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Scuola di PSICOLOGIA Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche Indirizzo in Psicologia dei Processi Cognitivi MECCANISMI CEREBRALI INNATI DI RAPPRESENTAZIONE DEGLI ANIMATE LIVING E ATTEGGIAMENTO INTENZIONALE DI D. C. DENNETT UNA CONNESSIONE TRA NEUROSCIENZE E FILOSOFIA DELLA MENTE INNATE BRAIN MECHANISMS IN THE REPRESENTATION OF ANIMATE LIVING THINGS AND D. C. DENNETT'S THEORY OF INTENTIONAL STANCE A CONNECTION BETWEEN NEUROSCIENCE AND PHILOSOPHY OF MIND Relatore Maria Pia Viggiano Candidato Gianluca Bartalucci Anno Accademico 2013/2014 2 INDICE CAPITOLO 0. Introduzione 3 CAPITOLO 1. La rappresentazione degli animate living 5 1.1 Alla base del concetto di categoria 5 1.2. Categorizzazione nella psicologia cognitiva: alcuni modelli 7 1.3. Nuovi modelli sulla conoscenza concettuale 10 1.4. Controversie sulla formazione delle categorie dei living 12 1.5. I living secondo l’ipotesi dominio-specifica 16 1.6. Gli animate living 19 CAPITOLO 2. L'atteggiamento intenzionale di Daniel C. Dennett 25 2.1. L'evoluzione paradossale dell'intenzionalità 25 2.2. L'atteggiamento intenzionale 28 2.2.1. Animali che leggono intenzioni 32 2.2.2. Antropomorfizzazioni 34 CAPITOLO 3. Animate living e atteggiamento intenzionale: un legame inevitabile? 36 3.1. L'anima dell'animale modello III 36 3.2. Sensing aliveness 39 3.3. Due sistemi interagenti 41 3.3.1. AL, ma non AI 41 3.3.2. AI, ma non AL 43 3.4. Intenzioni altrui nel nostro cervello 44 3.5. Trasformare il cosa in chi 46 3.6. Conclusioni 49 BIBLIOGRAFIA 52 3 0. Introduzione Il grande astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan sostenne che l'uomo, costruito con materiale di provenienza stellare, è un mezzo che il cosmo utilizza per conoscere se stesso. La capacità di esplorare il mondo là fuori deriva dagli strumenti percettivi che l'evoluzione darwiniana ci ha fornito in miliardi di anni, rendendoci macchine biologiche estremamente sofisticate, adatte (grazie alla selezione naturale) ed adattabili (grazie alla plasticità di un cervello che si modifica con l'esperienza) ai vari contesti ecologici in cui dobbiamo muoverci. Tra tutte le entità che siamo in grado di conoscere ce ne sono alcune che per il nostro cervello rappresentano qualcosa di davvero speciale: probabilmente ciò è dovuto al fatto che tali entità, a cui peraltro siamo legati dalla storia filogenetica, ci assomigliano terribilmente. Esse fuggono, mangiano, aggrediscono e probabilmente provano emozioni di un certo tipo esattamente come noi. Esse hanno un'intenzionalità, una mente, talvolta persino una coscienza. O qualcosa che ai nostri occhi gli si avvicina tantissimo. Questo lavoro intende proporre alcune riflessioni, ispirate dal solido materiale messo a disposizione dalla ricerca empirica, sul rapporto che viene ad instaurarsi tra la nostra capacità di classificare e rappresentare a livello cerebrale tali entità senzienti – gli esseri viventi animati, o animate living – e il tipo di approccio che adottiamo verso di esse nel momento in cui dobbiamo iniziare un'interazione con loro. Nel primo capitolo, che ha un'impostazione prettamente neuroscientifica, verranno passati in rassegna diversi studi, anche piuttosto recenti, che corroborano l'idea secondo cui la nostra capacità di rappresentazione speciale degli animate living è innata. Fin dai primi giorni di vita il cervello di un bambino è secondo questa prospettiva capace di discriminare – o capace di svilupparsi in tal senso – gli organismi viventi da tutti gli altri oggetti, nonché di riconoscerli in maniera più rapida e precisa valutando caratteristiche come la forma e il movimento. Queste scoperte sono state rese possibili dall'introduzione delle nuove metodologie di scansione cerebrale, dall’utilizzo di tecniche elettrofisiologiche e dagli importanti contributi forniti negli ultimi decenni dalla neuropsicologia, la quale ha evidenziato l'esistenza di agnosie particolarmente selettive in soggetti reduci da traumi o affetti da particolari patologie. Alcuni di questi deficit di rappresentazione riguardano proprio le categorie dei living e degli animate living: la loro scoperta ha spinto diverse ricerche a testare l'ipotesi che per tali tipi di stimoli esistano meccanismi neurali dedicati. Nel secondo capitolo verrà introdotto invece il concetto di atteggiamento intenzionale. 4 Si tratta di un'intuizione di cui il filosofo Daniel Dennett si serve per organizzare le sue idee sulla mente e sulla coscienza. Egli ipotizza che gli esseri umani siano dotati – anche qui, fin dalla nascita – di processi cognitivi specifici per attribuire intenzionalità agli altri esseri viventi – e non solo. Il concetto indirettamente rinvia a questioni di cui le neuroscienze si occupano già da diversi anni, quali la scoperta e il funzionamento dei cosiddetti neuroni specchio e i meccanismi metarappresentazionali (teoria della mente) che favorirebbero l'interazione umana facendoci comprendere gli stati mentali altrui. Che ci debba essere una necessaria interdipendenza tra i processi percettivi e rappresentazionali che ci consentono di categorizzare automaticamente gli animate living e quelli che ci permettono di adottare verso di essi l'atteggiamento intenzionale dennettiano è un'ipotesi che future ricerche potranno indagare empiricamente. Il terzo capitolo prova a discutere, in maniera esclusivamente speculativa, come modificherebbe la nostra visione del mondo la negazione di tale interdipendenza. Si tenta qui di introdurre brevemente anche alcune idee su possibili esperimenti che mirino ad individuare il funzionamento e i limiti di questo duplice meccanismo. Ulteriori ricerche in questo campo, affascinante ma non semplice da esplorare, potrebbero contribuire a far luce anche su problematiche di natura clinica e allo stesso tempo portare elementi utili ad una discussione filosofica che si protrae da tempo immemorabile. 5 1. La rappresentazione degli animate living 1.1 Alla base del concetto di categoria Senza una minima ed embrionale capacità di categorizzazione non ci sarebbe la vita. Se seguiamo l'intuizione di Dawkins (1976/1992) e pensiamo agli organismi viventi come a macchine per la sopravvivenza dei geni, modellati dall'evoluzione per la miglior resa possibile in termini di adattabilità all'ambiente e quindi di replicazione del proprio materiale genetico, si può arrivare a sostenere la tesi provocatoria che i processi di categorizzazione – nelle loro forme più rudimentali ed essenziali – siano sorti in concomitanza con l'origine della vita. Possiamo infatti immaginare che gli estremamente semplici organismi che miliardi di anni fa sono apparsi sulla Terra abbiano fin da subito avuto bisogno, per sopravvivere e per riprodursi, di suddividere1 il mondo – per esempio – in materiale nutriente e materiale nocivo, ma anche di discriminare tra compagni con cui riprodursi e nemici da combattere. Tale urgente necessità di estrazione di significato dall'ambiente, con relativa assegnazione – ovviamente inconsapevole – dei diversi stimoli ad un numero esiguo di classi, ha rivestito subito un ruolo di essenziale importanza per gli esseri viventi che cominciavano ad esplorare il pianeta. La macchina per la sopravvivenza che meglio riusciva nell'operazione aveva infatti un vantaggio evolutivo nei confronti di quella che invece produceva più errori in fase di discernimento. I meccanismi che meglio semplificavano la complessità dell'ambiente favorivano la diffusione della vita. Possiamo supporre che l'incontro con una certa grossolana categoria di stimoli presenti nel mondo esterno, raggruppati secondo caratteristiche simili, causasse negli organismi reazioni determinate dalla qualità degli stimoli stessi. Gli oggetti buoni portavano ad avvicinarsi, e più lo facevano più il vantaggio evolutivo era maggiore. Quelli cattivi spingevano alla fuga. Due categorie, per quanto rozze e perfettibili, erano già state create. L'uomo è una macchina per la sopravvivenza incredibilmente complessa. Rispetto ai suddetti limitati organismi ha sviluppato sistemi di adattabilità all'ambiente di gran lunga più 1 Parlare di rappresentare o di concettualizzare significherebbe attribuire una mente a questi organismi primitivi (si prenda ad esempio un organismo unicellulare), cosa che suona certamente assai stonata. Come può un'ameba farsi una rappresentazione mentale? Dove si trova la mente in un'ameba? Per quanto l'idea possa apparire in un primo tempo assurda, la questione è invece aperta e discussa, almeno a livello filosofico. Ce lo ricorda tra gli altri Sacks (2014). Tracce, o isomorfismi (Hofstadter, 1979/1984), che corrispondono agli stati del mondo devono in qualche modo trovarsi anche all'interno di questi organismi semplici, in modo da guidarne il comportamento – le reazioni – nella maniera più adeguata. 6 sofisticati. E un numero di categorie assai più ampio, ordinate in strutture gerarchiche, che svolgono anche funzioni sociali. Eppure il legame filogenetico con essi rimane innegabile e a livelli di astrazione sufficientemente elevati si può comprendere come la categorizzazione degli stimoli, oggi considerata – giustamente – un processo cognitivo di alto livello, abbia radici collocabili in epoche remote: a ben vedere si tratta pur sempre di dare, oggi come allora, un'organizzazione il più funzionale possibile alle tracce che l'ambiente lascia dentro di noi attraverso i sensi. Detto questo, non c'è bisogno di sottolineare ancora una volta quanto la notevole capacità di creare categorie dentro le quali rubricare gli elementi del reale, nonché l'abilità nel costruire simboli mentali che stanno per gli oggetti del mondo, siano nell'uomo assai più articolate e probabilmente in correlazione sia con lo sviluppo filogenetico che con quello ontogenetico dei processi di coscienza2. Ma cosa si intende esattamente per categorizzazione? In cosa consiste questa capacità che nell'uomo è diventata tanto raffinata? Le definizioni e le risposte possono essere molteplici e variare a seconda del punto di vista che si è adottato. Scegliendo un approccio più filosofico non si può non citare seppur brevemente ciò che sull'argomento hanno proposto Aristotele e Kant. Se per il primo le categorie erano gruppi che raccoglievano le qualità oggettive che si possono predicare di un oggetto, per il secondo – in linea con quella che egli stesso descrisse come una nuova rivoluzione copernicana nell'ambito della teoria della conoscenza – le griglie categoriali che l'uomo applica ai fenomeni si trovano all'interno dell'intelletto dell'uomo stesso e hanno caratteristiche soggettive. Le categorie kantiane sono dunque degli schemi precostituiti, dei filtri che l'essere umano possiede e che utilizza nel suo incessante lavoro di percezione e organizzazione dell'universo3. In linea con quanto suggerito da Kant possiamo intendere la categorizzazione come un processo attivo che gli esseri umani compiono per semplificare la realtà, raggruppando in classi stimoli in qualche modo assimilabili, senza però lasciarsi sfuggire il significato e l'essenza di ciò che percepiscono (Hofstadter 2007/2008). In tal senso le categorie sono un'astrazione e un reticolo di cui ci serviamo per mettere in risalto analogie e differenze della porzione di mondo che ci interessa e che stiamo esplorando (Mantovani 2005), una sorta di collante mentale che fonde le 2 3 Secondo Hofstadter (2007/2008), per il quale sé ha lo stesso significato di coscienza, “quanto più ricco ed efficiente sarà l'apparato che consente di categorizzare, tanto più ricco e sviluppato sarà il suo sé. Viceversa, quanto più povero sarà il repertorio di categorie di un organismo, tanto più esile sarà il suo sé, fino al punto di scomparire del tutto”. Il pensiero di Kant è in realtà – ovviamente – più complesso e la sua analisi va oltre gli obiettivi di questo lavoro: per esempio egli differenzia tra concetti puri e concetti empirici, una distinzione che nell'ambito della psicologia potrebbe ricordare a grandi linee quella tra meccanismi geneticamente predeterminati e funzioni sviluppate in rapporto con l'ambiente. Su possibili parallelismi tra le idee del filosofo tedesco e le neuroscienze si veda Vallortigara (2014). 7 esperienze passate con l’attuale interazione con l’ambiente. Per dirla in altro modo, spostandoci un po' di più verso il punto di vista della psicologia cognitiva e delle neuroscienze, l'attività di categorizzazione è il sistema usato dal nostro cervello per sezionare il continuum dei fenomeni – di tutte le entità che siamo in grado di percepire – in gruppi discreti secondo un set di regole che gli studiosi stanno cercando di inquadrare già da alcuni decenni all'interno di un dibattito tutt'ora aperto. Come risultato finale di tale processo cognitivo abbiamo le categorie, la cui creazione comporta che la percezione di un elemento appartenente ad una certa classe provochi all'interno del cervello di chi percepisce una risposta che sarà simile per ogni altro elemento appartenente alla medesima classe. Cane, gatto e giraffa, secondo questa ipotesi, faranno lampeggiare in una certa area o in un certo circuito cerebrale lo stesso simbolo – lo stesso pattern di attivazione di neuroni – che grossomodo dovrebbe corrispondere al concetto di animale. Quella di formare categorie e concetti, unità elementari del pensiero, è dunque una capacità che nell'uomo si è affinata nel tempo, probabilmente in coevoluzione con lo sviluppo della corteccia cerebrale e con la maturazione del sistema di autocoscienza: si tratta di processi che – almeno in alcuni casi – paiono piuttosto plastici e che ci permettono di estrarre sufficiente informazione dal mondo circostante, processi che sono alla base di funzioni umane complesse come quelle della socializzazione e dell'apprendimento. 1.2. Categorizzazione nella psicologia cognitiva: alcuni modelli Nell'ambito degli studi cognitivi un lavoro pioneristico sulla categorizzazione e sulla formazione dei concetti è A study of thinking di Bruner, Goodnow e Austin (Benjafield 1992/1995), che si sofferma in particolar modo sulla relazione tra gli attributi e le categorie, e sulle caratteristiche che i primi devono avere nella definizione delle seconde. Bruner et al. affrontano il problema attraverso alcuni esperimenti condotti in laboratorio, i quali mostrano come nella formazione dei concetti a partire da attributi più o meno rilevanti i soggetti sperimentali utilizzino strategie diverse (approcci olistici ma anche di natura induttiva) e un certo numero di regole logiche quali la disgiunzione, la congiunzione e la relazione. Questi studi sono stati successivamente criticati per la scarsa validità ecologica (Benjafield 1992/1995). Notevole è stato l'impatto provocato dagli studi della Rosch negli anni '70. Il suo 8 modello, noto come teoria dei prototipi ed elaborato a partire da studi sulla percezione e sulla rappresentazione dei colori (Rosch 1973), si basava su due principi fondamentali: quello dell'economia cognitiva e quello della struttura del mondo percepito. Secondo il primo principio il processo di categorizzazione deve mediare tra due tendenze contrastanti, cercando un compromesso tra esigenze di conoscenza e sforzo cognitivo. Da una parte saremmo portati a creare un numero potenzialmente infinito (e quindi inutile) di categorie – in teoria tante quanti sono i fenomeni del mondo –, con nessuna perdita di informazione ma con costi cognitivi altissimi. Dall'altra avverrebbe invece l'opposto, con l'utilizzo parsimonioso di un numero troppo esiguo di classi: la conseguenza sarebbe l'eccessiva perdita di informazione riguardante ogni singolo evento. Il secondo principio introdotto dalla Rosch è quello della struttura del mondo percepito, che prevede che al momento della formazione delle categorie si tenga conto del fatto che alcune combinazioni di attributi tendono a presentarsi assieme più spesso di altre (Rosch 1978). In tal senso, un'analisi probabilistica inconscia favorirebbe la creazione di alcune categorie piuttosto che di altre. Un elemento decisivo del modello emerso dagli studi della Rosch è l'idea secondo cui la categorizzazione avviene su due dimensioni, una verticale e una orizzontale. La prima riguarda in particolare l'estensione di una certa categoria e fa riferimento di solito a tre livelli: un livello sovraordinato, più esteso e più astratto (ad esempio, strumento musicale), uno di base (chitarra) e uno subordinato (chitarra elettrica)4. Si sottolinea l'importanza del livello base – i bambini sanno usare meglio parole come chitarra rispetto a strumento musicale e a chitarra elettrica –, generalmente il più utilizzato, che rappresenta una sorta di compromesso tra la grande e poco maneggiabile estensione dei livelli sovraordinati e l'eccessiva specificità di quelli subordinati. La funzione della dimensione orizzontale è invece quella di individuare, all'interno di ciascun livello di ogni categoria, quegli elementi che sono più tipici di altri. Questi esemplari sono detti prototipi e condividono molti attributi con i membri della stessa categoria e pochi – il meno possibile – con i membri di altre categorie (Rosch 1978). Un studio ha mostrato che, per la categoria sovraordinata veicolo, automobile è forse non a sorpresa di gran lunga più rappresentativo (prototipico) di skate-board (Rosch, 1975, citato da Benjafield, 1992/1995, p. 93). Altre teorie meritevoli di una citazione sono quella delle categorie ad hoc di Barsalou, che prevede che le categorie abbiano una struttura sfuocata e che possano essere create in 4 Si può immaginare che il processo di categorizzazione possa scendere anche sotto il livello subordinato (chitarra elettrica), riferendosi a oggetti con ancora minore estensione (chitarra elettrica Fender, la mia chitarra elettrica etc.). 9 risposta a situazioni specifiche, arrivando a contenere anche elementi che non hanno nessun attributo in comune, e quella dei modelli cognitivi idealizzati di Lakoff. Questo modello sottolinea come nella creazione delle categorie l'esperienza svolga un ruolo fondamentale: tutti gli uomini nascono forniti di modelli cognitivi idealizzati, astratti e generali, che si modificano e si adattano alle circostanze specifiche – storiche, culturali, personali – che i soggetti sperimentano5. Il risultato di tale adattamento sono sistemi concettuali e categorie che possono variare anche in maniera significativa da un soggetto all'altro e, soprattutto, da una cultura all'altra (Benjafield 1992/1995). Questi modelli – di cui abbiamo presentato solo una breve rassegna – sono stati sviluppati a partire da studi di tipo quasi esclusivamente comportamentale e non tengono conto – anche per ovvi motivi storici – di tutto ciò che succede nel sottosuolo, laddove i processi cognitivi prendono vita: ci riferiamo qui alle basi neurali e alle caratteristiche fisiologiche del cervello. Un contributo decisivo ad una comprensione più profonda dei processi di categorizzazione giunge negli anni '80 dalle intuizioni della neuropsicologia e dallo studio delle agnosie, la cui sorprendente logica apre scenari completamente nuovi sull'individuazione del ruolo delle varie aree cerebrali e falsifica molte delle teorie fino a quel tempo ritenute valide. Si impone così la formulazione e l'adozione di modelli che non possano non tenere conto delle nuove scoperte nonché dell'introduzione di nuovi rivoluzionari metodi d'indagine. Col perfezionamento delle tecniche di neuroimaging, che si vanno ad affiancare a quelle fisiologiche e comportamentali e che permettono di osservare in vivo ciò che succede all'interno del cervello di un soggetto umano che sta portando avanti un determinato compito, si può avere così una visione più chiara di come ad un certo comportamento corrisponda l'attivazione di una determinata regione cerebrale. Le neuroscienze cognitive, che vedono l'utilizzo da parte della psicologia cognitiva di metodi nuovi e spesso non invasivi 6, cominciano a muovere i primi passi verso la fine degli anni '70 (Gazzaniga, Ivry & Mangun 2002/2005). Inquadrando il rapporto mente/cervello sotto un altro punto di vista, più ampio e informato, esse rappresentano oggi lo strumento d'indagine privilegiato per la comprensione di processi di alto livello come, tra gli altri, quelli che riguardano la categorizzazione. I concetti, si sottolinea con sempre maggior enfasi, sono necessariamente il risultato del 5 6 Il funzionamento dei modelli cognitivi idealizzati può ricordare a larghi tratti quello della conoscenza linguistica innata di Chomsky. Quello delle neuroscienze cognitive è un approccio estremamente multidisciplinare: oltre a comprendere – e a verificare – i classici modelli della psicologia cognitiva, elementi utili allo sviluppo della disciplina arrivano anche dalla neuropsicologia, dalle scienze cognitive e dagli studi sull'intelligenza artificiale, dalla psicologia sperimentale, dalla neurofisiologia, ma anche – se vogliamo – dalla psicopatologia, dall'etologia, dalla biologia evoluzionistica, dall'antropologia e dalla filosofia della mente. 10 reclutamento e dell'attivazione di un certo numero di neuroni all'interno del cervello. 1.3. Nuovi modelli sulla conoscenza concettuale Il modello proposto dalla Rosch, per anni tra i più influenti, viene superato nel momento in cui si scopre che ci sono persone che presentano dei deficit specifici nella rappresentazione di particolari stimoli. Quel principio secondo cui il nostro sistema di organizzazione della conoscenza opera soprattutto su una dimensione verticale, trattando tutti gli stimoli in maniera uniforme, viene meno quando ci si trova a dover spiegare tipi di agnosie insospettabilmente selettive, che riguardano alcune categorie e sottocategorie di fenomeni ma non altre, e fa luce su un fatto che pare sempre più incontrovertibile: per il cervello gli stimoli non sono tutti uguali. Molti di essi vengono infatti processati in maniera differente, in aree cerebrali specifiche e con tempistiche diverse. La letteratura sui tipi di deficit selettivi che sono stati osservati (soprattutto) a partire dagli anni '80, in quella che Martin e Caramazza (2003) definiscono l'era moderna degli studi sulla rappresentazione concettuale degli oggetti, è pressoché sterminata. Tra i lavori più meritevoli di citazione ci sono senza dubbio quelli della Warrington e dei suoi colleghi, i quali si soffermano in particolar modo sulla relazione tra le lesioni subite dai soggetti e l'incapacità da essi mostrata nella rappresentazione di determinate classi – e sottoclassi – di stimoli. Uno studio (Warrington & Shallice 1984) riporta come 4 soggetti ricoverati per encefalite da herpes simplex avessero mostrato dei problemi nel riconoscimento di alcune categorie di stimoli visivi, mentre la concettualizzazione di altre classi era rimasta intatta. In particolare si era notata in tutti i soggetti un'improvvisa dissociazione tra il riconoscimento degli oggetti inanimati (nonliving) da una parte e gli organismi (living) – e il cibo – dall'altra. Ciò significa evidentemente che gli stimoli erano analizzati da due sistemi (o circuiti) esperti. Uno dei pazienti aveva inoltre mostrato alcune difficoltà nella comprensione della parole concrete, mentre non aveva alcun problema con quelle più astratte. Un'altra ricerca (McCarthy & Warrington 1986) mostra invece come un soggetto senza altre apparenti disfunzioni trovasse difficoltoso riconoscere anche gli oggetti più comuni: anomalie riscontrate con l'utilizzo della risonanza magnetica (MRI) in alcune aree dell'emisfero di sinistra rafforzarono l'ipotesi di un processamento unilaterale del cervello per alcuni tipi di stimoli, in particolar modo gli strumenti (tool) (Warrington & McCarthy 1983). Evidenze sul ruolo dell'emisfero sinistro – in 11 soggetti destrimani – nella rappresentazione dei tool sono arrivate anche più recentemente da un gran numero di ricerche che hanno sfruttato le potenzialità delle tecniche di neuroimaging, caratterizzate da risoluzioni spaziali e temporali sempre più alte 7 (Johnson-Frey 2004; Frey 2008). Negli anni emerge inoltre come le lesioni possano danneggiare selettivamente i sistemi che rappresentano e riconoscono i verbi ma non i sostantivi (McCarthy & Warrington 1985), i nomi delle persone ma non i nomi degli oggetti (Miceli, Capasso, Daniele, Esposito, Magarelli & Tomaiuolo 2000) e le facce delle persone ma non altri tipi di stimoli8, come succede nei soggetti affetti da prosopagnosia, anche se la più evidente dissociazione emersa dagli studi della Warrington e colleghi rimane quella tra living, e cioè organismi biologici, e nonliving (Mahon & Caramazza 2007). Tutto ciò sta a significare che la costruzione delle categorie è un fenomeno estremamente complesso che si appoggia ad un molteplicità di sistemi dedicati, correlati a strutture neurali che possono esser lesionate e/o non funzionanti, in grado di processare gli attributi degli stimoli in una maniera così dettagliata che fino a qualche decennio fa era ritenuta impensabile. Attualmente è in corso un dibattito sul modo in cui i sistemi funzionali che permettono la rappresentazione delle categorie si formino effettivamente nel cervello. I modelli presentati sono molteplici ma il dibattito è – in linea con la tradizione degli studi psicologici – ancora una volta riconducibile all’eterna dicotomia tra natura e ambiente o, più nello specifico, tra determinismo genetico ed esperienza. Da una parte troviamo studiosi che sostengono l'esistenza innata di specifici meccanismi e di strutture che ci permettono fin dalla nascita di categorizzare il mondo in una maniera ben determinata. I meccanismi sarebbero adattativi in quanto selezionati nel corso del processo evolutivo. Dall'altra si trovano invece coloro i quali vedono nel ruolo dell'apprendimento un fattore decisivo e che portano avanti l'idea che la costruzione delle categorie sia una diretta conseguenza della maniera in cui continuamente esperiamo il mondo. In questo caso l'utilizzo che facciamo degli oggetti dell'ambiente tende a determinare quindi la modalità con cui li rappresentiamo a livello di strutture neurali. 7 8 Addirittura il solo suono dei tool attiva maggiormente l'emisfero sinistro che il destro, nei soggetti destrimani. In quelli mancini avviene il contrario (Lewis, Phinney, Brefczynski-Lewis & DeYoe 2006). Posso non riconoscere il volto di una persona che incontro tutti i giorni ma non confondere assolutamente i musi delle pecore del mio allevamento (McNeil & Warrington 1993). 12 1.4. Controversie sulla formazione delle categorie dei living Il dibattito è acceso soprattutto per quanto riguarda la percezione, la rappresentazione e la categorizzazione dei living. Come si comporta il cervello quando deve estrarre significato da percetti che altro non sono che esseri viventi? Quali sono le basi neurali della rappresentazione dei living e, forse ancora più importante, come si sono venute a costituire? Sono esse hardwired, inscritte fin dalla nascita dentro di noi, o sono invece totalmente dipendenti dall'esperienza? Percepiamo gli animali in un certo modo perché nasciamo esperti – in quanto risultato di miliardi di anni d'evoluzione – o il nostro modo di rappresentarli è determinato dalle contingenza, dall'apprendimento, dalle situazioni particolari della nostra personale esistenza?9 Innanzitutto, diverse ricerche anche piuttosto recenti confermano che i living sono stimoli speciali, elaborati in maniera diversa dagli altri all'interno del cervello, sia per quanto riguarda le basi neurali implicate sia per i tempi di processamento 10. Nel 2003 esistevano più di 100 studi su pazienti che avevano riportato deficit specifici per le categorie biologiche (living, specialmente animali a quattro zampe) e non per gli oggetti inanimati, e più di 25 casi di soggetti che avevano manifestato difficoltà opposte (Martin & Caramazza 2003). Gli studi hanno utilizzato differenti metodi per suffragare l'ipotesi della doppia dissociazione. A livello anatomico si è per esempio osservato che disturbando tramite stimolazione magnetica transcranica (TMS) la regione cerebrale che si trova in prossimità dell'area di Wernicke, nell'emisfero sinistro, soggetti sani effettuano con significativo ritardo operazioni di matching disegno-parola quando gli stimoli riguardano gli artefatti ma non gli animali o altri elementi della (cosiddetta) natura, rivelando così l'esistenza di una dissociazione e di strutture o processi dedicati ai due differenti domini semantici. L'utilizzo dei potenziali evento-correlati (ERP) ha inoltre evidenziato come i living elicitino una P300 (o LPT, late positivity complex) più grande, in special modo nell'area centro-parietale di destra, di quella correlata alla rappresentazione degli oggetti (Fuggetta, Rizzo, Pobric, Lavidor & Walsh 2009). Altre differenze che riguardano le regioni implicate nell'elaborazione dei due stimoli vengono evidenziate da diversi studi che sottolineano ancora una volta come – almeno 9 10 Si può mettere in un altro modo ancora: nel rappresentare mentalmente gli altri organismi viventi conta di più l'esperienza che la vita sul pianeta ha fatto in miliardi di anni, modellando sensi e strutture cerebrali in un certo modo per fini pratici quali la sopravvivenza e la riproduzione, o l'esperienza soggettiva di ogni singolo essere umano – di ogni singolo cervello – in ogni singola esistenza? Anche se non mancano studi che vanno nella direzione opposta e che citano casi di agnosie che vanno al di là della dicotomia living/non living (Siri, Kensinger, Cappa, Hood & Corkin 2003). 13 nei soggetti destrimani – l'emisfero sinistro sia, per quanto riguarda i tool, il centro di processamento principale, mentre la rappresentazione dei living non presenterebbe invece alcuna differenza significativa tra i due lobi cerebrali (Pilgrim, Moss & Tyler 2005; Giussani et al. 2011). L'esistenza di aree maggiormente dedicate all'elaborazione della categoria dei living è stata ipotizzata dopo aver osservato pazienti ai primi stadi della demenza da Alzheimer, condizione nella quale le strutture temporo-limbiche di entrambi gli emisferi vengono progressivamente danneggiate: il deterioramento organico correlerebbe con un deficit nella rappresentazione e nella memorizzazione degli organismi viventi, ma non di altri tipi di stimoli. Dal momento che anche soggetti che hanno sofferto di encefalite da herpes simplex presentano lesioni alle medesime aree temporo-limbiche e, spesso, deficit specifici nella rappresentazione degli organismi viventi, si tende a pensare che queste regioni svolgano un ruolo decisivo nel processamento di tale categoria di stimoli (Silveri, Daniele, Giustolisi & Gainotti 1991). Altri studi longitudinali su soggetti che si stanno ammalando di Alzheimer confermano la correlazione tra il danno cerebrale specifico e il peggioramento più rapido dei concetti living (Garrard, Lambon Ralph, Watson, Powis, Patterson & Hodges 2001). Nonostante l'enorme mole di studi anche talvolta divergenti, quel che appare sempre più chiaro è che ad una difficoltà nella rappresentazione degli organismi viventi corrisponda nella maggior parte dei casi una lesione bilaterale di determinate aree del lobo temporale, laddove arriva la cosiddetta via del cosa (o anche via ventrale) del sistema visivo11 (Gainotti 2013). La letteratura sui tempi di percezione e successiva concettualizzazione degli stimoli in relazione alle differenti categorie è meno vasta rispetto a quella che, tramite studi di neuroimaging, cerca di individuare le regioni cerebrali coinvolte nella rappresentazione delle categorie stesse. Eppure, anche per quanto riguarda i tempi di elaborazione, i living paiono godere di un trattamento esclusivo, dal momento che sarebbero rappresentati nel cervello in maniera più rapida rispetto ai nonliving. Come se ci fosse l’urgenza di riconoscerli e farsi un modello mentale di essi il più velocemente possibile. In tal senso arrivano conferme da osservazioni effettuate utilizzando gli ERP ma anche dalla misurazione dei tempi di reazione (RT) in esperimenti comportamentali di riconoscimento immagini, nei quali si evidenzia che gli organismi viventi presentati nelle varie figure necessitano mediamente di minor informazione per essere riconosciuti – sempre rispetto agli oggetti inanimati. La misurazione dei RT di 18 soggetti destrimani che dovevano catalogare immagini di animali e di oggetti ha 11 La via del cosa parte dalla corteccia visiva primaria (V1) e si dirige verso la corteccia temporale inferiore ed è coinvolta – come dice il nome – nel riconoscimento degli oggetti. L'altro output di V1 è la via del dove (o via dorsale), fascicolo di fibre specializzato nella detezione della posizione degli stimoli e sensibile alle basse frequenze che si connette alle regioni della corteccia parietale posteriore (Gazzaniga 2002/2005). 14 mostrato come, in fase di riconoscimento, ci fosse una differenza di circa 50 ms a favore dei living, processati più velocemente – e in maniera più accurata – rispetto ai nonliving. All'interno del medesimo studio si è inoltre osservato, sfruttando la tecnica ERP, che tra i 120 e 180 ms la corteccia occipito-temporale (via del cosa) di destra si attivava con maggiore intensità per gli animali piuttosto che per gli oggetti inanimati. Questi ultimi vedevano invece una maggiore attivazione nelle regioni frontali/centrali tra i 130 e i 160 ms (Proverbio, Del Zotto & Zani 2007), in linea con altre osservazioni topologiche anche citate in precedenza. La maggiore velocità nell'elaborazione degli stimoli living rispetto a quelli nonliving è stata osservata, sempre tramite ERP, anche da Large, Kiss e McMullen (2004). Se sugli aspetti neuroanatomici e legati ai tempi di elaborazione dei living sembra esserci dunque generale consenso – ma si attendono ulteriori conferme in tal senso –, il dibattito attualmente ruota attorno, come anticipato in precedenza, al modo in cui il cervello umano crea tale specifica categoria di stimoli. Le spiegazioni e i modelli presentati dalla letteratura sono molteplici e spesso non autoescludentisi. Eppure la discussione viene portata avanti soprattutto da ricercatori che credono che le categorie siano costruite in fase di apprendimento, cioè dalla modalità in cui il soggetto si relaziona con i differenti stimoli, e, dall'altra parte, dagli studiosi che sostengono l'esistenza innata di meccanismi e percorsi neurali specifici. Le contrapposte posizioni sono sostenute e riassunte principalmente da due modelli ben distinti. La teoria sensoriale-funzionale (sensory-functional theory) sottolinea l'importanza degli aspetti legati all'apprendimento e all’ambiente. L'ipotesi dominio-specifica (domain-specific hypotesis) riconosce invece gli aspetti geneticamente determinati come fondamentali (Gainotti 2013). La teoria sensoriale-funzionale si appoggia ad un principio generale chiamato differential weighting hypothesis secondo il quale la costruzione dei concetti si basa principalmente12 sulla convergenza in specifiche regioni cerebrali di informazioni motorie e percettive messe a disposizione dall'esperienza, nonché sul diverso peso che le varie fonti delle informazioni stesse vengono ad assumere di volta in volta per ogni specifica categoria (Gainotti 2013). Tutto ciò implica che la dissociazione tra living e nonliving riscontrata in alcuni pazienti sia causata dalla differenza con cui i soggetti fanno ed hanno fatto esperienza degli stimoli appartenenti alle due categorie (Ventura, Morais, Brito-Mendes & Kolinsky 2005). Secondo quest'ottima i tool vengono rappresentati nel cervello in funzione del loro uso, 12 Ma non esclusivamente: che i programmi motori determinino da soli la rappresentazione degli strumenti è infatti il principio su cui si fonda la cosiddetta ipotesi della conoscenza incorporata. Questa relazione necessaria tra schemi d'azione e rappresentazione dei tool è generalmente non più accettata. 15 del loro essere manipolabili, afferrabili e modificabili, in contrasto col pregiudizio filosofico secondo cui tutti i concetti, anche quelli che riguardano le azioni o l'utilizzo degli strumenti, sono simbolici e astratti e quindi processati in regioni corticali diverse da quelle sensomotorie. La teoria sensoriale-funzionale sostiene che gli aspetti funzionali dello stimolo-tool vanno a rivestire un ruolo di primo piano nel processo di rappresentazione e hanno un peso maggiore rispetto ad altre caratteristiche di tipo visuo-percettivo. È oggettivamente emerso che il cervello rappresenta gli artefatti, sia che siano percepiti tramite il sistema visivo sia che per esempio siano uditi, in regioni corticali implicate nel controllo motorio e premotorio di alto livello – connesse all'uso dell'oggetto – nell'emisfero controlaterale rispetto alla mano dominante: ciò smentirebbe l'implicazione di matrice innatista secondo cui i tool sono sempre rappresentati nel lobo parietale di sinistra, ipsilateralmente rispetto alle aree del linguaggio (Gainotti 2013; Gallese & Lakoff 2005; Beauchamp & Martin 2007). Conferme indirette su tale modello arrivano da quegli studi che osservano come, quando le aree che si occupano di funzioni relative alla presa e all'uso degli oggetti sono danneggiate, come nei soggetti affetti da aprassia, si abbia un deficit selettivo nella rappresentazione di quei particolari artefatti (Buxbaum & Saffran 2002). Questo modello prevede, coerentemente con quanto visto per i tool, che gli organismi viventi siano invece rappresentati principalmente utilizzando elementi di tipo visuo-percettivo. Le informazioni che provengono dalla vista – ma anche dall'udito – hanno nella creazione di tali categorie semantiche un peso più rilevante, sono più importanti rispetto ad altri tipi di dati. Non è un caso che, come abbiamo visto, gli studi di neuroimaging abbiano evidenziato come nell’elaborazione dei living sia implicata l'attivazione di aree occipito-temporali, attraversate dalla via del cosa e dedicate all'analisi di particolari pattern visivi. Il modello suggerisce che quando vediamo un animale il nostro cervello processa l’informazione come se fosse prettamente visiva – o comunque percettiva – ed attiva le relative aree di elaborazione, mentre rimangono – è intuitivo – silenti le regioni implicate nel controllo senso-motorio e nella manipolazione, proprio perché la nostra esperienza ha plasmato nel tempo i meccanismi cerebrali in un certo modo, fissando (neuralmente) le modalità con cui ci relazioniamo di volta in volta con i differenti stimoli. In sostanza ciò che sostiene la teoria sensoriale-funzionale è che se il senso con cui solitamente esperiamo l’animale è la vista – e di solito lo è, e si associa ad altri attributi percettivi come l’udito e l’olfatto –, allora l’animale verrà trattato come un oggetto (principalmente) visivo e rappresentato in centri di elaborazione dedicati. E’ dunque il modo 16 con cui ci relazioniamo con i diversi stimoli, e l’eventuale uso che ne facciamo, a dare vita alle differenti categorie (Gainotti, Ciaraffa, Silveri & Marra 2009). 1.5. I living secondo l’ipotesi dominio-specifica L'altra teoria moderna che nell'ambito delle neuroscienze cerca di spiegare come si formino le categorie nel cervello umano è chiamata ipotesi dominio-specifica13 ed è stata divulgata principalmente da Caramazza e colleghi14. Si fonda sull'assunto che un dato processo cognitivo è dominio-specifico se la sua estensione è delimitata dall'appartenenza dell'oggetto che sta processando ad una certa classe semantica (Caramazza & Mahon 2006). Come accennato, il modello è di chiara matrice evoluzionistica ed innatista. Presuppone che nella fase di categorizzazione la parte svolta dall'esperienza sia limitata – ma non del tutto assente, dal momento che schemi motori e manipolazione sono ancora importanti per la rappresentazione degli strumenti15 – e affida un ruolo fondamentale a strutture e processi che sono iscritti nel cervello fin dalla nascita come risultato fenotipico di miliardi di anni di selezione naturale. Un fenomeno, quello dei circuiti neurali geneticamente predeterminati, più volte osservato all'interno del mondo animale (Caramazza & Mahon 2006). Se ne deduce che le modalità con cui arriviamo a produrre i concetti sono plasmate e indirizzate dalla storia filogenetica dell'uomo e dei suoi antenati e rappresentano in ultima analisi il sistema più efficace per ottenere una migliore fitness, ossia una vita più lunga, ossia un più alto numero di discendenti. La dissociazione tra living e nonliving, con i correlati e differenti pattern di connettività, secondo questo modello è dunque presente fin dalla nascita e non è una semplice risposta adattiva agli stimoli ambientali di cui l'individuo fa esperienza durante la propria vita. Una conferma in tal senso arriva dagli studi di neuroimaging effettuati su pazienti nati ciechi, che chiariscono come questi ultimi presentino strutture e processi simili ai soggetti sani 13 14 15 Una variante del modello è conosciuta come ipotesi dei domini specifici distribuiti (distribuited domainspecific hypothesis) e sottolinea con ancora maggior vigore che non ci si riferisce solo a statiche strutture neurali, ma a veri e propri pattern di connessione che coinvolgono anche regioni distanti del cervello e che analizzano solo determinati tipi di informazione (Mahon & Caramazza 2009). La teoria è – innegabilmente – influenzata dalle idee sulla modularità della mente di Fodor e dalla teoria sull’apprendimento del linguaggio di Chomsky. Se si assume che la conoscenza concettuale degli strumenti sia soggetta ai principi dell’ipotesi dominiospecifica, allora ci si deve aspettare che ci siano strutture specifiche che codificano i movimenti associati all’utilizzo degli strumenti stessi, e quindi un’attivazione della corteccia premotoria di sinistra – nei soggetti destrimani (Mahon & Caramazza 2007). 17 quando devono pensare agli organismi viventi o agli artefatti (Mahon, Anzellotti, Schwarzbach, Zampini & Caramazza 2009). Si osserva, in altro ambito, il medesimo fenomeno quando soggetti congenitamente ciechi attivano nella rappresentazione delle parole scritte in Braille le stesse aree che i vedenti attivano quando leggono (Büchel, Price & Friston 1998). Se i pazienti non vedenti non hanno bisogno dell'esperienza visiva per organizzare le strutture implicate nella categorizzazione degli stimoli, e se tale organizzazione è pressoché la stessa dei pazienti sani, significa che tali strutture e tale organizzazione sono presenti nel loro cervello fin dalla nascita. Detto altrimenti, se l'esperienza fornita dalla visione non è necessaria perché (soprattutto) nelle aree attraversate dalla via del cosa emergano stazioni modulari di processamento dedicate ad una specifica categoria, ci deve essere un'innata connettività tra queste regioni e altre aree neurali che conduce a tale specificità (Gainotti 2013). Il modello proposto prevede dunque che i sistemi specifici di conoscenza siano per lo più innati. Se ne può dedurre che, se tali sistemi non sono presenti al momento della nascita e se – come previsto da tale approccio – il fattore esperienza incide in maniera marginale, allora il recupero della funzione che dovrebbe essere svolta da quel sistema assente o danneggiato sarà molto problematico se non addirittura nullo. Ed infatti le cose sembrano andare in questa maniera. Uno studio di Farah e Rabinowitz (2003) prende in esame la rara condizione del paziente Adam, il quale presenta una lesione bilaterale delle aree occipito-temporali già nei primissimi giorni di vita. A 16 anni di età, Adam mostra un grave deficit di memoria semantica relativa ai living, sia che gli stimoli sia presentati in formato immagine che in formato parola, mentre il processamento dei nonliving rimane invece normale. È evidente che il danno cerebrale subito da Adam alla nascita ha reso difficoltoso l'apprendimento di certi tipi di concetti ma non di altri: generalizzando si può concludere che, prima ancora di fare qualsiasi esperienza riguardo ai concetti di living e nonliving, il cervello umano è plasmato in maniera tale da rappresentare le due categorie tramite due distinti substrati neurali16. L'ipotesi innatista sarebbe così confermata. L’analisi delle evidenze empiriche effettuata da Mahon e Caramazza (2007) corrobora inoltre l’idea, punto fermo di questo tipo di approccio, che la conoscenza concettuale sia organizzata in domini specifici, ognuno dei quali dedicato a particolari stimoli – o ad attributi di stimoli. Che ci sia una correlazione tra il contenuto di una certa rappresentazione semantica e l’attivazione di una determinata area neurale è un fatto sul quale convergono anche gli 16 E il genoma umano contiene, dunque, istruzioni specifiche riguardo alla localizzazione anatomica della conoscenza per i living. 18 studiosi sostenitori della teoria sensoriale-funzionale, e d’altra parte numerose ricerche fondate su osservazioni fRMI hanno più volte evidenziato una certa segregazione causata dalle diverse categorie semantiche nella corteccia temporale inferiore e laterale. La differenza tra le due posizioni teoriche verte, come detto, sul come viene a formarsi tale organizzazione di informazioni. Almeno tre fatti sembrano smentire la validità del modello sensoriale-funzionale 17, che ruota attorno all’importanza della modalità, per abbracciare quello di Caramazza e colleghi, più centrato sul concetto di dominio. Il primo è legato all'osservazione che esistono pazienti che mostrano deficit a grana più fine della semplice distinzione living/nonliving. Si tratta di soggetti che per esempio non hanno problemi nel riconoscimento degli animali (animate living) ma che mostrano deficit significativi nella rappresentazione dei frutti (inanimate living)18. O viceversa. Questa doppia dissociazione mette in dubbio l'esistenza di un unico sistema visuo-percettivo, che era predetto dalla teoria sensoriale-funzionale: se tale sistema fosse danneggiato, infatti, il deficit per i concetti living sarebbe globale. Al contrario, questa agnosia così selettiva19 è ben spiegata all'interno del modello dei domini specifici come una dimensione lungo la quale la conoscenza concettuale è organizzata (Mahon & Caramazza 2007; Caramazza & Shelton 1998). Si solleva inoltre un'ulteriore questione: se sia giusto parlare, come si è spesso fatto in letteratura, soprattutto negli studi che analizzavano ipotesi relative alla teoria sensoriale-funzionale, di semplice dissociazione tra living e nonliving o se da qui in avanti sia preferibile distinguere – come ad alto livello sembrerebbe distinguere il cervello stesso – tra animate living, inanimate living e nonliving (Martin & Caramazza 2003). Il secondo fatto riguarda studi che hanno dimostrato l'esistenza di soggetti con deficit nella rappresentazione dei soli living ma che presentavano uguali deficit di tipo visuopercettivo e funzionale-associativo – e non, come avrebbe previsto la teoria sensorialefunzionale, un maggior disturbo nelle abilità di percezione. Ciò sta a significare, indirettamente, che la capacità di rappresentare mentalmente i living è indipendente dal corretto funzionamento del sistema sensoriale ed è con tutta probabilità innata (Mahon & 17 18 19 Caramazza e Mahon (2003) sottolineano comunque che rifiutare la teoria sensoriale/funzionale non significa non riconoscere la validità di alcuni suoi assunti. Il modello potrebbe in effetti spiegare un vasto numero di fenomeni empirici. Un giorno si potrebbe anche arrivare alla conclusione, secondo i due autori, che la conoscenza categoriale/concettuale è organizzata lungo due dimensioni ortogonali: quella del dominio e quella della modalità. Il paziente JJ sapeva descrivere un leone ma non un melone. Un leone, diceva JJ, è un grande animale con un lungo corpo, una testa mostruosa, enormi zanne, che cammina a quattro zampe e che vive in Africa. Sul melone non sapeva essere altrettanto sicuro, non poteva dirsi certo che fosse un frutto, non ricordava il colore e ipotizzava fosse di consistenza soffice (Mahon & Caramazza 2007). Esistono deficit ancora più selettivi e riguardano ulteriori attributi (ad esempio: animali commestibili/non commestibili), come hanno osservato Caramazza e Shelton (1998). 19 Caramazza 2007). La terza prova a favore dell'ipotesi dominio-specifica consiste nella constatazione che esistono soggetti che hanno un deficit sensoriale più grave rispetto a quello funzionaleassociativo ma, al tempo stesso, presentano la stessa difficoltà nella rappresentazione dei living e dei nonliving. A significare, ancora una volta, che la creazione di tali categorie non dipenderebbe dall'esperienza (Mahon & Caramazza 2007). Riassumendo, si può concludere che per l'approccio che punta sulla specificità dei domini il contenuto di tipo concettuale non può essere riconducibile a specifiche modalità di input/output, come era invece previsto dalla teoria sensoriale-funzionale. Dietro l'attivazione di determinate aree in risposta alla rappresentazione di organismi viventi c'è la mano della selezione naturale, che ha favorito certi meccanismi piuttosto che altri. Sono stati selezionati, in particolare, quei meccanismi che hanno fatto sì che le macchine per la sopravvivenza della metafora di Dawkins, citate in apertura di capitolo, si replicassero il più possibile. 1.6. Gli animate living Come detto, l'ipotesi dominio-specifica spiega piuttosto bene l'esistenza di domini semantici ancora più circoscritti della ormai classica dicotomia living/nonliving nonché di moltissime altre dissociazioni tra categorie che sono state nel tempo individuate (Crutch & Warrington 2003). Ai fini di questo lavoro appare interessante soffermarsi in particolar modo sul concetto di animate living e su come la rappresentazione di tale sottocategoria possa esser compresa all'interno dell'approccio innatista, fondato sull'idea di dominio specifico di Caramazza e colleghi. Il concetto sarebbe così essenziale che secondo alcuni studi la distinzione animate/inanimate è addirittura l'innato principio organizzativo che i bambini utilizzano per costruire le proprie ingenue teorie sulla biologia (Opfer & Gelman 2010). Prima di scendere più nello specifico nell'analisi, è necessario puntualizzare che a tal proposito la letteratura non è sempre chiarissima e che con il termine living non denota in tutti gli studi effettuati esattamente lo stesso tipo di oggetti. Mancano definizioni univoche. Alcune ricerche, per esempio, parlano di living per indicare un range di stimoli che va dagli animali ai vegetali (frutti, alberi, ortaggi, etc.) mentre altre utilizzano lo stesso termine ma paiono focalizzarsi principalmente sugli animate living, sugli animali, escludendo più o meno esplicitamente tutto il resto. Ma anche qui: per animali talvolta si intendono solo esseri a 20 quattro zampe e non si considerano pesci, uccelli e insetti 20 (Capitani, Laiacona, Mahon & Caramazza 2003). Conseguentemente risulta spesso non agevole mettere a confronto studi che utilizzano una terminologia comune per contenuti tanto eterogenei21. Per quanto riguarda la rappresentazione degli animate living in una prospettiva innatista, tutto ruota attorno al vantaggio evolutivo che deriverebbe dall'aver sviluppato dei processi e delle strutture neurali apposite per il riconoscimento degli animali. Caramazza e Mahon (2006) evidenziano come le categorie individuate grazie ai deficit di riconoscimento, tra cui c'è anche quella degli animate living (Caramazza & Shelton 1998), sono categorie che hanno sempre un qualche valore di tipo adattativo. Com'è noto, i meccanismi della teoria darwiniana necessitano di tempi lunghissimi per produrre risultati visibili e sono giocoforza difficilmente replicabili in laboratorio, anche se si possono utilizzare degli espedienti per verificarne l'effettiva esistenza in situazioni controllate o addirittura in laboratorio (Dawkins 2009). Ciò premesso è quindi indubbio che le interpretazioni dei fenomeni evoluzionistici, di rado falsificabili secondo i classici criteri del metodo scientifico, debbano spesso contenere una parte speculativa che comunque poggia – sempre – sulla unanimemente riconosciuta connessione tra mutazioni genetiche (casuali) e selezione naturale. Questo duplice meccanismo, che seleziona i fenotipi meglio adattati e ne permette la replicazione delle informazioni genetiche, sta alla base dell'evoluzione della vita sul pianeta, della nascita di nuove specie di animali e del sempre più sofisticato adattamento dei singoli individui, compreso dunque il modo in cui concettualizzano e categorizzano il mondo. In tale contesto l'esistenza nel cervello di un sistema dominio-specifico relativo agli animate living, che ci permette di riconoscerli con basso margine di errore e in tempi più veloci rispetto agli altri oggetti, piuttosto che – ipotizziamo – di un meccanismo alternativo aspecifico più lento e impreciso, deve dunque essere giustificata in termini di migliore adattabilità all'ambiente e di un più alto vantaggio riproduttivo. Questi suoi attributi sono indipendenti dal sistema culturale di riferimento e sono stati selezionati, in mezzo alle possibili infinite e casuali varianti, perché devono aver permesso un migliore adattamento alla macchina per la sopravvivenza che ne era provvista. Si può infatti speculare che fin dai tempi ancestrali chi era in grado di riconoscere il più velocemente possibile un animale – da cacciare o da cui fuggire – aveva nel lungo periodo una più alta probabilità di sopravvivere rispetto a 20 21 La medesima confusione riguardo alle definizioni si riscontra anche nell'ambito degli oggetti non biologici (Capitani, Laiacona, Mahon & Caramazza 2003). Anche se, come accenneremo nei prossimi capitoli, possiamo pensare che animali e piante si situino in due differenti e distanti punti all'interno del medesimo continuum degli organismi biologici – della vita sulla Terra. 21 chi non ce l'aveva. Accorgersi tempestivamente dell'arrivo degli animali era utile, e non è un caso che il nostro cervello sia stato plasmato secondo questa logica. Le conferme arrivano da numerosi studi empirici. Come abbiamo visto in precedenza, approcci di tipo comportamentale o che hanno utilizzato gli ERP hanno mostrato che i living (e in particolare gli animali) vengono riconosciuti in maniera più rapida e con un quantitativo di informazione fisica minore rispetto ai nonliving, utilizzando sia strategie top-down (che partono dall'analisi del contesto per fare continue ipotesi sull'identità dell'oggetto preso in esame) che bottom-up (in cui il matching avviene a partire quasi esclusivamente dai dati fisici). È stato notato, per esempio, che gli animali vengono riconosciuti più facilmente a basse frequenze spaziali, quando l'immagine è meno dettagliata e più confusa, rispetto agli oggetti (Låg, Hveem, Ruud & Laeng 2006). Continuando con la speculazione riguardante le dinamiche evoluzionistiche, si può ipotizzare che chi riusciva a scorgere un animale pericoloso in condizioni di scarsa visibilità avesse un vantaggio maggiore rispetto a chi non ci riusciva. Oltre a tutto ciò si è detto che gli organismi viventi sono di solito rappresentati a livello neurale in maniera bilaterale, il che significa che la loro elaborazione coinvolge entrambi gli emisferi: altro elemento, questo, che permette una maggiore velocità nella detezione degli animali, i quali possono così essere riconosciuti prontamente sia che arrivino da destra che da sinistra22. Parlando di rappresentazione di animali, infine, è interessante indagare quali sono – o quali dovrebbero essere – le caratteristiche essenziali possedute dallo stimolo che fanno sì che esso venga qualche istante dopo riconosciuto non solo come living, ma più nello specifico come animate living23. Caramazza e Mahon (2006) ipotizzano che il modello dei domini specifici sia valido anche per le frazioni di tempo che precedono la fase di concettualizzazione e che spieghi anche tutto ciò che succede a monte, quando il cervello è impiegato in un mero atto percettivo che solo successivamente porterà alla costruzione, dopo l'integrazione delle varie informazioni ricevute, del riconoscimento cosciente vero e proprio. Tra le caratteristiche percettive (basilari) più indagate dalla letteratura ci sono certamente il movimento, che può essere semplice o complesso, e la forma. L'idea che gli animali vengano riconosciuti a causa del loro particolare tipo di movimento biologico, detetto fin dai primissimi stadi di elaborazione, pare essere inesatta: sarebbe un più generale e astratto movimento articolato, infatti, a far attivare l'area prossima al solco superiore temporale, che rimarrebbe silente invece per movimenti più semplicistici e 22 23 Evitando di attraversare il corpo calloso, l'informazione visiva è resa disponibile in tempi più rapidi per le strutture deputate al riconoscimento. E cioè, si può ipotizzare, come entità dotata di una propria intenzionalità (vedi terzo capitolo). 22 meccanici (Mahon & Caramazza 2007). Per testare questa ipotesi Martin e Weisberg (2003) hanno creato utilizzando il computer alcune figure geometriche e poi hanno dato loro vita facendole muovere in tre modi diversi: come oggetti biologici/sociali (le figure si rincorrevano o giocavano: movimenti articolati che simulavano movimenti biologici), come oggetti meccanici (palloni che rimbalzano, palle da biliardo) o come oggetti dal moto casuale (baseline). Quando hanno fatto vedere la stessa figura geometrica che effettuava i tre diversi tipi di movimento ad alcuni soggetti – monitorati tramite fMRI – i ricercatori hanno osservato l'attivazione di due pattern neurali differenti per i movimenti biologici (o meglio, articolati) e meccanici. Questi ultimi conducevano all'attivazione di aree connesse all'identificazione di oggetti manipolabili. I movimenti articolati che simulavano quelli biologici, invece, attivavano circuiti nelle regioni della corteccia posteriore temporale di solito coinvolti nella detezione delle facce o di altri oggetti animati. Da notare la presenza di una rilevante attivazione dell'amigdala, implicata nella modulazione delle emozioni, che introduce un principio che sembra valere in assoluto per la rappresentazione degli animate living: i circuiti coinvolti nel processamento della forma e del movimento degli organismi viventi comportano parallelamente un certo tipo di coinvolgimento emotivo (Martin & Weisberg 2003). A conferma della precocità del fenomeno, studi compiuti su infanti hanno mostrato che già a sei mesi – e forse anche prima – un bambino è in grado di discriminare con esattezza tra i due tipi di movimento (Scassellati 2001), e che a quell'età è capace di interpretare il movimento biologico come animato, in quanto si aspetta che ciò che si muove in maniera articolata/biologica abbia necessariamente un qualche fine da perseguire (Schlottmann & Ray 2010). A ulteriore testimonianza della priorità neurale degli animate living, si constata l'esistenza di ricerche che dimostrano come l'evoluzione abbia modellato il cervello umano in modo tale da fargli prestare maggior attenzione visiva al movimento animato piuttosto che a tutto il resto degli stimoli (Pratt, Radulescu, Guo & Abrams 2010). Tutte queste osservazioni possono essere spiegate e comprese all'interno dell'ipotesi dominio-specifica. Il fatto che diverse aree cerebrali coinvolte in un sistema di analisi specifico per modalità (movimento, ma anche forma) rispondano in maniera differente a differenti categorie semantiche confermerebbe l'assunto base secondo cui tali sistemi di analisi sono organizzati in domini specifici per ogni oggetto (Caramazza & Mahon 2006). Per quanto riguarda l'altra importante caratteristica percettiva, la forma globale dello stimolo, gli studi che cercano di individuarne il ruolo svolto all'interno del processo di elaborazione dello stimolo animate paiono essere molto più rari. La letteratura disponibile 23 pare comunque generalmente concordare con quanto sostenuto fin qui. In uno studio di Vannucci, Viggiano e Argenti (2001) si chiede a dei soggetti di riconoscere l'immagine di alcuni oggetti filtrati spazialmente in 9 differenti livelli di risoluzione, permettendo ai ricercatori di individuare la soglia di riconoscimento per ciascuna categoria di stimoli. I dati sottolineano come sia mediamente più facile riconoscere, in condizione di bassa risoluzione, gli animali rispetto a tutti gli altri stimoli, dagli artefatti ai vegetali: Gerlach (2001) suggerisce che la grande somiglianza nella forma globale all'interno della categoria degli animali sarebbe più informativa della forma globale dei nonliving, certamente più eterogenea e meno prevedibile. D'altra parte è stato osservato che l'identificazione degli artefatti peggiora notevolmente in studi in cui dell'oggetto che deve essere riconosciuto vengono mostrati solo i contorni, come a ribadire il fatto che la silhouette degli oggetti inanimati è mediamente poco informativa rispetto a quella degli stimoli biologici (Lloyd-Jones & Luckhurst 2002). Gli oggetti sarebbero inoltre penalizzati dalla loro variabilità dentro-lo-stimolo, complessità che evidentemente deve esser presa in esame in fase di elaborazione, ritardando il riconoscimento (Laws & Neve 1999). È stato notato un riconoscimento più veloce per gli animate living anche in esperimenti in cui gli stimoli venivano presentati per un brevissimo lasso di tempo (Laws & Neve 1999) o nelle regioni periferiche del campo visivo (Gerlach 2001). Tutto ciò implica – le conferme come abbiamo visto sopra arrivano da studi fondati su metodi di neuroimaging e elettrofisiologici – che molto probabilmente l'aspetto legato alla forma globale – il cosa – riveste in fase di identificazione un ruolo più decisivo per gli animate living che per gli altri stimoli. Sarebbe infine interessante indagare quali siano gli attributi di questa cosiddetta forma globale che fanno sì che a prendere in consegna l'elaborazione dello stimolo siano le aree – i domini – deputate al processamento degli animali piuttosto che le altre. Si può ipotizzare che differenze fondamentali risiedano nella tipologia dei contorni, più tondeggianti un po' per tutti gli stimoli di tipo living, caratteristica meno comune nel regno degli artefatti – che hanno solitamente forme più segmentate, nette e spigolose24. Parlando di forma, per concludere, non va sottovalutato il fatto che gli animali possiedono un volto/muso, e cioè un ricorrente pattern di informazioni fisiche pre-categoriali 24 Ramachandran (2011/2012) mostra che se poniamo due forme astratte, una rotondeggiante e una spigolosa, di fronte ad alcuni soggetti e chiediamo loro quale delle due chiamerebbero kiki e quale bubu, la maggioranza – a prescindere dalla cultura di appartenenza – associa kiki alla forma spigolosa e bubu a quella tondeggiante. Il neurologo indiano utilizza quest'esperimento per dimostrare l'innatismo di certe forme di sinestesia, ma forse non è fuori luogo ipotizzare che a certe forme morbide sia associata automaticamente anche una vitalità che non viene invece legata a contorni più duri e aguzzi. 24 che, come testimoniano gli studi basati sugli ERP, viene analizzato in maniera assai precoce dal cervello25(Eimer 2000). Potrebbe essere un altro dettaglio decisivo, questo, che indirizza l'identificazione verso la categoria degli animate living, un'altra informazione che si rivelerà utile, qualche millisecondo più tardi, nel costruire una rappresentazione funzionale dello stimolo. Per includere anche queste brevi osservazioni sulle caratteristiche fisiche dello stimolo all'interno del quadro proposto dall'ipotesi dominio-specifica e delle sue assunzioni sul ruolo della teoria evoluzionistica, si può sostenere che chi era in grado di discriminare forme tondeggianti da forme non tondeggianti e stimoli-faccia da un sfondo indistinto era in grado, nei passi successivi compiuti dall'elaborazione cognitiva, di riconoscere un animale con maggior rapidità rispetto a chi era sprovvisto di tali abilità. La conseguenza è che anche tali meccanismi neurali hanno portato un vantaggio evolutivo e sono stati selezionati e implementati all'interno del cervello umano. 25 La componente ERP N170 analizza le caratteristiche prettamente fisiche – strutturali – dello stimolo-faccia e non dipende dalla familiarità. La N400 e la P600, più tardive, sembrano invece elicitate dal riconoscimento conscio di un volto familiare (Eimer 2000). 25 2. L'atteggiamento intenzionale di Daniel C. Dennett 2.1. L'evoluzione paradossale dell'intenzionalità Le macchine per la sopravvivenza descritte da Dawkins che sono state citate nel primo capitolo, quegli organismi apparsi sulla Terra miliardi di anni fa col solo scopo di favorire la replicazione dei propri geni utilizzando gli strumenti sempre più complessi ed efficaci forniti di volta in volta dall'evoluzione, sembrano ai nostri occhi avere una caratteristica peculiare. Nonostante esse possano essere oggettivamente descritte come involucri passivi di geni, Dawkins sostiene che: Una delle proprietà più sorprendenti del comportamento delle macchine da sopravvivenza è la loro apparente intenzionalità. Con questo non voglio solo dire che è un comportamento ben calcolato per aiutare i geni a sopravvivere, ma che sembra anche avere una analogia più stretta con il comportamento intenzionale dell'uomo. Quando guardiamo un animale che «cerca» il cibo o un partner o un cucciolo perduto è difficile fare a meno di attribuirgli qualche sentimento soggettivo, che noi stessi proviamo in situazioni analoghe. Può trattarsi di «desiderio» per qualche oggetto, un «quadro mentale» dell'oggetto desiderato, uno «scopo» o un «fine». Ciascuno di noi sa, perché ce lo dice la nostra introspezione, che questa intenzionalità, almeno in una macchina da sopravvivenza moderna, ha sviluppato le proprietà che noi chiamiamo «consapevolezza» (Dawkins 1976/1992). Secondo Dawkins dunque noi ci porremmo nei confronti di questi organismi come se avessero un'intenzionalità tutta loro, degli scopi, persino dei desideri. Di conseguenza, come se fossero dotati di una forma più o meno rudimentale di mente. L'argomentazione è tutt'altro che intuitiva26: se portata ai suoi estremi essa prevede per esempio che gli esseri umani si comportino nei confronti di entità microscopiche quali le amebe e i virus come se esse potessero desiderare qualcosa e, perché no, fare scelte all'interno di insiemi di opzioni. A prima vista quella di Dawkins pare una forzatura o una provocazione, soprattutto quando il 26 Questo però non deve spaventare. Appare infatti plausibile l'idea che, almeno a partire dai tempi di Copernico, passando per la relatività einsteniana, la fisica quantistica e certe recenti scoperte riguardanti il funzionamento del cervello, il progredire della conoscenza scientifica sia avvenuto e avvenga sempre più in contrasto con l'intuizione comune. 26 concetto si applica a forme di vita sempre più elementari. Tuttavia la questione, se analizzata più in profondità, è meno assurda di quanto si possa pensare. Il fatto di porsi nei confronti di tali entità come se agissero in modo razionale e coerente, mosse da scopi, potrebbe suggerire l'esistenza di una nostra innata tendenza ad avere un certo tipo di approccio percettivo verso ogni forma di vita biologica, dalle più semplici alle più complesse. Il concetto è stato ripreso e ampliato, fino a farne un cardine fondamentale della propria concezione della cose mentali e della coscienza27, dal filosofo americano Daniel Dennett, tra i personaggi contemporanei più rilevanti e influenti per quanto riguarda le questioni inerenti alla filosofia della mente. Nella edificazione della propria teoria, la quale passo dopo passo dovrebbe condurre a una piena comprensione del funzionamento della mente, Dennett innanzitutto propone una personale versione del concetto di intenzionalità28. La sua definizione si inserisce all'interno di un discorso di tipo evoluzionistico e prende le distanze da ogni altra precedente accezione. Probabilmente influenzato da Dawkins stesso, il filosofo prova a immaginare quelli che possono esser stati i vari passaggi che hanno progressivamente portato dal comportamento stereotipato delle prime macromolecole – o “robot” – autoreplicanti apparse sulla Terra ai relativamente più complessi organismi unicellulari, per giungere infine – attraverso il lento e cieco sviluppo darwiniano della supposta capacità di agire – alla formazione della mente umana, oggetto estremamente più articolato e imprevedibile rispetto ai suoi distanti predecessori. Per ricordare come non ci siano soluzioni di continuità tra i primi rigidi passi compiuti dalla vita sul pianeta e la plastica mente dell'uomo, ma come i due fenomeni siano invece gli estremi di un continuum, Dennett rimarca il fatto che – non potrebbe essere altrimenti – “noi siamo i diretti discendenti di questi robot autoreplicanti” (Dennett 1997/2000), queste macromolecole dai compiti limitati a cui nessuno si sentirebbe con troppa facilità di attribuire una mente, una coscienza o un'intenzionalità. Eppure a ben vedere tali macromolecole non rappresentano solo i nostri lontanissimi e rudimentali antenati, non sono solo macchine per la sopravvivenza notevolmente più semplici: in un senso molto forte esse sono noi29. Anche adesso, esse costituiscono i minuscoli mattoni con cui si costruiscono di 27 28 29 Concetti quali coscienza, intenzionalità, mente e io sono fortemente interconnessi nella filosofia di Dennett. Dati i limiti di questo lavoro non cercheremo di passare in rassegna tutte le problematiche legate al concetto di intenzionalità, che ha assunto diversi significati in diversi contesti e che è stato dibattuto in ambito filosofico fin dal medioevo. Ci limiteremo a sostenere, con Dennett, che i sistemi dotati di intenzionalità sono, per definizione, tutte quelle entità il cui comportamento è prevedibile o spiegabile assumendo nei loro confronti un atteggiamento intenzionale (Dennett 1997/2000). Altri concetti, tra cui quello di approccio eterofenomenologico, assai importanti per lo sviluppo complessivo della teoria di Dennett, non verranno qui approfonditi per gli stessi motivi. “Non solo noi discendiamo da questi robot macromolecolari: essi sono anche le unità di cui è fatto il nostro 27 volta in volta il nostro agire e il nostro pensare 30. Infatti, ricorda Dennett, “a meno che non ci sia qualche altro ingrediente segreto (che è esattamente ciò che pensavano i dualisti e i vitalisti) noi siamo fatti di robot” (Dennett 1997/2000). In questa prospettiva, scevra di qualsiasi scappatoia metafisica, la mente di ogni essere umano è dunque costituita da un insieme di miliardi di macromolecole ed è il risultato della loro costante interazione. Ciò è paradossale. Perché porta a concludere che in un punto ben preciso durante l'evoluzione o in un punto ben preciso durante lo sviluppo del singolo individuo si passi magicamente e drasticamente dall'agire cieco e non intenzionale tipicamente robotico all'intenzionalità umana. Il rompicapo che la filosofia della mente cerca da tempo di risolvere31 si manifesta così in maniera perentoria, controintuitivo e sfuggente. Sintetizzando al massimo, la situazione che viene a crearsi è la seguente: una colonia vastissima di antichi robot singolarmente privi di mente e dunque di intenzionalità, mossi da quelli che possono essere considerati semplici interruttori ON/OFF, formerebbe – e forma – una entità considerata di livello superiore che appare coerente e che comunemente si ritiene32 cosciente e dotata di una mente33. Come si può risolvere il paradosso? Forse c'è un unico modo per venirne fuori. Non fare distinzioni arbitrarie: ossia trattare come dotate di intenzionalità anche queste molteplici e minuscole robotiche componenti. In risonanza con quanto espresso da Dawkins, Dennett sostiene infatti che: Noi facciamo una netta distinzione tra questi antichi sistemi e la nostra mente: e tuttavia, fatto strano, più osserviamo nei dettagli il loro modo di operare, più li troviamo simili a vere menti! I piccoli interruttori sono come dei primitivi organi di senso, e gli effetti che vengono prodotti quando essi sono commutati sulle posizioni di ON e di OFF, sono come azioni intenzionali. Intenzionali in che senso? In quanto prodotti da sistemi orientati a un fine e modulati dall'informazione. È come se queste cellule […] fossero minuscoli, 30 31 32 33 corpo: le nostre molecole di emoglobina, i nostri anticorpi, i nostri neuroni [...]” (Dennett 1997/2000). “Sì, abbiamo un'anima”, sostiene Giorello (1997), “ma è fatta di tanti piccoli robot”. L'annosa questione coinvolge anche il confinante concetto di libero arbitrio – argomento che esula dagli scopi di questo lavoro. Ovvero: siamo davvero liberi di decidere, come crediamo, o possiamo decidere – illudendoci – solo ciò che è stato già deciso per noi lassù, a monte, dalla danza caotica di un numero incalcolabile di microcause? I noti esperimenti condotti da Libet, che sembrano supportare la seconda ipotesi, hanno ridato nuova linfa al dibattito (Libet, Gleason, Wright & Pearl 1983). “Si ritiene” in un duplice senso: 1) io ritengo me stesso cosciente e dotato di intenzionalità (per farlo uso però l'introiezione, processo considerato scientificamente non inattaccabile) e 2) l'essere umano ritiene se stesso e dunque tutti gli altri come lui coscienti e dotati di intenzionalità (quest'ultima generalizzazione è il risultato di un processo di tipo induttivo che è pragmatico ma, come già sosteneva Hume, non razionalmente giustificato). Hofstadter (1979/1984; 2007/2008) ha utilizzato numerose e convincenti analogie per cercar di spiegare come possa emergere una (parvenza di) coscienza da un incommensurabile numero di sottostanti e microscopiche interazioni. 28 semplici, agenti che perseguono razionalmente e ossessivamente i loro particolari obiettivi agendo nel modo che viene loro dettato dalla percezione delle circostanze […]. Io definisco tutte queste entità, dalle più semplici alle più complesse, sistemi intenzionali e chiamo atteggiamento intenzionale la prospettiva dalla quale la loro natura di agenti (autentica o meno) si rende visibile (Dennett 1997/2000). Dal momento che non è possibile tracciare una linea di demarcazione, né lungo il sentiero filogenetico né lungo quello ontogenetico, all'interno dell'insieme delle cose biologiche, che separi senza alcuna discussione e senza generare ulteriori problemi sistemi con intenzionalità da sistemi che ne sono privi, e dal momento che noi – che ci troviamo proprio dentro a tale insieme – ci (auto)consideriamo sistemi intenzionali, l'unica via da perseguire è quella di trattare ognuno di questi sistemi come dotato di intenzionalità, definendolo sistema intenzionale. Dovrebbe essere chiaro cosa intende dunque Dennett quando parla di intenzionalità e per quale motivo il concetto sia intrecciato così saldamente alla teoria evoluzionistica. Secondo lui possiamo dire che un agente possiede intenzionalità se le sue azioni possono essere interpretate e comprese all'interno di uno schema di desideri e credenze e se, adottando verso di lui quello che chiama atteggiamento intenzionale, siamo in grado di prevedere le sue future mosse (Dennett 1987). 2.2. L'atteggiamento intenzionale In maniera complementare Dennett definisce dunque atteggiamento intenzionale quella strategia che invece consente di interpretare il comportamento di un'entità – qualunque cosa sia: un animale, una persona, ma anche un artefatto o un software – trattandola come se fosse un agente dotato di (un certo quantitativo di) ragione che orienta la propria scelta d'azione seguendo le proprie credenze o i propri desideri. Che poi è la prospettiva che gli uomini adottano l'uno verso l'altro nelle loro interazioni (Dennett 1997/2000). Assumere un atteggiamento intenzionale significa dunque attribuire dall'esterno intenzionalità ad una qualche entità percepita – ad un sistema intenzionale34. 34 Bara (2000) parla dell'intenzionalità delle macchine e dice che si tratta di “un'intenzionalità come se. Si comportano cioè come se avessero un'intenzionalità propria, e un osservatore può descriverle come se fossero dotate di intenzionalità, ma questa rimane una pura e semplice attribuzione esterna”. La prospettiva di Dennett è diversa, dal momento che per lui, dal punto di vista dell'atteggiamento intenzionale, la 29 Facendo propria l'idea di Nietzsche secondo cui come esseri umani saremmo da sempre portati a cercare cause – e soprattutto intenzioni e autori – che spieghino il verificarsi dei fenomeni che osserviamo, Dennett ipotizza che l'uomo nasca con una predisposizione genetica che lo porti in automatico ad adottare l'atteggiamento intenzionale, una specie di modulo fodoriano della teoria della mente35 modellato dall'evoluzione per generare credenze di secondo ordine, metacredenze, credenze che riguardano credenze altrui (Dennett 1995/2004). Adottare istintivamente questo approccio potrebbe in effetti semplificarci la vita – ed ecco perché sarebbe stato selezionato dall'evoluzione – in almeno un paio di modi. In primo luogo ci permetterebbe di relazionarci alle altre entità senza preoccuparci troppo delle loro caratteristiche di basso livello: posso interagire con una persona o con un cane senza aver la necessità di conoscere ciò che sta succedendo a livello delle sue cellule, delle sue molecole o delle sue particelle subatomiche. Diminuisce così la mole di dati che devo elaborare in un determinato contesto, in una certa situazione che magari richiede risposte veloci e pratiche. In secondo luogo la strategia dell'atteggiamento intenzionale può aiutarmi a capire a cosa serve un artefatto – nel momento in cui intuisco quelli che possono essere i suoi scopi (Dennett 1995/2004). Possiamo comprendere meglio in cosa consiste la strategia dell'atteggiamento intenzionale dennettiano prendendo in considerazione altre due strategie di previsione che sono rispetto ad esso meno sofisticate e più elementari, certamente non adatte per interpretare comportamenti complessi come quello umano. Si tratta dell'atteggiamento fisico e dell'atteggiamento del progetto (Dennett 1987). Per atteggiamento fisico si intende nient'altro che il metodo adottato dalle scienze fisiche, utilizzando il quale riusciamo a produrre previsioni che sono basate sulla nostra conoscenza di leggi fisiche e proprietà della materia. In questo senso, “quando prevedo che un sasso, lasciato andare dalla mia mano, cadrà a terra, mi sto servendo di un atteggiamento fisico” (Dennett 1997/2000) e ciò avviene ovviamente senza che io abbia la necessità di attribuire credenze, intenzioni o qualsiasi altro genere di stato mentale al sasso stesso. Questa è l'unica strategia utilizzabile con oggetti che non sono vivi – e che non sono artefatti (Dennett 1997/2000). Per prevedere il comportamento di una sveglia, che è frutto di un progetto, devo invece adottare un approccio differente che permette di 35 distinzione tra macchina (sufficientemente complessa) e uomo è assai sfumata: ad entrambe le entità dobbiamo comunque attribuire intenzionalità dall'esterno. Qui come sinonimo di metacognizione. In psicologia cognitiva il concetto di teoria della mente indica la capacità dell'essere umano di ponderare e riflettere sui propri stati mentali e su quelli degli altri. Secondo alcuni studiosi – tra i quali Simon Baron-Cohen – un deficit nella formazione di una corretta teoria della mente potrebbe essere alla base dello svilupparsi della sindrome autistica. 30 formulare previsioni più elaborate. Devo usare un atteggiamento del progetto: dal momento che so che l'oggetto con cui sto cercando di interagire è stato progettato per comportarsi in un determinato modo, do per scontato che “se adesso schiaccio alcuni pulsanti così, allora, a un certo momento, la sveglia produrrà un suono” (Dennett 1997/2000). In questo caso non ho la necessità di conoscere nel dettaglio le leggi fisiche che stanno alla base di un oggetto che si comporta con una simile regolarità: “semplicemente assumo che esso segua un particolare progetto” (Dennett 1997/2000). L'atteggiamento del progetto rappresenta una sorta di scorciatoia che mi permette di formulare previsioni che sono comunque più rischiose rispetto a quelle producibili con l'atteggiamento fisico (infatti se i collegamenti interni della sveglia fossero in qualche modo danneggiati, allora la sveglia non funzionerebbe a dovere e le mie previsioni relative al suo comportamento sarebbero imprecise) (Dennett 1997/2000). Entrambe le strategie, soprattutto la prima, risultano in una certa misura inadeguate 36 quando devono prevedere le azioni più complicate degli organismi viventi e degli esseri umani in particolare. In queste situazioni, in una maniera che secondo Dennett è automatica e innata, noi utilizziamo un più appropriato atteggiamento intenzionale. L'adozione di questa strategia comporta la formulazione di alcune importanti assunzioni. In primo luogo implica che l'oggetto di cui vogliamo prevedere le mosse si comporti da agente razionale37. In secondo luogo si ipotizza che, inserito in un certo contesto, tale agente possa avere delle credenze e dei desideri relativamente a determinati scopi. Infine si prevede che esso agirà in un certo modo, sulla base delle sue supposte credenze, per realizzare i propri desideri e per raggiungere i propri obiettivi. È fondamentale, sulla base di quanto detto sopra riguardo al rapporto tra minuscole entità dal comportamento robotico e intenzionalità, comprendere che la strategia funziona […] indipendentemente dal fatto che gli obiettivi attribuiti siano autentici o naturali o «veramente compresi» dal cosiddetto agente – e questa ammissione è fondamentale per comprendere, prima di tutto, come stabilire l'autenticità dell'orientamento a un fine. La macromolecola vuole davvero replicarsi? L'atteggiamento intenzionale spiega che cosa sta accadendo, indipendentemente da come rispondiamo a questa domanda. Consideriamo un semplice organismo – ad esempio una planaria o un'ameba – che compia dei movimenti casuali sul fondo di una capsula Petri, sempre dirigendosi verso l'estremità 36 37 Anche se Dennett considera l'atteggiamento intenzionale una sorta di “sottospecie dell'atteggiamento del progetto, nel quale il frutto del progetto è un agente di un certo tipo” (1997/2000). “In filosofia della mente, tale vincolo [l'essere razionale] è inteso come condizione di identità personale, ossia come requisito di coerenza che un insieme di credenze, desideri e azioni deve soddisfare [...]” (Marraffa 2002). 31 dove è collocata la fonte di nutrimento o allontanandosi da una sorgente di sostanze tossiche. Questo organismo sta cercando il bene o evitando il male – il proprio bene e il proprio male, non quello di un essere umano […]. Cercare il bene è una caratteristica fondamentale di qualsiasi agente razionale, ma questi organismi stanno effettivamente cercando o solo «cercando»? Non è necessario rispondere a questa domanda. In entrambi i casi, l'organismo è un sistema intenzionale prevedibile (Dennett 1997/2000). Noi esseri umani adottiamo l'atteggiamento intenzionale quotidianamente in maniera pressoché sistematica, senza che ce ne rendiamo conto: esso è per esempio fondamentale quando dobbiamo formulare aspettative sulle persone – e non solo – con cui siamo soliti interagire (Dennett 1987). Si tratta a ben vedere di una sorta di euristica modellata dall'evoluzione che la mente adotta nei confronti della realtà esterna, quando ogni analisi più rigorosa e scientifica sarebbe troppo lenta, laboriosa o impraticabile. Siamo fatti, in questo senso, per individuare credenze e obiettivi, concetti non scientifici ma propri della psicologia del senso comune. Siamo fatti attribuire intenzionalità ad entità che hanno un certo comportamento. Siamo fatti per scovare menti nel mondo che ci circonda. L'adozione di tale pragmatico approccio nei confronti di alcune delle entità che si muovono nella realtà esterna ci consente di fare rapide previsioni sul loro comportamento e di poter interagire con loro. Per comprendere l'importanza dell'aver sviluppato questo meccanismo si potrebbe immaginare, per assurdo, l'esistenza di un mondo in cui l'evoluzione non abbia lavorato a dovere e gli uomini siano sprovvisti della possibilità di utilizzare l'atteggiamento intenzionale nei confronti dei loro simili (e degli altri animali). Senza poter supporre quale sarà la prossima mossa della persona che mi trovo di fronte, senza poter comprendere quali sono i suoi fini all'interno di un certo contesto, senza poter leggere i suoi pensieri riguardo ad un determinato fenomeno, senza poter cogliere le sue emozioni, il comportamento dei miei consimili e degli altri organismi viventi mi parrebbe ogni volta casuale, incoerente e sfuggente, e la sua stessa natura non mi permetterebbe di poter avere alcun tipo di interazione con loro38. Ma c'è di più. Il mondo stesso mi apparirebbe 38 Secondo la teoria dei neuroni specchio di Rizzolatti, una situazione così difficilmente concepibile, nella quale non esiste possibilità di socializzazione, è scongiurata dalla presenza, all'interno del nostro cervello, di neuroni dalle funzioni particolari – i neuroni specchio – che si attivano non solo quando compiano un gesto, proviamo un'emozione o pronunciamo un discorso, ma anche quando vediamo gli altri compiere un gesto, provare un'emozione (osservando per esempio la loro espressione facciale) e pronunciare un discorso (Rizzolatti & Vozza 2008). Neuroni di questo tipo favorirebbero così l'immedesimazione, l'apprendimento e l'empatia e – si capisce – avrebbero anche un ruolo decisivo nel prevedere le mosse altrui. Non è un caso, forse, che anche il malfunzionamento dei neuroni specchio sia una delle ipotesi formulate per spiegare l'insorgere dell'autismo. D'altra parte appare evidente che concetti come quelli di neuroni specchio, di atteggiamento intenzionale e di teoria della mente – il cui mancato sviluppo, ricordiamo, rappresenta un'altra 32 completamente diverso, privo di qualsiasi forma di intenzionalità. Privo di vita39. Uno scenario forse possibile è quello in cui solo io – isola di intenzionalità – avrei intenzioni, solo io avrei una coscienza, solo io avrei una mente. Un altro, ancora più inconcepibile ed estremo, è quello in cui io – sprovvisto della possibilità di adottare l'atteggiamento intenzionale anche verso me stesso40 – non sarei in grado di ponderare neppure i miei pensieri, le mie emozioni, la mia intenzionalità. Sarei privo di autocoscienza e, in quanto tale, inconsapevole di esserlo. Io stesso non potrei definirmi sistema intenzionale. È la possibilità di interagire con gli altri, di scovare menti con cui relazionarsi, di credere che gli altri siano sistemi intenzionali – coscienti, coerenti e razionali – proprio come crediamo di esserlo noi, di trasformare il cosa in chi, che rende invece il mondo così come lo percepiamo: un'immensità di materia inanimata entro cui si muove un certo quantitativo di entità che – il metodo funziona – ci appaiono intenzionali e che siamo portati a giudicare interessanti. La strategia ha una sua profonda utilità. La adoperiamo quotidianamente. Eppure, come abbiamo già visto, la sua adozione apre anche il campo ad una serie di conseguenze concettuali che rimettono drasticamente in discussione alcune delle nostre credenze più intuitive e radicate. Almeno un paio di esse hanno a che fare col nostro rapporto con gli altri animali e sull'idea che ci siamo fatti del loro tipo di mente. Tra di esse figurano il fatto che gli animali (non) possano adottare un atteggiamento intenzionale e l'ambiguità legata al concetto di antropomorfizzazione. Analizziamo brevemente ognuna di queste questioni. 2.2.1. Animali che leggono intenzioni41 Assumendo, come fa Dennett e come del resto prescrive la più affermata interpretazione della teoria dell'evoluzione, che esista continuità biologica tra l'essere umano e le altre forme di vita, appare lecito supporre che anche gli altri animali possano in una certa misura adottare l'atteggiamento intenzionale. Si tratta di una strategia per muoversi nel mondo che non si è evoluta troppo recentemente, ma che ha favorito la fitness di antenati filogenetici assai lontani, rimanendo implementata nei cervelli degli animali che oggi popolano la Terra42. 39 40 41 42 supposta causa della sindrome autistica – siano fortemente interconnessi. La questione è stata affrontata, tra gli altri, da Ramachandran (2011/2012), il quale propone anche una serie di ipotesi speculative. Interessante a tal proposito l'articolo divulgativo di Jabr (2013). “[...] si usa l'autocoscienza come fonte di ipotesi sulla coscienza altrui, [ma al tempo stesso] ci si rende conto di poter sottoporre proficuamente anche se stessi allo stesso trattamento” (Dennett 1997/2000). Sulla coscienza, la mente e gli stati intenzionali degli animali si veda Dennett (1995). “Dalla tesi darwiniana della continuità tra la mente animale e quella umana discende […] un fondamentale 33 Dennett ritiene dunque che anche gli animali utilizzino una forma probabilmente semplificata di tale metodo per leggere ed anticipare – senza tener conto delle loro caratteristiche di basso livello – il comportamento delle altre specie con cui devono condividere l'ambiente – e coerentemente sostiene anche, in parallelo, che la differenza di intelligenza tra animali ed esseri umani non sia qualitativa, ma solo quantitativa (Dennett 1997/2000). Sotto questa prospettiva il predatore che insegue la preda la considera in tutto e per tutto come se fosse un'entità coerente e razionale, dotata di intenzioni – un sistema intenzionale. Interpreta e prevede le sue mosse – fuga, arresto, adozione di eventuali tattiche difensive – all'interno di una strategia di interpretazione del comportamento ben precisa, che probabilmente è di un certo grado meno sofisticata rispetto a quella che noi osservatori umani adottiamo nei confronti del predatore stesso. L'osservazione del comportamento degli animali domestici – inquadrati dal punto di vista della teoria di Dennett – conferma questa visione. Un cane che rimprovera – abbaiando – il gatto di casa che punta la tavola imbandita, immaginando che stia per saltarci sopra per poi mangiare del cibo non destinato a lui, è come se – sulla base di indizi comportamentali quali una certa postura e la direzione dello sguardo – leggesse la mente del gatto. Come se ne anticipasse le mosse. Come se avesse una teoria della mente. Come se adottasse un atteggiamento intenzionale nei confronti di un altro animale. D'altra parte anche un cane che, interpretando la comunicazione non verbale dell'uomo, capisce – quasi magicamente – che il padrone ha l'intenzione di portarlo fuori per una passeggiata, si sta facendo un modello sufficientemente accurato della mente dell'essere umano: prevede il suo futuro comportamento, legge le sue intenzioni. Adotta, ancora, un atteggiamento intenzionale nei confronti di un sistema intenzionale che, questa volta, è l'essere umano stesso. Si possono fare molteplici esempi simili. Alla luce di tutto ciò, prendere per buono il fatto che anche gli animali possano utilizzare, in una certa misura, l'atteggiamento intenzionale pare piuttosto plausibile. Eppure ciò fa sorgere lo stesso un paio di problemi. Il primo riguarda la natura stessa dell'atteggiamento intenzionale dell'animale: il cane immagina che il gatto voglia saltare sulla tavola, o invece siamo noi che immaginiamo che il cane immagini che il gatto voglia saltare sulla tavola? Non c'è modo di scoprirlo, ma d'altra parte è difficile eliminare completamente la tentazione di sostenere che tutto nasca all'interno del principio metodologico per lo studio della coscienza [e dell'intenzionalità]. Tale studio non può essere portato avanti dall'alto in basso […], ma dal basso in alto, ossia prendendo le mosse da funzioni mentali più elementari, quelle dell'animale e dell'infante” (Marraffa 2002). 34 nostro cervello. Che tutti i livelli di intenzionalità siano una nostra creazione. Saremmo noi, in senso kantiano43, ad imporre l'intenzionalità nel cane, interpretando poi la sua mente a nostro uso e consumo in modo che possa attribuire – come faremmo noi stessi se fossimo lui – una certa intenzionalità al gatto. Il secondo problema è relativo al grado di sofisticazione che una macchina per la sopravvivenza deve possedere per organizzare una strategia di atteggiamento intenzionale nei confronti di un altro organismo. Abbiamo visto che un cane può (forse) adottare un atteggiamento intenzionale. Un gatto pure. Ma una mosca? Un lombrico? Un'ameba? Si può supporre che tale tipo di approccio richieda una certa complessità a livello neurale. Ma quanta complessità? Dove tracciare la linea che separi le macchine per la sopravvivenza che possono adottare una simile strategia da quelle, più povere e meno evolute, che non sono in grado di farlo? Anche qui, è difficile rispondere. Ma la questione rimane comunque filosoficamente interessante e problematica. 2.2.2. Antropomorfizzazioni L'enfasi posta sulla rilevanza esplicativa della teoria dell'atteggiamento intenzionale nell'ambito delle interazioni con gli altri organismi viventi conduce inevitabilmente a rimettere in discussione il significato di alcune espressioni e concezioni formulate comunemente, prese per buone poiché non sottoposte all'esame di riflessioni più profonde. Consideriamo per esempio il concetto di antropomorfizzazione. Esso viene utilizzato spesso, per esempio, per descrivere – talvolta in maniera critica – il rapporto emotivamente intenso che si viene ad instaurare tra un uomo ed un animale domestico a cui è particolarmente legato. L'uomo parla e presume che l'animale ascolti e perché no comprenda, sostiene che l'animale provi tutta una serie di emozioni complesse, enfatizza alcuni aspetti speciali del suo comportamento e gli attribuisce credenze, desideri e scopi che sono tipicamente considerati umani. In casi simili siamo soliti sostenere, forse un po' frettolosamente, che l'uomo antropomorfizza – dà forma umana ad – alcuni aspetti comportamentali dell'animale. La cosa appare meno ovvia nel momento in cui prendiamo per buona la teoria dell'atteggiamento intenzionale. In un senso che è se vogliamo sorprendente: se è vero, come 43 La causalità è per Kant una categoria della nostra mente che ci aiuta ad ordinare la realtà. L'intenzionalità, nella teoria di Dennett, svolgerebbe un ruolo per certi versi simili e nascerebbe anch'essa nella testa di chi percepisce. Secondo la posizione di Wegner (2004) può essere immaginata una connessione tra i due concetti. 35 pare implicare la teoria di Dennett, che noi attribuiamo agli altri organismi gli stati mentali che noi stessi sperimenteremmo se venissimo posti nella medesima situazione, questo vale, in virtù della definizione di atteggiamento intenzionale, per qualsiasi tipo di organismo vivente, che sia un essere umano o no. Ciò porta a concludere che è perlomeno impreciso parlare di antropomorfizzazione quando dobbiamo descrivere l'approccio particolarmente sentito di una persona verso un animale, poiché la prima sta proiettando nell'animale più o meno le stesse credenze, le stesse intenzioni e le stesse emozioni che proietterebbe in un essere umano, verso cui adotterebbe ugualmente l'atteggiamento intenzionale. Non è (filosoficamente) corretto parlare di antropomorfizzazione proprio perché la medesima strategia si applica anche nei confronti dell'uomo. Sotto questa prospettiva si può sostenere, paradossalmente, che noi antropomorfizziamo anche agli altri esseri umani 44. Per essere ancora più precisi, in linea con la teoria di Dennett, è lecito concludere che adottiamo grossomodo lo stesso metodo di previsione – ed attribuzione di stati mentali ed intenzionalità – nei confronti di tutti gli esseri viventi: la relazione con gli esseri umani non è da questo punto di vista privilegiata rispetto a quella con gli altri animali. 44 Un esempio in tal senso, se vogliamo, potrebbe essere rappresentato dal film Oltre il giardino (Being There) di Hal Ashby, in cui le concise frasi del protagonista Chance Il Giardiniere (Peter Sellers), banali e mai davvero appropriate al contesto, vengono costantemente interpretate come se rivelassero verità assolute, nuove intelligenti concezioni sul funzionamento del mondo. Chi lo ascolta riempie il vuoto delle sue espressioni proiettando dentro di lui stati mentali, emozioni e intenzionalità (Chance sostiene ciò perché intende sostenerlo e perché lo ritiene un argomento pertinente) e lo crede un brillante pensatore. Il nocciolo della questione è affrontato provocatoriamente nel noto esperimento mentale della stanza cinese proposto dal filosofo John Searle, esperimento che si presta comunque a diverse critiche, una delle quali è proprio di Dennett (Hofstadter & Dennett 1981/1985; Dennett 1992/2009). Il problema sollevato da Searle viene a nostro parere risolto in maniera brillante da Hofstadter (2007/2008). 36 3. Animate living e atteggiamento intenzionale: un legame inevitabile? Quanto a me: ero giunto alla conclusione che in me, come in qualsiasi altro essere umano, non c’era niente di sacro, che eravamo tutti delle macchine destinate a scontrarci, scontrarci e ancora scontrarci. Per mancanza di qualcosa di meglio da fare diventavamo patiti degli scontri. A volte scrivevo bene di questi scontri, il che significava che ero una macchina dattiloscrittrice in buono stato. A volte scrivevo male, il che significava che ero una macchina dattiloscrittrice in cattivo stato. Non albergava in me più sacralità di quanta ne albergasse in una Pontiac, in una trappola per topi o in un tornio. KURT VONNEGUT 3.1. L'anima dell'animale modello III L'anima dell'animale modello III è un estratto da un romanzo di Terrel Miedaner scelto da Hofstadter e Dennett perché figurasse all'interno della raccolta di testi narrativi, saggi e riflessioni inerenti la filosofia della mente intitolata L'io della mente (Hofstadter & Dennett 1981/1985). Si tratta, almeno nella sua prima parte, di una sorta di dialogo platonico sul significato del concetto di vita biologica45. I protagonisti sono un uomo chiamato Hunt e una donna, Dirksen. La posizione del primo, in estrema sintesi, è che “la vita biologica [sia] un fenomeno meccanico complesso”, mentre la sua interlocutrice trova ciò inaccettabile e sottolinea con convinzione come gli organismi viventi abbiano qualcosa di speciale rispetto alle cose non viventi e che “il corpo degli animali e degli uomini è qualcosa di più di una macchina”. Hunt cerca di convincerla del contrario. In un primo tempo le ricorda che: secondo la teoria neoevoluzionista, il corpo degli animali viene formato attraverso un processo completamente meccanicistico. Ciascuna cellula è una macchina microscopica, un minuscolo componente integrato in un congegno più grande e complesso (Hofstadter 45 Quindi, inevitabilmente, anche sui significati di mente ed intenzionalità. 37 & Dennett 1981/1985). Tuttavia Dirksen rimane scettica. “Io non provo proprie niente per le macchine!”, dice. “Per esempio, io posso benissimo rompere una macchina senza scompormi ma non sono capace di uccidere un animale”. A questo punto, per mettere in dubbio tali ben radicate convinzioni, Hunt conduce la donna in un laboratorio sotterraneo. Qui apre una delle numerose vetrine presenti e tira fuori quello che ha l'aspetto di “un grosso scarabeo di alluminio”, la cui superficie levigata è dotata di segnalatori colorati e di protuberanze meccaniche. Quando Hunt lo capovolge, Dirksen nota le piccole ruote di gomma e la scritta, sul fondo piatto, ANIMALE MODELLO III. Dopo aver azionato l'interruttore che si trova sulla pancia, l'uomo appoggia la macchina sul pavimento. Lo scarabeo allora comincia a muoversi e vaga qua e là ronzando impercettibilmente. Per diversi istanti ispeziona il pavimento come se fosse alla ricerca di qualcosa e poi, come colto da un'illuminazione, individua una presa di corrente, si avvicina, tira fuori due sottili sporgenze e le infila nella sorgente di energia. Alcuni segnalatori luminosi posti sul corpo si accendono. Si sente un suono strano, simile ad “un gatto che fa le fusa”. Hunt afferra un martello e lo offre a Dirksen. “Uccidilo”, le chiede. La donna è sorpresa. “Perché dovrei uccidere... rompere... quella macchina?” chiede, e si rifiuta di prendere in mano l'attrezzo. “Solo a titolo di esperimento […]. Anch'io ho provato qualche anno fa”, le risponde, “e l'ho trovato istruttivo”. Dopo averla rassicurata sul fatto che la bestia non ha armi di difesa che possano in qualche modo ferirla, le porge di nuovo il martello. Osservando “la strana macchina che [ronfa] sonoramente mentre [succhia] la corrente elettrica”, Dirksten lo afferra e si avvicina all'animale. “Ma... sta mangiando”, dice, volgendosi di nuovo verso Hunt. Un attimo di esitazione, poi cala il martello. Eppure fallisce, frantumando invece una mattonella del pavimento. L'animale meccanico, accortosi della potenziale minaccia, ha in tutta fretta ritratto le due sporgenze dalla presa elettrica ed ha evitato il colpo producendo “uno stridio acuto, simile a un grido di paura”. Dirksen guarda prima Hunt, che sta ridendo, e poi torna con gli occhi sulla macchina che – non è possibile – sembra quasi la stia scrutando in attesa della prossima mossa. La donna allora ci riprova. Una, due, cinque volte. Ma lo scarabeo – programmato per evitare cose simili a se stesso, come la metallica testa del martello – le sfugge ogni volta. Infine la donna si arrende, ansimante e rossa in volto. “Metti giù il martello a prendila con le mani”, le suggerisce Hunt. La macchina, la informa, è costruita per fidarsi del “protoplasma disarmato”. 38 Dirksen [posa] il martello su un bancone e si [dirige] lentamente verso la macchina. Questa non si [muove]. Le fusa [sono] cessate; pallide luci arancioni [brillano] dolcemente. Dirksen si [china] e la [tocca] cautamente; [sente] un lieve fremito. La [raccoglie] guardinga con entrambe le mani. Le luci [diventano] di un verde limpido e attraverso il gradevole calore dell’epidermide metallica essa [sente] la vibrazione tranquilla del meccanismo interno (Hofstadter & Dennett 1981/1985). Hunt le suggerisce di mettere la macchina sul bancone, a pancia in su. Così potrà colpirla senza che possa schivare il colpo. “Non ho bisogno di antropomorfismi”, lo ammonisce Dirksen, ormai decisa ad andare fino in fondo. Una volta trovatasi capovolta, la macchina accende di rosso le proprie piccole luci. Le sue ruote girano a vuoto per un paio di secondi. Dirksten impugna il martello e lo cala giù con violenza. Colpisce però lo scarabeo solo di lato, danneggiando una ruota e facendolo balzare di nuovo a pancia in giù. Esso comincia a girare su se stesso irregolarmente, mentre produce un balbettante cigolio metallico. Di lì a poco da sotto il ventre arriva uno schianto. Un dimesso lampeggio di luci, poi la macchina si arresta. Dirksen, turbata, stringe le labbra e si appresta allora a chiudere ogni discorso. Eppure, proprio quando il martello sta per compiere il proprio compito per l'ultima volta, dall'interno dell'animale fuoriesce un suono spiazzante, “un debole gemito lacrimoso che si [alza] e si [abbassa] come il piagnucolio di un bambino”. A questo punto Dirksen si arrende. Lascia cadere il martello e arretra. Ma, mentre lo fa, non riesce a non guardare – l'orrore nei suoi occhi – quella “pozza rosso sangue di lubrificante che si [allarga] sul tavolo sotto la creatura”. “È solo una macchina”, le ricorda Hunt. Solo una macchina. Programmata per accorgersi del pericolo e per gridare nel momento in cui deve chiedere aiuto. Solo una macchina, senza intenzioni, coscienza o dolore. “Spegnila”, gli ordina la donna. Allora Hunt si avvicina al tavolo e prova a far scattare l'interruttore, ma si accorge che il meccanismo si è ormai del tutto deteriorato. “Vuoi darle il colpo di grazia?”, le domanda. Dirksen scuote la testa. È ancora frastornata. Un istante prima che Hunt cali il martello sulla cosa, che ancora emette quei suoi strazianti e intollerabili lamenti, lei gli chiede se non sia possibile, in qualche modo, aggiustarla. È troppo tardi. La donna, colta da un brivido, volta la testa altrove. Si sente uno scricchiolio metallico, poi nient'altro. L'agonia è finita. Sul tavolo, una cianfrusaglia priva di vita. 39 3.2. Sensing aliveness L'utilità del racconto46 è quella di permetterci di riprendere in mano alcuni dei concetti introdotti nei precedenti due capitoli per tentare di estrarne una sintesi finale. Scopo di questo lavoro, ed in particolare di quest'ultimo capitolo, è infatti quello di ipotizzare l'esistenza di meccanismi neurali innati, secondo quanto suggerito e verificato da Caramazza e colleghi 47, che ci permettano la rappresentazione degli animate living e allo stesso tempo, in conformità con le idee di Dennett48, di adottare in automatico – in maniera innata – un atteggiamento intenzionale nei loro confronti. L'ipotesi speculativa è quella che l'evoluzione abbia modellato le strutture e i circuiti neurali in modo tale da renderci agevole in primo luogo etichettare alcune entità come organismi viventi e in secondo luogo utilizzare un pragmatico approccio – l'atteggiamento intenzionale – quando dobbiamo interagire con essi. Il cervello umano avrebbe così la tendenza geneticamente predeterminata ad associare un'intenzionalità a tutte quelle entità che, possedendo caratteristiche standard ben riconoscibili, vengono categorizzate immediatamente come animate living. Quando Dirksen percepisce e rappresenta per la prima volta lo scarabeo metallico, Hunt non ha ancora azionato l'interruttore e la macchina non si è ancora messa in moto. Possiamo ragionevolmente supporre che per il cervello di Dirksen l'oggetto in questione non possieda quasi nessuna – se non una forma animale più o meno grossolana – delle caratteristiche salienti che secondo la letteratura di studi neuroscientifici azionano la rappresentazione cerebrale speciale per gli animate living. Il racconto prosegue in un crescendo emotivo e la macchina produce movimenti49 e reazioni che sono progressivamente sempre più equiparabili a quelli che potrebbero caratterizzare un animale in carne ed ossa. A questo punto si può ipotizzare che il cervello di Dirksen sia sempre più confuso. Molti dei segnali che la macchina sta lanciando stanno probabilmente cominciando ad azionare quegli stessi rilevatori neurali – innati, secondo la prospettiva dell'ipotesi dominio-specifica di 46 47 48 49 Il racconto di fantasia può qui essere utilizzato come una sorta di esperimento mentale. Se per alcuni l'empatia che Dirksen prova per la macchina può suonare un po' forzata, si immagini una macchina incredibilmente più sofisticata: che abbia per esempio una pelle sintetica ma indistinguibile al tatto da quella umana, un certo verosimile odore realizzato in laboratorio, un'ampia varietà di espressioni facciali, occhi ben progettati, una voce modulabile, la possibilità di apprendere ed utilizzare informazioni sullo stato del mondo che la circonda. Vedi primo capitolo. Vedi secondo capitolo. Abbiamo visto che il cervello umano non fa (ovviamente) distinzione, per esempio, tra movimento biologico e movimento articolato non biologico – che simula però quello biologico (Martin e Weisberg 2003). Lo stesso può succedere per l'emissione di suoni artificiali sufficientemente simili a suoni naturali, e così via. 40 Caramazza e colleghi (Caramazza & Shelton 1998; Caramazza & Mahon 2006; Mahon & Caramazza 2007) – che ci permettono di rappresentare gli organismi viventi. Per certi versi la macchina sta diventando viva. Almeno agli occhi di chi guarda. Ciò che in particolare spiazza e illude Dirksen è che la macchina mette in atto quei comportamenti che lei stessa – e con lei qualsiasi altro essere vivente – adotterebbe nelle medesime situazioni. Di fronte alla minaccia fugge e lancia segnali di paura, mostra indizi di gioia quando viene accarezzata, urla messaggi sonori di dolore e disperde liquido rosso sangue quando viene danneggiata. Quel che in un primo momento era stato categorizzato come macchina, e quindi come nonliving, sembra invece per chi osserva assumere pian piano caratteristiche tipiche degli animate living. Sfuma da una categoria all'altra. Dellantonio, Innamorati e Pastore (2012) esaminano i concetti di animate ed inanimate living sostenendo che essi – nucleo del sistema di categorizzazione più della dicotomia living/non living – si formano sulla base delle informazioni disponibili. Gli autori ipotizzano che la discriminazione tra i due tipi di oggetti avvenga in relazione anche a dati di origine propriocettiva, non solo esterocettiva. Il ragionamento seguito è questo: dal momento che alcuni oggetti del mondo mostrano reazioni, movimenti e comportamenti simili a quelli che il soggetto che percepisce metterebbe in atto se posto nella medesima situazione dell'oggetto percepito, il soggetto proietta questa sua conoscenza relativa a se stesso sull'oggetto e lo definisce animato proprio come sente animato se stesso50. In tal senso il sistema cognitivo creerebbe analogie tra le informazioni percettive relative alla propria persona e quelle che arrivano dagli oggetti esterni. È quel che sembra accadere a Dirksen nel racconto di fantasia che abbiamo utilizzato come introduzione. L'oggetto che si comporta come un organismo vivente51, come farebbe cioè lei stessa se minacciata o ferita, è sempre meno un semplice oggetto inanimato e sempre più qualcosa con delle intenzioni e una mente, qualcosa che – secondo quanto confessa Dirksen stessa all'inizio – non si può uccidere con tanta semplicità. Il punto merita di essere sottolineato ulteriormente. Risulta evidente come, nel momento in cui la macchina – biologica o metallica che sia – comincia ad assumere strategie di comportamento paragonabili a quelle degli esseri viventi, nel momento in cui certe strutture e certi circuiti neurali dedicati agli animate living cominciano ad attivarsi, il soggetto 50 51 D'altra parte siamo noi stessi, i lettori, ad attribuire a Dirksen – un personaggio di finzione – un'intenzionalità basata sul fatto che lei si comporta come faremmo noi – presumibilmente – se ci trovassimo nella sua situazione. È per questo che il racconto, generando empatia (ma anche meta-empatia, e cioè immedesimazione nell'empatia della donna), funziona. Qui sta forse la magia della narrativa. Ed ha la forma di un essere vivente. Nel primo capitolo abbiamo visto quanto le caratteristiche fisiche dell'animale siano importanti ai fini di una sua rapida e precisa detezione. 41 percipiente più o meno contemporaneamente cominci ad adottare un atteggiamento intenzionale nei confronti dell'oggetto che ha di fronte. A prevederne scopi e desideri 52. Quasi a supporre, volendo, che abbia degli elementari stati mentali. La questione è quella a cui abbiamo accennato sopra. Se in un percetto osservo certe reazioni e certi comportamenti, paragonabili a quelli che potrei mettere in atto io stesso nelle medesime condizioni, attribuisco delle intenzioni al percetto allo stesso modo in cui le attribuisco alla mia persona. Sembrerebbe così che il concetto di aliveness (Dellantonio, Innamorati & Pastore 2012) non possa essere dissociato, in ottica dennettiana diremmo quasi per definizione, da quello di atteggiamento intenzionale. Nel momento in cui rappresento un animate living, sarei dunque portato ad attribuirgli un'intenzionalità. 3.3. Due sistemi interagenti Percepire un oggetto come animato significa dunque trattarlo automaticamente come sistema intenzionale. L'ipotesi ha un carattere speculativo e non è semplice verificarla sperimentalmente, tuttavia ciò non significa che la questione non possa essere affrontata in nessun altro modo. Possiamo per semplicità immaginare che esistano due sistemi funzionali specifici, selezionati dall'evoluzione per motivi che abbiamo discusso nei precedenti capitoli, per ciascuno dei due compiti. Chiameremo AL (animate living) il primo sistema o modulo, dalle caratteristiche neurali analizzati nel primo capitolo, e AI (atteggiamento intenzionale) il secondo, meno circoscrivibile e meno meccanico, ipotizzato dalla filosofia della mente ma ancora per larghi tratti non investigato dalle neuroscienze – anche se scoperte come quelle dei neuroni specchio e l'utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie di neuroimaging potrebbero nei prossimi anni contribuire a far maggiore luce sulla questione. Prenderemo ora brevemente in esame situazioni ipotetiche o patologie particolari nelle quali i due sistemi sembrano non funzionare nella maniera corretta, provocando comportamenti anomali e allo stesso tempo corroborando l'ipotesi che essi normalmente lavorino in simbiosi. 3.3.1. AL, ma non AI Ipotizziamo che in un cervello umano funzioni perfettamente tutto ciò che serve per 52 Nutrirsi di corrente elettrica, evitare gli urti con altri oggetti metallici, e così via. 42 categorizzare gli organismi viventi, tutti quei circuiti che ci permettono una rapida e precisa detezione dei living, ma che, invece, per qualche motivo il meccanismo che consente di adottare un atteggiamento intenzionale verso di essi sia danneggiato. AL funziona, AI no. Cosa ci dovremmo attendere? Sembra una condizione paradossale, ai limiti dell'immaginabile: il soggetto così caratterizzato sarà in grado di rappresentarsi mentalmente gli animali e gli altri esseri umani, di differenziarli dai nonliving, ma non saprà attribuire loro alcuna intenzione, alcuna mente. Il comportamento altrui sarà per lui imprevedibile e gli sarà impossibile qualsiasi tipo di interazione. Ad un'analisi superficiale tale sembrerebbe la condizione tipica dell'autismo, che com'è noto comporta principalmente un certo grado di difficoltà di comunicazione, proprio perché – è solo una delle ipotesi possibili – i soggetti che ne sono affetti non sono in grado di costruirsi un modello mentale riguardo la mente degli altri. La letteratura sull'argomento è vastissima e la sua analisi non rientra tra gli scopi di questo lavoro. A conferma di quanto detto segnaliamo solo un testo realizzato dalla Novartis Foundation (2005) che passa in rassegna un gran numero di studi sulle basi neurali dell'autismo e che sottolinea come in diversi esperimenti (tra cui uno di di Baron-Cohen et al. pubblicato nel 2000) sia emersa nei soggetti autistici una sottoattivazione delle aree cerebrali dedicate alla lettura della mente, rispetto a gruppi di controllo, in compiti di interpretazione del pensiero altrui. Sulla base di ciò si può quindi arrivare a sostenere senza alcuna discussione che la condizione in cui AL funziona regolarmente e AI no è quella tipica dell'autismo? Pare di no. Numerosi lavori infatti dimostrano che il soggetto affetto da autismo e dai caratteristici problemi comunicativi ha in primo luogo un deficit proprio nella categorizzazione degli animate living. Per esempio uno studio realizzato da Klin, Lin, Gorrindo, Ramsay e Jones (2009) sottolinea come i bambini autistici falliscano spesso nel riconoscere il movimento biologico, rispetto a bambini non affetti dal disturbo. Un certo ritardo medio nella discriminazione degli organismi viventi da parte dei soggetti autistici è stato più volte riscontrato (Rutherford, Pennington & Rogers 2006). L'anomala relazione, talvolta morbosamente intensa, che i soggetti autistici sviluppano per gli oggetti inanimati, stimoli forse più semplici da leggere e interpretare rispetto agli organismi viventi53 (Cafiero 2005/2009), può rappresentare in tal senso un'ulteriore conferma 54. In effetti la difficoltà nel 53 54 Non è un caso forse che le capacità comunicative dei soggetti autistici ad alto funzionamento siano potenziate dall'utilizzo della comunicazione mediata dal computer, la quale senza dubbio filtra alcuni aspetti comunicativi e rende per questo l'interazione forse più semplice da gestire. Lo sostiene un recente studio di Van der Aa, Pollmann, Plaat & Van der Gaag (2014). Sacks (1985/2009), rimarcando come talvolta sia solo l'interazione con gli altri esseri umani ad essere difficoltosa, così descrive la condizione di un paziente autistico: “ma la speranza, il rivolgersi agli altri, l'interazione erano «proibiti» e certo spaventosamente complessi e «pericolosi». José aveva vissuto per 43 categorizzare adeguatamente i differenti stimoli – gli animate da una parte, il resto del mondo dall'altra – potrebbe condurre in simili situazioni patologiche a cercare di interagire con entità non adatte allo scopo, non predisposte per l'interazione. I dati in nostro possesso in tal senso sono ancora piuttosto scarsi, ma stando così le cose si può azzardare che nel caso della condizione autistica entrambi i domini non funzionino a dovere. Una conclusione plausibile che si può trarre da quanto detto è che chi ha problemi nell'attivazione di AI – e quindi nell'interazione con le altre persone – dovrebbe avere necessariamente anche un malfunzionamento di AL. 3.3.2. AI, ma non AL Immaginiamo ora la situazione inversa. Adesso funziona AI, che mi consente di prevedere le intenzioni degli altri organismi, ma non AL, grazie al quale discrimino gli animate living da tutto il resto degli oggetti del mondo. Questa condizione ipotetica, altrettanto inconcepibile, prevede che io possa adottare un atteggiamento intenzionale, potenzialmente, verso qualsiasi cosa. Dennett suggerisce che sia utile utilizzare questo tipo di approccio anche verso artefatti sufficientemente complessi – come lo scarabeo argentato del racconto di Miedaner – ma non nei confronti di qualunque entità 55. Non verso un sasso. Non verso un palo della luce. Non verso un fulmine. Sembra infatti assumere le caratteristiche del patologico – o dell'antropologicamente antico, si pensi all'animismo 56 delle popolazioni ancestrali – il fatto di attribuire delle intenzioni anche a siffatte entità. In effetti gli oggetti inanimati hanno intenzioni, parlano e talvolta sono intenzionalmente minacciosi, per esempio, per pazienti affetti da alcune forme di schizofrenia57. Anche in questo caso, ipotizzare che un sistema (AI) funzioni e l'altro (AL) no conduce quindi ad immaginare situazioni abbastanza paradossali, disfunzionali o comunque atipiche. Anche qui sembra che debba esserci una correlazione necessaria tra AI e AL. È necessaria l'esistenza di meccanismi che separino gli 55 56 57 quindici anni in un mondo chiuso e sorvegliato, in quella che Bruno Bettelheim […] chiama la «fortezza vuota». Ma per lui non era e non era mai stata completamente vuota; c'era il suo amore per la natura, per gli animali, per le piante”. Per l'interpretazione del comportamento di entità più semplici egli prevedeva infatti l'adozione dell'atteggiamento fisico e dell'atteggiamento del progetto. In antropologia si utilizza il termine animismo per descrivere tutte quelle religioni o quei culti in cui vengono attribuite qualità soprannaturali e intenzioni ad oggetti che sono prettamente materiali. Fenomeni atmosferici, cibo, utensili, armi e luoghi acquistano per le religioni animiste un certo grado di volontà e di intenzionalità e vengono venerate affinché favoriscano il benessere di gruppi di persone. “Questa è l'epoca 'animistica' della malattia. […] I limiti, fra il mondo interiore del pensiero e quello esterno della realtà, divengono sempre più vaghi finché non scompaiono. Gli oggetti divengono minacciosi, esistono, ghignano e […] insultano” (Sechehaye 1951/2006). 44 organismi viventi dal resto delle altre entità per poter utilizzare con profitto l'atteggiamento intenzionale solo verso una determinata selezione di tutte queste entità. In sintesi, per rimanere all'interno del mondo che siamo abituati a conoscere, non sono pensabili vie di mezzo: o entrambi i domini funzionano, o entrambi non funzionano. 3.4. Intenzioni altrui nel nostro cervello Sono sempre più numerosi gli studi effettuati negli ultimi anni, anche con l'utilizzo delle nuove tecnologie, che intendono indagare dal punto di vista scientifico il fenomeno dell'intenzionalità, e soprattutto, di come essa venga percepita dall'esterno. Utilizzando strumenti di neuroimaging Saxe, Xiao, Kovacs, Perrett e Kanwisher (2004), dopo aver ipotizzato che gli esseri umani interpretano le azioni di un altro agente non solo sulla base delle caratteristiche fisiche che possiede ma anche sulla relazione tra il suo movimento e il contesto in cui si trova, individuano una regione che si trova in prossimità del solco temporale posteriore superiore di destra che non è sensibile al movimento articolato di per sé, ma proprio alle relazioni tra movimento osservato e l'ambiente circostante. Uno studio più recente (Gao, Scholl & McCarthy 2012) confermerebbe il ruolo svolto da tale regione cerebrale, indicandola come area dedicata alla percezione delle intenzioni altrui a prescindere dalle caratteristiche fisiche dell'oggetto percepito. Sarebbe questa l'area, in ultima analisi, in cui si svolgerebbero le operazioni del sistema che abbiamo chiamato AI. Le due regioni che si occupano della categorizzazione degli animate living a partire da caratteristiche percettive (aree inferotemporali, la via del cosa) e dell'attribuzione di intenzionalità (solco temporale posteriore superiore) sembrerebbero dunque ben separate almeno a livello neurale – anche se inevitabilmente interconnesse. Col ragionamento suesposto abbiamo provato ad ipotizzare che la selezione naturale abbia favorito un loro necessario e pressoché contemporaneo attivarsi58, dal momento che la negazione di questa interdipendenza comporta effetti non auspicabili, nonché la percezione di un mondo che ci apparirebbe estremamente anomalo e arduo da esplorare. Studi specifici, che usufruiscano delle potenzialità offerte da tecnologie quali la TMS, potrebbero concretamente indagare in futuro come si modifica la percezione e la rappresentazione degli organismi viventi nel momento in cui vengono lesionate virtualmente – proprio grazie alla TMS – l'una o l'altra 58 Si può inoltre immaginare che ci sia stata una coevoluzione tra i due sistemi. 45 area, rendendo a turno difficoltoso il funzionamento di AI o di AL. Come ci rappresenteremmo un organismo vivente se fossimo impossibilitati a elaborarne o le caratteristiche percettive o la sua intenzionalità? Cosa sarebbero per noi, nell'uno e nell'altro caso, le entità che abbiamo chiamato animate? Avrebbero ancora qualcosa di speciale rispetto a tutto il resto? Altri esperimenti che intendano studiare la relazione tra AI e AL potrebbero essere progettati – per esempio – per osservare quali aree si attivano nel cervello di un bambino alla vista dell'orsacchiotto col quale si addormenta la sera, l'orsacchiotto a cui parla e a cui – probabilmente – attribuisce stati mentali59. Si tratta evidentemente di un oggetto, l'orsacchiotto, che in un certo senso inganna il sistema così come era successo a Dirksen con la macchina a forma di scarabeo. Ma cosa inganna, ammesso che lo faccia, nello specifico? AL, dal momento che la sua forma è molto simile a quella di un essere vivente tipico, AI, o come ci sentiamo di ipotizzare, entrambi i sistemi – prima l'uno e, dunque, poi l'altro? Quale delle due aree, inoltre, si attiva con più intensità? Un altro genere di studi potrebbe inoltre verificare come si comporta il nostro cervello nel momento in cui deve categorizzare entità biologiche che si trovano in diversi punti del continuum ai cui estremi si trovano gli organismi unicellulari (se non proprio le macromolecole primordiali) e l'essere umano. In che modo varia il decorso temporale – misurato con gli ERP – per la percezione e l'elaborazione dei diversi stimoli? Quali regioni cerebrali si attivano quando mi rappresento internamente un insetto? Sono le stesse che utilizzo per la categorizzazione dei cani, o comunque di macchine per la sopravvivenza più complesse? Attribuisco veramente intenzioni ad un'ameba che osservo al microscopio? Fa essa scattare i miei sensori specifici per gli animate living? Verso una pianta sembra invece ancora meno naturale e ovvio utilizzare un atteggiamento intenzionale. Ma pensiamo per un attimo ad un albero appena nato. Pensiamo ad una macchina fotografica, piazzata di fronte all'albero stesso, che ne registri puntualmente la crescita, scattando una foto al giorno per un periodo sufficientemente lungo come, per esempio, dieci anni. Ora montiamo queste migliaia di foto in sequenza cronologica, comprimendo i dieci anni in un video time-lapse che duri solo qualche minuto. Quello che osserviamo è il giovane gracile albero che cresce in altezza, che tocca ed evita eventuali ostacoli (ad esempio, rami di altri alberi o muri), che si adatta rapidamente alla direzione del 59 “È letteralmente un gioco da bambino immaginare il flusso di coscienza di una cosa «inanimata». Ed infatti i bambini lo fanno in continuazione […]. La letteratura per bambini (per non parlare della televisione) è piena zeppa di occasioni per immaginare la vita cosciente di queste mere cose” (Dennett 1992/2009). 46 vento più persistente, che cerca in tutta fretta il suo angolo di sole in mezzo al bosco. Cosa succede nel cervello di chi osserva un video del genere? L'albero è d'improvviso diventato animato? L'albero adesso ha intenzioni?60 Se venisse percepito e categorizzato a livello cerebrale come animate living e fosse trattato come dotato di intenzionalità, ciò significherebbe – suona plausibile – che l'evoluzione ci ha plasmato in maniera tale da considerate animati e intenzionali sono quei sistemi in cui le reazioni agli stimoli esterni sono relativamente rapide, stanno entro un certo quantitativo di tempo. E allora concetti come quelli di intenzionalità, di mente, di aliveness sarebbero validi solo in relazione al funzionamento pragmatico del nostro cervello, ma non in assoluto. 3.5. Trasformare il cosa in chi Cominciano inoltre ad essere sempre più diffusi gli studi che analizzano come si comporta il cervello umano quando deve relazionarsi con entità robotiche sempre più complesse, quali aree attiva e, soprattutto, se tali pattern di attivazione sono paragonabili a quelli utilizzati per categorizzare gli organismi viventi. I risultati, che per questioni di spazio non prenderemo qui in esame, sono controversi, ma a nostro avviso all'interno di tali situazioni sperimentali è fondamentale tener maggiormente conto della complessità dell'oggetto stesso e del suo comportamento: studi diversi talvolta portano a conclusioni diverse proprio perché gli esperimenti non controllano per il grado di complessità dello stimolo percepito. Sembra abbastanza ragionevole supporre, sulla base di quanto detto in precedenza, che da un determinato grado di sofisticazione del robot in poi il cervello, che utilizza un certo tipo di dati oggettivi e di informazioni fisiche per costruirsi il proprio modello dell'oggetto percepito, non possa più fare una distinzione netta. Un robot sufficientemente sofisticato61 attiva nel cervello umano le medesime aree neurali degli animate living dotati di intenzionalità. Se ciò non fosse vero, del resto, saremmo costretti a fare un'ipotesi ancora più audace e non verificabile: che il cervello in qualche misterioso modo percepisca cioè negli animate living un'essenza, un qualcosa (a cui faceva inizialmente 60 61 Immaginiamo che in casi del genere possa verificarsi una sorta di contrasto tra ciò che viene elaborato in maniera bottom-up, a partire dalla pura informazione fisica, e ciò che suggerisce invece la via top-down, la quale ricorda al soggetto che gli alberi – oggetti già incontrati spesso in passato – sono comunemente ritenuti oggetti privi di intenzionalità. Compito della ricerca scientifica è, anche qui, scoprire esattamente quando l'oggetto percepito effettua – ai nostri occhi – questa sorta di salto ontologico. 47 riferimento Dirksen parlando della differenza tra animali e macchine) di non ben definibile o analizzabile. In tal caso si dovrebbero introdurre concetti metafisici e si aprirebbero tutta una serie di nuove problematiche. Sarebbe questa peraltro un'ipotesi non falsificabile in senso popperiano. Abbiamo parlato di ingannare il sistema. È chiaro che nel momento in cui l'evoluzione ha modellato i propri meccanismi per la detezione rapida e precisa degli animate living e per l'attribuzione di intenzionalità secondo il modello di Dennett, nel mondo non esistevano robot, orsacchiotti di peluche e video time-lapse. In quel mondo non esistevano simulacri né copie meccaniche incredibilmente verosimili. L'ambiente ancestrale in cui la selezione naturale ha formato il nostro cervello prevedeva, semplicemente, che gli animate living fossero effettivamente gli organismi viventi: le tigri, i serpenti, le lepri da cacciare, gli altri esseri umani. La cosa funzionava: il fatto di riconoscere un organismo velocemente e senza commettere troppi errori di valutazione, mentre al tempo stesso se ne intuivano le intenzioni, portava un palese vantaggio evolutivo. La cosa funzionava, e i meccanismi neurali si sono di conseguenza adattati e funzionano splendidamente anche al giorno d'oggi. Anche se ora come ora la tecnologia umana può, se vuole, ingannarli utilizzando tutta una serie di trucchi. E svelarne così le logiche soggiacenti. In quei tempi remoti si trattava di scegliere una via, tra tutte quelle possibili. E la scelta cadde su una strada solida, sicura da percorrere, che portasse dritta alla meta senza troppe incertezze e con una certa rapidità. Su suggerimento dell'evoluzione, il cervello in fieri aveva dunque deciso che, tra tutte le entità di cui il mondo era costituito, alcune dovessero essere etichettate in modo speciale. Quelle che più gli somigliavano. Quelle che avevano comportamenti simili e, si presuppone, simili stati mentali. Eppure, a ben vedere, si trattava di una decisione basata solo su questioni di ordine esclusivamente pragmatico. Certe cose divennero speciali perché l'evoluzione aveva stabilito62 che dovessero esserlo, non perché lo fossero oggettivamente. Gli animate living sono oggetti peculiari a posteriori, non in sé. Ragionando a fondo sulla questione si potrebbe concludere, e si tratta di una conclusione di certo non semplice da accettare, che se non ci fossero cervelli ad interpretare il reale, se non ci fossero i loro innati schemi di categorizzazione, non esisterebbe nel mondo là fuori quella differenza che – appunto – ci appare tanto sostanziale tra animate living e nonliving. Così come, ci ricordano gli studi delle neuroscienze che analizzano il funzionamento dei sistemi 62 È curioso che si tenda a dare un'intenzionalità anche ad un meccanismo cieco, che non ha fini ultimi ma che si muove a tentoni selezionando di volta in volta alcune mutazioni casuali, come quello dell'evoluzione darwiniana. 48 sensoriali, non esisterebbero i colori o i suoni, altre opere talvolta meravigliose realizzate dai nostri cervelli a partire da dati di fredda natura fisica. Senza i nostri cervelli, modellati probabilmente per auto-percepirsi (e auto-illudersi) come menti dotate di intenzionalità, non esisterebbero le altre menti e le altre intenzionalità 63. Come ricorda Bellone (1994) neanche troppo provocatoriamente al termine di un arguto ragionamento: “Non sto cercando di convincere qualcuno ad abbracciare il punto di vista per cui ogni organizzazione biologica è corredata di una mente. Sto invece suggerendo che non ci siano menti in alcun luogo”. Il cervello forma noi e la realtà che ci sta attorno in svariati modi. Realizza la nostra mente e quelle altrui secondo principi applicabili anche ad altre forme di percezione. Pensiamo alla pareidolia, per esempio, quell'illusione che ci fa trovare forme note e familiari in oggetti e profili che hanno invece struttura più o meno casuale. Il meccanismo che vi sta alla base ha una funzione fondamentale, ma spesso sbaglia per eccesso e ci fa scovare facce anche laddove non ci sono. È stato selezionato dall'evoluzione probabilmente per favorire – anche qui – il riconoscimento rapido di eventuali predatori pronti all'assalto. Il fatto che si presenti un alto numero di falsi positivi – i quali causano la pareidolia stessa 64 – è legato a questioni di sopravvivenza, di fitness: meglio allertarsi e fuggire a vuoto, nel dubbio, che non allertarsi affatto per poi trovarsi davanti la presenza effettiva di un animale minaccioso. Meglio un'inutile e magari faticosa fuga che la morte. I meccanismi che ci consentono di scovare gli animate living dotati di intenzionalità all'interno del mondo circostante sembrano utilizzare la medesima logica. Siamo fatti per scovare aliveness, menti ed intenzionalità65 63 64 65 “Voi e io siamo miraggi che percepiscono sé stessi, e l'unico macchinario magico dietro le quinte è la percezione […]. Quando nel mondo della fisica interviene una percezione a livelli arbitrariamente alti di astrazione, […] allora il «cosa» si trasforma in «chi». Ciò che prima sarebbe stato etichettato senza storie come «meccanico» e automaticamente bocciato come candidato per la coscienza [e per l'intenzionalità], dovrà essere riconsiderato” (Hofstadter 2007/2008). Sarebbe interessante peraltro indagare quanto l'illusione pareidolica sia influenzata da fattori cognitivi. A chi scrive è capitato di vedere, per pochissimi istanti, il volto di Galileo – quello reso noto dai diversi dipinti che lo ritraggono – in una struttura casuale di foglie e rami secchi, proprio mentre la radio stava passando una lettura teatrale di Vita di Galileo di Beltolt Brecht. Il già citato L'io della mente (Hofstadter & Dennett 1981/1985) contiene un immaginario e brillante dialogo tra un essere umano e Dio. Il testo si intitola Dio è taoista?, è stato scritto da Raymond M. Smullyan e tiene una posizione che è piuttosto in risonanza con alcune delle idee citate in questo lavoro. Quando l'umano chiede a Dio se quest'ultimo sia da considerarsi una divinità personale o no, Dio risponde così: “[...] la cosiddetta 'personalità' di un essere è in realtà più nell’occhio di chi guarda che nell’essere in questione […]. Da un certo punto di vista io sono personale, da un altro non lo sono. Per un essere umano è la stessa cosa: una creatura di un altro pianeta può vederlo in modo puramente impersonale, come semplice insieme di particelle atomiche che si comportano secondo leggi fisiche rigorose. Questa creatura potrebbe provare per la personalità dell’essere umano la stessa considerazione che l’uomo comune ha per una formica. Eppure una formica ha tanta personalità individuale quanta un essere umano per esseri che, come me, conoscono veramente la formica. Vedere una cosa come impersonale non è né più giusto né più sbagliato che vederla come personale, ma in genere quanto più si conosce qualcosa tanto più personale essa diventa” (Hofstadter & Dennett 1981/1985). 49 all'interno del mondo che ci circonda esattamente così come siamo fatti per estrarre facce da uno sfondo. Entrambi i sistemi possono essere ingannati da strutture che sembrano modellate apposta per azionare determinati meccanismi neurali, ma che non sono esattamente gli stimoli per i quali tali meccanismi sono stati selezionati: ed è allora che un certo pattern di rocce sul suolo di Marte ci ricorda una faccia, o che le macchine per la sopravvivenza primordiali a cui accennava Dawkins e lo scarabeo argentato di Miedaner assumono per noi vitalità e intenzionalità. Ed è allora, spingendo il tutto un po' più in là, che qualsiasi essere vivente ci appare un essere vivente. Nella stessa misura in cui noi appariamo tali a noi stessi. 3.6. Conclusioni Nel primo capitolo abbiamo passato in rassegna alcuni dei più recenti studi di neuroscienze sulla categorizzazione dei living e in particolare del loro sottoinsieme, gli animate living. Abbiamo visto che nel cervello esistono, secondo un filone sempre più consistente di ricerche, delle strutture e dei processi innati – dei domini specifici – che ci permettono di riconoscere automaticamente questi stimoli, i quali rispetto agli stimoli di tipo nonliving vengono discriminati con più velocità e con un minor numero di errori. Nel secondo capitolo ci siamo soffermati sul concetto di atteggiamento intenzionale: un'idea sulla quale il filosofo della mente Daniel Dennett ha fondato la sua complessa teoria sul funzionamento dei processi mentali e della coscienza. L'atteggiamento intenzionale è quell'approccio che tendiamo automaticamente ad adottare nei confronti degli organismi viventi (ma non solo) per cercare di prevederne stati mentali, scopi e desideri e quindi per poter interagire con loro. Per Dennett si tratta di un meccanismo che è implementato nel nostro cervello fin dalla nascita, in quanto comporta un vantaggio evolutivo per chi lo possiede ed è dunque stato preservato e potenziato dalla selezione naturale. Nel terzo capitolo, utilizzando in primo luogo un racconto di fantasia come esperimento mentale che possa fornire spunti di discussione, abbiamo cercato di fare una sintesi tra i due concetti sopra esposti, accomunati dal loro essere innati, tentando di indagare – in maniera per lo più speculativa – che tipo di relazione ci sia tra di essi. L'ipotesi che abbiamo formulato è che nel momento in cui il nostro cervello, nella sua costante scansione dell'universo, individua un animate living, automaticamente – diremmo quasi in contemporanea – esso tende ad attribuirgli un'intenzionalità. Perché ciò è utile a fini evoluzionistici. Utilizzando solo strumenti logici e speculativi, si è provato a pensare a cosa 50 succederebbe se tale relazione che abbiamo postulato come necessaria non sussistesse, e se a turno solo uno dei due sistemi – innescati secondo alcuni studi in aree diverse del cervello – fosse funzionante e l'altro no. Le conclusioni che abbiamo tratto – le quali prefigurano un mondo completamente diverso da quello che percepiamo quotidianamente – sembrano indicare che tra i due meccanismi non possa che esserci uno stretto legame. Essi paiono necessariamente interdipendenti. Gli studi che cercano di indagare le caratteristiche neurali dell'atteggiamento intenzionale (e di quella che viene chiamata teoria della mente), vista la complessità e la vastità del campo di ricerca, non sono semplici da progettare. Eppure da qualche anno, anche grazie all'utilizzo di nuove tecnologie di scansione cerebrale, essi cominciano pian piano a diffondersi. Da parte nostra crediamo che un buon metodo per studiare i substrati neurologici di questo nostro particolare e automatico atteggiamento verso gli altri esseri viventi, nonché la sua correlazione con i meccanismi di identificazione e categorizzazione degli animate living, sia osservare come si comporta il cervello quando si trova di fronte a situazioni particolari, casi limite, illusioni percettive, simulacri di vita biologica. Un approccio che cerchi di spiegare come uno stimolo inganna il sistema articolato e interconnesso di percezione, di categorizzazione e di attribuzione dell’intenzionalità potrebbe contribuire a far maggior luce su come funziona il sistema stesso. A far capire ancora meglio quali caratteristiche particolari dello stimolo esso trova rilevanti, quali sono quei dettagli che lo fanno mettere in moto. Studi simili potrebbero aiutare tra l'altro a fornire preziosi elementi per la comprensione di anomalie cliniche quali per esempio l'autismo, caratterizzato da problemi comunicativi e da deficit di categorizzazione che sembrano coinvolgere direttamente le strutture e i meccanismi di cui abbiamo parlato in questo lavoro, certe forme di schizofrenia ma anche, immaginiamo, la mancanza di empatia evidenziata da alcuni soggetti affetti da disturbo psicopatico e antisociale. La riflessione sui risultati sperimentali, infine, potrebbe portarci su una strada filosoficamente impervia, la quale ci condurrebbe passo dopo passo a rivalutare nozioni del comune sentire che tendiamo a dare per scontate ma che, alla luce di quanto potremmo apprendere grazie alle nuove prove empiriche, tali non sarebbero. Si tratterebbe allora di riconsiderare e rivalutare concetti basilari tra di loro intrecciati come quelli di vita biologica e mente, nonché di io, di coscienza e di libero arbitrio. Idee che sono sempre apparse intoccabili, fondamenti dell’esistenza umana mai davvero intaccati dalla pura speculazione, potrebbero andare incontro a profonde ristrutturazioni. Se la mente e l'intenzionalità altrui 51 esistono solo come mere congetture elaborate dall'esterno per ragioni di ordine pratico, se rappresentano cioè solamente strumenti conoscitivi e interpretativi utilizzati con profitto dal cervello, la materia stellare auto-organizzatasi che chiamiamo cervello, l'inevitabile conclusione è che si possa arrivare a metterne in dubbio l'effettiva realtà ed a pensarle esclusivamente come costrutti teorici. Sarebbe questa una rivoluzione di enorme portata, in grado di ridefinire ulteriormente il ruolo dell'uomo nell'universo. 52 Bibliografia Abbagnano, N. & Fornero, G. (1986). Filosofi e filosofie nella storia. Volume secondo (2° ed.). Torino: Paravia. Bara, B. G. (2000). Il metodo della scienza cognitiva. Un approccio evolutivo allo studio della mente. 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