri puntualmente
la crescita, scattando una foto al giorno per un periodo sufficientemente lungo come, per
esempio, dieci anni. Ora montiamo queste migliaia di foto in sequenza cronologica,
comprimendo i dieci anni in un video time-lapse che duri solo qualche minuto. Quello che
osserviamo è il giovane gracile albero che cresce in altezza, che tocca ed evita eventuali
ostacoli (ad esempio, rami di altri alberi o muri), che si adatta rapidamente alla direzione del
59
“È letteralmente un gioco da bambino immaginare il flusso di coscienza di una cosa «inanimata». Ed infatti i
bambini lo fanno in continuazione […]. La letteratura per bambini (per non parlare della televisione) è piena
zeppa di occasioni per immaginare la vita cosciente di queste mere cose” (Dennett 1992/2009).
46
vento più persistente, che cerca in tutta fretta il suo angolo di sole in mezzo al bosco. Cosa
succede nel cervello di chi osserva un video del genere? L'albero è d'improvviso diventato
animato? L'albero adesso ha intenzioni?60 Se venisse percepito e categorizzato a livello
cerebrale come animate living e fosse trattato come dotato di intenzionalità, ciò
significherebbe – suona plausibile – che l'evoluzione ci ha plasmato in maniera tale da
considerate animati e intenzionali sono quei sistemi in cui le reazioni agli stimoli esterni sono
relativamente rapide, stanno entro un certo quantitativo di tempo. E allora concetti come
quelli di intenzionalità, di mente, di aliveness sarebbero validi solo in relazione al
funzionamento pragmatico del nostro cervello, ma non in assoluto.
3.5. Trasformare il cosa in chi
Cominciano inoltre ad essere sempre più diffusi gli studi che analizzano come si
comporta il cervello umano quando deve relazionarsi con entità robotiche sempre più
complesse, quali aree attiva e, soprattutto, se tali pattern di attivazione sono paragonabili a
quelli utilizzati per categorizzare gli organismi viventi. I risultati, che per questioni di spazio
non prenderemo qui in esame, sono controversi, ma a nostro avviso all'interno di tali
situazioni sperimentali è fondamentale tener maggiormente conto della complessità
dell'oggetto stesso e del suo comportamento: studi diversi talvolta portano a conclusioni
diverse proprio perché gli esperimenti non controllano per il grado di complessità dello
stimolo percepito. Sembra abbastanza ragionevole supporre, sulla base di quanto detto in
precedenza, che da un determinato grado di sofisticazione del robot in poi il cervello, che
utilizza un certo tipo di dati oggettivi e di informazioni fisiche per costruirsi il proprio
modello dell'oggetto percepito, non possa più fare una distinzione netta. Un robot
sufficientemente sofisticato61 attiva nel cervello umano le medesime aree neurali degli animate
living dotati di intenzionalità. Se ciò non fosse vero, del resto, saremmo costretti a fare
un'ipotesi ancora più audace e non verificabile: che il cervello in qualche misterioso modo
percepisca cioè negli animate living un'essenza, un qualcosa (a cui faceva inizialmente
60
61
Immaginiamo che in casi del genere possa verificarsi una sorta di contrasto tra ciò che viene elaborato in
maniera bottom-up, a partire dalla pura informazione fisica, e ciò che suggerisce invece la via top-down, la
quale ricorda al soggetto che gli alberi – oggetti già incontrati spesso in passato – sono comunemente ritenuti
oggetti privi di intenzionalità.
Compito della ricerca scientifica è, anche qui, scoprire esattamente quando l'oggetto percepito effettua – ai
nostri occhi – questa sorta di salto ontologico.
47
riferimento Dirksen parlando della differenza tra animali e macchine) di non ben definibile o
analizzabile. In tal caso si dovrebbero introdurre concetti metafisici e si aprirebbero tutta una
serie di nuove problematiche. Sarebbe questa peraltro un'ipotesi non falsificabile in senso
popperiano.
Abbiamo parlato di ingannare il sistema. È chiaro che nel momento in cui l'evoluzione
ha modellato i propri meccanismi per la detezione rapida e precisa degli animate living e per
l'attribuzione di intenzionalità secondo il modello di Dennett, nel mondo non esistevano robot,
orsacchiotti di peluche e video time-lapse. In quel mondo non esistevano simulacri né copie
meccaniche incredibilmente verosimili. L'ambiente ancestrale in cui la selezione naturale ha
formato il nostro cervello prevedeva, semplicemente, che gli animate living fossero
effettivamente gli organismi viventi: le tigri, i serpenti, le lepri da cacciare, gli altri esseri
umani. La cosa funzionava: il fatto di riconoscere un organismo velocemente e senza
commettere troppi errori di valutazione, mentre al tempo stesso se ne intuivano le intenzioni,
portava un palese vantaggio evolutivo. La cosa funzionava, e i meccanismi neurali si sono di
conseguenza adattati e funzionano splendidamente anche al giorno d'oggi. Anche se ora come
ora la tecnologia umana può, se vuole, ingannarli utilizzando tutta una serie di trucchi. E
svelarne così le logiche soggiacenti.
In quei tempi remoti si trattava di scegliere una via, tra tutte quelle possibili. E la scelta
cadde su una strada solida, sicura da percorrere, che portasse dritta alla meta senza troppe
incertezze e con una certa rapidità. Su suggerimento dell'evoluzione, il cervello in fieri aveva
dunque deciso che, tra tutte le entità di cui il mondo era costituito, alcune dovessero essere
etichettate in modo speciale. Quelle che più gli somigliavano. Quelle che avevano
comportamenti simili e, si presuppone, simili stati mentali. Eppure, a ben vedere, si trattava di
una decisione basata solo su questioni di ordine esclusivamente pragmatico. Certe cose
divennero speciali perché l'evoluzione aveva stabilito62 che dovessero esserlo, non perché lo
fossero oggettivamente. Gli animate living sono oggetti peculiari a posteriori, non in sé.
Ragionando a fondo sulla questione si potrebbe concludere, e si tratta di una conclusione di
certo non semplice da accettare, che se non ci fossero cervelli ad interpretare il reale, se non
ci fossero i loro innati schemi di categorizzazione, non esisterebbe nel mondo là fuori quella
differenza che – appunto – ci appare tanto sostanziale tra animate living e nonliving. Così
come, ci ricordano gli studi delle neuroscienze che analizzano il funzionamento dei sistemi
62
È curioso che si tenda a dare un'intenzionalità anche ad un meccanismo cieco, che non ha fini ultimi ma che
si muove a tentoni selezionando di volta in volta alcune mutazioni casuali, come quello dell'evoluzione
darwiniana.
48
sensoriali, non esisterebbero i colori o i suoni, altre opere talvolta meravigliose realizzate dai
nostri cervelli a partire da dati di fredda natura fisica. Senza i nostri cervelli, modellati
probabilmente per auto-percepirsi (e auto-illudersi) come menti dotate di intenzionalità, non
esisterebbero le altre menti e le altre intenzionalità 63. Come ricorda Bellone (1994) neanche
troppo provocatoriamente al termine di un arguto ragionamento: “Non sto cercando di
convincere qualcuno ad abbracciare il punto di vista per cui ogni organizzazione biologica è
corredata di una mente. Sto invece suggerendo che non ci siano menti in alcun luogo”.
Il cervello forma noi e la realtà che ci sta attorno in svariati modi. Realizza la nostra
mente e quelle altrui secondo principi applicabili anche ad altre forme di percezione.
Pensiamo alla pareidolia, per esempio, quell'illusione che ci fa trovare forme note e familiari
in oggetti e profili che hanno invece struttura più o meno casuale. Il meccanismo che vi sta
alla base ha una funzione fondamentale, ma spesso sbaglia per eccesso e ci fa scovare facce
anche laddove non ci sono. È stato selezionato dall'evoluzione probabilmente per favorire –
anche qui – il riconoscimento rapido di eventuali predatori pronti all'assalto. Il fatto che si
presenti un alto numero di falsi positivi – i quali causano la pareidolia stessa 64 – è legato a
questioni di sopravvivenza, di fitness: meglio allertarsi e fuggire a vuoto, nel dubbio, che non
allertarsi affatto per poi trovarsi davanti la presenza effettiva di un animale minaccioso.
Meglio un'inutile e magari faticosa fuga che la morte. I meccanismi che ci consentono di
scovare gli animate living dotati di intenzionalità all'interno del mondo circostante sembrano
utilizzare la medesima logica. Siamo fatti per scovare aliveness, menti ed intenzionalità65
63
64
65
“Voi e io siamo miraggi che percepiscono sé stessi, e l'unico macchinario magico dietro le quinte è la
percezione […]. Quando nel mondo della fisica interviene una percezione a livelli arbitrariamente alti di
astrazione, […] allora il «cosa» si trasforma in «chi». Ciò che prima sarebbe stato etichettato senza storie
come «meccanico» e automaticamente bocciato come candidato per la coscienza [e per l'intenzionalità],
dovrà essere riconsiderato” (Hofstadter 2007/2008).
Sarebbe interessante peraltro indagare quanto l'illusione pareidolica sia influenzata da fattori cognitivi. A chi
scrive è capitato di vedere, per pochissimi istanti, il volto di Galileo – quello reso noto dai diversi dipinti che
lo ritraggono – in una struttura casuale di foglie e rami secchi, proprio mentre la radio stava passando una
lettura teatrale di Vita di Galileo di Beltolt Brecht.
Il già citato L'io della mente (Hofstadter & Dennett 1981/1985) contiene un immaginario e brillante dialogo
tra un essere umano e Dio. Il testo si intitola Dio è taoista?, è stato scritto da Raymond M. Smullyan e tiene
una posizione che è piuttosto in risonanza con alcune delle idee citate in questo lavoro. Quando l'umano
chiede a Dio se quest'ultimo sia da considerarsi una divinità personale o no, Dio risponde così: “[...] la
cosiddetta 'personalità' di un essere è in realtà più nell’occhio di chi guarda che nell’essere in questione […].
Da un certo punto di vista io sono personale, da un altro non lo sono. Per un essere umano è la stessa cosa:
una creatura di un altro pianeta può vederlo in modo puramente impersonale, come semplice insieme di
particelle atomiche che si comportano secondo leggi fisiche rigorose. Questa creatura potrebbe provare per la
personalità dell’essere umano la stessa considerazione che l’uomo comune ha per una formica. Eppure una
formica ha tanta personalità individuale quanta un essere umano per esseri che, come me, conoscono
veramente la formica. Vedere una cosa come impersonale non è né più giusto né più sbagliato che vederla
come personale, ma in genere quanto più si conosce qualcosa tanto più personale essa diventa” (Hofstadter
& Dennett 1981/1985).
49
all'interno del mondo che ci circonda esattamente così come siamo fatti per estrarre facce da
uno sfondo. Entrambi i sistemi possono essere ingannati da strutture che sembrano modellate
apposta per azionare determinati meccanismi neurali, ma che non sono esattamente gli stimoli
per i quali tali meccanismi sono stati selezionati: ed è allora che un certo pattern di rocce sul
suolo di Marte ci ricorda una faccia, o che le macchine per la sopravvivenza primordiali a cui
accennava Dawkins e lo scarabeo argentato di Miedaner assumono per noi vitalità e
intenzionalità. Ed è allora, spingendo il tutto un po' più in là, che qualsiasi essere vivente ci
appare un essere vivente. Nella stessa misura in cui noi appariamo tali a noi stessi.
3.6. Conclusioni
Nel primo capitolo abbiamo passato in rassegna alcuni dei più recenti studi di
neuroscienze sulla categorizzazione dei living e in particolare del loro sottoinsieme, gli
animate living. Abbiamo visto che nel cervello esistono, secondo un filone sempre più
consistente di ricerche, delle strutture e dei processi innati – dei domini specifici – che ci
permettono di riconoscere automaticamente questi stimoli, i quali rispetto agli stimoli di tipo
nonliving vengono discriminati con più velocità e con un minor numero di errori. Nel secondo
capitolo ci siamo soffermati sul concetto di atteggiamento intenzionale: un'idea sulla quale il
filosofo della mente Daniel Dennett ha fondato la sua complessa teoria sul funzionamento dei
processi mentali e della coscienza. L'atteggiamento intenzionale è quell'approccio che
tendiamo automaticamente ad adottare nei confronti degli organismi viventi (ma non solo) per
cercare di prevederne stati mentali, scopi e desideri e quindi per poter interagire con loro. Per
Dennett si tratta di un meccanismo che è implementato nel nostro cervello fin dalla nascita, in
quanto comporta un vantaggio evolutivo per chi lo possiede ed è dunque stato preservato e
potenziato dalla selezione naturale. Nel terzo capitolo, utilizzando in primo luogo un racconto
di fantasia come esperimento mentale che possa fornire spunti di discussione, abbiamo cercato
di fare una sintesi tra i due concetti sopra esposti, accomunati dal loro essere innati, tentando
di indagare – in maniera per lo più speculativa – che tipo di relazione ci sia tra di essi.
L'ipotesi che abbiamo formulato è che nel momento in cui il nostro cervello, nella sua
costante scansione dell'universo, individua un animate living, automaticamente – diremmo
quasi in contemporanea – esso tende ad attribuirgli un'intenzionalità. Perché ciò è utile a fini
evoluzionistici. Utilizzando solo strumenti logici e speculativi, si è provato a pensare a cosa
50
succederebbe se tale relazione che abbiamo postulato come necessaria non sussistesse, e se a
turno solo uno dei due sistemi – innescati secondo alcuni studi in aree diverse del cervello –
fosse funzionante e l'altro no. Le conclusioni che abbiamo tratto – le quali prefigurano un
mondo completamente diverso da quello che percepiamo quotidianamente – sembrano
indicare che tra i due meccanismi non possa che esserci uno stretto legame. Essi paiono
necessariamente interdipendenti.
Gli studi che cercano di indagare le caratteristiche neurali dell'atteggiamento
intenzionale (e di quella che viene chiamata teoria della mente), vista la complessità e la
vastità del campo di ricerca, non sono semplici da progettare. Eppure da qualche anno, anche
grazie all'utilizzo di nuove tecnologie di scansione cerebrale, essi cominciano pian piano a
diffondersi. Da parte nostra crediamo che un buon metodo per studiare i substrati neurologici
di questo nostro particolare e automatico atteggiamento verso gli altri esseri viventi, nonché la
sua correlazione con i meccanismi di identificazione e categorizzazione degli animate living,
sia osservare come si comporta il cervello quando si trova di fronte a situazioni particolari,
casi limite, illusioni percettive, simulacri di vita biologica. Un approccio che cerchi di
spiegare come uno stimolo inganna il sistema articolato e interconnesso di percezione, di
categorizzazione e di attribuzione dell’intenzionalità potrebbe contribuire a far maggior luce
su come funziona il sistema stesso. A far capire ancora meglio quali caratteristiche particolari
dello stimolo esso trova rilevanti, quali sono quei dettagli che lo fanno mettere in moto.
Studi simili potrebbero aiutare tra l'altro a fornire preziosi elementi per la
comprensione di anomalie cliniche quali per esempio l'autismo, caratterizzato da problemi
comunicativi e da deficit di categorizzazione che sembrano coinvolgere direttamente le
strutture e i meccanismi di cui abbiamo parlato in questo lavoro, certe forme di schizofrenia
ma anche, immaginiamo, la mancanza di empatia evidenziata da alcuni soggetti affetti da
disturbo psicopatico e antisociale.
La riflessione sui risultati sperimentali, infine, potrebbe portarci su una strada
filosoficamente impervia, la quale ci condurrebbe passo dopo passo a rivalutare nozioni del
comune sentire che tendiamo a dare per scontate ma che, alla luce di quanto potremmo
apprendere grazie alle nuove prove empiriche, tali non sarebbero. Si tratterebbe allora di
riconsiderare e rivalutare concetti basilari tra di loro intrecciati come quelli di vita biologica e
mente, nonché di io, di coscienza e di libero arbitrio. Idee che sono sempre apparse
intoccabili, fondamenti dell’esistenza umana mai davvero intaccati dalla pura speculazione,
potrebbero andare incontro a profonde ristrutturazioni. Se la mente e l'intenzionalità altrui
51
esistono solo come mere congetture elaborate dall'esterno per ragioni di ordine pratico, se
rappresentano cioè solamente strumenti conoscitivi e interpretativi utilizzati con profitto dal
cervello, la materia stellare auto-organizzatasi che chiamiamo cervello, l'inevitabile
conclusione è che si possa arrivare a metterne in dubbio l'effettiva realtà ed a pensarle
esclusivamente come costrutti teorici. Sarebbe questa una rivoluzione di enorme portata, in
grado di ridefinire ulteriormente il ruolo dell'uomo nell'universo.
52
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