Libro_ parte_ terza

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Libro_ parte_ terza
Per dare “gusto, sapore e profumo” alla vita del paese
Omaggio alla nostra terra,
ai suoi personaggi, alla sua storia.
a cura di Maria Grazia Ferraris
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PARTE TERZA
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IN COPERTINA:
Agostino Zaliani, Mulino Salvini - acquaforte.
INDICE – PARTE TERZA
I
Personaggi del nostro territorio.
Fernanda Gattinoni – Orgogliosa di essere cocquiese di Federica Lucchini - N° 0, 2001.
Edoardo Gallico, un cocquiese di grande rilievo di Federica Lucchini - N° 1, 2002.
Luciano Ferriani: uno spirito folletto nella vita e nell’arte di Alberto Palazzi - N° 5, 2003.
Emanuele Morvillo: ricordo di un amico di Adriano Biasoli - N° 17, 2007.
Giovanni Broglio, l’architetto dei poveri di Gianni Pozzi - N° 6, 2003.
Giovanni Broglio, un Caldanese costruttore di umanità di Mario Broglio - N° 6, 2003.
Luigi Mattioni, architetto della ricostruzione (Villa Ida) di Federica Lucchini - N° 8, 2004.
Carlin, 60 anni in punta di remo di Mario Chiodetti - N° 21, 2008.
Cesare della Porta di Marta Crugnola - N° 5, 2003.
Esteban Canal, grande scacchista di Federica Lucchini - N° 9, 2004.
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II
La Cultura materiale.
Tradizione e globalizzazione di Domenico Lanfranchi - N° 6, 2003.
Primavera che viene, erba che trovi di Francesca Boldrini - N° 13, 2006.
La nonnina del caffè di Carlo Cavalli - N° 4, 2003.
Scherzare coi Santi di Luigi Stadera - N° 21, 2008.
Magia dell’acqua di Francesca Boldrini - N° 10, 2005.
Cucina e Tradizione di Luigi Stadera - N° 16, 2007.
Una vecchia ricetta caldanese di Michele Presbitero - N° 21, 2008.
La Baroza di Marco De Maddalena - N° 7, 2004.
Un grande vigneto (Quando a Varese c’era il vino) di Roberto Ravanelli - N° 12, 2005.
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III
Ricordi e considerazioni di vita di paese.
L’anima delle cose di Patrizio Bedon - N° 4, 2003.
La corriera di Debora Ferrari - N° 2, 2002.
La Torre: la biscia nera e la vecchia signora di Flavio Moneta - N° 17, 2007.
L’acqua signorina (O meglio la fonte de l’Avucatt) di Giorgio Roncari - N° 16, 2007.
Il “tesoro romano” a cà del Giordano di Giambattista Aricocchi - N° 16, 2007.
Il tram per la Caldana di Alberto Palazzi - N° 13, 2006.
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IV
Cultura popolare (fatti e misfatti raccontati con ironia…).
La “crianza” di Alberto Palazzi - N° 0, 2001.
“Tegn de cuunt” di Alberto Palazzi - N° 1, 2002.
La tajadèla di Alberto Palazzi - N° 4, 2003.
Baffone contro il Tugnino (18 aprile 1948) di Alberto Palazzi - N° 8, 2004.
Il manico di Alberto Palazzi - N° 16, 2007.
“Berlusca” si nasce di Giambattista Aricocchi - N° 18, 2007.
Il vino non tagliato è roba da incivili di Amerigo Giorgetti - N° 18, 2007.
Lassù, gli ultimi di Alberto Palazzi - N° 15, 2006.
Non di solo filetto... (La Macelleria Andreoli) di Alberto Palazzi - N° 19, 2008.
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Le interviste di «Menta e Rosmarino» a cura di Roberto Vegezzi
La donna nei nostri paesi - N° 17, 2007.
“Scantonare” - N° 12, 2005.
La scuola: una realtà che cambia - N° 21, 2008.
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AUTORI ANTOLOGIZZATI NELLA TERZA PARTE:
Giambattista Aricocchi - Patrizio Bedon - Adriano Biasoli - Francesca Boldrini - Mario Broglio - Carlo
Cavalli - Mario Chiodetti - Marta Crugnola - Marco De Maddalena - Debora Ferrari - Amerigo Giorgetti
Domenico Lanfranchi - Federica Lucchini - Flavio Moneta - Alberto Palazzi - Roberto Ravanelli - Giorgio
Roncari - Gianni Pozzi - Michele Presbitero - Luigi Stadera - Roberto Vegezzi.
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Personaggi del nostro territorio
I
ono molti i personaggi fuori dal comune che hanno lasciato traccia di sé legati alla storia
cocquiese e a quest’angolo del Varesotto… Davvero difficile la scelta.
Ricordiamone alcuni importanti, indimenticabili per originalità e genialità come:
Fernanda Gattinoni, Luciano Ferriani, Edoardo Gallico, Emanuele Morvillo, Giovanni
Broglio… ma anche altri, del tutto comuni, che a loro modo sono dei protagonisti della vita del
paese, come il pescatore Carlin presentatoci da M. Chiodetti…
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Orgogliosa di essere cocquiese di Federica Lucchini - N° 0, 2001.
E’ una narratrice inesauribile Fernanda Miracca Gattinoni, la Signora della moda italiana.
In questi giorni, dopo che le è stata conferita dal sindaco di Cocquio Trevisago, la cittadinanza
onoraria, appare particolarmente gioiosa. …Pare impossibile che dopo aver ricevuto
riconoscimenti, quali il cavalierato del lavoro, il cavalierato di Gran Croce al merito della
Repubblica italiana… sia così orgogliosa di questa onorificenza. «…Gli altri sono riconoscimenti
che fanno molto piacere. Ma qui c’è il calore e l’affetto della mia gente…».
Parlare di lei, stilista conosciuta a livello internazionale, è un percorso di molti giornalisti.
Vestire Gattinoni significa infatti, indossare un capo sinonimo di eleganza, raffinatezza e status
simbol. Non è usuale invece parlare di lei come donna in cui coesistono due realtà, che sa
armonizzare, pur nella loro diversità; quella delle grandi città del mondo dove hanno sede le sue
boutiques e quella di Cocquio, dove è nata e ha trascorso l’infanzia. Il sapere che dietro a
settant’anni di attività costellati di successi, di frequentazioni con case regnanti, con il mondo
dello spettacolo, del cinema, c’è la realtà natale, da cui lei attinge quell’energia indispensabile per
sostenere grandi responsabilità, riempie d’orgoglio. Ci vuole la frescura della val Calcinè, il silenzio
e la pace della sua casa in quell’angolo del paese che conserva inalterati superbi squarci dell’antica
arte costruttiva dei contadini, per raggiungere quell’otium fecondo, fruttuoso per la su attività.
…«Ognuno di noi è elegante se si veste in rapporto alla propria personalità,… perchè ognuno
di noi è importante, unico. Deve essere solo ed esclusivamente se stesso. La vera eleganza deve
essere fatta esclusivamente della conoscenza della nostra persona». ...
Tanti sono i ricordi legati alla sua terra, come la chiesa della Purificazione ove, durante la
prima messa alle cinque del mattino, lei suonava l’organo. Quello stesso organo per il quale in
questi ultimi anni ha contribuito al restauro. Sono ancora pieni di gioia i suoi occhi quando parla
dell’acqua del Riaa, che scorreva limpida e scrosciante accanto al lavatoio e lei, seduta sul muretto,
amava guardarla, mentre udiva le donne parlare rumorosamente delle ultime novità del paese.
Oh, la piazza era proprio il centro del paese, era il luogo più animato! Su di essa si affacciava
l’osteria del Bogn, che vendeva i francobolli, i dolci, prosciutto e nel retro fungeva da ristorante…
Oh la piccola Fernanda era attiva anche durante le processioni alle quali partecipava col suo
abito di Sangallo bianco e con un cesto di petali di rose da spargere nel percorso. I suoi ricordi si
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spostano poi in un collegio di Londra, dove era ospite per imparare l’inglese… Un giorno un
italiano, che creava modelli prêt à porter, stupito della sua abilità nel creare costumi con tele di
poco conto, le propose di lavorare con lui…
Nutrita è la galleria di persone famose che lei ha vestito. Innumerevoli. Ma le luci della ribalta
di palcoscenici prestigiosi trovano la loro ragion d’essere e il loro stimolo in quelle candele più
soffuse, ma piene d’affetto e di riconoscenza del suo paese natale.
N.B.: F. Lucchini riprenderà la presentazione del personaggio «Fernanda Gattinoni» altre
volte sulle pagine di «Menta e Rosmarino».
Fernanda Gattinoni, un caro ricordo, in occasione della morte - N° 3, 2002.
Fernanda Gattinoni, cent’anni di stile. Presentazione della biografia - N° 5, 2003.
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Edoardo Gallico, un cocquiese di grande rilievo di Federica Lucchini - N° 1, 2002.
Traspariva, in quelle sue tele e sculture sulle pareti del reparto di radiologia dell’ospedale di
Cittiglio, non solo l’animo dell’artista, bensì quella umanità delicata e sottile che lo
contraddistingue. Nelle attese di un esame che spesso preoccupava, quelle creazioni così varie per
le tecniche usate, così vissute, davano ai pazienti la sensazione che al di là di quella porta, dove
ci stavano tutte quelle apparecchiature così sofisticate, operava sì un medico, ma soprattutto un
uomo che coniugava scienza ed arte. Ed era, quindi, disposto ad accoglierti con l’occhio attento
e sensibile della persona che sa guardarti dentro.
Poi, quando aveva esaminato attentamente le lastre, con un sorriso e una gentilezza d’altri
tempi ti stringeva la mano dicendoti: «Complimenti, signora!» E ti spiegava con termini scientifici
e nel contempo molto chiari il perché quegli esami non destavano assolutamente preoccupazione.
«Quando, invece, le notizie erano brutte ne soffrivo anch’io – dice ancora oggi – perché nel mio
operare sono sempre stato ispirato alla solidarietà umana».
C’è nell’introduzione ad uno dei tanti testi (una settantina di pubblicazioni scientifiche e vari
libri di medicina) del professor Edoardo Gallico, primario di radiologia all’ospedale di Cittiglio dal
’58 all’88, una presentazione che ne definisce i tratti salienti: «Definire l’autore di questo libro,
il prof. Gallico, «un uomo rinascimentale» equivale a riconoscere solo una parte della sua
personalità, che è duttile, estroversa, proteiforme, fertile ed eclettica, rigorosa e tuttavia sensibile
alle sollecitazioni del fantastico e del teoretico, abile alla severità delle esperienze di laboratorio e
pronto alla sintesi equilibrata e alla indagine critica di un qualsivoglia problema. Il Gallico è
passato al vaglio di una severa preparazione clinica e radiologica, istologica e cancerologica, ed ha
avuto Maestri insigni come il Rondoni e il Perussia, ha pubblicato ricerche biochimiche di grande
impegno, ha conseguito la docenza in patologia generale e in patologia speciale medica, si è
specializzato in radiologia ed in tisiologia, ed ha prestato servizio effettivo in cliniche ed istituti
universitari e parauniversitari».
La firma di colui che ha scritto questa presentazione è insigne: si tratta del professor Carlo
Sirtori, un luminare della medicina, mentre il professor Umberto Veronesi, con cui ha instaurato
ottimi rapporti, ha curato la presentazione del volume I tumori non rispettano il codice, pubblicato
da Feltrinelli, che è valso a Gallico il primo premio al Concorso Nazionale medici scrittori, a
Parma nel 1979.
Il professor Gallico ama i fiori, la natura ed è stata questa passione che l’ha condotto nelle
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nostre zone. Era appena tornato da Haifa nel ’56, una Mecca per la medicina, dove, presso il
centro tumori, confluivano i migliori medici che operavano con i migliori apparecchi e dove aveva
curato una paziente affetta da leucemia micloide, la quale, unica donna al mondo, riuscì, grazie
al suo intervento, a partorire due bambini.
«L’ospedale era immerso in una natura fantastica – ricorda – con meravigliosi giardini e,
tornato a Milano per stare vicino ai genitori, avevo nostalgia di quei luoghi. Così quando mi
venne prospettata la possibilità di lavorare a Cittiglio, che raggiunsi in treno, come poi feci per
diversi anni, rimasi colpito dalla bellezza di questi luoghi. Il Sasso del Ferro mi pareva il monte
Tabor, su cui salivo spesso in lambretta». Si aprì un nuovo capitolo nella sua vita di medico e di
uomo.
Lavorando in stretto contatto con il presidente, ingegner Alfredo Sonzini di Duno, uomo
dalla mentalità molto moderna, e con il professor Stefano Markovits, rese indipendente l’ospedale
di Cittiglio per tutte le diagnosi radiologiche e per tutte le possibilità radioterapeutiche.
Tanta è ancora oggi la riconoscenza nei suoi confronti. Ricordano i pazienti quando lui non
faceva alcuna distinzione tra mutuati e paganti e gli sono grati per la sua profonda competenza
che ha permesso di salvare molte vite umane. E mentre il lavoro di routine lo impegnava parecchie
ore al giorno, ha sempre continuato l’attività scientifica, esplorando gli estesi campi della patologia
e ideando, primo in Italia, il ballistocardiografo, che misura la forza del cuore e non l’impulso
elettrico, come nell’elettrocardiogramma. «Ho sempre sentito il soffio vitale della ricerca», afferma
mentre scorrendo il suo curriculum si scopre che è stato il primo medico in Italia a pubblicare su
Minerva Medica una monografia sulla chemioterapia.
E’ circondato dalla sua bella famiglia, molto amata, fra cui la moglie Myriam, le figlie Diana
(che ha ottenuto un master in informatica), Dalia, laureata in architettura, e da tutte le sue opere.
Già, l’arte, coltivata fin da quando viveva nella sua famiglia d’origine a Mantova, dove ha visto
la luce il 26 novembre 1920. Parla con entusiasmo della sua città, fulcro di notevoli attività
sociali e intellettuali, dei suoi due fratelli, uno Alessandro, ingegnere specializzato nella
costruzione di dighe (è stato progettista della più grande diga del mondo, tra il Paraguay e
l’Argentina, quella di Itaipu, che fornisce l’energia elettrica a tutta l’America del Sud), e Claudio,
professore ordinario di storia della musica e direttore dell’Istituto di Musicologia dell’Università
di Parma (è autore di diverse monografie fra cui «Sopra li fondamenti della verità – Musica italiana
fra il XV e il XVII secolo»….). Ricorda con struggente affetto i suoi genitori, che, dopo
l’emanazione delle leggi razziali del ’38, dovettero fuggire dalla loro città e riparare fortunosamente
in Svizzera dove il padre Isacco Ernesto, professore di storia e filosofia, scrisse «un’opera che
onora il Paese che vuole ringraziare» (come venne giudicato dalla Gazzetta di Losanna il 12
settembre 1945). Si tratta del testo «Dalla Svizzera all’Europa nuova», inerente due conferenze
tenute in quella città, che precorsero i tempi degli Stati Uniti d’Europa. C’è un aspetto che
evidenzia la modestia del prof. Gallico. Un aspetto tanto amato che ha coltivato umilmente nelle
ore libere che il lavoro gli consentiva… E’ quello dell’arte. «A Laveno ho cominciato a frequentare
la scuola di ceramica diretta dal professor Nicolini, grande incisore e allora sindaco di Cuveglio.
– ricorda – Qui, imparai come lavorare la creta che poi, una volta realizzata l’opera, facevo cuocere
alle fornaci di Cunardo. Sono un grande innamorato del pittore Innocente Salvini, che conobbi
come paziente. Era una persona stupenda, da cui imparai molto. Realizzai un suo busto del quale
sono ancora molto orgoglioso». Nella casa di Edoardo Gallico, molte sono le opere, esposte in
diverse mostre, che evidenziano il suo grande interesse per l’arte; molti i premi ottenuti in
prestigiosi concorsi, come un primo premio nazionale di pittura per il dipinto «La stele di Rosetta»
(il codice genetico) con la seguente motivazione: «Per aver saputo sintetizzare ed esprimere in
modo originale il flusso continuo che unisce, dalla grande tradizione pittorica rinascimentale a
oggi, la scienza, la cultura, la storia, la vita»...
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Ci sono due altri aspetti che evidenziano la poliedricità del professore: curiosi e lontani
dall’immagine del medico in camice bianco. Sono la sua passione coltivata in gioventù del fioretto
e spada, di cui è stato campione nazionale universitario, e attualmente quella della fisarmonica
che suona da autodidatta.
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Luciano Ferriani: uno spirito folletto nella vita e nell’arte di Alberto Palazzi - N° 5, 2003.
Il 27 settembre 1968 moriva a Cittiglio il pittore caldanese Luciano Ferriani. Quando in paese
si diffuse la tragica notizia tutti coloro che lo conoscevano furono presi dallo sconcerto. Aveva 47
anni, ma la sua scomparsa lasciava increduli non tanto per l’età quanto perché riusciva difficile
far coincidere l’idea della morte con l’inesauribile vitalità della sua persona.
Chi l’ha conosciuto lo ricorda come un personaggio straordinario, una specie di fantasioso e
sfrenato spirito folletto della vita e dell’arte. «Pittore, incisore, restauratore, antiquario, mercante,
editore, bibliofilo, scrittore, tecnico della tratta, della cambiale e del protesto, eroe del dissesto,
del fido…» si legge in un malizioso ritratto che di lui ci offre Piero Chiara. E poi… «cacciatore,
uccellatore, imbalsamatore, nuotatore, mangiatore, bevitore e quanto più di fisico può stare in un
uomo di penna e di pennello».
In ancor giovane età lascia la nativa Bologna e decide di trasferirsi a Caldana dove spera di
trovare «la pace, il silenzio, la dolcezza di vivere, la bontà e la devozione ai ricordi della propria
stirpe».
…Qui da noi si ambienta subito… Si dedica alla caccia e sarà proprio l’esercizio della attività
venatoria, con le sue lunghe attese immerso nel folto delle selve, a contatto con lo straordinario
mondo della natura, una delle muse ispiratrici della sua pittura. Si coglie, infatti in molte sue
opere, il senso dell’attesa e dell’inquietudine, accresciuto da due elementi che la genialità del pittore
rende nel più alto grado: l’immobilità ed il silenzio. Solenni l’uno e l’altra, interiorizzati anch’essi
nei boschi di notte… Fra i soggetti della sua produzione spiccano comunque le lanterne. Sono le
lanterne che i Caldanesi hanno messo ormai nelle soffitte; lui va a riprenderle, le porta nella sua
mansarda, le mette sul tavolo con qualche gufo e qualche civetta imbalsamata e le dipinge.
E come avrebbero potuto trasmettere diversa sensazione gli scheletri, le crocifissioni, le danze
macabre che rappresentano un’altra costante della sua produzione? Macabri ed inquietanti, se li
dipinge di notte… Gli amici caldanesi fanno fatica a capire tutto ciò, osservano e scuotono il capo,
un po’ come si fa coi matti, ma lui, gaio e sorridente, tira avanti sempre più convinto.
E i fatti sembrano dargli ragione. Arrivano le prime mostre, gli interessamenti, le recensioni.
… presto, ahimè arrivano anche i guai.
Si cimenterà in diverse attività e andrà incontro ad insuccessi anche pesanti… Insensibile ai
suggerimenti di chi lo richiama a una maggiore prudenza, tira avanti per la sua inverosimile strada
sospesa nel vuoto; era fatto così il Ferriani… Negli ultimi anni, almeno per ciò che riguarda la
pittura, incomincia a recuperare soddisfazioni e una mostra alla Rotonda della Besana sembra
consacrarlo nel novero dei «grandi». Poi improvvisamente il romanzo della sua vita assume
connotati ancora più incredibili.
Negli ultimi dipinti lascia trasparire un presentimento di cose fatali e si coglie un ulteriore
amaro rintocco di morte... Un incidente di caccia …lo costringerà ad un ricovero in Ospedale
… nasceranno delle complicazioni che gli saranno irrimediabilmente fatali. …Del resto questi
spiriti folletti, questi straordinari interpreti della vita e dell’arte, sono creature delicate. Pieni di
una vita strepitosa, a vederli. Ma a distruggerli basta un niente.
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N.B: «Menta e Rosmarino» ha dedicato nel tempo vari articoli all’opera e alla personalità di
Luciano Ferriani:
G. Colnaghi, Getto il mio cuore nelle selve e mi fermo a Caldana - N° 1, 2002.
M.G. Ferraris, La Caldana microcosmo di Luciano Ferriani - N° 12, 2005.
M.G. Ferraris, La Caldana inedita di Luciano Ferriani - N°15, 2006.
M.G. Ferraris, Ricordar Ferriani - N° 20, 2008.
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Emanuele Morvillo: ricordo di un amico di Adriano Biasoli - N° 17, 2007.
Lui era un giovane medico e io ero uno studente. Ci conoscemmo a causa delle mie caviglie fragili
e dolenti, quando Cocquio era per me il paese del soggiorno estivo, ma il rapporto con la mia
famiglia andò ben presto oltre l’ambulatorio. Così il giovane medico si trovò di fronte un ragazzo
timido che usciva poco e parlava poco.
«Tu hai degli amici?». «Certamente, non molti, ma ci vado d’accordo».
«E sono anch’essi figli unici come te?».
«Sì… più o meno, ce n’è anche uno che ha due sorelle più grandi».
«L’amicizia è preziosa, ma voi state bene insieme perché vi consolate a vicenda della vostra
timidezza. Anche se tutto ciò è rassicurante, a volte occorre spezzare le abitudini per confrontarsi
e conoscere la realtà; se si vuol crescere, bisogna pensare in modo diverso...».
Quelle poche parole sono la sintesi più efficace di come egli vedeva la vita. Emanuele Morvillo
era fatto così: un uomo alla ricerca dell’uomo.
Nei paesi come il nostro, la figura del medico è, da sempre, legata a una posizione di rilievo
nell’ambito del tessuto sociale, ma nello studio di Emanuele Morvillo i pazienti non trovavano
gli status symbol del professionista prestigioso: c’erano i ricordi dei suoi viaggi, suppellettili e
sculture etniche di paesi lontani, c’erano i quadri e le opere di artisti d’avanguardia ancora in
cerca di celebrità. La medicina, al pari delle altre discipline, era per lui una fonte del sapere che
gli consentiva di conoscere se stesso e il mondo che lo circondava. E il suo desiderio di sapere passò
attraverso le pagine delle centinaia di libri di scienza, filosofia e letteratura che arricchivano la sua
biblioteca, attraverso la raccolta di brani musicali, del jazz classico, che amava ascoltare nei
momenti di raccoglimento, attraverso le collezioni di oggetti dei generi più diversi con i quali
completava l’arredo dello studio e dell’abitazione.
Un medico alla ricerca dell’uomo non si rassegna a curare il male come se fosse un evento
casuale ed esterno all’uomo stesso. La malattia nasce da dentro, dalla fatica di vivere, dalla
sofferenza dell’anima che indebolisce il corpo. I suoi pazienti dovevano saperlo: quando ci si
ammala, non basta prendere le medicine per guarire, occorre anche trovare la voglia di guarire…
Nella raccolta di poesie che Emanuele ha donato ai suoi amici c’è la testimonianza di questo
amore capace di andare oltre la malattia e la sofferenza…
Avresti potuto.
Alga strappata al suo appiglio / inutile cartiglio nelle tue dita / era ormai la mia vita.
Avresti potuto / gettarla sul tavolo verde / nel brivido del vento, / della luna maligna,
delle stelle negate / questa notte / e chiudere così la mia partita.
Avresti potuto, / mentre accucciato ai ginocchi / appeso ad un filo di fiato /
Mordevo il vento egoista, /madido di gelido sudore / e mi mancava il cuore
Dirmi: per te non ci sono più ore/ è così che finisce la vita.
Avresti potuto… (Sartiano 10-11-96).
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Queste parole affiorano tra i ricordi dell’uomo che nel 1996 lasciò il paese per trasferirsi in
Toscana… Quella fu l’ultima sua dimora, l’ultimo approdo dove raccolse i ricordi e i pensieri…
il testamento spirituale di una vita vissuta dopo aver speso tutto se stesso, senza risparmiarsi
dolori, gioie ed emozioni: Tutto.
Tristezza per qualcosa che mi lascia, / rimpianto amaro come amore perduto,
/ dentro di me qualcosa si dilegua piano piano. / Il mio momento/ lo guardo da lontano.
Mi sento nudo, / così senza cotta né corazza, / ogni strale mi ferisce / non fa male…
Sono solo, / lascio la barra, / la barca già conosce la sua via, / non batte il fiocco,
in mare non c’è un alito di vento. / Non ho paura / e non ho coraggio. /
Io non esisto più / io sono tutto. (Pian dell’Olmo 10-8-1997).
Ora Emanuele riposa nel piccolo cimitero di Montefollonico, in quel luogo che considerava il
punto ideale di incontro di tutto ciò che amava…
N.B.: Emanuele Morvillo è stato ricordato sulle pagine di «Menta e Rosmarino» anche da F.
Lucchina in: Un ricordo del dottor Morvillo - N° 11, 2005.
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Giovanni Broglio, l’architetto dei poveri di Gianni Pozzi - N° 6, 2003.
«Difficile dare una soluzione architettonica alle teorie sulla casa popolare, che tutti conoscono.
Si dice, con ragione, che da noi la casa popolare è poco studiata, perché gli architetti, salvo pochi
eccezioni, preferiscono dedicarsi ad altri lavori…» così scriveva nel 1929, in un libro, l’architetto
Giovanni Broglio! E tra le poche eccezioni è evidente che c’è anche lui, tanto che viene
denominato Architetto dei poveri e questo titolo lo troviamo riportato anche sulla tomba, al
cimitero di Caldana, dove è sepolto…
Scriverà poi, e qui troviamo spiegazione della sua predisposizione a risolvere i problemi legati
all’edilizia popolare – quasi una missione – : «L’ amore allo studio della casa popolare, la passione
con cui ho cercato di migliorarla, la dedizione quasi completa della mia attività ai problemi che ad
essa si riferiscono, non dovuti né agli insegnamenti della scuola, nè ai viaggi all’ estero, ma ad una
mia esperienza personale della giovinezza ormai lontana. Passai la mia adolescenza a Milano, dove
venni spinto da dolorose circostanze della mia famiglia, perchè mi era stato detto che avrei potuto
studiare pur continuando a lavorare. Alloggiai in una locanda che ospitava in due locali dieci
persone, delle quali sette dormivano in un’ unica camera di circa 25 mq. E i tre padroni di casa
dormivano in un altra, che serviva anche da cucina, acquaio e bottega da calzolaio. Il servizio di
latrina era in fondo alla ringhiera, come in tutte le case popolari di allora. Quindi, mancanza
assoluta di igiene, poca aria, poca luce, nessuna possibilità di mantenere la pulizia. In quel triste
ambiente, in una promiscuità per me dolorosissima, mentre la notte studiavo dopo aver lavorato
il giorno, dedicavo soprattutto i miei pensieri ai disegni di monumenti, di chiese, di palazzi signorili;
non immaginavo che proprio io avrei avuto la fortuna di contribuire al miglioramento di quei
tuguri malsani e avvilenti, pur aspirando con tutte le mie forze ad abitare un alloggio meno infelice
consapevole che quello era il diritto mio e dei molti altri diseredati.»… Toccante testimonianza…
Laureatosi nel 1900, inizia l’attività lavorativa come libero professionista avendo l’incarico
dalla cooperativa edilizia «La Casa» della Società Umanitaria di Milano di progettare case
popolari…
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Giovanni Broglio, un Caldanese costruttore di umanità di Mario Broglio, N° 6, 2003.
…Divenne molto famoso l’architetto dei poveri, così era soprannominato per la continua ricerca
di miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari (decorato per questo motivo con
medaglia d’oro dal comune di Milano) e fu soprattutto un grande filantropo e benefattore. …visse
poi lontano da Cerro di Caldana …ma rimase molto legato alle sue origini. Tornò spesso a
Caldana e nell’anno 1956, anno della sua morte, la moglie Lina fece edificare sempre a Caldana
in suo nome un nuovo fabbricato per l’Asilo Infantile mettendo a disposizione anche un lascito
per le relative spese di gestione, lo stabile tuttora esistente e perfettamente funzionante allo scopo
originario e posto in adiacenza di una via comunale che porta il suo nome a perenne riconoscenza.
Ci si ricorda inoltre anche di un grande progetto realizzato negli anni trenta per edificare a
Caldana in zona molto panoramica a ovest del paese, un edificio da adibire alle varie funzioni
civiche (municipio, scuole e servizi vari) che le autorità dell’epoca però non condivisero.
…L’Architetto dei poveri fu davvero una persona di grandissima umanità, ricordo ancora mio padre
che mi raccontava come Giovanni aiutò tante persone non da ultimo i compaesani per i quali
cercò spesso lavoro e mestiere e non solo parole di incoraggiamento…
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Luigi Mattioni, architetto della ricostruzione (Villa Ida, la sua residenza cocquiese)
di Federica Lucchini - N° 8, 2004.
E’una casa d’atmosfera. Ha un che di arioso, raccolto; il verde del giardino ottocentesco crea poi
una cornice singolare di alberi signorili e curati. Luogo ricercato e soprattutto amato (lo si intuisce
dai tanti particolari architettonici) denota la passione di chi l’ha voluto così. L’architetto Luigi
Mattioni (1914 - 1967), protagonista di primo piano nella Milano della ricostruzione (centinaia
era i suoi progetti «concepiti e realizzati a ritmi serrati»), era solito tornare nella casa paterna di
Cocquio, acquistata dai nonni nel 1902. La sua attività, frenetica e ricercata, può essere
sintetizzata in questa frase di Guido Zucconi nell’introduzione al testo Luigi Mattioni – architetto
della ricostruzione (Electa 1985): «Per quantità e dimensione, i progetti elaborati dallo studio
Mattioni tra il 1950 e 1960 non troveranno alcun paragone nel panorama professionale di
Milano. Due progetti in particolare mutano i termini dell’attività e ne ampliano la scala: il
grattacielo di Milano e il centro Diaz, l’uno inteso come metafora multipiano di Milano che cresce,
l’altro inizialmente concepito come traduzione milanese del Rockefeller Center».
Un nome, dunque, il suo, di primo piano nella Milano caratterizzata dal bisogno
dell’abitazione e dalla crescita tumultuosa. «Era una mente cartesiana – ricorda la figlia Ida – che
ha risposto alle esigenze del dopoguerra: costruire in modo rapido e differenziato, in sintonia con
una produzione tecnologica molto avanzata e con materiali nuovi».
«I suoi modelli – si legge nel testo citato – sono tra i grattacieli di Park Avenue e le palizzate
della Quinta Strada. Compiuto per l’inaugurazione del negozio Olivetti di New York nell’aprile
del 1959, il primo e unico viaggio di Mattioni negli Stati Uniti è una sorta di pellegrinaggio nei
luoghi conosciuti e ammirati sulla carta: un po’ come il voyage en Italie del professore di belle arti
che per anni ha fatto copiare le rovine dell’antichità». Continua Zucconi: «Di fronte
all’eccezionale quantità di progetti e alla collocazione nevralgica di essi, si può affermare, senza
tema di smentite, che non vi è, in quegli anni, professionista più determinante di Mattioni nel
definire il nuovo volto di Milano. I circa duecento edifici e i tre milioni e mezzo di metri cubi da
lui realizzati tra il 1950 e il 1960 rappresentano un apporto fuori dalla norma alla nuova
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fisionomia urbana. Ciò vale non soltanto per le fasce di espansione, ma soprattutto per i punti
cardine del centro, dove i danni della guerra e i repentini incrementi di valore creano le condizioni
per radicali processi di sostituzione. Non vi è operazione di renewal, nella Milano degli anni
Cinquanta, che non veda l’intervento di Mattioni: dal completamento della Racchetta alla
creazione del centro direzionale, dalla trasformazione dell’asse centro – stazione alla sistemazione
di piazzale Loreto. Non vi è nodo di primaria importanza che non sia interessato da un progetto
di Mattioni: da piazza San Babila a piazza della Repubblica, da piazza Cavour a piazza Duomo.
Il centro Diaz, il palazzo Omsa, la torre Turati, il centro San Babila diventano così gli elementi
segnaletici del processo di urban renewal». Sono commenti lusinghieri che danno la dimensione
dell’impronta basilare lasciata dall’architetto cocquiese in Milano.
A maggior ragione, desta quindi interesse la sua casa in paese «Villa Ida», così raccolta, così
intima, lontana dai modelli ritrovati nel capoluogo lombardo. «Qui – aveva detto quando la
restaurò nel 1956/58 – ho realizzato tutto ciò che non mi è stato permesso dalla routine
professionale».
Qui era la sua casa, lontana dagli ospiti importanti, dai viaggi importanti, dalla routine
quotidiana. E’ il Mattioni che non lavora su nuovi progetti, ma su mura che hanno un vissuto
antico, su pietre che parlano. Pietre da cui ha fatto riemergere l’anima, curandone i dettagli,
quasi un genius loci. «Pur introducendo elementi del comfort e del linguaggio moderno – si legge
nel testo – egli mantenne inalterato l’originario impianto seicentesco. Statue, colonne, bifore,
rivestimenti musivi e marmorei completano una composizione minuziosamente studiata: una
sorta di réflexion architecturale nel mezzo di un’attività frenetica». Così grande rilievo ebbe il bel
giardino, creato dai proprietari che vissero qui nella seconda metà dell’Ottocento, certi Mariani,
che ebbero un gusto squisito ed una cultura raffinata, se si considera l’enciclopedia botanica in
greco che lasciarono quando vendettero la casa.
Ci sono curiosità che affascinano e contribuiscono in parte a ricostruire le storia della casa.
Per esempio quella data 1610 accanto al nome Cristoforo Boldetto, scoperta tra le carte, oppure
la presenza di un torchio antico giacché qui si coltivavano la vite e i gelsi. …Le strutture originarie
lasciano comprendere appieno la sua funzione conventuale. Ne è testimonianza tutt’oggi la
presenza della chiesa, prospiciente la strada. Dedicata all’Assunta, conserva ancora il matroneo,
protetto da una griglia.
Sorride la figlia Ida mentre ricorda il padre seduta nel suo giardino. Il suo è un sorriso che
lascia trasparire un affetto infinito nei confronti del genitore che l’ha lasciata troppo presto…
«Era molto orgoglioso di me», dice mentre ricorda quel giorno a Roma, quando seduti su una
carrozzella, velatamente le chiese scusa per il poco tempo che poteva dedicarle, assillato dal troppo
lavoro. «Ma da ora in poi – le aveva detto – cercherò di recuperare».
d
Carlin, 60 anni in punta di remo di Mario Chiodetti - N° 21, 2008.
E’alto e grosso, corpacciuto, il Carlin, e non si muove mai senza un cappello a cono tronco, di
feltro in inverno, di tela in estate, e l’uomo di lago lo fanno i suoi stivali, calzanti come quelli delle
sette leghe, umidi e boccheggianti, simili a tinche nel bertovello.
Dal Pizzo di Bodio il Carlin signoreggia un triangolo liquido che ha gli altri lati a Capolago e
Schiranna, da sessant’anni ogni giorno che Dio manda in terra il suo barchèt salpa dal porticciolo
di casa e vaga per il lago, secondo rotte dovute agli umori della montagna e del vento e all’istinto
del nocchiero, quasi infallibile. Carlo Bossi fa il pescatore come suo padre «Pin», suo nonno
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Celeste e il bisnonno, il «poer barba dul Pizz», e una lunga genìa di Bossi si inerpica nelle falesie
del tempo passato, in un Settecento in cui il lago era ancora «di Gavirate» e occorreva chiedere
al signore del luogo il permesso per pescare e quindi per sopravvivere.
Dietro il Carlin viene il Daniele, il figlio che ha abbandonato il rumore della fabbrica, un
angusto orizzonte di muri, per andare a pescare su una barca di legno con la pancia di vetroresina
e riempire le reti di carassi e pesci gatto, destinati alla distruzione come specie parassite, portati
a quintali a Calcinate del Pesce, dove una volta c’era la sede della cooperativa pescatori.
Il 22 febbraio l’uomo del Pizzo ha compiuto 74 anni. … A casa lo aspetta Rita, sposata nel
1965, una cazzaghese dalla pazienza giobbesca, che come il Pietro Ribera di Piccolo mondo antico
ripete in continuazione «oh poer a mi», intercalare che è quasi un mantra per superare le difficoltà
quotidiane di accudire tre uomini, il Carlin, il Daniele e Vittorio, l’altro figlio giardiniere.
Mariangela, la figlia, ha scelto di vivere da sola a Cazzago, ma anche lei che ama i viaggi in Africa,
la domenica ritorna sul lago, a remare e salutare quei profili di colline e di montagne scoperti da
bambina sulla barca di papà.
Il remo corre da solo e si volta verso la Baia del Re, una meraviglia d’acqua perlacea e fondo
sabbioso dove un tempo ci si bagnava d’estate. La trasparenza è assoluta e l’occhio scorge virgole
guizzanti, gli avannotti di scardola una volta pastura di persici e lucci con quelli dell’alborella,
ormai scomparsi. La pace è completa e le canne di un verde tenero bordano con eleganza la grande
piscina naturale abitata dai cigni e dagli svassi. Le sagome di Carlin e Daniele appaiono lontane,
dietro il pizzo di Cazzago: hanno i loro tempi i pescatori, gesti imparati dai padri, precisi, secchi,
essenziali. Il remo la rete, la rete il remo, il dondolio della barca e l’orizzonte amico, un campanile,
un albero da puntare per ritrovare la via. Il padre davanti, il figlio dietro, due barche e un unico
destino, che li ha portati a vivere di pesca in anni corrosi dal potere della tecnologia.
«Esco tutti i giorni per mio figlio, mi costringono a pescare oggi che nessuno può più vivere
di pesca. Prendiamo solo pesci da mandare al macero, per farci mangime».
Il Carlin, quello che i vecchi avrebbero definito «on original un poo malcapazz» ma generoso,
è perentorio, parla a puntate, «el se pizza» si accende in volto nel raccontare come lui e Daniele
debbano raccogliere carassi e pesci gatto, metterli nel congelatore e quindi in grossi bidoni,
caricarli a mano sul barchèt e traversare il lago a remi fino a Calcinate dove li si scarica.
«Una volta c’erano alborelle, anguille, il persico si prendeva a quintali, c’è stato un anno d’oro
per i lavarelli, verso il 1960, li abbiamo pescati tutti, c’è chi si è costruito la casa con i ricavi».
Una volta i pescatori erano decine, portavano quotidianamente il pescato alla cooperativa: per
ognuno c’era un libretto dove si segnava volta per volta il quantitativo, a fine mese si tiravano le
somme e il lavoro era pagato. A casa Rita e Mariangela pulivano quintali di alborelle, filettavano
il persico e il boccalone, per la vendita al minuto, per «i alborelad», le sagre di paese con «pessitt,
gazusa e zùccor firaa» dove ogni tanto si ballava.
E’ credente e osservante il Carlin, tutte le domeniche va in chiesa a Bodio e si mette in
sacrestia ad ascoltar la messa, dipanando poi al prete la sua teologia visionaria, il suo rapporto con
Dio, compagno a cui chiedere consigli per la pesca e per la famiglia.
«Parlo con Dio, sono stato toccato da lui, può darsi che del Carlin ne faccia un santo», dice
alzandosi in piedi e gesticolando, muovendosi a scatti come i pesci. Rita, in eco, mormora: «Che
pês quell’omm, che pês. Hinn quarant’agn che el và avanti inscì, oh poer a mi».
…le pescate del dopoguerra con il «rierùn», la grande rete lunga fino a 200 metri lanciata da
due barche con i pescatori che poi la chiudevano in cerchio raccogliendo tinche, scardole, anguille
e lucci a quintali, o il «tremagg», il tremaglio, alto un metro e trenta centimetri e lungo trenta,
con cui si catturavano i persici e le scardole….
«Sono un puro», fa il Carlin, «come penso parlo. Dio mi manda ancora a lavorare, altrimenti
mi verrebbe un dolore allo stomaco. Lui è ancora più pazzo di me, perché mi ha fatto sposare»,
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e si risiede vicino al camino a parlare del Torino e di ciclismo, le uniche cose che hanno il potere
di distoglierlo dal lago…
Per il Carlin dul Pizz è la tinca il pesce più furbo: «E’ intelligente, il più difficile da prendere.
Entra nella rete e torna indietro, fiuta il pericolo. Il pesce più stupido è invece il luccioperca, se
ne sta fermo e sai sempre dov’è. Ma incoeu ra tenca la voeur pù nisun». E ricorda la sua pesca
miracolosa di tanti anni fa: «Un giorno penso di calare la rete in una zona dove mettiamo le
legnaie (per far riprodurre il persico, ndr.) lo faccio ma non prendo niente, forse on gubìn. Ma il
Signore che mi parla, mi dice di ritornare là la settimana dopo e buttar giù ancora. Ventotto
boccaloni da un chilo l’un hoo tirà su, alter che i ball». Il giorno trascorre ritmato dalla luce del
sole, dagli odori portati dal vento, …e il Carlin non sa stare fermo e scende a rigovernare la barca
con la quale, in sessant’anni, potrebbe aver circumnavigato il pianeta almeno una decina di volte.
A pochi metri da riva le folaghe compiono le loro danze d’amore e gli aironi lontani tornano
dalle zone di pastura per andare a dormire in palude, fidandosi degli stessi riferimenti che la
natura dona al Carlin ogni giorno e il vecchio pescatore sa leggere nel dettaglio, come una mappa.
…In attesa che il Signore scopra per lui il posto delle tinche e glielo faccia sapere, come quella
volta dei boccaloni, sussurrandoglielo a un orecchio.
d
Cesare della Porta di Marta Crugnola - N. 5, 2003.
…C’è, nella storia del nostro paese, un benefattore, appartenente alla famiglia Della Porta, Cesare,
di cui si parla diffusamente nel «Cronicon» della Parrocchia della Purificazione di Maria Vergine
di Cocquio.
Il primo riferimento che si ritrova nel «Cronicon», risale al 28 agosto 1904, quando don Carlo
Colombo fece il suo ingresso ufficiale in parrocchia, con gran concorso di popolo, e il «Nobile don
Cesare Della Porta mise a disposizione la sua superba pariglia».
Si parla ancora moltissime volte di lui, nel frattempo nominato sindaco, e si deduce che fosse
da subito instancabile collaboratore della parrocchia, anche come organista, nonché
amministratore attento alle necessità dei suoi cittadini: per esempio anche nominando il parroco
«Segretario della congregazione di carità perché conosce meglio i poveri della parrocchia».
Il giorno 12 maggio 1905 il parroco annota: «Don Cesare Della Porta in occasione di portarsi
ad Orino per visitare l’acqua che si intenderebbe adoperare dal Comune per la popolazione di
Carnisio che è con poca acqua, di ritorno a Carnisio fu festeggiato dal corpo musicale di Carnisio
qual novello sindaco ed egli ben generoso elargì £100 per la lotteria di beneficenza che si stava
facendo per la Società Operaia e £10 per la musica…».
Nel marzo del 1906, il parroco annota che «si stanno facendo le pratiche per uno stabilimento
di tessitura vicino al cimitero di Cocquio. L’anima è il nobile Della Porta Cesare»: il parroco
osserva che «così tante figliuole che vanno lontane troveranno lavoro in paese».
Spulciando qua e là si leggono frequenti episodi in cui il Della Porta è, in qualche modo,
coinvolto: per fermare le manovre di qualche furbetto che tenta di utilizzare a scopi personali
l’acqua di una sorgente con dei tubi abusivi, o quando viene eletto vice presidente della Società
Operaia di Cocquio, o quando interviene per separare due amici che erano venuti alle mani «per
la paga del vino bevuto»,o ascoltando le lamentele delle operaie dello stabilimento Introini…
Ed ecco la notizia che lasciò innumerevoli persone attonite: «1 settembre 1912. Dal Giornale
Italia si legge: «Suicidio del Nobile Della Porta». «Nella sua abitazione in via Canova 25 si è
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ucciso con un colpo di rivoltella il nobile Cesare Della Porta di anni 45. Si tratta evidentemente
della conseguenza di un eccesso di improvvisa alienazione mentale».
Il parroco annota: «Il popolo di Cocquio è costernato: molti sono i commenti svariati e le
previsioni che portò a tale tragico atto. Il Comune perde il Capo quale sindaco e Cocquio
Parrocchia perde un benefattore per la chiesa e per i poveri. I funerali a Milano furono imponenti
e fatti religiosamente. Intervennero numero stragrande di amici, parenti, conoscenti. Una
rappresentanza della Fabbriceria col parroco di Cocquio, della Società Operaia, Asilo e Scuole
Comunali e Musica con bandiere e distintivo dello Stabilimento Introini, mediante un ventina
di ragazze lavoranti con due suore.
Fu sepolto provvisoriamente al monumentale per essere trasportato a Cocquio (?). Dopo la
fabbricazione della Cappella (?). La famiglia Della Porta è costernatissima (giustamente). Poiché
da tutti non si pensava che avesse a finire così.
Fu dalla vedova distribuito £.500 per la chiesa, £.500 per l’Asilo, £.500 alla congregazione
di Carità. Fu fatto ufficio di Trigesimo con dodici Sacerdoti e paramenti in £.262 (al parroco
£.40)».
d
Esteban Canal, attraverso gli scacchi la scoperta di una mente eccezionale
di Federica Lucchini - N° 9, 2004.
«Un bel giorno, secoli fa, apparve sulle rive africane del Mediterraneo un giovane orientale, smilzo
e trasognato, carico di anni senza peso, come sono gli anni dei figli degli dei; odorava di tè cinese
e di unguenti dell’India e sotto il turbante arabo s’indovinava una fronte d’innamorato di cose
inutili. Era il gioco degli scacchi, rampollo della dea Cassa, di padre ignoto».
Gli occhi di Giancarlo Cassani diventano luminosi di fronte a questo quaderno dattiloscritto
dal titolo molto chiaro Profili di campioni del passato – Raccolta di scritti scacchistici di Esteban
Canal. La prima pagina presenta una fiaba che lui aveva avuto il privilegio di ascoltare più volte
dalla voce del suo autore, una voce eccezionale, ricorda, senza nessuna inflessione, con una
pronuncia perfetta. In questa fiaba c’è la sua cultura, la sua prosa affascinante.
«Voleva dar loro un trastullo di pace; i figli degli dei sono ingenui ed hanno sovente di codesti
grilli. Depose il turbante e convertì qualcuno fra i poeti, straccioni e vagabondi; fu amico di frati
e di eremiti; accompagnò capitani di ventura; ficcò il naso nei palazzi dei grandi, in gara con
musicanti e buffoni di corte. Ma la vasta plebe rimase indifferente le donne non gli sorrisero che
molto di rado; quel suo simulacro di guerra pacifica, senza elmi e bottoni dorati, mancava del sale
dolciastro del sangue. Fallì l’apostolo e crebbe il poeta. Un piccolo mondo di impensate armonie
e bellezze nacque su cuori sognanti e menti geniali».
Sul tavolo, accanto a questa raccolta c’è un altro testo, sempre a firma di Canal, Strategia
degli avamposti, edito da L’Italia scacchistica nel ’49. A fronte, una dedica risalente al 23 settembre
’56, che richiama questa fiaba: «Caro Giancarlo, il gioco degli scacchi è un piccolo ma nitido
specchio di bellezza e di armonia universale. Che esso ti dia molta gioia e serenità».
«Secoli ormai sono trascorsi – continua la fiaba – il giovinetto si è fatto vigoroso, è diventato
uomo di mondo; il suo sguardo non ha più il velo dei sogni, ma la durezza di chi lotta e vuole;
egli ha imparato a farsi corteggiare. Intere folle lo acclamano in certi paesi.
Hai fatto strada, trovatello d’oriente! Ma peregrinando ti sei, purtroppo, impolverato. Porti
all’occhiello, alternando, spade, falci, stelle, uncini, soli, lune, croci e triangoli. Studiosi sagaci
hanno giustamente osservato che il tuo apparire e le tue conquiste impetuose coincidono
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stranamente col pulsare accelerato del progresso. E’ difficile staccarsi da una lettura così
seducente. C’è da ridere, illuso moretto. Volevi essere un angelo della pace e sembri invece un
uccello di malaugurio. Ma consolati, chè anche gli dei sono solo responsabili delle loro intenzioni
non dell’esito dei loro propositi. Il tuo piccolo mondo, tolte le scorie, rimarrà per sempre un saldo
rifugio per le menti tormentate e solitarie. Indizi crescenti rivelano in te, negli ultimi tempi, la
nostalgia di quel mare che fu la tua culla spirituale, di quelle sponde dove il sogno redime la realtà
bugiarda e volgare. Ti attendono le ombre immortali dei primi maestri che ti diedero le ali robuste
e i tesori del genio. Essi saranno, o trovatello d’oriente, la tua guardia d’onore».
Conoscere attraverso i suoi scritti Canal, presenza di grande rilievo nel mondo dello scacchismo
che affrontò i massimi campioni della sua epoca affrontando venti – trenta partite
contemporaneamente, è un percorso affascinante, che dà la dimensione della sua poliedricità e
della sua mente eccezionale. Amico di Ernest Hemingway, di Thomas Mann, di Pitigrilli e Zweig,
era nato in Perù a Chiclayo il 19 aprile 1896, e cittadino del mondo, aveva svolto i più svariati
mestieri, da mozzo su un veliero, a medico, a giornalista, a insegnante. Poliglotta e uomo di
grande cultura, era giunto a Cocquio dopo la guerra ed era andato ad abitare con la moglie Anna
Klupàcs, ungherese, in quello che veniva chiamato il palazzo reale in via Conti Coco. Poi a casa
Cassani, fino alla morte avvenuta il 14 febbraio 1981.
Sono molto belle le foto scattate da Cassani, mentre lo riprendono solitario e pensieroso, dopo
il decesso della compagna, nel giardino o altre durante una partita mentre ride soddisfatto
guardando la scacchiera: «Accade qualche volta anche agli scacchi di trovare fratelli come per
esempio i due Paulsen, celebri per la maestria perfetta nel maneggio degli alfieri – ha scritto su
strisce di carta – Personalmente ho conosciuto come avversari i fratelli svizzeri H. e P. Johner,
eccelsi musicisti e talentuosi maestri di scacchi. Poco ha scritto della sua vita, ma tanto basta per
ricostruire la sua storia scacchistica: Io appresi il gioco degli scacchi da giovane studente, nell’anno
di grazia 1914 e i miei progressi furono tanto rapidi che già nel 1916 vinsi il campionato del
Circolo «Augustea» di Lipsia, uno dei più forti della Germania. Incominciai uno studio serio e
profondo per eliminare le lacune strategiche. Quante giornate, settimane e mesi non ho trascorso,
rinchiuso in una camera, davanti alla scacchiera, conversando con me stesso di Philidor, Morphy,
Capablanca! Sembravo un negromante alla ricerca di misteriosi filtri e, quando uscivo di casa, gli
inquilini, senza dubbio, dietro alle mie spalle, si toccavano la fronte con l’indice, ammiccando.
Eppure se quaggiù la felicità esiste, la conobbi allora!... Confrontavo gli stili, le scuole, le mode».
«Canal sapeva presentare un modo di vedere gli scacchi scevro da ferruginose teorie, varianti
complicate – afferma Francesco Mondini, presidente della Società Scacchistica di Cocquio
«Esteban Canal» – il suo era un modo limpido, chiaro, comprensibile a chiunque. Non era un
appassionato, ma amava gli scacchi, di un amore dei più belli e dei più nobili». Quel sognatore
orfano e vagabondo, che adorava così tanto quegli enigmatici birilli era un grande appassionato
di musica, ricorda Cassani.
«Intratteneva me e mia sorella quando eravamo bambini con la chitarra (quella chitarra ancora
stupendamente conservata fabbricata a Budapest su modello americano) e ci suonava musica
molto delicata quasi volesse addormentarci». Ci sono immagini di lui belle che, nonostante siano
passati gli anni, non scorda: quando leggeva «L’Unità» alla moglie (si definiva un anarchico
individualista) o quando ormai solo giocava a scacchi. Di fronte a lui, il gatto.
Tutto il corpus dei suoi documenti – libri, diplomi, medaglie, fotografie di tornei e soprattutto
scritti autografi – donati da Cassani in futuro daranno origine ad una esposizione permanente
presso la Società Scacchistica «Esteban Canal», adiacente la biblioteca di Cocquio.
d
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La Cultura materiale
II
n questo capitolo raccogliamo articoli che si riferiscono al mondo variegato dei costumi, delle
credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini delle nostre popolazioni,
che includono i saperi, le credenze, competenze acquisite in società, come insegna
l’antropologo inglese Edward Tylor. Molti usano questa espressione per designare i beni di
consumo, e attività come la cucina, i cibi, l’arte, il lavoro… estendendola agli usi, costumi,
leggende e proverbi, da riferirsi ad una determinata area geografica e popolazione…
I
d
Tradizione e globalizzazione di Domenico Lanfranchi - N. 6, 2003.
…Ogni gruppo umano, dalla famiglia al popolo, sintetizza una parte rilevante della propria
esperienza in un complesso di usi e costumi, credenze e comportamenti, che viene tramandato
alle generazioni successive: le tradizioni. E siccome dell’esperienza fanno parte anche i contatti
e gli scambi con altri gruppi umani, di questi contatti e di questi scambi ogni tradizione vive e si
nutre. Cambia il mondo, cambiano le tradizioni. A volte le tradizioni rimangono, ma essendosene
perduto il significato originario vengono reinterpretate e talora addirittura stravolte. A volte lo
stravolgimento avviene in seguito al trapianto di usi, costumi, immagini, parole o altro in un
territorio lontano. E’ il caso delle strane vicende che hanno portato Sant’Antonio a diventare
protettore degli animali domestici. Nulla infatti nella vita del pio anacoreta ritiratosi nella Tebaide
o nelle innumerevoli leggende che su di esso sono fiorite sembra giustificare una simile funzione,
se non attraverso uno stravolgimento radicale. Come è noto un momento topico nella vita del
santo è costituito dalle tentazioni da parte del demonio, tema su cui per secoli si esercitarono
agiografi e pittori. Nella tradizione iconografica del vicino oriente il diavolo tentatore veniva
spesso rappresentato sotto l’aspetto di un porco, ritenuto animale immondo per eccellenza …
Quando però quelle immagini arrivano in altri luoghi in cui non c’è più quella tradizione, nasce
il problema di spiegare che cosa ci faccia quel maiale vicino al santo. Forse in qualche chiesetta
emiliana è arrivato un dipinto in cui il maiale era particolarmente ben pasciuto, fatto sta che a
qualcuno è venuto in mente di attribuire alla protezione del santo la floridezza del porcello e così
per ironia della sorte Sant’Antonio, che sicuramente nella sua vita di digiuni e penitenza non ha
mai assaggiato una fetta di prosciutto, è diventato Sant’Antoni del purscell.
…Per tutta la storia dell’umanità (che ad onor del vero riusciamo a ricostruire con una certa
attendibilità solo per le ultime decine di secoli) sembra che le fasi di relativo isolamento dei gruppi
umani si siano alternate a fasi che possiamo quasi chiamare di globalizzazione; fasi in cui il
desiderio di conoscere o di arricchirsi, la fame o la curiosità, spingono gli uomini a spostarsi e li
fanno entrare in contatto con altri uomini. Tali contatti sono occasione di scambi che possono
riguardare oggetti materiali (alimenti in primo luogo), ma anche usi e costumi. Ne rimane traccia
nei nomi. A volte si sottolinea nella denominazione l’origine esotica di qualcosa che ormai da
tempo è entrato a far parte delle nostre tradizioni, è il caso del granturco o del grano saraceno;
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talaltra il nome ci permette di ricostruire i passaggi che hanno portato qualcosa a far parte delle
nostre tradizioni, è il caso della salsiccia di Lucania, molto apprezzata dai bizantini, che la
chiamano appunto lukanika, dai bizantini passa poi ai veneziani che ne addolciscono il nome in
luganiga o luganega…
Un momento di forte globalizzazione nella storia dell’umanità è stato sicuramente
rappresentato dalla diffusione del cristianesimo… Ogni tanto nell’indistinto borbottio del prete
durante la messa si coglie una parola o una frase, le si attribuisce un significato più o meno vicino
a quello originario e si comincia ad usarla. Il prete lavandosi le mani mormora il salmo «Lavabo
inter innocentes manus meas«, per cui quel momento della messa viene chiamato «lavabo», il
nome assumerà poi il significato che tutti ben conosciamo. Fin qui tutto bene, ma che significa
«repulisti»? La parola è entrata nell’uso comune con l’espressione «fare repulisti» per dire fare
piazza pulita, ma in origine il significato è tutt’altro: il salmista si sente abbandonato da Dio e
gli chiede «Quare me repulisti et quare tristis incedo dum affligit me inimicus?» («Perché mi hai
respinto e perché cammino triste mentre il nemico mi tormenta»); il salmo veniva recitato in
latino all’inizio della messa, ma chi sapeva il latino? Chi poteva sapere che «repulisti» era «hai
respinto»? la parola assomiglia piuttosto a «ripulisti» e come tale viene reinterpretata.
La diffusione del cristianesimo è interessante anche perché spesso si scontra con tradizioni
religiose locali che non si lasciano soppiantare, in questi casi l’atteggiamento della Chiesa è
solitamente quello di accettare ed inglobare ciò che non è in contrasto con i principi cristiani.
Sembra essere il caso del capodanno celtico,… o la diffusione anche della festa di Halloween…
sovrapposizione alle nostre tradizioni religiose di una festa che ci è estranea portata dalla
globalizzazione o… il tentativo di ritornare a tradizioni più antiche che la «globalizzazione» del
cristianesimo aveva cercato se non di cancellare almeno di travestire.
Questa domanda esprime bene a mio avviso il carattere ambivalente dei rapporti fra tradizioni
e globalizzazione, rapporti che non possono essere concepiti in modo rigido e statico, almeno
finché una tradizione è viva. Solo le tradizioni morte possono essere imbalsamate e conservate
sempre uguali a se stesse.
d
Primavera che viene, erba che trovi di Francesca Boldrini - N. 13, 2006.
Le prime giornate di febbraio invogliano, quando il cielo terso e una leggera brezza ti mettono in
corpo aria di primavera, a lasciare casa ed occupazioni e a vagare in qualche luogo, bosco o prato
che sia. Da piccola mi lasciavo cogliere dalla smania di andar a raccogliere erbe: adoravo i
furmentitt (Valerianella olitoria), quelle graziose rosette di foglie tenere, leggermente lanceolate che
spuntavano nei campi dove erano state seminate le patate. Si erano dovuti adattare, questi
furmentitt, ad una nuova coltivazione dopo aver vissuto, per un tempo immemorabile, in simbiosi
con il frumento, felice connubio testimoniato dal nome dialettale che era stato loro attribuito. I
campi di frumento erano sempre ben concimati per assicurarsi spighe corpose e grani sostanziosi
e il ladam, ricchezza della terra, permetteva ai furmentitt di avere una foglia più larga. I milanesi
chiamavano l’erba sungin. Oggi si comprano le bustine di valeriana, ma il tempo del raccolto è
sempre quello che la natura esige: febbraio-marzo.
…Una biela de furmentitt e due uova sode appagavano come il più regale dei pasti. Ogni
stagione aveva una sua peculiarità gastronomica legata a determinati prodotti della terra,
disponibili solo in quel momento e quindi più desiderati e più apprezzati. Certamente quello che
intrigava maggiormente era, dunque, il rituale della ricerca accompagnato, poi, dalla capacità di
14
riproposizione culinaria… L’occhio vigile e ben addestrato alla perlustrazione non si lasciava
scappare le piantine di petasciö (Hypochoeris radicata conosciuta anche come piattello), un’erba
molto simile all’insalata matta, nome volgare del tarassaco, con la sua rosetta di foglie dentellate
e spiattellate a terra quasi a volerne assorbire gli umori benefici. Era usata, solo ed esclusivamente,
per le insalate. Gustoso era anche il rampogen (Phyteuma betonicifolium più comunemente
raperonzolo a foglie di betonica) di cui utilizzavamo le foglie come insalata e la radice come se
fosse un ravanello. … In ogni tratto erboso non mancava mai l’insalata matta (Taraxacum
officinale, conosciuto come dente di leone, soffione, tarassaco, pisciacane, piscialetto) più carnosa
dove era stato sparso il letame, più sottile e asciutta nei terreni aridi….
Gialli sono anche i fiori del pio-pio, la primula dei nostri prati (Primula vulgaris) che fa capolino
tra le intercapedini dei muri già a dicembre. Curioso é il nome dialettale che gli deriva dal suono
prodotto dal fiore una volta raccolto, socchiuso tra le labbra e sollecitato da un flebile soffio.
Acqua, patate, latte, burro, foglie di pio-pio e riso erano gli ingredienti di una gustosa minestra,
piatto ricorrente a Bis nelle giornate primaverili quando si saliva all’alpe per mundáa i löoögh,
ripulire con il restell i prati da foglie e rami secchi, residui di letame, sassi o da qualsiasi cosa
rendesse difficoltoso l’uso della ranza durante la fienagione.
I verzitt (Silene inflata localmente bubbolino, strigoli, strittoli, verzini) si utilizzavano o
com’erba da minestra o lessati da unire all’uovo per semplici frittate o, semplicemente come
verdura cotta.
Laboriosa era la ricerca di sparg (asparagus acutifolius) perché ce n’erano sempre di meno e
pochi erano i luoghi adatti alla crescita. La loro progressiva estinzione, probabilmente, era causata
da una raccolta indiscriminata e per lo più effettuata in modo maldestro. Più facile era trovare i
sparg matt o i luvertis, i germogli del luppolo (Humulus Lupulus, o bruscandoli, lupito). Si
usavano sempre cotti e, se uniti a verzitt, ortica, uovo e ad una spolveratina di formaggio,
permettevano di gustare un’eccellente frittata…
Tra aprile e maggio ero attratta dai fiori di sambuco (Sambucus nigra) per il semplice motivo
che quelle bianche infiorescenze, dopo un’affascinante magia, si sarebbero trasformate in uno
spumeggiante e brioso vino bianco con il quale poter partecipare ai brindisi degli adulti. …
Nei vagabondaggi che di solito avevano luogo il giovedì pomeriggio, giorno di vacanza
scolastica, era piacevole masticare qualcosa di dolce: particolarmente gradita risultava la regulizia
ossia la radice di una felce nana, carnosa e di un verde intenso, (Polypodium vulgare o felce dolce,
liquirizia di monte, jerbe dolce, radis di solete) che predilige i arbur di castagno, specialmente
quelli con le ceppaie, e che, spesso, si accompagna al muschio, a tèpa. I pezzetti di radice,
sommariamente ripuliti dalla terra, subivano in bocca leggere pressioni dei denti e della lingua.
Chi ne seva püssèe ru ciapin riusciva ad impedire che il sapore di liquirizia si dissolvesse con una
certa rapidità. E via… per altre coinvolgenti avventure.
d
La nonnina del caffè di Carlo Cavalli - N° 4, 2003.
Quasi sempre, nel momento in cui spingevo la porta della casa di mia nonna Anna, l’orologio a
muro posto sulla parete del corridoio in mezzo a due quadretti di santi, fischiettava cucù, con un
uccellino di legno, petulante e sussiegoso che avrei volentieri strozzato.
«Nell’orologio sono sistemate due scatolette a compressione chiamate soffietti che soffiano
infatti aria in due fischietti. Sono i fischietti a fare cucù, quando è l’ora».
La nonna mi informava quasi quotidianamente sulla dinamica di quella pendola che pretendeva
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di darmi il benvenuto, ma io ero certo che fosse quella specie di passero antipatico ad espellere i
cucù e come me probabilmente la pensavano i due santi, Sant’Antonio e San Carlo, che da ogni
trillo parevano trarre turbamento, con un impercettibile ciondolo delle aureole, intensificando le
preghiere affinché in quella casa, pervasa da un sublime aroma di caffè, trionfasse, alla fine, anche
il silenzio.
Già il caffè della mia nonna, l’amico di famiglia, un prodotto per tutte le stagioni, amato,
vezzeggiato e forse concupito, il cacaffè lungo, come diceva lei, o il caffè ristretto, una cannonata
che si compattava sul palato, il cafferetto, quello corretto con una certa grappa alla ruta tenuta
sotto chiave, il caffèrotto, quell’altro appena sfiorato da qualche goccia di latte e via ancora, a ruota
libera, sulle montagne russe delle varianti e degli aromi, giù a capofitto nelle miscele do Brasil,
del Madagascar, di Haiti o della Costa D’Avorio sino alla Robusta della sierra Leone per
rimbalzare, nel trionfo dei gusti, su un materasso di Coffea Arabica.
«Il caffè favorisce il risveglio delle facoltà mentali, ragazzo mio, e tu nei hai bisogno forse più
di me, a giudicare da certe tue espressioni un po’ stupidine» mi diceva con affetto la nonna, e me
ne versava un goccio in una tazzina bianca tutta screpolata e con il manico sbrecciato, forse dalle
percussioni del famigerato cucù. Era un’offerta sparagnina ed inelegante, quasi clandestina, che
compensava le voci di controindicazioni per un ragazzino di 10 anni, comunque assistito da una
forte vocazione al sonno… Mentre la nonna mi elencava tutti i caffè di Milano, a partire dal
Caffè Duomo, chiamato anche Caffè delle Mummie, poiché si esigeva il silenzio più assoluto, per
arrivare al Caffè della Peppina, ove si ritrovavano i mazziniani della Giovane Italia, io pescavo da
una grande scatola di latta color argento i suoi biscottoni fatti con le formine degli animali…..
Sorseggiando caffè, parlava girando il manico di un macinacaffè di legno lucido e rossastro, con
il cassettino che raccoglieva la polvere dei chicchi, profumati come un prato a primavera, aperto
e rinchiuso da mani pazienti, per controllare il livello della miscela.
«Devi sapere che Bach, il grande musicista, ne hai già sentito parlare, vero?...» e si fermava,
aspettando un assenso che non sarebbe mai giunto… «Devi sapere, anche se non sai, che Bach,
il grande musicista di cui tu non hai mai sentito parlare, scrisse, attorno al 1730, la Cantata del
caffè, che narra di un padre snaturato che vieta di bere il caffè alla figlia Lisetta, povera Lisetta...».
La curva dell’attenzione calava come un filo a piombo liberato da un mastro muratore ed il
mio sguardo correva ai muri della cucina, dove la nonna aveva appeso scaffali in abbondanza,
con sopra schierate batterie di cucina di ferro smaltato, caffettiere di ottone nichelato e caffettiere
a filtro della fine 800: un campionario che oggi farebbe la felicità di un antiquario, restituendo
a me, se lo avessi, sensazioni particolari, vicine alla liturgia di una A tazzulella e caffè.
Nella mia gioventù ci sono stati tanti bar, ed uno dei più cari era il Bar di Via Giambellino,
cantato da Giorgio Gaber; ma il bar di mia nonna Anna, quello, non me lo porterà via mai
nessuno dal profumo della memoria zuccherata al punto giusto.
Nel 1961 si potevano trovare delle cartoline dovute alla lodevole iniziativa del Comitato
Italiano Caffè nella cui compagine avrei visto volentieri la nonna come Presidentessa Onoraria.
Lei ne aveva appese una decina ad un’anta della enorme credenza bianca: erano tutte uguali,
ma non importava, e gridavano al mondo che le virtù del caffè erano insostituibili. Proprio per
questo la nonna continuava a farmene bere, a piccole implacabili dosi, sostenendo che quella
bevanda era una vera panacea per ogni male.
«Sai, vero, ragazzo mio, cosa è una panacea?» mi chiedeva, in modo retorico, non lasciando
lo spazio ad una risposta che sarebbe comunque rimasta, come un marmo, fredda ed inanimata
nelle mie intenzioni.
«Beh, una panacea è una medicina. Ed il caffè, è dimostrato, guarisce l’emicrania, che tu forse
conoscerai come mal di testa, la gotta, ed in molti casi gotta ci cova, l’eccesso di bile, il calo
dell’appetito, e tu grazie al cielo non ne soffri, basta chiederlo ai miei biscotti, e la sonnolenza».
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Intanto mi ero appisolato, appoggiando il capo sul tavolone della sua cucina… Il canto del cucù
mi riportava nel mondo dei rumori ed io, frastornato, udivo una specie di sibilo insistito. Era la
caffettiera dell’omino coi baffi che spandeva il profumo più gradevole del mondo.
«Pensa che il caffè ha il poter di far scomparire la febbre, con poche tazzine» continuava lei,
accompagnandomi alla porta. Prima di farmi uscire, mi propinava un caramellone alla menta
balsamica, per dissolvere quell’odore di bevanda adulta e trasgressiva dalla mia bocca.
Nel succhiare la caramella provavo sempre un senso di brivido ed era come se il naso mi si
staccasse dalla faccia per volare, come un tappo di spumante, verso il cielo, mentre nella gola
divampava un fuoco che era caldo e freddo nello stesso tempo, e proprio per questo, grazie al
cielo, fuoco non era.
Cominciavo a pompare aria all’eccesso e respiravo così bene da chiedermi come potesse
bastarmi una respirazione normale nei momenti della mia esistenza che erano fortunatamente
molti, in cui non gustavo caramelle. Quando giungevo a casa mia mamma correva ad aprire le
finestre, oppressa dalle zaffate della menta che precipitavano dalla mia lingua, che s’allungava a
dismisura, come una stella filante, molto filante. Durante la cena restavo sotto osservazione ed
alla fine del pasto il papà suggeriva di darmi un goccetto di caffè, per ridarmi tono. Quando mi
coricavo sul mio caro confortevole letto, le braccia di Morfeo mi avvinghiavano e mi lavoravano
come una maionese. Il caffè confabulava con il sonno e non c’era certo bisogno di contar pecore.
Anche le pecore dormivano, mentre il pastore era probabilmente andato al bar.
d
Scherzare coi Santi di Luigi Stadera - N° 21, 2008.
La parodia delle preghiere e di altre categorie del sacro è una tradizione popolare radicata
nell’antichità. Sorprende nella società contadina che ha come primo referente la religione. E’
basata sulla «filosofia dell’ambivalenza», che mette sullo stesso piano le cose e il loro contrario.
Così la vita e la morte, il cibo e gli escrementi. Ridere di tutto è la strada obbligata per rivoltare
le cose e capirle fino in fondo. Parola di Rabelais, Bachtin, Erasmo da Rotterdam ...
La lettura della tradizione orale è oggi complicata da due fattori: la sua rarefazione e la sua mobilità.
Con il primo termine si allude al progressivo abbandono del dialetto e della sua cultura, che finisce per
trasformare le poche nozioni residue in “reperti archeologici” di non facile interpretazione. Per “mobilità”
si intende un dato caratteristico della comunicazione orale, affidata soltanto alla memoria e quindi
intricata di lacune e di varianti.
Sono difficoltà che mi proverei ad illustrare con un excursus in un campo di per sé
sorprendente: la parodia di preghiere e di altre categorie del sacro in una società, come quella
contadina, che ha nella religione il suo primo referente. Cavarsela allegando la predisposizione dei
villani all’umorismo e alla satira, che pure sono una componente importante della loro indole,
sarebbe riduttivo, anche perché si tratta di una materia dove lo scherzo, almeno ai nostri occhi,
non dovrebbe valere.
Ma proprio qui sta il punto, perché la cultura popolare ha le sue antichissime origini in una
concezione del mondo che non ha più corso e che gli studiosi chiamano «ambivalente»: per dire
che il contrario di una qualsiasi cosa fa parte di quella cosa, contiene una parte di verità senza la
quale la cosa stessa non può essere compresa nella sua interezza. Così la vita e la morte, i cibi e
gli escrementi: l’escremento, che per il contadino è il principio di un nuovo raccolto; e quindi il
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riso: ridere di tutto, della vita e della morte, del sacro e del profano è la strada obbligata per
rivoltare le cose e capirle fino in fondo.
Il modello che viene subito in mente è la tradizione del carnevale (per esempio quello romano
nel Viaggio in Italia di Goethe), mentre il riferimento più illuminante è all’opera di François
Rabelais e al saggio omonimo di Michail Bachtin. Senza dimenticare, su un altro piano, l’Elogio
della follia di Erasmo da Rotterdam.
Che Dio te benedissa
Quando ero ragazzo si usava ancora l’esclamazione: Che Dio te benedissa cunt ur spérgis brut
de pissa! (Che Dio ti benedica con l’aspersorio intriso di piscia!). A prima vista è soltanto un
detto scanzonato e irriverente; ma basta riflettere che nei paesi la benedizione era anzitutto quella
dei campi per arrivare alle rogazioni e cioè alle quattro processioni primaverili rivolte ai quattro
punti cardinali e intese a propiziare una buona annata. Anche su questa pratica religiosa correva
un proverbio canzonatorio: Beneditùss beneditàss, dent ur rüud e föra i sass (beneditussi
beneditassi, dentro il letame e fuori i sassi), che per un verso è un’annotazione realistica, ma per
l’altro ripropone il nodo benedizione-escremento.
Ebbene, in Rebelais si trova l’espressione «Si Dieu y eust pissé» (se Dio ci avesse pisciato), che
l’autore spiega: «In tutta la Francia le persone semplici stimano aver avuto una particolare
benedizione quei luoghi nei quali Nostro Signore si è liberato dell’urina». In effetti, nell’antica
civiltà rurale gli escrementi sono stati un simbolo costante di fecondità e di rinnovamento: nel
Baldus del Folengo un morto versandogli addosso dell’urina, risorge.
Non sarò io, dopo aver sottolineato gli ostacoli che si frappongono alla ricerca delle fonti della
cultura contadina, a pretendere che lo spérgis del nostro dialetto vada senz’altro ricondotto a una
tradizione arcaica; ma l’ipotesi che si tratti di un fossile etnologico è più che legittima.
Oca pro nobis
Sempre a proposito di rogazioni, si racconta un apologo che non ha implicazioni «filosofiche»
ma che è significativo dei pregiudizi sul clero e della propensione a manomettere le preghiere. La
processione si snodava di buon mattino lungo una cavedägna, quando un’oca lustra e grassa
attraversò e andò a finire tra i piedi del reverendo. Il quale fu svelto ad acchiapparla e a nasconderla
sotto il piviale, senza accorgersi che ne restava fuori la coda.
Gli venne in soccorso il sacrista, cantando una memorabile litania: Tirela su che le pend in
giò, óca pro nobis! (tirala su che pende in giù, oca per noi!). Il prete recepì il messaggio e rispose:
Ti che te m’ hée visà, un quäj tuchèt te’n tucherà, óca pro nobis! (a te che mi hai avvisato, qualche
pezzetto ne toccherà, oca per noi!).
Di un’altra processione che si faceva a Bobbiate, è memoria nel territorio del lago, perché legata
a un rito propiziatorio della pioggia. Nella chiesa del paese si conserva una miracolosa statua lignea
di San Grato (in dialetto San Gräa): quando la siccità minacciava i raccolti, il santo era portato
a spalla attraverso i campi salmodiando le giaculatorie prescritte e l’acqua non tardava ad arrivare.
Ma una volta che dopo non so quante peregrinazioni non si era ancora vista nemmeno una
nuvoletta e anzi il legno della statua per il gran sole aveva cominciato a creparsi, la gente perse la
pazienza e si diede a inveire e a insolentire il taumaturgo, arrivando a rinfacciagli: Putóst che fäa
piöo el crépa! (piuttosto che far piovere crepa!)… In altri casi la preghiera diventa quasi una
filastrocca, come questa, dove si accenna alla coltivazione del miglio, una volta diffusa: Santa
Maria mater Dei, ciäpa e säpa ur méj (Santa Maria madre di Dio, prendi la zappa e zappa il miglio).
Lo stesso incipit latino evolve in una cantilena nella variante: Santa Maria mater Dei, g’hè
‘ne gäbia piéna de uséi; ghe n’e vugn che g’ha fam, Santa Maria nostriàm (Santa Maria madre
di Dio, c’è una gabbia piena di uccelli; c’è n’è uno che ha fame, Santa Maria nostra amen).
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Una letteratura parallela
Gli studi di Bachtin hanno dimostrato che l’opera di Rabelais ha per fondamento una
tradizione popolare radicata nell’antichità e assurta nel Medioevo a una cultura (orale e scritta)
parallela a quella ufficiale. Nella sua «ambivalenza», come si è detto all’inizio, la parodia del sacro
è ricorrente, tanto che anche noi ne abbiamo trovato un indizio nel motto sullo spérgis.
D’altronde, se la «dissacrazione» è il principio ispiratore di questa «filosofia», che mette sullo
stesso piano le cose e il loro contrario, il primo obiettivo non può essere che la religione.
Abbiamo così tutta una letteratura che riscrive in termini parodici i testi sacri: Coena Cypriani,
Joca monacorum, Liturgia e Vangelo degli ubriachie dei giocatori, ecc; e parodie del Credo,
dell’Ave Maria,del Pater Noster, che rispuntano per esempio nel Trecentonovelle del Sacchetti…
Lo stesso Rabelais fa applicare da fra’ Giovanni il «consummatum est» e il «sitio» della passione
di Cristo al mangiare e al bere dei suoi pantagruelici banchetti; mentre il «venite adoremus» del
salmo XCIV è letto «venite apotemus», cioé «potemus» (beviamo).
Il discorso potrebbe allargarsi a dismisura, ma a me interessano specialmente due punti: uno
di ordine particolare e uno generale. Il primo è che la deformazione di preghiere nel nostro
dialetto… non sono semplicemente un capitolo della tradizione locale, ma fanno parte di una
cultura un tempo vivissima, che può illuminare di una luce nuova quello che resta del nostro
patrimonio vernacolo.
Il secondo punto riguarda proprio quell’antica letteratura popolare, che merita di essere
riscoperta e approfondita non solo in termini eruditi, ma per la straordinaria filosofia che la
anima. La «dottrina dell’ambivalenza», alla quale ho accennato, insinua il dubbio che la cultura
«classica» riduca la percezione della realtà a un segmento rettilineo, là dove sarebbe invece possibile
rappresentarla con un cerchio.
Voglio dire che poter ridere di tutto, mettendo a nudo le antinomie della condizione e del
comportamento degli uomini; considerare la morte come l’inizio della vita (e gli escrementi una
forza rigeneratrice della natura); essere consapevoli che ogni cosa è «ambivalente» e ruota senza
fine su se stessa, mi sembra un punto di vista che allarga le vie della conoscenza e della libertà.
d
Magia dell’acqua di Francesca Boldrini - N° 10, 2005.
…Pur di poter penetrare nel mondo degli adulti, di carpirne i segreti, di conoscerne vita, morte
e miracoli, come si suol dire, cerco, quando gli impegni scolastici me lo consentono, con ogni
scusa, di accodarmi ai parenti diretti al lavatoio, propensa ad affrontare i disagi stagionali.
L’andar al lavatoio non ha tempi precisi e giorni stabiliti, anche se di solito si preferisce sbrigare
la faccenda il lunedì. Non si tratta comunque mai del primo lavoro, ma bensì di una «variazione
nel programma», tra un impegno casalingo e un’attività agricola.
…La pezzuola deve essere trattata con riguardo: stenderla bene sul sasso, insaponarla con
grazia dall’alto verso il basso, strofinarla con delicatezza fra i due pollici per eliminare tracce di
qualsiasi genere, farla scivolare nell’acqua, strizzarla delicatamente. Nel tempo si avrà a che fare
con strofinacci, camicie e indumenti di lana. Quando il fisico consente sforzi maggiori, è giunto
il tempo delle lenzuola.
Mi scuote il brusio delle voci che muta d’intensità secondo i discorsi che si intrecciano, si
sovrappongono, si sfilacciano, da un capo all’altro delle vasche. Il pettegolezzo, tira giò i pagn’ di
spall ai gent, esige toni bassi, a volte appena sussurrati; il sentenziare, chela lì le vor insegnàa ai gatt
a rempigàa, raggiunge toni imperiosi; il litigio, “Pelanda!” “Dà mia ur to ai alt “, esplode in strilli
acuti e scoppiettanti
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Il lavatoio è anche il luogo dove si risolvono in modo pratico e sbrigativo situazioni
incandescenti, dove si dirimono controversie, torti e rancori.
Quando la mano destra impugna con veemenza un panno inzuppato d’acqua, si può stare
certi che, dopo un movimento rotatorio, l’indumento, come un proiettile, arriva a segno sulla testa
della nemica, cata sü e porta a cà, con una doccia fuori programma a tutti i presenti.
…Sono disposta a camminare nella neve rischiando di fare setecü, a entrare in una ghiacciaia
resa, a volte, ancor più gelida da improvvise e sferzanti correnti d’aria che spirano dal San
Martino, a sentirmi congelare mani e piedi, a farmi ghiacciare il naso, a geràa m’en biss. Ci pensa
l’acqua calda del secchio a rendere meno doloroso il rito del bucato: due minuti accanto alla vasca,
mezz’ora con gambe e braccia strette al secchio. E’ buffo vedere maniche di maglioni o gambe di
calzoni, generalmente docili nell’acqua, rattrappirsi e indurirsi appena appoggiate sul sasso o
riposte nel catino. Un flash! Improvvisamente è estate ed un fazzoletto bianco da uomo scivola
dolcemente nell’acqua.
Il solleone estivo e la calura accumulata durante la salita sulla ripidissima mulattiera che da
Cuveglio conduce a Duno, costringono il Ginetto, storico postino dunese, maseràa m’en püiö, ad
una sosta pressoché quotidiana. Spostata, con un gesto repentino, sulla schiena la borsa
traboccante di lettere, cartoline, pacchi e pacchetti, si curva sulla vasca, immerge il suo fazzoletto
e, con un rapido scatto, lo fa riemergere. Poi se lo appoggia, con evidente soddisfazione, sulla
fronte accaldata. Una rapida occhiata, una battuta sagace nei confronti di chi si è attardato
nonostante sia già suonata la campana del mésdì e poi… via al pellegrinaggio quotidiano della
distribuzione della posta. Regurdeves dònn che i grazi i fàn i sant e i dònn de bun cumand o i túsan
quand hinn grand. Aleghèr!
Il bucato bianco di riguardo quasi mai compare al lavatoio. Lo si deve fare con religiosa
attenzione e seguendo antiche ritualità. All’ultimo risciacquo è riservato il tocco magico: quello
delle palline blu. La mamma le conserva in una coppa di bronzo nascosta nel comodino della
camera. Nessuno deve sapere della loro esistenza e degli effetti che producono.
Non ci si può permettere il lusso di eccedere nell’uso perché costano e perché non è facile
trovarle. Sarà la suggestione del segreto, sarà la viva immaginazione che agita la mia mente, ma
vedo spuntare, ogni volta, in casa mia la primavera…
Era la lavanderia estiva di nonne e bisnonne. Dopo il lavaggio il panno si trovava
immediatamente steso su i ramm di büscun, costretto ad assorbire, nel più breve tempo possibile,
la maggior quantità di calore solare per tornare a casa nella gerla ben piegato e pronto all’uso.
Quanti canti modellati dai sogni sono scivolati verso valle… vola, colomba bianca, vola!
Diglielo tu che… Quante risate si sono disperse nell’aria, ammaestrate da un eco scherzoso e
sbarazzino!
Il ricordo ha cancellato amarezze e dispiaceri per lasciar spazio all’allegria, all’ottimismo e alla
voglia di vivere: quand ghéum not, seum pussèe cuntent.
d
Cucina e Tradizione di Luigi Stadera - N. 16, 2007.
Mi chiedo se un giornale intitolato «Menta e Rosmarino» si stampi in tipografia o in cucina;
tanto più che un’epigrafe programmatica insiste: Per dare gusto, sapore e profumo alla vita del
paese. Non è, in verità, che il foglio si occupi prevalentemente di gastronomia; ma si sa che le
«erbe» sono il sostrato di ogni discorso sul mondo contadino, nella loro triplice funzione (magica,
medicinale e culinaria), presente a volte nella stessa pianta.
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E’ il caso della menta, assai versatile e forse più usata per dolci, liquori e profumi, pur essendo
in grado di aggiungere una delicata freschezza a qualsiasi cibo. Anche il rosmarino è impiegato
in vari settori, ma la sua attitudine a insaporire le carni è talmente elevata da sopravanzare il
fascino dell’etimologia: ros marinus, «rugiada di mar».
Una riflessione sulle erbe ha senso in una dimensione geografica e storica. Si può parlare di
una cucina «lombarda»? Si può; ma ricordando che la Lombardia va dalle Alpi alla pianura
padana e si è potuta giovare di prodotti molto diversi, rinnovati via via – anche a livello popolare
– da un mercato «in movimento» (si pensi all’influenza di Milano e alla scoperta dell’America).
E’ vero che fino ai primi decenni del Novecento la povera gente ha mangiato ogni erba
commestibile; ma proprio da un consumo generalizzato è venuta la possibilità di selezionare le
più gustose e di farne il cuore dei piatti della tradizione. Così, non è ingiustificata la tendenza a
riscoprirli, anche per la giusta preoccupazione di non recidere un legame con il passato. Non
senza alcune precisazioni.
Alla corte lombarda – Ne parlo con Edoardo Cardani, chef del ristorante «Alla corte lombarda»
di Mornago, che già nell’insegna rivela un orientamento. Bene; la prima annotazione è che
riproponendo – tàli e quali – le pietanze degli antenati nessuno ne vorrebbe.
«Non inseguo un’archeologia gastronomica – dice Cardani – perchè allora si viveva e si lavorava
in modo diverso: non c’era, ad esempio, il problema dei grassi. Oggi, si tratta di recepire lo «spirito»
di quella cucina, di convertire i vecchi sapori a una «leggerezza» in sintonia con il nostro tempo».
In questo programma, perseguito con grande rigore, giocano un ruolo fondamentale le erbe,
che egli stesso coltiva e cerca nei boschi: oltre la salvia la menta e il rosmarino, l’asparago selvatico
l’ortica la malva la lavanda il luppolo... «Le erbe sono rinfrescanti, aromatizzano e insaporiscono
il cibo; e così le verdure, che non sono un «contorno», ma un’integrazione del piatto».
Aromatizzare e insaporire: «sapore e profumo», dice lo slogan del nostro giornale; e in effetti
non saprei distinguere i due livelli: un po’ come quando amore e sesso avventurosamente
coincidono.
Il recupero – Il punto di vista di Edoardo Cardani, su una cucina che non è statica, ma si evolve
conservando il gusto profondo dell’esperienza, mi intriga da morire, perchè ripropone in altri
termini il problema del rapporto con la tradizione: ne è soltanto una variante e ha la stessa densità
culturale. Chi si arrabatta per rimettere in piedi un evento una festa una ricetta, che avevano un
significato in altri contesti, può giusto allestire un museo, mummificando realtà che un tempo
erano vive. Non è la «cosa in sè» che merita di essere recuperata, ma (per stare alla metafora
culinaria) il suo profumo, il suo sapore.
La convergenza dell’approccio storico alla cultura della tradizione e alla cultura della cucina è
la garanzia che il procedimento è corretto e che il recupero si armonizza con la nostra «attuale»
identità; perchè l’identità, come la cucina, non è statica ma dinamica. La riprova è nei piatti
dello chef.
d
Una vecchia ricetta caldanese di Michele Presbitero - N° 21, 2008.
…Il buon Alberto (Palazzi) stava conducendo un’altra interessante iniziativa: cercare di ricostruire
la tradizione della cucina caldanese, non certo quel tipo di cucina che si poteva leggere sui tomi
storici dell’Artusi, del Carnicina o del Veronelli, ma comunque quella semplice, povera di tutti i
giorni o ricca delle ricorrenze che i caldanesi o meglio le caldanesi avevano ereditato dalle loro
famiglie o avevano inventato (anche per dura necessità) nel corso della loro vita.
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Quest’idea mi appariva stimolante, anche perché nelle mie scorribande molto giovanili
attraverso il paese avevo avuto occasione di osservare la preparazione, ma soprattutto assaggiare,
alcuni piatti di «vera cucina caldanese».
La passione del cucinare mi aveva sempre appassionato e figuriamoci se mi lasciavo scappare
quei ricordi. …vorrei (però) ricordare come i profumi di una volta sono all’oggi difficili da
ritrovare: la cipolla, la carota ma soprattutto il sedano prodotto dagli orti caldanesi erano
veramente intensi. Così come l’agliolo selvatico, i cavoli verza, le zucche dell’Aronne e del maestro
Palazzi, le patate il prezzemolo e gli asparagi… sono sicuro di ricordarmeli bene, mentre passavo
per le corti nell’ora di mezzogiorno, senza dimenticare che molte volte mi fermavo e chiedevo
spudoratamente: «mi fa assaggiare?…» Così, mi ricordo dello squisito minestrone della Lavigna
(o Lavinia)? Che preparava tutti i giorni per i bimbi dell’asilo e delle elementari. Il contratto per
una «tazza» o due di minestrone era quella di sorvegliare e giocare con i bambini nel piccolo
giardino antistante l’entrata del teatro, mentre la Lavigna preparava da mangiare. E’ cosi che tra
la Lavigna, la Miccia, la moglie del Sciur Lana, la sciure Ageline, la Marta, l’Agnese e la sciura
Nelo (Penelope) ho imparato a memoria alcune ricette tra cui quella relativa a:
Gallina in umido con chiodini (ciuditt) e polenta.
INGREDIANTI: Una gallina nostrana, una carota, una cipolla, una o due coste di sedano verde,
uno spicchio d’aglio, prezzemolo tritato, una o due foglie d’alloro una tazza di passato di
pomodoro, mezzo bicchiere di olio buono, due noci di burro, ¾ di un bicchiere di vino bianco
(ma anche rosso) che sia secco, un chilo di funghi chiodini, due o tre fette sottili di lardo o tre
quattro di pancetta, poca farina, due, tre mestoli (o secondo necessità) di buon brodo, due cucchiai
di aceto, sale e pepe macinato. Per la polenta secondo le proprie abitudini.
…Pulite la gallina, svisceratela con cura e passatela sul fornello acceso per bruciare i residui
di penne e vari pilucchi. Sciacquatela sotto l’acqua corrente lasciatela scolare e asciugatela con
un canovaccio, poi tagliatela in pezzi (di solito 8). …Preparate il battuto tritando la cipolla, la
carota grattata, il sedano a cui vanno tolti i filamenti, l’aglio e il prezzemolo. Usate una casseruola
di terracotta grande, se potete, mettetevi l’olio e il burro, il lardo o la pancetta e fate soffriggere,
aggiungendo il battuto appena il lardo o la pancetta sono diventati trasparenti, per cinque minuti
a fuoco vivo. Infarinate appena i pezzi di gallina… Disponete il tutto nella casseruola e rosolate
per dieci minuti facendo ben dorare la carne su tutti i lati. A questo punto versate il vino e
lasciatelo evaporare. Aggiungete la tazza di passato di pomodoro che avrete diluito con un mestolo
o due di acqua calda, condite con una presa di sale, una macinata di pepe e abbassate il fuoco
lasciando cuocere più lentamente per 25-30 minuti…
Nel frattempo avrete pulito bene i funghi, li avrete sciacquati sotto acqua corrente fredda e posti
in una pentola aggiungendovi acqua, i due cucchiai d’aceto le foglie di alloro e un poco di sale
grosso.
Sbollentate i funghi facendogli fare la «bava» tipica dei chiodini, schiumando continuamente,
fino ad eliminarla. In totale li avrete fatti bollire per circa 10-15 minuti, scolateli bene e
sciacquateli ancora con acqua calda, lasciateli nel colapasta a scolare bene. Eliminate l’alloro e
versate i funghi nella casseruola con la gallina dove saranno passati i 25 minuti di prima cottura
come detto prima.
Aggiungete due mestoli di brodo, lasciate cuocere a fuoco basso e tegame coperto per il tempo
necessario alla completa cottura della carne Assicuratevi che vi sia una discreta «puccia» e non
troppo liquida, al massimo scoperchiate la pentola. Poco prima di togliere dal fuoco ho visto, a
volte, aggiungere ancora un po’ di prezzemolo fresco tritato.
Ho naturalmente cucinato più volte la gallina alla caldanese, usando i chiodini che trovavo sulla
montagna o quelli che molte volte mi regalava il buon Quirico Cassina o suo figlio Lucianino.
22
Il piatto è gustoso, certo sono possibili varianti, ogni preparazione risulta quasi sempre
leggermente diversa dalle precedenti perché gli ingredienti non sono mai uguali nella qualità …
La polenta fumante è il giusto tocco finale, ed alla fine un buon vino rosso ne sarà l’ottimo
accompagnatore…
Infine ho voluto fare una piccola ricerca, consultando i miei numerosi ricettari e le
pubblicazioni di gastronomia più citate nelle varie regioni italiane. Ho letto di galline bollite
ripiene alla lombarda o con il mirto alla sarda, di altro pollame alla cacciatora, soprattutto faraone,
ma nessuna che si avvicinasse alla ricetta caldanese. Vale la pena di segnalare una ricetta
cremonese a cura di Lydia Visioli Galletti, dove si descrive la ricetta di un: «Pollo con funghi di
Donna Francesca» nella quale si usano i «ciudei» ovvero i nostri chiodini, ma non trattati e con
alcune sostanziali varianti, fra cui l’uso del «Pulàaster» e non della «Gaìina».
d
La Baroza di Marco De Maddalena - N° 7, 2004.
Il termine dialettale Baroza (o Treggia nella lingua italiana) a molti suonerà come un vocabolo
sconosciuto, o forse, per assonanza, può far pensare a una carrozza. In realtà, e i meno giovani
lo sanno bene, è, o meglio era, una sorta di carro usato, fino a 40/50 anni fa, principalmente per
il trasporto del legname tagliato nei boschi, e costituiva quindi uno strumento indispensabile per
i caredoo.
Trainata da una coppia di buoi, veniva impiegata per raggiungere luoghi particolarmente
impervi, dove con un normale carro non si poteva arrivare. Oggi, con i moderni trattori, è
ovviamente più agevole e molto più rapido percorrere le strade di montagna, ma per secoli i nostri
nonni hanno trovato nella baroza la risposta alle loro necessità.
Era sostanzialmente tutta in legno, non aveva un piano di carico come un carro, ma era
costituita da 2 lunghe travi i briaa e da alcune traversine dove appoggiare per la lunghezza i legni.
La particolarità era nelle ruote: le due davanti erano molto più grosse rispetto a quelle dietro, che
inoltre potevano essere rimosse. Le ruote posteriori costituivano infatti un carrello carell che
veniva staccato prima di entrare nel bosco, trasformando così la baroza in una specie di slitta, in
quanto strisciava posteriormente sui briaa. Questa caratteristica era indispensabile per affrontare
le strade di montagna molto sconnesse e in forte pendenza, per superare con maggiore facilità le
asperità come sassi o buche. Ad esempio da Caldana si poteva giungere tranquillamente fino al
forte di Orino, dove era impensabile arrivare con un carro, anche se per un viaggio occorreva una
giornata intera. Anche la ridiscesa era facilitata dallo strisciamento per la sua azione frenante.
In alcune località, ad esempio al Ciuset, dietro la chiesa di Cocquio, in Bonè, al Cerro andando
verso lo chalet, esistevano dei gradini o delle buche, realizzati di proposito per facilitare il riattacco
del carrello. Si passava con i buoi e con le ruote anteriori e si fermava la parte posteriore della
baroza in corrispondenza del gradino o del fosso in modo di poter infilare il carrello nella sua
posizione originale. Sdraiandosi sotto al mezzo, si procedeva quindi a bloccare il timone ul
tamunett del carrello con una catena. L’operazione non era semplicissima, e richiedeva senz’altro
l’aiuto di una persona che, tenendo fermi i buoi, impediva possibili incidenti. Al di fuori del bosco
era giustamente proibito (e multato) andare in giro a striscio in quanto si sarebbero rovinate le
strade la rizada.
Altra caratteristica distintiva delle baroze derivava dalla possibilità o meno di sterzare come i
carri. Vi erano quelle cosiddette «a stanga fissa» e quelle «a stanga mobile»: più stabili le prime
ma più maneggevoli le seconde, che inoltre avevano il vantaggio di alleggerire il carico sul giogo
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dei buoi. Per bloccare il carico si usavano invece 2 catene, una davanti e l’altra dietro, già
saldamente collegate alla baroza, che andavano ribaltate sopra la legna e messe in tensione grazie
all’umet e al menoo. …Questi due simpatici signori sono sostanzialmente due bastoni: si
posizionava verticalmente l’umet sul carico e si usava il menoo per arrotolarvici la catena, quindi
lo si bloccava in posizione, per mantenere serrata la presa. In questo modo si scendeva a valle con
una certa sicurezza.
Il pericolo maggiore era quello di ribaltarsi di lato (stravacare) cosa assai probabile se si esagerava
col carico (era consigliabile non superare i 15/16 q.) oppure se i legni venivano caricati male. …
Il Mario del Cerro ricorda che capitava di cambiar i briaa anche 4-5 volte a stagione, operazione
comunque abbastanza semplice. … Per scaricare la baroza, la si ribaltava di lato. Si posizionava
un asse inclinato che serviva, salendoci con un ruotino, a sbilanciare il mezzo sollevandolo su un
lato. Bastava poi una energica spinta per terminare l’opera. Ovviamente non mancava chi riusciva
a ribaltarla a forza di braccia, facendo leva sulla schiena. Avere la baroza non era da tutti, ma una
peculiarità dei caredoo di professione che offrivano i loro servigi a pagamento…
In un’epoca in cui gasolio e metano erano ancora sconosciuti, tutti gli edifici, pubblici o privati,
erano riscaldati (e non sempre e non interamente), a legna.
Tagliare i boschi era un lavoro molto più faticoso di oggi, si faceva a colpi di scure la segù, per
evitare che un taglio troppo netto, fatto con la sega il resegun, ostacolasse il ricaccio della ceppaia.
Altra regola non scritta ma osservata con scrupolo, era di effettuare il taglio con il favore della
luna, pena il rischio che la legna si riempisse di camole.
Dei boschi si utilizzava tutto; oltre alla legna per riscaldare o cucinare, si prendeva lo strame
per fare la lettiera nelle stalle, si facevano fascine mazot che servivano ai fornai per cuocere il
pane; riguardo le castagne, si diceva addirittura che quando cadevano crodaven non facevano
nemmeno tempo a toccare terra. Il risultato era che i boschi erano particolarmente curati e puliti,
a differenza di quanto avviene oggi.
d
Un grande vigneto (Quando a Varese c’era il vino) di Roberto Ravanelli - N° 12, 2005.
…Nel 1975 con mio padre decidemmo di ripiantare il frutteto e certo non potevano mancare le
viti. Niente uva americana (dottamente uva fragola), mio padre era della val di Cembra, lato sud
(lato povero) ma pur sempre terra vocata ai grandi vini. Che però a Caldana si potesse produrre
del buon vino era un argomento molto dibattuto ed alle mie ragioni sulla latitudine, sulla tipologia
del terreno, e sulle generali condizioni pedoclimatiche analoghe a quelle di altri grandi vini,
venivano contrapposte l’esperienza ed il «cain» (vino locale per consumo diretto la cui bontà
ricordava quella del personaggio biblico); mio padre e mio cugino, allora molto influente,
sostenevano che Caldana (ed il Varesotto in genere) non erano terre da vino. Poco servì la
collaborazione dell’agronomo Paolo strenuo sostenitore del «merlot» … Scegliemmo del barbera,
o almeno così credevamo, buona da tavola e da vino, e dell’uva bianca ad acini piccoli e buccia
dura del Trentino. Tre anni dopo, con grandi speranze, vinificammo il primo raccolto.
Probabilmente erano eccessive le aspettative (non avrebbero potuto forse essere soddisfatte da
uve di Montalcino), il vino buono lo fanno le viti vecchie, l’abbinamento «barbera» «uva bianca
Trentina» andava ancora approfondito, aver prodotto solo 50 litri non aveva garantito una buona
fermentazione e la successiva conservazione; dopo il trionfo dei disfattisti, e per tante altre ragioni
del nostro vino a Caldana non si parlò più.
Le viti, poco curate, producevano dell’uva che tardava a maturare ed invece del barbera
24
pensammo si trattasse di squinzano o malvasie, o altre diavolerie delle Puglie; con il tempo l’uva
americana occupò spazi vocati a più nobili vitigni. L’estate del 2003 (quella molto calda) ci aprì
gli occhi; l’uva misteriosa maturò e nella forma e nel sapore assunse le sembianze di una buona
uva barbera, molto soddisfacenti furono anche i risultati dell’uva bianca Trentina.
Molti altri sostegni alla mia tesi li ho trovati nel saggio Quando a Varese c’era il vino di Sergio
Redaelli Macchioni Editori, in esso si narra della storia centenaria del vino a Varese, vino di
grande qualità (a volte) che aveva fra i suoi estimatori San Carlo Borromeo che, a Roma presso
il papa suo zio, si faceva inviare, in esenzione doganale, «una botta di vino de Fraschirolo»
(prodotto nelle cantine del castello Medici di Frascarolo sopra Induno Olona).
Il poeta Carlo Porta, con particolare intensità, nei brindisi per matrimoni o per ingressi in
Milano di personaggi altolocati ed illustri, loda la fragranza ed il gusto dei vini di Varese, Busto,
Tradate, Angera ed altri ancora. E poi via il libro è un susseguirsi di storia, dati ed aneddoti, così
si scopre che il vino a Varese ha una storia millenaria, che nel 1600 la provincia era tutto un
susseguirsi di vigneti e che da essi si traeva la gran parte del reddito della produzione agricola
collinare (si dice i 4/5); «ronco», toponimo così diffuso nei nostri luoghi, è un appezzamento di
terreno a pendio, spesso strappato al bosco, appositamente terrazzato coltivato a vite, (sinonimo
è anche il termine «miogni»). Si deve ricordare che il Granducato di Milano, sotto i Visconti o
gli Sforza prima e sotto gli Spagnoli poi, proteggeva le proprie produzioni agricole con elevati dazi,
mettendo fuori mercato i vini piemontesi ed anche bergamaschi, (già gravati degli alti costi di
trasporto), per quelli meridionali il trasporto, in grandi quantità, non era neanche ipotizzabile.
Nel Settecento, si assiste ad una diversificazione della produzione agricola, si diffondono i
«murun» (gelsi per i bachi da seta) che garantiscono un maggior reddito ed una miglior
compatibilità con i cereali; (i primi sessant’anni sono anni di guerra e quindi di fame e di carestia
ed i cereali garantiscono la sopravvivenza).
All’inizio dell’Ottocento, pur rimanendo la presenza della vite molto consistente, la produzione
si limita sempre più al mercato locale ed alla rivendita non qualificata. I killers del buon vino
varesino sono però le grandi malattie, l’oidio attorno al 1850 e la filossera dopo il 1870, il colpo
di grazia lo infliggono la sostituzione con viti americane, senza la ricerca della qualità, la
eliminazione dei dazi (Unità d’Italia) e la riduzione dei costi di trasporto (le nuove ferrovie) che
consentono l’invasione dei vini piemontesi e soprattutto di quelli pugliesi…
Il Comizio Agrario di Varese studia la ancora vasta produzione e la varietà dei vitigni, diffonde
la conoscenza delle tecniche di coltivazione e lavorazione, assegna premi ai migliori prodotti; nel
1882, fra gli altri, premia sei conferitori di uva pregiata e fra questi i fratelli Verga di Cocquio,
con particolare menzione… Fra le varietà più diffuse e conosciute vengono citate: Schiava,
Pignolo, Moretto, Corbera, Inzago, Ughetta e Chiavennasca Bianca. Le zone più vocate erano
le colline a sud del Campo dei Fiori dal Sacro Monte a Cocquio, Malnate, Angera, Somma,
Luino, Cuvio, Casalzuigno, Cittiglio, Travedona, Cadrezzate e tutta la sponda del lago da Sesto
a Maccagno, ma anche Busto, Gallarate, Tradate e Saronno, l’intera area varesina (allora
provincia di Como) era un unico grande vigneto…
Oggi la viticoltura Varesina è limitata a pochissime zone, in particolare Angera, nel
Cinquecento la sola Busto aveva vigneti per oltre 200 Ha. e nel seicento il solo comune di Varese
produceva più di 40.000 Hl. di vino (54.000 brente)… Mio padre mi raccontava che in un suo
viaggio a Roma nel trentacinque, con grande stupore si vide offrire il vino del «Sasso di Gavirate»;
dal libro apprendo che ancora nel 1970 alcuni varesini se lo videro offrire all’isola d’Elba; per delle
vigne scomparse da oltre 100 anni un segno di indubbia vitalità…
d
25
Ricordi e considerazioni di vita di paese
III
n questo capitolo sono raccolti contributi di vario genere – meditazioni impegnate sull’anima
delle cose di Patrizio Bedon, ma anche storie favolose di alcuni luoghi o situazioni – come la
sorgente afrodisiaca e la leggenda della gallina bianca fuggitiva riapparsa per magia ai piedi della
Torre... – raccontate da Flavio Moneta e Giorgio Roncari, fino al ricordo di gustosi e divertenti
eventi storici... mancati, come quelli ricordati da Giambattista Aricocchi e Alberto Palazzi.
I
d
L’anima delle cose di Patrizio Bedon - N° 4, 2003.
…Io non credo che a paesi come Cerro e Caldana possano essere applicate le stesse letture che
valgono per altri piccoli centri alpini e appenninici, ormai abbandonati perché privi del minimo
indispensabile per sopravvivere. Qui, al contrario, siamo assediati da catene ininterrotte di servizi,
supermercati, centri commerciali; e il lavoro, se, come capita del resto normalmente ovunque, non
è più sotto casa, lo si raggiunge in macchina o in treno senza eccessivi problemi. Questi paesi non
sono i soli ad avere subito importanti cambiamenti strutturali e sociali a seguito
dell’industrializzazione e del consumismo da essa prodotto. Si tratta di un fenomeno molto
generale, addirittura mondiale, cioè globalizzato, che può essere affrontato solo con una visione
culturale completa e coraggiosa. … Quando ero bambino, verso la fine della guerra ho vissuto
come sfollato in una grande casa fuori Bergamo, dove ho visto nascere il vitello, fare il salame,
cuocere la polenta nel camino, volare le grosse Saturnie del Pero nelle sere d’estate. Per due anni,
che sono stati un’epoca. Poi siamo tornati a Genova e gli spazi di libertà si sono ridotti: i palazzi,
le strade, la scuola. Eppure qualche scampolo di natura e di campagna sopravviveva ai bordi della
città: bastava volerlo e cercarlo, come ho sempre continuato a fare crescendo. Perché? Per amore.
Per ragioni di cuore. Perché la mia anima andava in quella direzione, nonostante tutto. In seguito,
a Milano, mi sono laureato e lì ho lavorato per molti anni. Ma in estate ero sempre in Grecia, là
dove i misteri del mito e degli archetipi si impregnano degli odori dei cibi semplici di casa e
vestono le forme di un vissuto quotidiano atemporale.
Un annuncio sul giornale e sono capitato a Cerro. Ho visto la casa in vendita e l’ho riconosciuta.
Non la zona. Non la gente. Non le tradizioni locali. L’anima della casa ho riconosciuto, perché le
case hanno un’anima. E tu devi sapere qual è la tua, quella che cerchi come luogo della tua
esistenza, perché sai scegliere e sai cosa vuoi. Allora quella diventa la tua casa, anche se altre, in
luoghi diversi e lontani, avrebbero potuto esserlo: dico altre, certamente non tutte.
…come vorrei che fosse Cerro, ora e magari fra trent’anni?
A me intanto piacerebbe molto che le case, le strade e le piazzette non perdessero l’anima, come
purtroppo è già in parte avvenuto, con interventi impropri di chirurgia strutturale ed estetica che
vorrebbero farle diventare altro da quello che essenzialmente sono state e simbolicamente ancora
rappresentano. E poi vorrei, adesso ma anche fra trent’anni, che ci abitasse gente sincera. Intendo
dire gente che, come me anche se diversa da me, in una casa cerca l’anima di ciò in cui crede.
Gente che sa cosa vuole e che sa scegliere. …
27
In altre parole, ora e fra trent’anni, vorrei vedere Cerro abitata da gente, come si dice, persuasa,
cioè serenamente contenta di ciò che ha, di ciò che è il paese nella sua essenza, perché ha ciò che
responsabilmente ha scelto. Naturalmente perché ciò accada ci vuole cultura. Cultura matura e
consapevole rispetto ai falsi miraggi dell’onnipotenza infantile, cioè dell’avere tutto senza
rinunciare a niente. E questa condizione di infelicità e alienazione, è bene ricordarlo ancora, è
una condizione generale, appunto globalizzata, riscontrabile purtroppo ovunque. Questo è ciò
che ci rende veramente tutti uguali e tutti ugualmente spaesati, magari senza saperlo.
…non si tratta solo di cercare tranquillità e aria buona,… ma di sapere quel che si vuole, come
sarebbe auspicabile anche per gli abitanti di storica memoria. Di essere adulti in un mondo fatto
troppo spesso di bambini viziati e distratti dal consumismo e dalla globalizzazione, che insegnano
a volere tutto e quindi a non scegliere mai. Così, alla fine, non si ha niente e si diventa davvero
tutti uguali nella scontentezza. Il mondo globalizzato, che va molto al di là dei confini di Cerro e
Caldana, alimenta un altro falso teorema, forse il più nefasto, perché apparentemente riconducibile
al buon senso comune: il principio di utilità e concretezza, secondo il quale ogni cosa, ogni azione,
ogni progetto, deve essere valutato in rapporto alla sua concreta utilità… e ricchezza immediata.
Così concretezza, utilità e denaro sono diventati praticamente la stessa cosa, che informa il
principio di realtà. Ma questo principio materiale non spiega l’amore per un figlio, per un cane
raccolto dalla strada ed anche quello per una casa. Ci sono tensioni che non possono essere definite
utili, non servono, sono e basta. Per figli e cani, la cosa è risaputa. Per le case meno. …
Giorgetti ha scritto: «quando entriamo in un museo di cultura materiale e vediamo in
esposizione tutti gli oggetti che si usavano un tempo, proviamo un senso di imbarazzo, se non di
disgusto, perché ci sembra di stare in una camera mortuaria». Già, forse perché quegli oggetti non
servono più, sono morti e basta… Senza immaginazione e capacità di elaborazione simbolica, c’è
solo morte in un museo, sia esso una raccolta di oggetti, un nucleo antico, una casa, un prato…
Così un vecchio attrezzo, se lo si sa ascoltare, parla e racconta l’autosufficienza, il piacere della
diversità e dell’imperfezione, il senso del bello unito all’utile, il valore del risparmio, il gusto della
consapevole padronanza del mezzo… Potrei continuare a lungo, sconfinando nella favola, nel
sogno, nello stimolo creativo…
Sapere rispettare e conservare le tracce del passato è importante, intelligente e giusto. Ma
senza immaginazione, senza una capacità di elaborazione affettiva e simbolica, tutto si riduce ad
un angusto principio di realtà materiale, e alla morte dell’anima.
Le nuove comunità che vorrei vedersi formare in questi paesi, mi auguro possano fondarsi
sulla consapevolezza dell’emergenza epocale che stiamo attraversando, tra sprechi di pochi e
miserie di molti; comunità solidali col resto del mondo prima ancora che al loro interno, animate
da quel principio di moderazione che così bene ha descritto recentemente Umberto Galimberti:
moderazione come limite morale ad uno spreco rapinoso, egoista e suicida.
Le comunità contadine di un tempo praticavano la moderazione per necessità. Ora è il
momento di elevarla a legge morale su cui fondare una cultura comune.
d
La corriera di Debora Ferrari - N° 2, 2002.
Tre mesi. Aspetto questo giorno da tre mesi. Le 16 di un caldo pomeriggio di giugno. Il momento
è arrivato. Fra poco ci siamo. Sono emozionata. Veramente. Alla stazione delle Nord di Cocquio
la gente è in attesa del treno da Milano, sbarre abbassate, brusio del centro commerciale e lei, di
là, in attesa di prendere posizione.
Non appena il divieto biancorosso si alza con la sua flemma attraversa i binari e accosta
prossima al caseggiato per far salire i passeggeri. Quattro. L’autista stacca i biglietti con la data
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del giorno e la corsa, raccoglie i pochi euro nel borsello di cuoio passato di mano in mano lungo
tutti i giorni di lavoro, ci si siede e si parte.
La corriera per Caldana, che prosegue fino a Orino, è così: tranquilla, andatura da crociera,
il tettuccio appena rialzato per far passare l’aria, il rumore ovattato e grezzo del motore che ha
un sapore originale, piacevolmente meccanico. Subito avvisiamo che scatteremo delle fotografie
per un articolo su un giornale. Mi chiedono quale e con un orgoglio magnifico – neanche se fossi
inviata dalla RAI lo proverei!- rispondo «per Menta e Rosmarino».
Giorgio, l’autista che da più di venticinque anni guida per la Maretti, è già all’incrocio che porta
dentro Cocquio, alla fontana, per raccordarsi alla salita poco dopo il Municipio e compie con le
braccia quei larghi giri sul volante degni di una sezione aurea disegnata nei quadri astratti di Luigi
Veronesi. Si procede, piano. L’andatura è di media 30 Km/h ma in salita si va ancora più piano.
Tanto piano che quando esci di casa a Trevisago e scorgi una coda di auto capisci subito che è lei
a fare tappo e se avevi fretta meglio lasciar perdere e seguire la processione come un monito a
goderti la vita in tutta la sua lentezza, ad ogni scandire di secondo.
In cima alla salita, sulla curva che immette in contrada Boné, il profumo di sambuco e robinia
si fa più intenso e penso ai milanesi che negli anni Cinquanta scendevano dal treno per
raggiungere la casa o l’albergo per la villeggiatura immergendosi in un mare di suggestioni odorose,
lasciandosi alle spalle il sapore dello smog cittadino, cosa, per altro, che succede ancora oggi e non
solo ai milanesi.
Basta lasciare la Valcuvia per un giorno, per studio e per lavoro come facciamo in tanti,
partendo la mattina col treno che quando rientri capisci la bellezza della terra dove vivi, la sua vita
generosa e mite, capace di accoglierti come una madre ogni sera: in inverno col profumo del
calicantus, in primavera con quello delle robinie, in estate con il gelsomino.
Siamo davanti al cimitero di Caldana, piccolo, selvaggio e con una vista impareggiabile sulle
montagne. Lì è sepolta Fausta Cialente, scrittrice amante di ogni paesaggio, accanto al marito
musicista Enrico Terni. Quattro ortensie del suo giardino occhieggiano sotto i loro nomi nel
riposo.
La signora sulla corriera chiede all’autista di fermarsi verso il centro di Caldana dove c’è il
cartello della scuola materna. Ecco perché va così piano la corriera!
Deve poter fermarsi a far scendere o raccogliere i passeggeri che l’aspettano lungo il percorso!
Un servizio unico ai nostri giorni, dove tutto è scandito dal ritmo di orari sigillati e corse all’ultima
coincidenza.
Nel breve tragitto – durato però già sei minuti – abbiamo scambiato quattro parole sul paese.
Anche lei legge «Menta e Rosmarino» con interesse! Poco più avanti scende anche l’anziano
signore, davanti al Campo dei Fiori. Un altro habitué della corriera. Giorgio l’autista spiega che
sono in diversi a prendere la corsa per far spesa al centro commerciale e approfittarne per un giro,
così la giornata passa. Poi ci sono gli studenti delle scuole. Insomma, nelle giornate di punta sul
mezzo a trenta posti si arriva anche a sedici. E’ grazie alla Provincia che il servizio può ancora
essere effettuato e la Maretti lo porta avanti da cinquant’anni. Gran bene prezioso! La strada
diviene per poco pianeggiante e a destra si scorge il bivio per Cerro.
Quante volte con l’oratorio di Gemonio si veniva fin qui a piedi, passando dai Mulini del
Salvini, per arrivare nel bosco e giocare a Castellaccio prima della merenda al sacco! Oggi Cerro
è in ristrutturazione, case accoglienti di pietra e gerani ai balconi: una piccola Brigadoon, per chi
si ricorda il romantico film.
Nel bosco, già parte del Parco Campo dei Fiori, si sente il cuculo e personalmente ho visto
anche l’upupa, due picchi verdi, una numerosa famiglia di scoiattoli, un allocco e occasionalmente
qualche cerbiatto sceso dalla montagna per mangiare tenero fogliame di nocciolo.
Tra le parole entusiaste dell’autista, gli scatti fotografici, l’aria del tettuccio, il rumore costante
29
del motore e il suo ruggire al cambio delle marce, si insinua forte in me l’amore per questo mezzo
straordinario. Un elogio alla lentezza, un monito ad assaporarsi la vita, nello stile del miglior
Linati (lui però ha battuto tutti col suo viaggio sul rullo compressore!).
Piccola discesa e raccordo per Orino dove la sosta è prevista poco distante da Villa Belvedere,
residenza liberty nata proprio agli inizi del secolo scorso per la villeggiatura e sopravvissuto esempio
della ricettività varesina ai tempi della Belle époque.
Sosta di un minuto e salgono due ragazzi intorno ai vent’anni con zaino in spalla: devono
prendere alle 16.50 il treno per Milano e ce la faranno benissimo: sono le 16.25. La corriera da
Cocquio a Orino impiega dodici minuti di saporoso viaggio. Dietrofront e si riparte per Cocquio.
Poco dopo, siamo già in quelli di Azzio sulla provinciale, Giorgio accosta per far salire un
bambino. Maglia dell’Inter e zainetto alla mano. Ha i soldi giusti già contati che cadono
tintinnando nella borsa di cuoio, altrimenti appoggiata sul cruscotto sonnecchiante. Si siede
davanti ed è curioso, chiacchiera vivacemente. Prende la corriera spesso e adesso deve ritirare la
pagella a scuola. Ha la maglia di Bobo goal con scritto a grandi lettere «Vieri» sulla schiena. Ci
sono i mondiali e abbiamo appena perso con la Croazia, ma non la speranza.
La strada si srotola sotto le ruote della corriera ormai abituata a percorrerla avanti e indietro.
E’ un salotto, un grande salotto dove tutti si conoscono e se non ti conoscevi… non importa, fai
lo stesso viaggio, di dodici minuti, che ti resterà impresso nella memoria.
Di nuovo il rettilineo dove di notte spesso le volpi attraversano fugaci, il centro di Caldana, così
disteso e raccolto da farti ogni volta venir voglia di fermarti in un cantuccio. La posta! Guai se
togliessero il più efficiente ufficio postale della zona, con la cortesia infinita dell’impiegato che cura
ogni cosa come se fosse sua! La SOMS dove vengono organizzate iniziative degne di rilievo e le
stradine che si affollano a tal punto durante la castagnata da essere irriconoscibili tanto da chiedersi
per quale legge fisica Caldana possa contenere così tanta gente. Il cimitero, la casa di Fausta,
l’agriturismo e… sulla curva quell’immenso tuffo al cuore che ti dona la vista del Lago di Gavirate.
Lo puoi veder così solo se sei in corriera, con la macchina neppure lo immagini. E devi andare
piano. L’anno scorso ho visto tre auto ribaltarsi su questa curva e finire nel prato sottostante,
nemmeno fosse una gara di rally!
Fedele alla sua antenata, la carrozza coi cavalli che portava la posta, la corriera procede
costantemente nel suo percorso. Con mossa sicura l’autista compie il tornante e si avvicina il
momento dell’arrivo. Alle 16.35 puntualissima la corriera è in stazione Nord.
I pochi passeggeri scendono. Io mi rattristo a dover lasciare il sedile di cotone rosso. Pochi
chilometri fatti in mezzora possono renderti euforico, entusiasta. Perché ti sei concesso del tempo
diverso, perché hai potuto viaggiare alto, perché l’andatura lenta ti ha fatto percorrere non solo
lo spazio ma anche il tempo in cui lo spirito via via si immergeva in uno scambio continuo, una
fertile osmosi tra passato e presente.
E futuro. Mi ha rincuorato vedere quel bambino di 10 anni sulla corriera. E’ la testimonianza
che anche le giovani generazioni stanno crescendo collegate al passato e la corriera sopravviverà
altri cento anni. Quel bambino – molto più avanti di me che non l’avevo mai presa – salendo ogni
giorno sulla corriera l’ha trasformata in parte della sua vita e potrà raccontarlo ai suoi figli e ai
suoi nipoti. La storia procede. Non tutto è perduto anche quando cambia aspetto. Fra poco
un’altra corsa, altri passeggeri. Scattiamo le foto al mezzo con l’autista. Una bella foto ricordo.
Ci torneremo.
A sera le stelle decorano il cielo di Caldana sopra robinie e castagni. Un mare intermittente
di lucciole invade di danze fosforescenti i prati e persino la SP 39. Più tardi arriverà l’usignolo.
Piccole cose da gustare con calma. Anno domini MMII.
d
30
La Torre: la biscia nera e la vecchia signora di Flavio Moneta - N° 17, 2007.
…Inforchiamo la bici e via, si pedala arrivando velocemente ai piedi della Torre.
La Torre è una costruzione composta da vetusti sassi che si ergono a baluardo dell’antico
insediamento abitativo denominato Chiosetto, come riporta, nelle mappe territoriali di Trevizago,
il preciso catasto Teresiano.
La Torre sembra un’anziana signora abbandonata, mi sovviene alla mente questa similitudine
mentre affascinati osserviamo alcuni raggi di sole che filtrano da quelle strane feritoie poste nella
facciata a sud ovest della Torre. Mi tornano alla memoria i ricordi di fanciullo, le corse nei campi
ai piedi di quella costruzione, che ai nostri occhi di fanciulli appariva immensa.
Si correva, si giocava, si sognavano cavalieri e battaglie, alfine una voce stentorea ci strappava
dai nostri sogni. Erano le grida di quel buon uomo del proprietario che ci intimava di non entrare
in quei bui anfratti ai piedi della torre: «Andii via fiò l’è periculus e crolaa tutt, li sòta».
… «Vedete, bambini la torre è protetta da un muro di recinzione e il fondo è chiuso, i cunicoli
di collegamento che esistevano sono da tempo crollati», dissi io, mentre nei miei ricordi riaffiora
la leggenda della gallina bianca, che da Caldana pare fuggì, ed infilandosi in un cunicolo riapparve
per magia ai piedi della Torre. Naturalmente è una leggenda metropolitana, chissà? chi può dirlo?
La Torre di Cocquio Trevisago non è leggenda e tanto meno l’antica Chiesa di S. Giorgio, che
in un documento cartaceo, depositato presso l’archivio Storico Diocesano di Milano nei fondi
Legati del 1758, viene descritta con precisione fornendone anche una puntuale collocazione.
Colgo l’occasione per riproporre al gentile lettore, una nota storica proveniente dall’archivio
parrocchiale di S. Andrea, che di seguito riporto integralmente.
«A Trevisago inferiore verso il 100 a.c. già esisteva la vecchia torre, fu rifatta verso il 200 d.c.
La Torre era usata da un manipolo di soldati Romani, per trasmettere segnali di pericolo ad altre
torri. Nella bassa Trevisago abbondavano campi fertilissimi con alcune fattorie di legno adibite
ad abitazione, e ricovero di molti capi di bestiame destinati alle forze Romane operanti in zone
subalpine. Verso il VII secolo d.C., iniziarono la costruzione di un qualcosa che nei secoli
successivi divenne la chiesa di S. Giorgio. Questa chiesa fu costruita nei pressi della Torre, in
modo che i religiosi potessero difendersi dalle incursione dei predoni. Della chiesa oggi non
esistono che poche tracce. Nella notte di S. Silvestro, così dice la leggenda, si sente ancora il
rintocco delle campane».
In realtà la storia è complessa, la costruzione della Torre non è databile con certezza. …le torri
presenti sul territorio varesino erano posizionate in modo da formare una catena di comunicazione
a vista. Intorno all’anno 1000, la Torre viene costruita probabilmente riutilizzando materiale in
sito, sui resti di un vecchio fortilizio di periodo Romanico, il materiale lapideo è composto da
blocchi di porfido e granito bianco con utilizzo di malta e ciottoli. Nel periodo successivo, pare
sia stata immediatamente distrutta da forze nemiche, nel 1200… Nel 1300, la vecchia Torre
ospita un corpo di guardia a controllo del confine del Ducato di Milano, e quello di Como. Intorno
al 1700 la torre fu occupata e successivamente distrutta da mercenari di Sion. Oggi i resti della
vecchia Torre sono ancora visibili, il lato sud è ben saldo mentre gli altri lati sono quasi totalmente
crollati. Presumibilmente la torre doveva raggiungere un’altezza di 12 metri, a pianta
quadrangolare. Le pietre poste in opera sono disposte in corsi orizzontali e paralleli, oggi sono
visibili ancora due aperture ad arco a tutto sesto di circa un metro e mezzo di larghezza, e
numerose feritoie rastremate all’interno. L’area interessata è ricca di vegetazione infestante, nello
specifico d’edera rampicante che funge anche da sostegno per tutto il rudere.
…Urge un intervento, affinché la nera biscia d’asfalto possa sfilare silente e rispettosa nei
confronti della vecchia signora. Così che le nuove generazioni comprendano che la storia e le
nostre tradizioni possono serenamente convivere con la moderna architettura.
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Come cittadino di Cocquio Trevisago sarei felice di poter osservare all’orizzonte quegli
affascinanti resti di una lontana civiltà…
d
L’acqua signorina (O meglio la fonte de l’Avucatt) di Giorgio Roncari - N° 16, 2007.
Questa è la più inverosimile storia che potesse capitare ad un paese in qualsiasi latitudine, una
vicenda divertente successa agli albori del terzo millennio che, se non fosse vera, difficilmente si
sarebbe trovata una mente capace di partorirla.
Tutto cominciò a metà degli anni Ottanta, quando Armando Roncari, uno degli artefici
dell’autonomia comunale, penna gradevole e garbata di casa nostra, sorpreso dall’apprendere che
un’analisi batteriologica ne decretava la non potabilità, dedicò una novella al Funtanin de
l’Avucat, quella caratteristica fonte posta fra le radici di un faggio sulla strada per Cabiaglio.
Si trattava di quanto il Giuanin, maturo narratore di cose andate, raccontava nelle lunghe
serate invernali passate all’albergo «Corona»; ovvero che bere a quella sorgente, era consigliato a
chi volesse avere figli e del come avesse convinto un ingenuo ciclista della veridicità di tale
affermazione. Si divertiva certo a riproporre un’antica e obliata diceria popolare, similare, del
resto, all’altra che voleva l’acqua della Madonnina, un lenimento per i malati d’asma. Nel suo
racconto, l’Armando, per discrezione, cambiò i nomi: l’Avvocato fu mutato in Notaio mentre il
Giuanin si ritrovò nei panni del Cav. Bagaioni, stagionato perdigiorno.
Trascorsero un paio d’anni e, indirizzati dal Municipio, due giornalisti, uomo e donna, si
rivolsero al parrucchiere del paese cultore di vicende locali. Dovevano compilare un inserto dove
si descrivevano i tesori nascosti dell’Italia minore. Parlarono del più e del meno e del vecchio
palazzo dei feudatari Litta, argomento che però non incuriosì particolarmente i due inviati. Il
discorso cadde allora, così per scherzo, sul «Funtanin de l’Avucat» e sulle sue presunte qualità
definite afrodisiache. A sentire tale parola, i reporter drizzarono le antenne, cavarono lapis e notes
e presero appunti: «…ma dov’è… ma fa bene… ma lei la beve… e cosa ne pensa la gente…» –
«…sta in tale località… così dicono i vecchi… no non ne ho ancora sentito il bisogno… è bello
sapere che c’è…» e via di questo passo finché furono soddisfatti.
Passarono alcuni mesi quando alla bottega del barbiere fece capolino una giovane coppia un
po’ timorosa mostrando un opuscolo: «Ci hanno detto che lei può aiutarci – disse l’uomo –
cercavamo la fonte afrodisiaca ma nessuno sa dov’è». Il parrucchiere, quasi dimentico della storia,
trattenendo a stento il riso, indicò la strada pregando i due di far loro sapere se avesse funzionato.
Potere della stampa e di lì a pochi giorni un’altra coppia si presentò dando così inizio alla leggenda
e più passava il tempo e più la gente si fermava a riempire bottiglie.
Era diventata ormai una fonte famosa tant’è che ad un certo punto anche «Italia 1» chiese di
poter fare un servizio televisivo ma il sindaco, responsabile in prima persona e timoroso dal fatto
che l’acqua continuava ad essere «batteriologicamente impura», declinò l’invito. Le sue
apprensioni arrivarono fino a progettarne la chiusura, se non ché, una delibera della gestione del
Parco Campo dei Fiori, la includeva nei suoi monumenti naturali da proteggere. Ne seguì un
articolo di «Varese news», giornale on-line, nel quale veniva riportata una divertita intervista al
barbiere del paese. Fin qui era giunta la storia, ed era già molto, se non che ci si mise la scienza
ad indagare. Infatti, un giorno poco prima del Natale 2002, via telefono, la Dott.sa Gorini
giovanissima biologa dell’Università dell’Insubria di Varese, interpellò sempre lo storico
parrucchiere per via di quella misteriosa fonte eccitante nelle vicinanze di Cabiaglio. Stava
collaborando col Prof. Armocida, docente nonché storico stimato, per verificare in laboratorio la
veridicità dell’antica leggenda, accennata anche in un manuale di fine Ottocento. Quanto prima
avrebbero presentato i sorprendenti risultati delle analisi ad un convegno di acque sorgive in
programma a Firenze. E così fecero…
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Il primo a parlarne fu il «Corriere della Sera», il massimo quotidiano del paese che il 12
gennaio 2003 fece sapere all’Italia intera che l’acqua della «… fonte della virilità di Cuvio era ricca
di un mix di minerali compatibili con effetti afrodisiaci fino a una quantità di 12 microgrammi
per litro… quali sali di litio, zinco e selenio, elementi in grado di rallentare l’invecchiamento
dell’organismo e sostenere il desiderio». Tre giorni dopo fu la volta de «Il Giorno» a parlare di
acqua che fa miracoli e di lì a poco arrivò una troupe di «Verissimo», la rivista giornaliera di
«Canale 5» la quale, assieme alla Dott.sa Gorini, intervistò, facendo non poca confusione, la
gente di Cabiaglio. Al Municipio di Cuvio i telefoni divennero roventi perché, contrariamente a
quanto affermato nel servizio televisivo, la sorgente continuava ad essere non potabile…
Telefonarono un po’ tutti; la Asl di Cittiglio che esigeva chiarimenti; giornalisti che chiedevano
interviste ed il Gabibbo che voleva uno scoop probabilmente per divertirsi. Il sindaco confuso,
all’inizio smentì ogni cosa ordinando d’urgenza un’analisi, che confermerà la contaminazione, poi,
nelle successive insistenti interviste, si limitò a ribadire con decisione la non potabilità
dell’acqua… Di lì a poco si fece vedere la Dott.sa Gorini per conoscere gli sviluppi rimanendo
perplessa nell’apprendere l’impurità della fonte. Questa bella ricercatrice varesina, assurta alla
notorietà quasi per gioco, verrà poi contattata, per una serata al «Maurizio Costanzo Show»
assieme al Prof. Armocida. Non ne venne fatto nulla perché, dopo vari tentennamenti, i due
ricercatori non se la sentirono di affrontare il palcoscenico ma ugualmente una collaboratrice
dell’entourage del noto anchorman, contattò il barbiere di Cuvio per conoscere particolari e
curiosità sul paese nonché le reazioni divertite della gente.
Nei mesi successivi si scatenarono i mass media. Arrivarono troupe televisive: «Rai 3 Regione»,
la «Televisione Svizzera Italiana», «Tele Lombardia», «Rete 55» e altre emittenti locali. Quotidiani
settimanali e riviste varie riempirono pagine e pagine su questa vicenda; ne scrissero «La Stampa»,
«Stop», «Grand Hotel», «Visto», «Ticino Oggi», «Varesenews», «Viversani & belli», «Come stai».
Articoli più o meno impegnati apparvero su «Terra e Gente», pubblicazione annuale della
Comunità Montana della Valcuvia, su «Lombardia Nord Ovest», periodico della Camera di
Commercio di Varese. Chi, stranamente, non ne ha mai parlato è stato «La Prealpina».
Per descrivere le qualità della fonte, citata anche come Signorina «per via della singolare
posizione del zampillo d’acqua, sgorgante fra due immaginarie gambe di donna», vennero usati
gli aggettivi più disparati e roboanti: afrodisiaca, miracolosa contro l’impotenza, della virilità,
della fertilità, purificante, curativa, al viagra, terapeutica, elisir d’amore, e fin anche «miscuglio
esplosivo per garantire successi fra le lenzuola». Vennero contattati i più svariati personaggi, da
Jerry Calà a Lando Buzzanca ad Andrea Roncato.
Si cercarono anche giudizi di medici e specialisti i quali, in generale, mettevano in risalto più
l’effetto placebo, ossia la suggestione occulta della credenza popolare che non quello delle proprietà
minerali, sali presenti in quest’acqua in micro quantità tanto da doverne bere delle cisterne prima
di ottenerne un eventuale effetto. Ne parlò anche la rivista «XL - Extra Large», bimestrale
patinato del Varesotto, che fece un bel servizio nel quale si intervistava il «parrucchiere di Cuvio,
appassionato di tradizioni e storia locale» e dove veniva finalmente citato l’ipotetico Avvocato
che diede il nome a questa incredibile sorgente. Si trattava probabilmente di «Giuseppe Napoleone
Maggi, classe 1806, della rinomata casata cuviese, avvocato e pretore di Sarnico e Gallarate
nonché, presidente delle Corti d’Assise di Milano e Pavia dal 1862».
…E così, cominciata con un ciclista credulone, questa storia termina con un ciclista
trionfatore … Beh! Finisce per modo di dire, perché, ogni tanto, qualche cronista curioso si fa
tuttora vivo e ancora nel 2005, «Il Giorno», volendo scrivere della torrida calura di quel giugno,
non trovò di meglio che riparlare di questa sorgente quasi miracolosa.
d
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Il «tesoro romano» a cà del Giordano di Giambattista Aricocchi - N° 16, 2007.
In una di quelle giornate, sul finire della primavera, quando l’aria fresca che scende dalla Valcuvia
sconfitta e rassegnata si placa ed il caldo e l’afa rendono Caravate un paese guareschiano, il
Giordano vide entrare sul suo terreno lo scavatore che finalmente avrebbe dato il via ai lavori.
Il Giordano: un pezzo di marcantonio sulla cinquantina, mani come badili, capelli arruffati,
faccia lunga come del resto il naso ed una voce da Sparafucile forte e cavernosa. Il sogno di una
casa... il sogno pensato e ripensato per anni; martellata dopo martellata, su quell’incudine che ne
aveva visti passare di cancelli, di inferriate, e di qualsivoglia altra richiesta che un fabbro possa
avere.
Il possente motore dello scavatore ruggì cupo e grave ed uno sbuffo di fumo oleoso e nero uscì
dalla marmitta arrugginita e caliginosa; quindi abbassò con decisione la pala ed azzannò il terreno
con i suoi denti di metallo che lasciarono il verde prato lacerato da una profonda ferita bruna.
... Il tintinnio del campanello di una bicicletta gli ricordò che erano già le dieci e come tutte
le mattine a quell’ora, il Masimin: un ometto dagli occhi vispi ed i capelli impomatati che svolgeva
casa dopo casa mansioni di postino e giornalaio come se fossero una missione, si presentò
puntuale per consegnargli la «Prealpina».
Va detto in verità, che il Giordano comprava il giornale sì personalmente, ma per poi
consegnarlo nelle mani della consorte che diligentemente durante la giornata lo leggeva e alla
sera, dopo cena, glielo raccontava a mo’ di radiogiornale.
Quella mattina però, il solito saluto si prolungò nel commentare i lavori in corso:
– «Mo si che te fe su la vila!». Disse il Masimin con fare ironico.
– «Eh... prima cerchi ur tesör!» Rispose con la battuta pronta il Giordano.
Mai frase fu più azzeccata e nello stesso tempo più infelice! Aveva appena finito di pronunciare
tesör che la pala dello scavatore infliggendo al terreno l’ennesimo colpo mise a nudo alcuni
frammenti di terracotta. Cocci di vasi spuntavano ora dalla terra come schegge di un passato che,
stanco di riposare, si risveglia dal suo letargo millenario.
Come Carter e Carnarvon nella Valle dei Re, i due rimasero senza parole, sbalorditi e increduli,
anche se a differenza dei due inglesi, non tanto per l’improvvisa scoperta archeologica, ma per la
coincidenza che c’era stata tra la parola detta ed il fatto accaduto, come dire... «detto-fatto».
Il Masimin ripresosi da quell’attimo di stupore disse: – «Beh... le mei che naghi in su a finii
ur gir prime che te diset chel piöv, incà parché go nanche dre re mantele!».
Giunti a questo punto il lettore deve sapere che, se quello capitato finora è da ritenersi ad ogni
buon conto una casualità, altrettanto quello che dovrà succedere sarà all’insegna d’un fato pronto
a divertirsi ancora un po’.
Fu così che la notizia del «tesoro» del Giordano prese il volo rimbalzando di bocca in bocca
per tutto il paese e... non solo, dato che giungendo all’orecchio del segretario comunale che nel
tempo libero si cimentava come corrispondente locale per la «Prealpina», finì per richiamare
l’attenzione della Soprintendenza dei Beni Culturali o come si disse più semplicemente in seguito
tra la gente: – «ghe rivà anca le Belle Arti!».
Lo scavatore si zittì, ed i lavori furono immediatamente interrotti. Sul luogo iniziò il via vai
di archeologi, architetti, manovalanza addetta allo scavo, sindaco e giunta comunale al completo
oltre naturalmente ai molti curiosi. Era tutto un parlare, guardare, correre, in uno stato di
eccitazione che con il passare delle ore cresceva in modo uguale e contrario a quella del Giordano
che si andava pian piano ma inesorabilmente spegnendo.
Dopo aver picchettata e delimitata l’area in questione, si cominciarono a fare i primi
rilevamenti: prendendo appunti, tracciando schizzi e facendo fotografie dei reperti che apparivano
tra la terra come patate appena dissodate. Le carriole, i secchi e le cazzuole che sarebbero dovuti
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servire per costruire una nuova casa, si usavano ora per cercarne una vecchia che un preistorico
Giordano avrebbe costruito, chissà quanti secoli prima, proprio lì, a ridosso del fiume che placido
e silenzioso da sempre scorreva.
Recuperati i cocci di vaso e riposti in bella vista nelle cassette, si cominciarono a fare i primi
commenti ed a trarre le prime impressioni: «...presumibilmente di origine tardo celtica o... ma
questo ce lo diranno studi più approfonditi, di età augustea o tiberiana si possono considerare un
esempio, sebbene di grossolana fattura, di ceramica Aco». Questo per gli esperti... in disparte
invece, seduto sul muretto che delimitava il ciglio della strada un vecchietto, il Carlin agitando il
bastone per richiamare l’attenzione disse:
– «Ma chi lì in i öll dul Cechin, e sentì mia che se sent ammò l’uduu du l’aset e di cucumer!».
L’öla, per chi non lo sapesse, era un orcio di terracotta che nelle famiglie contadine dei nostri
paesi, non mancava mai. Veniva riempita di vino che attraverso un processo di fermentazione
favorito della «madre» (una membrana gelatinosa) si trasformava in aceto. Fatto l’aceto si poteva
iniziare la produzione di sottaceti: cucumer, scigulett, tumatis verd, peverün che diventavano
talmente forti da doversi «tacà al taür» per mangiarli; roba per palati che troverebbero i nostri
«Saclà» caramelline per il mal di gola!
Ma torniamo alla storia. Il Cechin, nominato dal vecchietto novantenne, era il nonno del
nostro Giordano che più di settant’anni prima dello svolgersi dei fatti qui narrati, fu vittima di
una tremenda disgrazia capitatagli sotto il tetto di casa; un giorno infatti la moglie riuscì a
rompere, in un sol colpo, due öll insieme! La cucina era disinfettata sì, ma al povero Cechin non
rimase che gettare i cocci nel giardino e mangiare sottaceti per una settimana di fila mesdì e
scena!
Tutti si girarono di scatto, come se un fulmine gli fosse caduto alle spalle; il Giordano corse
verso la cassetta con i resti e presone uno se lo mise sotto il naso e fiutando come fosse tabacco
esclamò stupito: –«Le vera, par de sentì incamò l’üdu d’aset!».
Il paese pian piano riprese la vita di sempre, la Storia l’aveva sfiorato per un momento; ora il
Giordano poteva finalmente veder sorgere la sua casa... però, quando la moglie gli diceva
allungandogli il piatto fumante del bollito: – «Te voret insema quater scigulet sot aset», una certa
malinconia gli invadeva sempre il cuore. In fondo trovare un tesoro non è forse quello che
sogniamo un po’ tutti!
d
Il tram per la Caldana di Alberto Palazzi - N° 13, 2006.
«Uheilà, chi l’è chel scioor chi?», si domandò stupita la Pina di fronte ad un marcantonio di
uomo che entrava nel suo Caffè della Stazione.
«Io sono Lucchini, onorevole Lucchini».
«Ah, chel dul tram!» replicò compiaciuta la Pina.
Si chiamava Angelo Lucchini, era di Porto Valtravaglia, già deputato al Parlamento ora era
candidato, sempre alla Camera, per il Collegio elettorale di Luino, Laveno, Gavirate. Agli elettori
di Cocquio, di Trevisago e di Orino aveva promesso un tram che dalla stazione di S. Andrea
sarebbe salito fino ad Orino, passando ovviamente per Caldana.
«Oh scioor, è venuto scià per il tram?», insistette la Pina, «Certo, mia cara signora!».
Era un uomo davvero singolare, questo Lucchini! Grande e grosso, sempre un po’ accigliato
e dallo sguardo torvo, «el pareva un Giudee dure Madòna dul Mund». Era molto furbo e quando
venne a Cocquio a tenere un comizio nelle sale del Dopolavoro della Snia, lasciò il segno: «Care
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operaie, cari operai, quando uscirete dallo stabilimento troverete un tram che vi menerà
comodamente a casa!». La gente di Cocquio ci aveva abbastanza creduto anche se il buon senso
alimentava loro qualche dubbio: «Mel farà a naa su du re Costa?».
«Te vederee che cui diavolerì che inventen incöö…!».
In queste cose il Lucchini era impareggiabile; poi, come deputato, si dice non fosse granchè,
ma quanto a malizia non aveva pari. L’idea del tram era stata proprio una bella trovata. Quando
a Cocquio venne a parlare il suo avversario politico, l’avvocato Beltramini, questi si sentì chiedere
se anche lui aveva intenzione di mettere un tram per andare a Caldana. Questa storia del tram
prendeva, era fuor di dubbio ed era sulla bocca di tutti: «Certo che un tram l’è propri chel che ghe
vöör! El g’ha vù une gran pensada chel ostia d’un Luchina!».
Erano tempi così, la gente era un po’ ingenua e si viveva di sogni e di speranze. Più le sparavano
grosse e più abboccavano. L’idea del tram era venuta anche all’avvocato Pavia, (detto poi Vavia,
per tanto che era simpatico alla gente) candidato invece per il Collegio Valcuvia, Valceresio, Varese.
Lui aveva promesso il tram da Brinzio a Varese e aveva addirittura portato delle rotaie ai lati della
strada. Con quella trovata vinse le elezioni, ma appena salito sul cadreghino fece portare via rotaie
e tram. Questi candidati non sapevano più cosa promettere; furoreggiava anche il genere
gastronomico e, in molti casi, il voto si conquistava sensibilizzando i succhi gastrici degli elettori.
Circolava uno slogan elettorale coniato dagli appetiti alimentari: Se va su ul Luchina pulenta e
furmagina Se va su ul Beltramin pulenta e sancarlin.
Insomma le sorti elettorali erano affidate alle virtù del formaggio, furmagina o sancarlin?
Per altro non sarebbero stati molti a beneficiare del premio elettorale perché i privilegiati aventi
diritti al voto (e al premio) erano tutto sommato pochi; potevano votare solo gli uomini, ma non
tutti. Dovevano avere almeno trent’anni, aver pagato le tasse e anche essere un minimo istruiti.
Praticamente quattro gatti. A quei tempi, poi, pensare di ammettere al voto anche le donne
poteva sembrare una follia. Eppure le più gasate per il tram erano proprio loro, il Lucchini le aveva
letteralmente ammaliate. «Ti te see già salida su un tram?».
«Oh! Mi sì! Chela volta che sum naia a Varees cur me Carlèto, am ciapà ul tram!».
«Ma l’è bel?» «Be-li-ssim!».
Si arrivò così al voto e lo scrutinio delle schede proclamò vincitore il Lucchini. Vinse alla
grande, vinse il tram, insomma, senza voler per altro nulla disconoscere ai meriti della
«furmagina».
Purtroppo, però, e qui la conclusione è prevedibilmente amara, il tram a Caldana non arrivò
mai.
Il Lucchini andò a Roma e non si fece più vedere in giro. «Chel casciaball... – commentava la
gente – s’è vist pù né luu, né ul tram…!».
«Ma s’el vegn a oltra, porco boia, el sistemi mi chel lì!».
Se ne parlò ancora per un po’ di tempo, ma poi, alla fine, si riuscì anche a scherzarci sopra e,
quando capitava di vedere una donna ferma ad aspettare lungo la strada, immancabile nasceva la
battuta: «Te see drè a speciaa ul tram… par re Caldana?».
d
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Cultura popolare (fatti e misfatti raccontati con ironia…)
IV
ncludiamo in questo capitolo articoli diversi tra loro, ma soprattutto seguiamo l’indicazione
proposta dal giornale: Viaggio tra ricordi, bizzarrie ed espressioni dialettali. Il dialetto ha dentro
la storia della nostra gente, ha dentro il profumo del latte appena munto, l’odore del bucato.
I
d
Questa è la pagina curata in primis da Alberto Palazzi che ama rievocare episodi, abitudini,
personaggi, storie, storielle e storiacce d’altri tempi a cui è particolarmente affezionato: vi
partecipano in appoggio anche altri collaboratori di «Menta e Rosmarino» che ne condividono lo
spirito…
La «crianza» di Alberto Palazzi - N° 0, 2001.
Tradurre oggi questa parola mi risulta difficile; si potrebbe proporre un «buona educazione», ma
non convince. La crianza era qualcosa di più di un’abitudine di vita; era quasi un sentimento.
Era dentro alla gente, era nei gesti, era nel sentire, era in tutte le espressioni del quotidiano.
Per crianza, per esempio, nessuno veniva lasciato sull’uscio di casa. «Vegn dent, setes giò, te fo fö
un bicerin de cedro! Ciapa almeno duu mentit…» Ma per crianza bisognava fare anche dei
complimenti. Bisognava rifiutare, poi accettare con imbarazzo, a stringersi nelle spalle; entrambi
a cogliere il piacere di queste piccole cose.
d
«Tegn de cuunt» di Alberto Palazzi - N° 1, 2002.
Era l’imperativo categorico. Che cosa bisognava tegn de cuunt? Tutto. I danee prima di ogni altra
cosa, perché non si poteva mai sapere, «parchè bisogna vegh via un quai franch, parchè se vegn
adrè la Calastrìa (carestia)…!!» I fantasmi della fame, della miseria e della carestia, che i nostri
nonnetti assimilavano nel nome al mondo terrifico delle streghe “calastrìa”, agitavano
continuamente i loro pensieri e i loro sonni. Ma bisognava tegn de cuunt in tutte le quotidiane
faccende. A tavola, per esempio. Quello era il luogo destinato alla distruzione del cibo e quindi
il luogo che più di ogni altro faceva contrasto con la volontà di conservare. Davanti ad un piatto
di polenta oppure ad una fetta di formaggio ci si sentiva dire «Mangiala mia tuta! Tegnen de
cuunt un tòc par duman!», ma era quella una richiesta proibitiva perché le viscere dei nostri
nonnetti non potevano permettersi di dilazionare troppo certe opportunità. Allora, di fronte a
questo incauto comportamento, il nonno non poteva tacere e tristemente commentava: «g’ho un
bell pari a tegn de cuunt se pöo chel lì…».
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Da par suo il nonno ce la metteva tutta per tegn de cuunt e lo faceva non solo a tavola, ma in
tutti gli ambiti domestici; sotto le scarpe, per conservare più a lungo le suole, per tegnei de cuunt
metteva dei ferretti. Conservava le corna delle mucche perché «podeven nii bun par faa fö un
cudee». Conservava le latte di conserva perché potevano servire per metterle in testa ai «passun
de cinta» in modo tale che non marcissero. Non buttava, tegneva de cuunt, anche le briciole della
tovaglia che era obbligatorio «scurlaa sore le sedèla dure curobia di besti». La mucca avrebbe
provveduto a berla e nulla sarebbe andato perso….. Si tegneva de cuunt i vestiti che passavano di
padre in figlio, le calze, cui si rifaceva lo scalferot, gli ombrelli ai quali «se cambiava re bacheta»,
i pel de cunili, ur gras de rost, etc..etc...
Proprio l’esatto contrario di quello che accade oggi. Rubo le parole a Gregorio Cerini, scrittore,
poeta ed arguto osservatore del tempo trascorso: «incöo butum via de tut, ghe tram a butaa via,
e tant butum via che sam puu in doa met chel che cres!».
d
La tajadèla di Alberto Palazzi - N° 4, 2003.
Per il Giovanni, da quando è in pensione, le giornate sono lunghe da passare. Se sta in casa è un
continuo pizigas con la Lisetta. Cerca anche di darsi da fare, tiene su due galline, un po’ di conigli,
mette giù qualche fila di patate. Ma non basta: alle nove di mattina non ha già più niente da fare.
E allora tira su e va fino al Circolo. Sta lì quasi tutto il giorno; appena può cerca di imbastire
una partita a carte, insomma, qualcosa tanto per riempire la giornata. Poi magari, se trova la
compagnia giusta, va a finire che torna a casa in briscola e la Lisetta brontola. Quella sera non
era nemmeno andato a casa a mangiare, la Lisetta aveva fatto la pastina, che a luu ghe piaas fagh
dent ur pan, ma aveva dovuto darla alle galline. Fa ritorno a casa verso le undici di sera. La Lisetta
è già a letto, tuttavia sente il suo passo greve girare per la casa e gli urla:
«Trà fö chi scarp che te me menet in gir tèra de tut i cantun!».
«Le cumiiincia!», replica nervosamente il Giovanni.
Si siede e toglie le scarpe. Anche perché sono scarponcini nuovi che ha appena comperato dal
Fortunin e incominciano a fargli male. Dalla stanza accanto si sente ancora la Lisetta che grida
alcune cose; lui però manco le presta attenzione e le rifà il verso meccanicamente: sciavatt sot a
r’utumana, sì, calzett che spuza, sì... . Le solite cose.
«Eh tass, ne bona volta!», urla alla fine il Giovanni.
Poi, dopo un po’, non si sente più nulla. Forse la Lisetta si è addormentata.
«Oh, che silenzio!».
Allora siede al tavolo e accende una sigaretta. Poi, fra sé e sé: «Me rebùia i busech…». Del resto
quella sera, per l’appunto, non aveva nemmeno cenato.
«Quasi, quasi fò une tajadèla!». Una tagliata di maiale è quello che ci vuole. Non si sente un
rumore, non c’è in giro anima viva. Per sentirsi ancora più sicuro va alla porta e da due giri di
chiave di volt che la se diseda! E’ una regola: come quando si prega, così anche quando si fa una
tajadèla non bisogna essere disturbati.
Apre il frigo, tira fuori quattro bei salamit, un pezzo di pansceta e poi prende da una cassa il
sacchetto del pane. La cosa incomincia a sorridergli. Porta tutto sul tavolo, prende da sotto il
lavandino il bottiglione del vino, si mette comodo e, con molta calma, comincia ad affettare.
«La prima feta al gat!», esclama. Il gatto che conosce le abitudini del suo padrone è lì sul
tavolo e già pregusta quella delizia serale. Si deve purtroppo alzare perché si accorge che mancano
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i sottaceti e la tajadèla non sarebbe tale senza la loro fondamentale presenza. Dove avrà messo
adesso i sottaceti che non sono al solit post!
«Ah, ghi evi chi davanti ai öcc e i vedevi nanca!». Li prende, li mette sul tavolo, gli infila
dentro la forchetta e li mangia direttamente dal vasetto. Li mangia tutti, senza ovviamente
lasciarsi mancare salame e pancetta. Ormai la soddisfazione gli si dipinge in volto ad ogni
movimento.
Strappa con i denti il tappo del bottiglione e gli da una bèla canada, anche se di bere vino non
ha neanche più tanta voglia perché oggi ne ha già bevuto abbastanza. E’ riuscito a trovare anche
gli stuzzicadenti che la Lisetta di solito nasconde («parchè in boca a ti me fan ischivi!») e ora la
soddisfazione è al grado massimo. Mette i piedi sul tavolo e accende una sigaretta.
«L’eva un poo che fasevi mia une bèla tajadèla», esclama soddisfatto.
d
Baffone contro il Tugnino (18 aprile 1948) di Alberto Palazzi - N° 8, 2004.
«Sacranone, mi fate entrare si o no?».
«E spèta un momento, non sono ancora suonate le sette, il seggio non è ancora aperto!». Il
Lenìn (lo chiamavano così) non ne poteva più di entrare a votare, di metterci la croce sul Garibaldi,
quel simbolo che aveva attaccato su tutti i muri di Cocquio e che rappresentava il Fronte
Democratico Popolare. Voleva essere il primo e prima di lui non doveva entrare nessuno, in
particolar modo non doveva entrare Suor Gentile, che la croce la metteva sulla Democrazia
Cristiana e che l’altra volta, non so com’è stata, lui è entrato a votare e quell’ostia lì era già
dentro. Mai un’elezione come quella del 18 aprile 1948 fu così sentita.
Di notte c’erano i giro quelli dell’Azione Cattolica che attaccavano manifesti per la D.C. e
cinque minuti dopo squadre di comunisti gli attaccavano sopra la faccia di Garibaldi, simbolo del
Fronte Popolare. Quelli del Fronte erano sicuri di vincere perché alle ultime lezioni, a Cocquio
Trevisago, avevano dato alla Democrazia Cristiana una batosta memorabile. Ogni tanto
rievocavano ancora i festeggiamenti di quel giorno, festeggiamenti che si protrassero fino a notte
fonda e che si conclusero con la marcia funebre sotto le finestre del curato di Cocquio. Questa
storia, però, al Don Italo non era andata giù e si era ripromesso di fargliela pagare ghela do mi a
chi li la marcia funebre!; da subito, tanto per cominciare, se qualche comunista andava a
confessarsi, gli negava l’assoluzione. Sui confessionali aveva affisso dei cartelli con scritto:«Per
disposizione ecclesiastica coloro che aderiscono temerariamente a partiti professanti dottrine e
massime condannate dalla Chiesa, non possono essere ammessi ai SS. Sacramenti» (dal Cronicon
Parrocchiale).
Ora era arrivato per lui il giorno della rivincita e per le elezioni del 18 aprile volle adoperarsi
di persona: per ogni via del paese nominò i «persuasori parrocchiali», un comitato quasi tutto di
donne a cui si unirono, dandogli una bella mano, anche le Suore.
Ai comunisti, questa storia che le Suore facevano politica, si vede che gli fece proprio girare
il sacramento, perché alla Sacra Famiglia, sotto la finestra, appunto, delle Suore, scrissero con
il carbone: Baffone farà la barba anche a Voi! Per queste elezioni c’era in giro una gran aria di paura,
alimentata dai ricordi della guerra recente e da vent’anni di propaganda fascista contro la sinistra.
E’ pur vero che si incominciava a stare meglio: a parte l’inflazione che aveva dilapidato i pochi
risparmi, a Cocquio la baracca incominciava a raddrizzarsi: di qua o di là qualche lavoro saltava
fuori, in tutte le case era arrivata l’acqua, la luce e anche un gabinetto a testa per famiglia, sulla
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lobbia, finalmente lì, bello comodo. Si discuteva di elezioni ad ogni angolo, fuori di Chiesa, al
lavatoio, in piazza, soprattutto nelle osterie.
«Se vanno su i comunisti si spartisce tutto. Niente più padroni, tutti uguali, porco boia».
«Se vanno su i comunisti, te lo dico io, non ce n’è più per nessuno, cucù, dervisci gli occhi!».
«A me non mi piacciono né questi qui, né quelli là».
«E allora per chi voti? Per il liquigas?», intendendo la fiamma missina.
«Sì, vengo scià a dirlo a te per chi voto!».
Ma se il Lenìn ne sentiva una mezza, arrivava lì come un colpo di schioppo:
«Si deve votare per il Garibaldi, per il Partito co-mu-ni-sta italiano, e non fatemi girare il
Cristo!».
E poi si allontanava imprecando contro il liquigas, contro le Suore, contro i preti e contro tutte
le Madonne e i Santi del cielo.
Alle Amministrative Cocquio era stato (con Malnate) il comune più rosso della Provincia.
Non era un caso che i parroci si adoperassero in quel modo, perché a Cocquio la situazione era
proprio particolare. Addirittura il Cardinale in persona aveva mandato dei suggerimenti strategici
dicendo di darsi da fare che «saranno danari meglio spesi, che non con tutte le statuine di gesso,
stendardi, etc.» (dal Cronicon Parrocchiale).
Il Lenìn, invece, la sua propaganda la faceva al Circolo. Pagando anche da bere, se era il caso,
(«Bianco o rosso?» «Rosso, perdio!») stando attento però di non pagarne un bicchiere magari in
sbaglio a qualche sporco democristiano. Al Circolo erano quasi tutti rossi, ma qualche
democristiano c’era e allora, a quelli, sotto a menargliela:
«Vaca boia, questa volta il Baffone glielo da lui il panel al tuo Tugnino!» (il De Gasperi, Tugnino
perchè era di origine trentina).
«Questa volta, te e il tuo Baffone, prendete una stracciata che per un po’ vi passerà anche la
voglia di ganassare!».
«Ma cosa vuoi mai capire di politica! Questa volta va su il Fronte popolare. Hai capito? Fronte
popolare.! E il Togliatti andrà là dal tuo Tugnino e gli dirà: sloggia Tugnino, molla la cadrega, che
qui mi siedo io!». Andavano avanti delle mezzore. E dall’altra parte il Don Italo restava forse
indietro? Proprio no! Meno populistico, ma molto più efficace. Sempre sul Cronicon si legge che:
«Il giorno delle elezioni… alla 1a e 2a S. Messa, il Parroco rivolgeva ai fedeli il monito seguente:
andate a votare tutti: è grave obbligo e votate bene, è grave peccato votare per partiti le cui dottrine
furono condannate dalla Chiesa. Non votate per il Fronte = Comunismo; il quale cadrà Dio lo
vuole. Votate per l’indipendenza della nostra Patria».
Ci si diede da fare fino all’ultimo: «Gli ammalati e infermi furono portati a votare dalla
macchina del Sig. Maretti organizzata dalla Democrazia Cristiana» (dal Cronicon Parrocchiale).
Si racconta invece che un comunista portò a votare con tanto di certificato medico uno zio
così interdetto, ma così interdetto che se la fece addosso, con tanto di sonoro, proprio mentre
ritirava la scheda e che entrò in cabina con tutti i buoni propositi e… non solo.
I risultati? Eccoli. Per il Senato: Democrazia Cristiana 734, Fronte Popolare 641, Unione
Socialista 146. Per la Camera: Democrazia Cristiana 756, Fronte Popolare 657, Unione
Socialista 182.
Una batosta per il Fronte, ma soprattutto una rivincita per i Democristiani di Cocquio.
Don Italo prese carta e penna e scrisse sul Cronicon «Erano tutti tristi e silenziosi. La rabbia,
a stento trattenuta, era manifestata sui loro visi… In tutta Italia trionfo della Democrazia
Cristiana. Ha trionfato il buon senso!». La marcia funebre era vendicata.
d
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Il manico di Alberto Palazzi - N° 16, 2007.
«Alla Serafina so ben io cosa ci manca!» gridò forte il Logia, seduto dall’altra parte della lobia.
«Ci manca un manico, ecco cosa ci manca! E quando parla il Logia non voltatevi di là,
ascoltate bene cosa dice il Logia, ci manca un manico a questa tosa!».
«Tass, balord… tass…»
La Serafina era la ragazza più bella del paese. Era il più bel fiore del giardino e nessuno l’aveva
ancora còlto. Come tutti i fiori raffinati era però delicata e fragile tanto da vivere la giovinezza
con un gran cruccio esistenziale cui nessuno riusciva a porre rimedio. Aveva anche una salute
cagionevole e uno stato permanente di esaurimento fisico. Il Don Russin, parroco del paese,
veniva da lei quasi ogni giorno per confortarla. Una volta alla settimana passava dentro il dott.
Beolchi; ogni giorno, poi, la Suora Superiora si fermava a recitare con lei il rosario.
«Quando una cià dentro il sangue che gli bolle, cià di bisogno un manico, altro che socche nere,
altro che malve e camemèle...».
«Tass, balord…».
«Un uomo, ma che ciabbia sotto… un bel manico!».
La Paulina, la mamma della Serafina, ogni giorno andava in Chiesa a trovare la Madonna e
poi fioretti e poi preghiere; nella sua testa c’era quel solo pensiero. E poi minestrine, pancotti,
uova di gallina e pillole di cantina. Non lasciava alcunché d’intentato. Ma non c’era verso: la
Serafina non dava cenni di ripresa. Un’amica della sorella del Pedrin era andata a Lourdes e aveva
portato a casa un fiasco di acqua benedetta. Gliel’avevano fatta bere tutta, ma anche quella aveva
fatto rosina.
Il Logia, che viveva accanto e aveva la stanza in fondo alla lobia, sentiva tutto. E aveva le sue
idee. Trascorreva le giornate a sgranare il granoturco, girando e rigirando la cicca nella sua bocca
giallastra, e ogni tanto voleva dire la sua… «Tass, balord… tass…».
«Ma se ho nanca fiadà! Comunque se vurii savee de cosa la ga de bisogn la tosa...».
«No, vöri mia savel…».
La Serafina aveva avuto un piccolo amore giovanile ma la mamma aveva creduto opportuno
interromperglielo dicendo che il pretendente era un balandrano e che la figlia poteva pretendere
molto di più. Per tacitare la coscienza diceva a se stessa che era anche uno strepenato di uno che
non avrebbe potuto portare in dote quello che sua figlia avrebbe dovuto pretendere. Ma ora,
vedendola in quello stato, era presa dai rimorsi e tentava di attribuire la causa a tutto ciò.
Ormai la Serafina non aveva più neppure voglia di tenersi su, non cambiava neppure il
sottanino per andare a Messa; metteva sul capo un velo nero e via andare.
«E’ una ragazza virtuosa», diceva il Don Russin, «cagionevole di salute, ma virtuosa»,
trascurando ogni altro aspetto della questione.
Don Russin, quanto alle faccende d’amore, era un autentico gendarma: era soprattutto lui a
disciplinare l’incontro fra i sessi e lo faceva con totale rigore. Sapere che la Serafina non aveva
neppure più quei desideri che lui definiva «impuri» lo riempiva di orgoglio, una piccola rivincita
rispetto alle quotidiane delusioni che gli riservavano le altre ragazze del paese. Ma la Serafina
intanto stava proprio male. Fu così che, in occasione del Giovedì Santo, venne a Caldana un Frate
confessore noto anche da noi per le sue conoscenze in fatto di medicina. La Paulina pensò subito
di sottoporgli il caso.
Il Frate accondiscese, arrivò e salì in casa, distratto solo dal Logia che come vide la socca da
prete mise sù il suo solito disco: «So ben io di cosa cià bisogno la tosa… altro che…».
Il Frate neppure gli fece caso e, presentatosi, chiese di rimanere solo con la Serafina, la visitò
con molta discrezione e si soffermò a parlare a lungo con lei. Quando la Paulina incominciava
già a preoccuparsi, questi si presentò sull’uscio e con aria soddisfatta esclamò: «Tutto bene!»
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«Oh, grazie!» replicò la Paulina tirando un sospiro, «Accettate un’offerta?».
«Assolutamente no», rispose il Frate. «Posso almeno offrirvi qualcosa da bere?».
«Allora mi dia un bicchierino di grappa, ma di quella buona, mi raccomando!» La Paulina si
appressò alla credenza per cercare la bottiglia quando sentì il frate avvicinarsi e posarle una mano
sulla spalla; si girò e questi le sussurrò piano piano in un orecchio:
«La vostra figliola ha bisogno di una sola cosa. Ha bisogno di un uomo!».
Quella frase la fece rimanere come gelata. Ma come? Un uomo di Chiesa che dice queste
cose?
Se ci fosse in giro a sentire il Don Russin potrebbe venirgli uno sciopone. Un uomo, senza che
neppure fosse sposata! Quando il frate uscì la Paulina non ebbe esitazione a pensare che quel
Frate fosse un impostore. Anzi. Più rifletteva, più si rendeva conto di interpretare con chiarezza
l’accaduto: «Chell lì, l’eva ur diaul tentadoor! Cume ho fai a mia capill subit! Ghe calava dimà
ur diaul».
Cambiò le scarpe e tirò su di corsa per andare in Chiesa a raccontare tutto al suo Don Russin.
«Oh Signor, oh Signor!» Il Don Russin sì che era una persona seria! Con poche parole avrebbe
saputo restituirle le vecchie certezze. All’improvviso però le sovvenne un fatto e tornò
affannosamente indietro. Affacciandosi alla porta e soprattutto cercando di non farsi sentire
raccomandò ai familiari: «Adess, che la ghe vaga poo mia in du l’uregia al Logia!».
d
«Berlusca» si nasce di Giambattista Aricocchi - N° 18, 2007.
Parte prima: LE GIOIE.
A ridosso della chiesetta titolata a quel gran Pa dela Gesa che si confessò da solo, in una ca de
sass, viveva un ragazzo conosciuto in paese come il Giuan Pastur. Senz’arte né parte, come tanti
se ne son visti e se ne vedono, passava le giornate guardando pascolare il modesto e niveo gregge
del padre; dì dopu dì, ora dopo ora, come puntualmente scandivano i dan dan della campana di
quel mez campanin lì accanto. L’unica cosa che non gli mancava era il tempo; il tempo per
fantasticare, sdraiato sul prato, con un filo d’erba in bocca, per sognare una vita diversa, fatta:
de danee, de ‘tumobil e perché no de bei donn! Tornate però a volar basse tali fantasticherie e
riaperti gli occhi sulla triste realtà rivedeva le conosciute pecore pigramente brucare qua e là
cercando tra i ciuffi più teneri e freschi. Una sera, come sua abitudine, entrò nell’osteria della
piazza; i consueti saluti, le solite facce, gli stessi bicchieri che si riempivano e presto si vuotavano
e sul tavolino presso l’entrata il giornale del giorno.
Ordinato uno Strega, di malavoglia, si mise a sfogliare il quotidiano, cogliendo con
superficialità e poco interesse parole e immagini, qua e là a caso, tra le pagine, finché la sua
attenzione cadde su un piccolo trafiletto bordato che, destino volle, gli cambiò improvvisamente
la vita.
Tale scritto così recitava: La prestigiosa Casa Editrice “Fratelli Fabbri Editori” cerca giovane
rappresentante per Varese e provincia. A chiunque fosse interessato rivolgersi... ecc. ecc.
Folgorato ed eccitato, come San Paolo sulla via di Damasco, prese di volata la porta e, sulle
ali dell’entusiasmo, corse verso casa per informare il padre della decisione presa.
Il vecchio, messo a conoscenza di tale «folgorazione», con realismo, pensando forse alla fine
fatta da San Paolo, commentò la notizia dicendo: –«Ur maiùn de lane ghe r’han tuch, ma i liber
te podet vendi madimà ar pret!» poi, senza aspettar replica, voltò i tacchi e scuotendo la testa
mosse per andar a dormire.
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Come l’uccellino scopre di saper volare appena spinto dalla madre fuori dal nido, così il Giuan,
a sua insaputa finora, scoprì in pochi mesi d’essere un venditore nato; una di quelle persone
insomma che, senza fatica, saprebbero vender farina al mugnaio o meglio ancora musica al sordo!
Va detto che in quei prolifici anni ‘50, la suddetta Casa Editrice, specializzata prevalentemente
in libri di testo scolastici, era in costante crescita come del resto tutta l’economia italiana di quel
periodo. Anche gli affari del Giuan andavano di bene in meglio, premio del suo forsennato
scorrazzare a destra e manca sulle strade della provincia... da una scuola all’altra, da una maestra
ad una maestria piazzando: sussidiari, antologie e vocabolari, alla velocità con cui un muratore
esperto posa mattone su mattone per innalzare un gran palazzo.
In pochi anni, allargando la propria zona alle province di Como e Milano, divenne uno dei
migliori rappresentanti sulla piazza. Purtroppo ogni moneta, anche se d’oro, ha un dritto e un
verso; e se il dritto stava nel suo crescente fatturato... goduria per la ditta, il verso... dolori per la
ditta arrivava a fine mese, nel corrispondergli le provvigioni pattuite che, visti i numeri in continua
crescita, divenivano sempre più onerose e indigeste da sborsare.
Passò ancora del tempo e la Casa Editrice dal mugugno, sussurrato a denti stretti, passò ai fatti
e, convocatolo in direzione, lo mise a conoscenza della decisione presa, cioè di ridurgli la
percentuale sino a quel momento riconosciutagli.
Il Giuan, forte del fatto suo e della buona semina fatta sul terreno assegnatogli, rifiutò
categoricamente, anzi a replica, presentò sui due piedi le proprie dimissioni, sicuro delle ottime
credenziali da esibire alla concorrenza. Bastarono sei mesi alla «prestigiosa» Casa Editrice Fratelli
Fabbri Editori per capire l’errore fatto; ne dava triste conferma il grafico delle vendite, in bella
mostra nella sala direzionale, con quella linea rossa che scendeva scendeva senza speranza di
fermarsi; tanto che, ad ogni sguardo dei titolari, pareva strillare e piangere come neonato a cui
vien tolta la poppa!
Ma la «zappata» ormai se l’eran data e per cercare di porre rimedio al danno fatto e correre ai
ripari, scalate le marce alte ed ingranata prontamente la retromarcia, sommergendolo di mea
culpa, di fraintesi e di convenevoli parole d’elogio di gran fretta lo convocarono nuovamente.
Il Giuan capì di averli in pugno e rilanciò chiedendo una provvigione doppia rispetto alla
vecchia; motivo di tale richiesta era appunto l’offerta dalla concorrenza che, sull’istante, era pronta
a dargli quanto ora veniva loro a chiedere e aggiunse, con tono velatamente malizioso: –«se invece
a lor signori sta bene quel che a me par giusto, per il bene di tutti, non avrò dubbi sulla scelta da
fare; memore della riconoscenza e del rispetto che nutro per chi m’ha fatto muovere i primi passi
e, con tanto zelo, nuovamente mi riapre le proprie braccia».
I titolari sgranarono gli occhi increduli e... sicuri di aver ben capito tali parole eran già pronti
«a dà föo de matt» ma, visto quel maledetto grafico pendergli sulla testa come la spada di Dàmocle,
a malincuore, per non dir peggio, accettarono; bevendo quel calice amaro proprio come il malato
ingoia il pestifero farmaco pur di guarire!
Per dirla in breve, il Giuan, era arrivato, passo dopo passo, a gestire tre depositi, uno per
provincia, con un trend (come diciamo oggi, cercando almeno con l’inglese d’alzare il morale
della nostra economia!) in continua e sostanziale crescita.
Anche la sua condizione sociale era cambiata e l’essere diventato «qualcuno che conta» lo si
capiva da come il direttore e persino gli impiegati della banca, ove puntualmente si recava, lo
accoglievano mentre varcava la soglia dell’istituto; proprio come l’ape carica di polline vien
circondata con festosa gioia dalle altre api al suo ritorno all’alveare.
Parte seconda: I DOLORI.
«Donn e macchin», come si diceva in paese, «ur Sciür Giuan», perché così era ormai conosciuto,
ne cambiava una al mese; e come lui, in quel periodo, tutto il vivere e la società cambiava in
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modo sostanziale e repentino. Del Giuan Pastur, di quel mondo e di quel pensare villano non
restava più nulla o quasi... tutta la saggezza contadina accartocciata come fogli vecchi veniva
cestinata perché ritenuta inadatta ed inadattabile al nuovo che inesorabilmente avanzava: col suo
benessere, la sua voglia di fare, di rischiare, di stupire e stupirsi, di «arrivare»; l’esatto contrario
di quel mondo piccolo e semplice appena lasciato dove tutto invece ruotava intorno al certo al
necessario.
Almeno due detti però, di quella vecchia e decrepita saggezza popolare, «ur Sciür Giuan», se
li sarebbe dovuti ricordare, che tante sventure e guai gli avrebbero evitato: «Ghenave fa ’r pass
segund re gambe» e «Ogni ufelée, fa ’r so mestée»!
Invece lui, non contento di quell’invidiabile posizione raggiunta, decise di passare dal ruolo di
venditore a quello di imprenditore fondando una propria casa editrice la «GMC Editore» che, a
suo dire, avrebbe fatto una spietata concorrenza alla «Fratelli Fabbri».
Rapito da tale spirito imprenditoriale s’indebitò fin sopra i capelli con banche e fornitori che,
ammaliati dai suoi smisurati progetti e dalle sue parole incantatrici (del resto da buon venditore
ne era maestro!), gli diedero piena e totale fiducia.
Come prima cosa ritirò un vecchio stabile che nel giro di sei mesi rimise a nuovo e riempì di
macchine da stampa, tagliacarte, piegatrici, confezionatrici e tutto ciò che in una tipografia può
occorrere. A questo punto mi si consenta... come direbbe oggi il «popolare Cavaliere» una piccola
digressione che meglio potrà far comprendere l’entità ed i numeri dell’operazione che il Giuan
riuscì a mettere in piedi.
Era un giorno del 1958 quando mio padre, presa la decisione di mettersi in proprio e più
precisamente di avviare una tipografia, si recò in Milano alla «Capitini spa», importatore per
l’Italia di macchine da stampa Heidelberg (prestigiosa e storica ditta tedesca del settore) per
l’acquisto di un macchinario.
L’incontro che ebbe con il signor Capitini, titolare dell’omonima azienda, fu dei più cordiali;
come spesso succede al venditore di fronte al possibile acquirente; ma appena sentì pronunciare
«Caravate» al Capitini si drizzarono i capelli e per poco non scivolò dalla sedia, tanto quel nome
ancora lo terrorizzava. In un baleno invece di mio padre gli si materializzò davanti il Giuan che,
alcuni anni prima, con il suo «progetto editoriale», gli creò un «buco», al valore odierno di circa
cinque milioni di euro, di cui ancora si leccava le ferite!
Torniamo però al nostro Giuan lasciato per l’appunto novello editore. Ogni mattina si
presentava in azienda come un magnate dell’industria: sbarbato, profumato e vestito alla moda;
poi, come solito, parcheggiava la sua lucida e fiammante Fiat Abarth Coupé da cui scendeva, per
la gioia delle mascoline maestranze, la sua «segretaria personale»... una bionda platino che toglieva
il respiro!
Ma i problemi... e grossi, non tardarono ad arrivare, visto che al Giuan, tolte le straordinarie
capacità commerciali, mancavano completamente le cognizioni tecniche e soprattutto
organizzative, qualità indispensabili per chi, come si diceva allora «vüreve faa ‘l padrùn».
Si affidò a personale poco qualificato, a collaboratori altrettanto inconcludenti e superficiali;
tanto che i ritardi sulle consegne e le contestazioni sui lavori fatti lo portarono in breve tempo ad
esser inseguito dai creditori come volpe dalla muta!
Vista la disastrosa situazione in cui navigava, come ultima spiaggia, cadde nelle grinfie di un
«galantuomo» che gli propose la stampa clandestina di riviste, per il vero non proprio di carattere
didattico-educativo: far conoscere quello sconosciuto e libertino «mondo nordico» che negli anni
sessanta divenne un vero sogno e miraggio per molti maschi italiani!
Dopo quest’ultimo disperato tentativo di rimanere a galla, la «GMC Editore» affondò con
tutto l’equipaggio, capitano compreso; trascinandosi dietro una serie d’altre piccole e medie
imbarcazioni legate, l’una all’altra alla più grande e tutte assieme, da quella triste e dolente sorte...
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D’allora, del Giuan, non si ebbe più notizia. In paese si raccontò di tutto: ch’era espatriato,
che viveva sotto «i ponti» addirittura ch’era finito in gattabuia.
Una decina d’anni dopo però, in una bella giornata d’estate, a Rapallo, qualcuno lo rivide
mentre si divertiva a scorrazzare sul mare scintillante a bordo d’un bianco motoscafo «Italia»; in
coperta, sdraiata al sole del levante, una «bionda platino», in costume, guardava languidamente
il suo «bel capitano»! Gli affari sono o non sono affari?
E quindi: se van bene meglio e se van male pazienza. Tanto son sempre i molti a pagare gli
errori, le furberie ed i raggiri dei pochi che, il più delle volte, con l’aiuto di amicizie influenti e di
una giustizia lunga e farraginosa, possono permettersi di voltar pagina e continuare come se nulla
fosse successo. Tutti quelli invece «mazziati» prima e «cornuti» poi si rassegnino, l’esperienza
tristemente insegna: più i debiti son tanti e più il fatto che si onorino o no diventa un’irrilevante
formalità creduta ahimé... solo dagli onesti! E allora, avanti tutta «Italia»... s’intende il motoscafo!
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Il vino non tagliato è roba da incivili di Amerigo Giorgetti - N° 18, 2007.
Racconta Erodoto (Storie, V, 84) che Cleomene, re di Sparta, morì miseramente dopo essere
impazzito, e contesta puntigliosamente la versione dei fatti che ne davano gli Argivi, per i quali
il re sarebbe stato perseguitato da qualche divinità da lui offesa. Uno storico par suo poteva ben
riferire le credenze popolari, ma al tempo stesso contrapporvi le ragioni del pensiero critico: gli
Spartiati stessi, del resto, cioè gli aristocratici guerrieri suoi compatrioti, preferivano credere che
«Cleomene non impazzì per opera di nessuna divinità, ma che per essere vissuto in familiarità con
gli Sciti egli era divenuto un bevitore di vino puro, e per questo divenne pazzo».
Gli Sciti vengono subito dopo qualificati come dei nomadi, un po’ come per noi gli zingari.
Solo un popolo siffatto poteva consentire il barbaro costume di bere vino puro.
Erodoto inventa addirittura un neologismo per indicare simili bevitori, un aggettivo composto
di grande efficacia e brevità: akretopòtes (uno che beve vino non tagliato).
Aggiunge anche la circostanza della frequentazione di Cleomene con i lontani e selvatici Sciti:
Dario, il re dei Persiani, aveva invaso il loro territorio ed essi avevano chiesto aiuto agli Spartani
per vendicarsi. Si erano così accordati per una manovra a tenaglia per invadere la Media. Il fatto
è che Cleomene dopo l’operazione divenne praticamente di casa dagli Sciti e li frequentava «più
del conveniente»; ed è per questo che apprese da loro a bere vino puro.
Dobbiamo a questo punto precisare che sia i Greci che i Romani producevano un vino molto
denso e di altissima gradazione per cui era quasi impossibile berne anche una ridotta quantità non
tagliato, senza catastrofiche conseguenze. C’era addirittura nei banchetti un maestro di tavola il
cui compito principale era quello di indovinare i giusti tagli del vino durante le varie fasi del
convito. Era molto più di un sommellier, era soprattutto un esperto di psicologia sociale, poichè
da lui dipendeva il felice svolgersi di una mangiata in cui la compagnia poteva finire in depressione
o ci poteva scappare anche il morto.
Molti si ricorderanno poi lo stratagemma adottato da Odisseo per sfuggire al terribile Ciclope,
antropofago abitatore delle caverne. Lui non sapeva che esistesse il vino, e nemmeno Zeus,
protettore degli ospiti. Ma Odisseo aveva portato con sè un otre di vino. L’inganno della civiltà
fu quello di offrirgli vino puro, che il bestione trangugiò, come se si trattasse del latte del suo
gregge. Finì male anche per lui. Le persone civili non bevono mai vino puro.
C’è ancor oggi chi aggiunge acqua al vino, ma agli occhi dei più è come se commettesse un
sacrilegio, guastando sia il vino che l’acqua. In effetti il vino che oggi si beve in dosi modeste arriva
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a 12/13 gradi al massimo; ma il nostro ricordo va ai bevitori di una volta che riuscivano in men
che non si dica a scolarne tre o quattro litri suddivisi in corrispondenti quarti, o tazze, senza
soluzione di continuità. Costoro sarebbero morti assai prima del previsto, se il vino che bevevano
fosse stato puro. Nelle osterie c’era infatti l’abitudine di vendere rossi pugliesi tagliati. Non erano
male, ma gli intenditori preferivano lasciarli ai bevitori incalliti e generici. L’alternativa era tra il
vino di botte (o di vasèl, come si diceva) e quello imbottigliato che richiedeva una certa raffinatezza
nel gusto. Questi intenditori forse ignoravano che l’abitudine di bere vino tagliato fu tipica di
popoli illustri assai simili ai bevitori che essi disprezzavano.
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«Lassù, gli ultimi» di Alberto Palazzi - N° 15, 2006.
«Giù quelle mutande!», urlava il Colonnello Medico.
«Signor Colonnello le mutande le tiro anche giù, ma calma, gli ho detto, cos’è tutta questa
pressa, un po’ a piano un po’ adagio, con queste cose bisogna stare attenti!».
Il suo vero nome era Ambrogio De Maddalena, ma noi lo chiamavamo Broeus, Broeus dul
Scèr, per essere precisi. Per me bambino, il Broeus era un idolo. Il racconto della sua visita di leva
mi avvinceva; per sentirmelo ripetere andavo a cercarlo in una casa accanto alla mia dove lui
solitamente lavorava come manovale edile. Spesso era impegnato a piegare i ferri che servivano
per armare il cemento e allora durante questa attività, che svolgeva stando appresso ad un bancone
di legno, aveva la possibilità di raccontarmi tutte le sue avventure. Lui sapeva cosa mi piaceva
sentire e allora taccava con la storia della visita di leva.
«L’eva ul ‘49, e ti te sevet immò de nass», e mi introduceva agli argomenti che volevo ascoltare.
Raccontava poi che, con il carbone, avevano scritto sui muri: «Tusanne attente, che il ’31 non
perdona!». Sforzandosi faticosamente di esprimersi in italiano, taccava di nuovo con la storia di
quel giorno alla visita a Como e «Giù quelle mutande!», e «… allora il Colonnello mi ha sbirciato
tutto, poi ha preso in mano il tafanario, gli ha dato due belle palpatine e poi rivolto a uno che
l’eva lì tut gobb a scriiv gli ha dettato: abile arruolato!».
A quel punto del racconto al Broeus incominciavano anche a brillare gli occhietti:«Via de lì...
dent de là!». In quegli anni, infatti, era diventata ormai una consuetudine far seguire alla visita
di leva una visita al bordello. Per molti giovani era l’occasione della loro «iniziazione». «Chel dì
lì, l’eva tut un tiraa sù e tiraa giò mudand».
La prima volta con una donna, è comprensibile, può creare qualche imbarazzo e quella volta
l’aveva creato anche al Broeus.
«Signor De Maddalena, la me fa una russina tuta riza, semplice o doppia?».
«L’ha m’ha dai dul signor e io non sono mica rimasto indietro. E allora con gentilezza gli
faccio: “ Signorina puttana, quello che fa lei, va sempre bene».
Oramai sapevo questa storia a memoria ma ogni volta che la raccontava mi divertivo un sacco.
«Che rooba chela russina!». E a quel punto tirava fuori la storia del cappello: «La russina,
prima di dismettere mi fa: uno che sa fare l’amore bene come te non l’avevo mai trovato. Piuttosto
tu, quando fai l’amore, tieni sempre su il cappello? Ohè, me tochi ul cò, ghevi mia su de bun ul
capel di cuscrit!» Il nostro Broeus era un concentrato di simpatia!
Con un’aria sempre sorniona e divertita mi raccontava le sue divertenti avventure e io ascoltavo
con venerata ammirazione. In canottiera anche d’inverno, braccia abbronzate e nerborute, paura
di nulla, lui sapeva mettere in spalla una böra come se niente fosse, spalava la neve con un badile
che era una volta e mezza quello degli altri, bestemmiava senza il minimo timor di Dio e quanto
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a bere, poi, non parliamone. Io per lui stravedevo. Nella mia mentalità bambina lui sì, che era
un vero uomo, ed io sognavo un giorno di poter diventare come lui! Sì, con il bere era esagerato,
anche secondo i miei ingenui principi. Beveva senza moderazione e il titolare dell’impresa in cui
lui lavorava, stufo di vederlo arrivare la mattina ancora in pista, se lo vedeva su di giri, lo
minacciava di licenziamento.
Allora lui gli si faceva appresso e con aria ruffiana replicava «Non puoi licenziarmi, senza di
me l’impresa Broglio può tanto sarare su bottega domani mattina!». E a quel punto tirava fuori
la parte migliore del suo repertorio: «Te se regordet, Giampiero, de chela volta che nessuno era
buono di leggere il disegno? Chi ha capì come se doveva armaa re scara? Eh? Rispund! Ul Broeus
l’ha capì! Nessuno era buono di leggere il disegno e ul Broeus l’ha capì! Parchè Ambrogio De
Maddalena l’ha mia studià ma il disegno lo capisce meglio di un geometro!». Il signor Broglio,
conquistato dalla sua simpatia, non poteva far altro che mollargli una pacca e farsi da parte
compiaciuto. Il Broeus, superata la prova, svuotava l’ultimo bicchiere e uscendo dal Circolo
ricambiava benevolmente il suo datore di lavoro cantando: In Via Filangieri c’è un gran serraglio /
la belva più feroce / l’è il mio… impresario!
Prendeva poi la strada di casa e se ne tornava, magari ancora una sosta, ma breve, dalla Bagata
e poi a letto, sotto al freddo, il modo migliore per raffreddare i suoi etilici calori.
Ormai, di questi uomini, un po’ ciondolanti, un po’ burleschi, in ogni caso autentici, si sta
perdendo la traccia; Lassù gli ultimi, mi piace titolare quando parlo di loro, a rievocare gli ultimi
autentici personaggi di quel «paese» che ormai, insieme a loro, sta scomparendo.
d
Non di solo filetto... (La Macelleria Andreoli) di Alberto Palazzi - N° 19, 2008.
«Te see già naia a prued?».
«Sum pasada via, ma sum mia inmò naia dent!».
«Ben, alora te speci in dul Danièl!».
Il ritrovo è lì. E quando la Pina entra il Daniele è già tutto infervorato dietro il suo bancone
a contarla su alle clienti.
«Ecco, vede sciura Maria, prima di tutto deve avere l’osso, il manico! Senza il manico la
costoletta è come un fiore senza stelo, come una campana senza battacchio!
Eeeh, sciura Maria! In tutte le cose ci vuole un bel manico! Non è vero, forse?».
«Danieeele…!».
Ogni mattina il Daniele opera il suo piccolo capolavoro: competenza e professionalità, prima
di tutto, ma anche una battuta a riscaldare un po’ gli animi delle sue clienti, a offrire loro un
piacevole momento di pausa alle quotidiane malinconie. La Macelleria Andreoli diventa così, per
tante casalinghe, il capolinea delle loro uscite mattutine. In certi momenti il negozio si riempie
di gente e allora viene a crearsi come un campo magnetico di genere socio-terapeutico per cui ogni
parola, anche la più banale, tende ad assumere un significato gioioso e spensierato capace perfino
di allontanare i dispiaceri. Allora ci si sofferma più del necessario e ci si lascia prendere dal gusto
di trovarsi lì, mentre il Daniele trae dal suo bancone di macelleria armonie degne di un pianoforte:
tra una battuta e l’altra, tra una provocazione e uno scherzo, i suoi tagli sembrano un susseguirsi
d’accordi in un concerto corale con musiche di «Bressan» e di «Segala» (Allevatori locali). In
questa Opera Summa non mancano a sostenerlo soprani e tenori.
Primo soprano, un posto che ha onorevolmente conquistato sul campo, è da considerare la
signora Gemma. Una donna straordinaria, un concentrato di simpatia, spregiudicatezza e allegria.
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Ne ha sempre una per tutti. La prima è doverosamente riservata al padrone di casa reo di avergli
sbolognato una bistecca dura come la söra di scarp!, poi un pensierino anche al nostro signor
Sindaco non guasta mai; lui ha la colpa di non stoppare i buchi della strada e allora «se burli là
vò giò in Cumun e ghe trò dent ‘ne bumba!». E se poi entra quel malcapitato d’un Palazzi ce n’è
anche per lui: «In sur tò giurnalin, inquand, mören, in tucc bravi e bun? Vera? L’è inscì, si o no?
Ma dimm un poo: chi gramm crepen mai?».
Poi finisce con un abbraccio alle sue “vittime”, un abbraccio caloroso e amorevole! E mentre
la Gemma è impegnata in tutte le sue effusioni si presenta sulla porta il Walter francese, salutando
cordialmente. «Ouì, ouì, bonheur a tucc. Pas poisson, sum stuff dul pess, Bugianin (un
soprannome che era dei nonni del Daniele) taium giò una bèla bisteca de manz, böna, me
racumandi!».
La Gemma che l’ha visto con la coda dell’occhio, di rimando: «Daghela grama ‘mel tosich a
chel lì! Chel staga in Francia, chel staga là, chel vegna mia a cà a faa perd temp!» E poi abbraccia
calorosamente anche lui, e allora lui abbraccia anche la Rita, che rivede dopo tanto tempo, e
ormai nel negozio è tutta una festa e adesso la Rita che sta pagando non si ricorda più se l’etto
di bologna glielo hanno già tagliato giù e l’ha già messo in borsa o se non l’ha ancora comandato.
Ma durante tutta la scena il gran maestro di cerimonia rimane il Daniele che da dietro il suo
bancone continua a dirigere l’orchestra, non perdendo occasione di scambiare una battuta ora con
questo ora con quel cliente. (Tanto che la Luciana, che incomincia a tripignare perché ha sul gas
lo stracotto che tacca giù, ha dovuto richiamarlo due volte).
E’ azzardato affermare che gli uomini di spirito sono sempre dei gastronomi; è verò però che
i gastronomi sono spesso uomini di spirito. Pensiamo ai tempi di Lucullo e Cicerone in cui i
gastronomi offrivano polli, vitelli e beccafichi, ma contemporaneamente allietavano il menù con
buffoni e nani a raccontare storie allegre. La gastronomia e il buon umore sono sempre andati a
braccetto e quindi il Daniele non fa altro che rivisitare una tradizione che risale ad epoche molto
lontane.
d
48
Le interviste di «Menta e Rosmarino»
V
La donna nei nostri paesi a cura di Roberto Vegezzi - N. 17, 2007.
bbiamo voluto svolgere una piccola indagine per verificare se la condizione femminile nei
nostri paesi ha superato le storiche difficoltà di un tempo. Ho ritenuto di sviluppare questa
ricerca attraverso una breve intervista ad alcune donne del nostro Comune.
A
D. L’emancipazione femminile è stata una delle più grandi conquiste del secolo scorso. Nei nostri
paesi, è noto, questo processo di emancipazione ha avuto bisogno di tempi più lunghi. Ritiene che la
condizione femminile risulti ancora appesantita dalla vita condotta in un “paese”?
SILVANA LOVISELLI
Credo di si anche se molte donne che vivono in piccole cittadine come la nostra spesso lavorano
in città più grandi beneficiando in parte di tutte le opportunità che queste offrono.
GIOVANNA MELONI
Io sono cresciuta in una città e solo da una decina d’anni mi sono trasferita in un paese;
personalmente non ho riscontrato grosse differenze. Ciò che osservo è una scarsa partecipazione
femminile alla vita politica del paese. Le donne si sono mosse solo in occasione della chiusura della
Scuola Maletti, per altro dimostrando grinta e caparbietà nel perseguire il proprio obiettivo. Posso
immaginare che i gravosi impegni familiari e domestici, che per tradizione, soprattutto in un
paese, sembrano essere destinati prevalentemente alle donne, non permettano loro di assumere
altri impegni.
DANIELA MERONI
La condizione femminile non mi sembra particolarmente appesantita dal fattore «paese». Forse
la mentalità maschilista è un po’ più dura a morire, forse c’è qualche insistenza nel vedere il ruolo
della donna legato a mansioni prevalentemente domestiche, ma, in generale, il contesto mi sembra
oramai allineato a quello della vicina città.
ARMIDA PAPA
La problematica insita nella questione dell’emancipazione femminile non è ancora data risolta
in tutti i suoi risvolti più profondi e non lo sarà mai totalmente in quanto ogni luogo, ogni
comunità, ogni compagine sociale, viva essa in campagna o in città, in paese o nelle metropoli,
affronta, risolve o non, le sue antinomie interiori in rapporto alle sue esigenze. Quanto poi al
quesito, in un paese come Cocquio e tanti altri, la condizione femminile non è penalizzata rispetto
a quella della città. Lavoro e famiglia in città, lavoro e famiglia in paese, forse sussistono sfumature
diverse nel senso che nei piccoli centri permane un concetto di unione familiare più stretta, più
semplice, meno proiettata verso divertimenti dispersivi e «asfissianti». C’è un contatto più diretto
con i vicini, uno scambio di vedute e di aiuto quale nei condomini cittadini è piuttosto difficile
da realizzare.
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D. Quali sono per una donna gli svantaggi più evidenti che derivano dalla vita nel paese nell’ambito
famigliare, sociale e lavorativo?
SILVANA LOVISELLI
Soprattutto la necessità di doversi spostare agevolmente, cosa che per chi invece deve
necessariamente utilizzare i mezzi pubblici risulta parecchio complicato, non tanto perché il
nostro paese non ne sia servito ma perché a mio avviso ne è servito in modo insufficiente.
Esempio accompagnare i propri figli per svolgere attività sportive, recarsi al lavoro, recarsi in
centri di cura o diagnostici per sè e per gli anziani che fanno parte del nucleo familiare ecc. ecc.
GIOVANNA MELONI
Credo che gli svantaggi fossero molto evidenti in un tempo lontano; oggi restano alcuni limiti
dettati da una cattiva organizzazione del sociale.
DANIELA MERONI
Sono svantaggi più che altro di ordine pratico: dalla donna si pretende un impegno che va ben
oltre il lavoro: la cura dei figli, le faccende domestiche e, spesso, anche l’assistenza dei parenti
anziani a domicilio o in casa di cura. Il tempo è limitato e chi non dispone di un automezzo si
trova in gravi difficoltà.
ARMIDA PAPA
Gli spostamenti di lavoro, le lunghe assenze nella giornata dalla famiglia, il peso dei lavori
domestici sempre incombente affaticano notevolmente la vita della donna, sia in paese che in
città. Dipende il tutto anche dalle possibilità di essere aiutata nella conduzione della casa e dei
figli e, non dimentichiamolo, dalla presenza attiva, operante, collaborativa del partner, ormai non
più unico sostegno di famiglia, ma uno dei due pilastri di sostegno. Penso che più che alle difficoltà
strettamente legate al territorio, la donna deve saper costruire prima nel suo piccolo regno la sua
integrità, il rispetto di sé stessa, la sua evoluzione sociale e lavorativa, la sua posizione di «ape
operosa» e, soprattutto, di elemento collaborante in parità fuori e dentro la famiglia. E inoltre,
ma non per fare polemica gratuita, la donna deve ancora imparare che «parità» non significa
spogliarsi, esibirsi, ed offrirsi alle «ambigue» ammirazioni di tanti!!
D. Cosa si potrebbe fare per migliorare la condizione femminile nei nostri paesi?
SILVANA LOVISELLI
Bisognerebbe poter godere dei servizi che come già accennato rendono più agevole la gestione
della routine familiare ma soprattutto avere punti di ritrovo dove poter scambiare opinioni,
ricevere consigli, frequentare corsi (vari) sia in campo pratico che in campo culturale.
GIOVANNA MELONI
A Cocquio e nei comuni limitrofi non esistono scuole pubbliche a tempo pieno e quindi le
donne, se non hanno il sostegno dei nonni, devono o chiedere il part-time o lasciare il lavoro. Si
potrebbe provvedere in tal senso. Sempre per i figli si spende del gran tempo per accompagnarli
a destra e a sinistra anche con un risvolto negativo dal punto di vista educativo perché crescono
meno indipendenti. Dal punto di vista lavorativo la condizione della Provincia di Varese pone in
netto svantaggio le donne e i giovani. Mi pare quindi opportuno che anche all’interno del nostro
Comune si intraprendano iniziative atte a favorire l’inserimento lavorativo delle donne.
50
DANIELA MERONI
Si potrebbe tentare di migliorare i trasporti tra le frazioni del paese che sembrano allontanarsi
sempre più da quello che ormai è diventato il centro di tutte le attività economiche, oppure favorire
il decentramento di alcuni esercizi che vendono generi di prima necessità. Sarebbe auspicabile una
maggior flessibilità negli orari di lavoro…
ARMIDA PAPA
Nonostante la possibilità di spostarsi in macchina nelle città, di usufruire delle informazioni
dei mass-media ovunque ci si trovi, sia pure con tutte le incompletezze e le incongruenze che
derivano dalle comunicazioni di massa, potrebbero essere creati centri di aggregazione di massa,
centri di aggregazione culturale e ricreativi anche al di fuori della parrocchia per offrire «alimenti»
di crescita e spazi di distensione dopo una giornata e una settimana intensa. Sarebbe auspicabile
una biblioteca più fornita, in una sede più ampia, che possa divenire sempre più un luogo di
aggregazione e scambio culturale, in particolare per i giovani studenti… Ma su questo versante
è già in atto una trasformazione positiva.
Abbiamo ascoltato la voce di alcune donne e mi pare di capire che le pesanti differenze di un
tempo siano in parte colmate. Anche nei nostri paesi la condizione femminile è molto migliorata
e questo non può che essere motivo di grande soddisfazione.Un ringraziamento per la disponibilità
a tutte le donne intervistate.
d
«Scantonare» a cura di Roberto Vegezzi - N° 12, 2005.
In un suo recente scritto Alberto Palazzi afferma: «[…] Sottrarsi a tutto, questa è la cifra del
nostro tempo. L’imperativo è quello di non farsi fregare da qualche impegno. E il peggio è che
questa tendenza è in odore di virtù: lo si capisce dai sorrisi di compiacimento che si scambiano
quelli che non ci stanno a niente. E così i nostri paesi stanno passando da un ambiente
socializzante e comunitario (almeno in apparenza), a una società basata sull’individualismo e
sulla famiglia. Si è passati dalla strada al salotto, dall’osteria al divano, tappati in casa davanti alla
televisione, ognun per sè... e poche rotture per favore!
Alla luce di queste considerazioni ha ancora senso tentare di ricostruire nei nostri paesi quello
spirito comunitario di cui qualche volta si rimpiange la perdita? Le vecchie forme di spazio
collettivo sono morte o sono diventate inutili? Vale la pena tentare di invertire questa tendenza
costruendo parchi, piazze o promuovendo incentivi allo stare insieme? O è meglio lasciar perdere
e considerare che ormai il piacere del fare insieme (o anche semplicemente dello stare insieme)
non è più un’esigenza dei cittadini?
Ho cercato di coinvolgere su questo tema i rappresentanti di alcuni gruppi e associazioni che
operano nel nostro paese, perché ritengo che possano darci il polso della situazione. …Premetto
che a Cocquio sono presenti molte associazioni che operano in vari settori: nel volontariato,
nell’attenzione ai problemi giovanili e degli anziani, nella protezione civile, nella tutela
dell’ambiente e dei boschi, nello sport, nella cultura a 360 gradi, nell’organizzazione del tempo
libero ecc.., tutte meritevoli di attenzione.
Per motivi di spazio ora ne abbiamo intervistate solo alcune, riservandoci di coinvolgerne altre
in uno dei prossimi numeri.
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BEVILACQUA ANTONELLO, Assessore alle politiche sociali di questa amministrazione.
Alla luce di queste considerazioni ha ancora senso tentare di ricostruire nei nostri paesi quello
spirito comunitario di cui qualche volta si rimpiange la perdita? Credo sia sicuramente importante
far crescere il senso di appartenenza ad una comunità, sia essa civile o religiosa. Nonostante i
molti segnali negativi che emergono dalla nostra società contemporanea, penso sia opportuno
cogliere quanto di buono e positivo la vita quotidianamente offre, evitando nostalgie di un passato
che forse non tornerà più, cercando di vivere con intensità e passione l’attimo presente, mettendo
gli altri al centro del nostro agire, con uno sguardo privilegiato alle persone che vivono situazioni
difficili o che semplicemente vengono messe ai margini della società.
L’attenzione sincera, discreta e concreta ai nostri prossimi, unitamente alla volontà di mettersi
personalmente in gioco, possono aiutarci a ritrovare il gusto di stare insieme introducendo come
nuova categoria «sociale» la fraternità, che ci fa essere capaci di andare oltre le visioni di parte,
siano esse politiche o religiose, costruendo ponti e tessendo legami autenticamente umani
improntati alla sincerità, alla lealtà e alla costante ricerca del bene comune.
Le vecchie forme di spazio collettivo sono morte o sono diventate inutili?
Le vecchie forme di spazio collettivo, dovrebbero essere intese come uno degli strumenti per
aggregare le persone con lo scopo di vivere relazioni umane significative. E’ importante andare
oltre, cercando di cogliere quanto di valido alcune forme aggregative hanno saputo dare e danno,
cercando di rinnovarle senza rifiutare quanto di alternativo e positivo il mondo moderno può
offrire, migliorando la nostra capacità di trasmettere valori positivi, soprattutto alla giovani
generazioni, comunicando in modo nuovo e con un occhio attento ai mutamenti sociali, senza
cedere alla tentazione di annacquare o ridimensionare i valori che proponiamo.
La nostra società moderna, ed i giovani in particolare, hanno un disperato bisogno di testimoni
che incarnino valori positivi. Questo atteggiamento ci darà un rinnovato slancio per migliorare
gli ambienti ove saremo chiamati a vivere con una crescente e maggiore consapevolezza di essere
prima di tutto cittadini del mondo.
Vale la pena tentare di invertire questa tendenza costruendo parchi, piazze o promuovendo incentivi
allo stare insieme?
Credo di vitale importanza, lavorare con convinzione, a tutti i livelli, affinché si attivino
iniziative che favoriscono la creazione o riqualificazione di spazi realmente fruibili ed attenti ai
bisogni dei cittadini. Il cercare di incentivare «lo stare insieme» passa sicuramente anche nella cura
che mettiamo nel preparare gli ambienti, che devono essere accoglienti… Per evitare che le nostre
scelte siano calate dall’alto è importante mantenere un costante contatto con la gente,
coinvolgendo le persone, per far si che tutti e ciascuno si sentano parte attiva nella costruzione
della propria città.
E’ meglio lasciar perdere e considerare che ormai il piacere del fare insieme (o anche semplicemente
dello stare insieme) non è più un’esigenza dei cittadini?
Personalmente, non ho una visione così pessimistica del problema e credo quindi non
produttivo lasciarsi vincere dalla sfiducia, ma credere nei cittadini e nella loro capacità di lavorare
per il bene della propria comunità, anche se talvolta il rischio di rinchiudersi nel privato è una
innegabile tentazione di tutti noi. Forse, è possibile superare questo pericolo, riscoprendo quei
valori, autenticamente umani, che soli sanno dare anima al nostro agire, che ci portano a
riscoprire lo spirito di gratuità e che fanno sì che si possano costruire relazioni significative che
possono farci sentire veramente felici e un po’ meno soli.
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CRUGNOLA MAURIZIO,
attivo in diverse associazioni, soprattutto nell’ambito dell’Oratorio di Cocquio.
… lo scritto del Prof. Palazzi rispecchia fedelmente qual è l’indirizzo attuale della maggior parte
delle persone. Infatti, in questi anni, frequentando l’ambiente dell’Oratorio ed altre associazioni
mi sono reso conto che c’è proprio la «tendenza» a fare il meno possibile e diventare più «egoisti»…
tanto il mondo va avanti lo stesso»… dicono... Di contro devo però anche dire che, ogni tanto si
trovano ancora delle persone disponibili ad aiutare, a «mettersi in gioco» per far in modo che la
nostra società non diventi così «apatica». Da mia esperienza posso dire che, presso l’Oratorio di
Cocquio, da qualche anno si sta provando a motivare innanzitutto i Genitori a partecipare alle varie
attività della Parrocchia. Per il momento posso dire che il lavoro svolto da tutti noi, sta dando
buoni frutti in quanto, nella nostra «piccola realtà» siamo una trentina di Genitori che, secondo
il tempo disponibile, proviamo a creare ed organizzare feste, punti di incontro, mercatini, gite e
quant’altro può favorire lo stare assieme. Particolare di grande rilevanza è l’ottimo rapporto che si
è creato fra noi Genitori. Questo mi fa ben sperare in un coinvolgimento successivo anche di
«qualche» figlio anche se è comunque una strada molto lenta e lunga.
Una delle manifestazioni di cui «andiamo fieri» è «Cocquio senza Frontiere - Giochi sotto il
campanile». Un pomeriggio che riunisce Genitori e Figli dei tre Oratori di Cocquio. Sono quattro
anni che si svolge e devo dire che ogni anno, nonostante l’apatia generale, riusciamo sempre a
riunire circa un centinaio di persone. La manifestazione è organizzata con la collaborazione di
alcuni Genitori dei tre Oratori… e questa è una bella cosa!
Altra manifestazione che l’Oratorio di Cocquio organizza da tre anni è «Estate in Musica» che
si svolge nel mese di Luglio. Visto che il nostro motto è Oratorio punto di incontro questa festa è
stata voluta per far capire che Oratorio non è solo un luogo fisico ma soprattutto la voglia di stare
assieme divertirsi e crescere assieme.
A volte mi «soffermo» a ricordare gli anni ’70 dove con un niente riuscivi ad organizzare
qualsiasi festa o gita. Un esempio banale era la classica partita «scapoli ed ammogliati» che
coinvolgeva un sacco di persone tanto quasi da rimanerci male se non venivi chiamato. Oggi se
cerchi di organizzare un qualcosa di simile, non dico che non riesci ma è sicuramente più difficile.
Nonostante tutto, sono ancora convinto che si debba proseguire nel cercare di creare spazi di
ritrovo ed organizzare manifestazioni che possono e devono tenere unite le varie comunità. Una
delle cose che manca nella nostra comunità di Cocquio, per esempio, è uno spazio «centralizzato»
dove poter organizzare quelle feste che possano riunire le varie frazioni.
MELONI GIOVANNA,
si occupa di politiche sociali, in particolar modo di problematiche giovanili; è Consigliere di minoranza
di questa amministrazione.
L’uomo è un animale sociale, non sono io a dirlo. Ha bisogno di stare con gli altri, di
incontrarsi e di avere relazioni. Ma socializzare non significa necessariamente partecipare.
Per altro oggi la gente si incontra nelle palestre, nei circoli sportivi, al centro commerciale, ma
non nelle cooperative o all’oratorio. Sceglie cioè luoghi diversi da quelli che Palazzi vorrebbe, ma
comunque s’incontra, magari nel niente o nel superfluo, ma s’incontra. La partecipazione deve
arrivare per il piacere di partecipare e non per un senso di dovere. Se non c’è piacevolezza le
persone stanno a casa.
Non serve incentivare perché luoghi potenzialmente aggreganti esistono già; il problema sta
nel rivitalizzarli cercando di dare loro un significato più vicino ai desideri della gente…
La partecipazione è un patrimonio irrinunciabile perché senza non c’è crescita democratica,
non c’è confronto. Voglio però spezzare una lancia a favore di quanti invece esprimono attraverso
una attiva collaborazione la loro partecipazione alla vita della comunità.
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Esistono persone che si occupano degli altri attraverso il Volontariato. Esistono persone che
si occupano del Commercio Equo e Solidale. Esiste la Protezione Civile, le Guardie Ecologiche.
Esistono gli Alpini, gli Amici di Cocquio, la Società Operaia. …esiste un elenco infinito di
realtà, piccole e grandi dove la gente partecipa e dà. Quindi, anziché lamentarsi degli assenti,
togliendo energia ai presenti, proviamo a valorizzare le presenze. Esistono però anche luoghi
disertati e desolanti dove la partecipazione dovrebbe, ma non è, essere l’essenza. Uno di questi è
il Consiglio Comunale! …ma questa è un’altra storia.
POLI ATTILIO,
Presidente della Società Operaia di Caldana.
La società è in continuo cambiamento, non viviamo più in un ambiente sociale «stabile»: tutti
lo sappiamo e ne dobbiamo prendere atto coraggiosamente. La nostra è attualmente una società
globalizzata in cui si vive all’insegna del disimpegno e soprattutto della flessibilità.
Il cambiamento sociale genera sempre nuove sfide a cui non ci si può sottrarre e l’unica ancora
di salvezza è di affrontare con grinta una realtà in cui si tende a creare non più delle «vere»
comunità come quelle che hanno caratterizzato il passato, ma delle «comunità» flessibili, a tempo,
facilmente smontabili. La tendenza è quella di non mettere le radici in nessun dove, non per
questo però viene meno l’esigenza sociale di spazio collettivo.
…la nostra società è attualmente concentrata sull’individuo e non sulla famiglia, come afferma
invece Alberto Palazzi: il nucleo famigliare è in fase di completa disgregazione. La difficoltà sta
nel conciliare armoniosamente libertà e sicurezza.
SALINA CARLO,
Presidente del Gruppo Alpini di Cocquio.
Condivido in via generale l’opinione di Palazzi ma riguardo alla mia esperienza, nella
Associazione che rappresento – il Gruppo Alpini di Cocquio – è esattamente il contrario. Senza
dubbio è la voglia di alpinità che l’ombra di un cappello con una penna nera diritta può infondere
su tante persone che amano un grande ricordo di gioventù, la voglia di rinnovare una fratellanza
che è nata nella fatica e a volte nel pericolo, la voglia di tenere sempre verdi le tradizioni ed i
valori umani di solidarietà; sono quegli stimoli che concretizzano la voglia di partecipare e di
stare insieme.
Anche Lei registra un preoccupante calo di partecipazione (meno gente che lavora, meno gente che
partecipa)?
Il calo relativamente alla gente che lavora esiste anche da noi ma, paradossalmente, c’è più
gente che partecipa. Vale la pena di tentare di invertire questa tendenza promuovendo incentivi
allo stare insieme? Noi lo stiamo già facendo permettendo a tutti di entrare nella nostra Sede nei
tre giorni di apertura dove c’è la possibilità di socializzare.
O è meglio lasciar perdere e considerare che ormai il piacere del fare insieme (o anche semplicemente
dello stare insieme) è un’esigenza sempre meno sentita dai cittadini?
Certamente no. Noi abbiamo sempre cercato di far intervenire la popolazione alle nostre
iniziative e, per invertire la tendenza, invitiamo ad iscriversi alla nostra Associazione per aiutare
la collettività. Questo è l’obiettivo fondamentale per noi Alpini: uno stile di vita che impegna
seriamente ognuno di noi.
Le risposte che abbiamo raccolto ci incoraggiano (non tutte). Delineano un quadro tutto
sommato positivo, pur in una situazione di generale difficoltà ad aggregare e a motivare le persone.
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Le esperienze descritte e vissute, lasciano trasparire un desiderio di coinvolgimento, una spinta
positiva a mettersi in gioco, rischiando di trovarsi poi contenti, di aver fatto «bella figura», anche
e soprattutto con se stessi. Il calore di una stretta di mano e di un sorriso, non si sentono in
televisione.
d
La scuola: una realtà che cambia a cura di Roberto Vegezzi - N° 21, 2008.
Si parla tanto di scuola e tanto fa discutere la «razionalizzazione» (così definita) mediante la
quale il ministro Gelmini ha inteso operare all’interno di essa. Il tema della scuola risulta
estremamente attuale e, a tal proposito, vogliamo mettere a confronto delle opinioni raccolte fra
alcune persone che in varia misura si occupano di scuola. Ci è gradito un pensiero complessivo,
ma anche una valutazione sulla situazione scolastica locale. Tra l’altro, alla luce del DL 112/2008
anche la Scuola Media di Cocquio Trevisago potrebbe essere messa in discussione, addirittura
potrebbe non possedere più i requisiti per un’autonoma sopravvivenza. Per un verso rimaniamo
sgomenti, soprattutto pensando alle fatiche e ai sacrifici di chi è riuscito a portare la scuola nel
nostro Comune (su tutti il compianto Don Luigi Colnaghi), dall’altro dobbiamo prendere atto
che in questa nostra società molte cose sono cambiate, e non a caso a Cocquio Trevisago (come
in altri paesi), molte famiglie preferiscono scegliere per i propri figli una scuola fuori dal proprio
Comune, rinunciando così ai valori di appartenenza del territorio.
GIOVANNA MELONI insegnante
L’articolo 4 del decreto legge Gelmini prevede al primo comma l’introduzione nella scuola
primaria del maestro unico al quale è assegnata una classe «funzionante con orario di 24 ore
settimanali».
L’articolo procede chiarendo che «nei regolamenti», si terrà comunque conto delle esigenze,
correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola. L’attività
didattica è fissata in 24 ore settimanali; a questo punto ci si chiede quali saranno le risorse per
finanziare l’orario aggiuntivo?
Inoltre, il piano programmatico si propone di rivedere i piani di studio e l’orario scolastico
all’insegna dell’«essenzialità». Evidentemente tutto non si può fare! Meno risorse quindi meno
istruzione, mi pare chiaro! Uno dei criteri e principi guida è «la sostenibilità per gli studenti del
carico orario e della dimensione quantitativa dei piani di studio, opportunamente riducendo
l’eccessiva espansione degli insegnamenti e gli assetti orari dilatati, che si traducono in un impegno
dispersivo e poco produttivo (…)». In altri termini, il piano sottolinea con una certa insistenza
la necessità di riorganizzare gli orari scolastici: orario di 24 ore settimanali e maestro unico (che
insegnerebbe anche l’inglese, previo corso di 150 ore) sono fortemente proposti come il modello
didattico ed educativo di maggiore efficacia.
Il governo cerca però di rassicurare le famiglie, che a questo punto davvero non capiscono più
a chi dare ascolto, circa il mantenimento dello stesso orario attuale, che potrebbe addirittura
essere esteso dove non c’è. Forse è una risposta politica alle preoccupazioni di tanti elettori?
Nel contesto dell’autonomia scolastica, il piano programmatico ammette opzioni organizzative
alternative di 27 o 30 ore o 40 se aggiungiamo le ore mensa, ma la loro fattibilità resta vincolata
alle risorse a disposizione delle scuole stesse, su cui a priori non c’è nessuna garanzia, se non
quella della diminuzione drastica del numero di insegnanti. Se le garanzie fornite a parole si
tradurranno in risorse effettive, bene. Per il momento però è evidente lo scollamento tra ciò che
è scritto nel decreto e come il governo lo presenta.
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Circola per esempio l’idea che i docenti che risulterebbero in esubero in seguito all’attribuzione
delle classi a un unico maestro saranno riallocati nell’orario aggiuntivo. Ma questo meccanismo
non compare nei documenti ufficiali. L’unico dato oggettivo e inconfutabile è il «taglio» di 8
miliardi di euro alla scuola. Mi pare piuttosto evidente che a fronte di una razionalizzazione
puramente economica la scuola possa solo peggiorare.
La traduzione pratica della perdita di finanziamenti alla scuola pubblica si traduce in una
drastica riduzione del numero di insegnanti nella scuola dell’infanzia, nella scuola primaria e in
parte anche nella scuola media. Proprio per rispondere alla sola logica del risparmio economico è
tornato in auge il maestro unico nella scuola primaria e si è reso necessario ridurre il tempo scuola
passando dalle 30 ore attuali del tempo prolungato (27 ore più 3 opzionali) alle 24 ore previste
dal decreto Gelmini. Il maestro unico è anacronistico: lo sviluppo tecnologico e multimediale,
l’introduzione dello studio delle lingue straniere, l’alta specializzazione nell’insegnamento delle
discipline non possono più coincidere con la maestrina dalla «penna rossa», il tempo del maestro
tuttologo è inesorabilmente, e per fortuna, finito. Coloro che sostengono la necessità
dell’unitarietà dell’insegnamento, confondendola con il maestro unico, dimenticano che oggi i
nostri ragazzi crescono in una società plurale: tanto per cominciare già in famiglia hanno due, a
volte tre genitori, più i nonni o babysitter varie e in ultimo il più potente educatore di tutti: la
televisione!!!
Ma davvero si può pensare che il maestro unico possa competere con simili riferimenti?
Mi spiace per i nostalgici, ma chi insegna come me nella scuola primaria sa che, oggi, la nostra
è una realtà educativa efficiente e di alta qualità che non merita certo un simile trattamento.
Cosa accadrà nelle scuole di Cocquio? I cambiamenti avverranno nei prossimi tre anni, quindi
attenzione a non illudersi con delle facili rassicurazioni a breve termine. La strategia è quella di
intervenire gradualmente, ma inesorabilmente:
– rischio di perdere l’istituto comprensivo (quindi la presidenza e i relativi uffici) e di vederla
smembrata e accorpata con gli istituti vicini. …E’ in atto l’accorpamento (ed è ancora tutto da
stabilire) è fissato in 300 alunni, attualmente a Cocquio Trevisago sono 315, quindi sulla soglia
limite e non si osserva un aumento, anzi molte famiglie non iscrivono i figli nelle nostre scuole.
– rischio, quasi certezza, di riduzione dell’orario scolastico sia per la scuola media sia per le
elementari, …
– scompaiono le ore di compresenza, tradotto: niente più recupero per i bambini con difficoltà
d’apprendimento, niente più potenziamento per i più dotati, niente più laboratori per la scuola
media.
– rischio di perdere la scuola media: io non escludo…, che il sottodimensionamento della
scuola media di Cocquio Trevisago possa determinare, nella fase di razionalizzazione (prevista per
l’anno scolastico 2009/2010) la scelta di accorpare questa scuola a quella di Gavirate o a quella
di Gemonio. L’incerto futuro delle scuole di Cocquio Trevisago e la gravità della crisi finanziaria
ed economica in atto dovrebbero far muovere seri interrogativi ai nostri Amministratori…
Le risorse economiche stanno diminuendo… il destino delle scuole è incerto …
ALBERTO PALAZZI insegnante
Che la scuola è malata non è una novità. E che nella farmacia della nostra scuola si trovino
da sempre solo palliativi, analgesici, ipnotici, tisane alla malva, infusi di tiglio, antistaminici (e
vaselina) è storia vecchia. La novità sta nel medico: il Berlusca ci ha inviato la Gelmini, che
purtroppo medico non è, che non si è mai occupata di scuola …Del resto Berlusconi non voleva
un medico al capezzale di un malato (la scuola pubblica) che non ha mai avuto tanto a cuore, ma
voleva una testa d’ariete in grado di sfondare il cavò di questa istituzione e portare a casa un po’
di soldi. E allora ha preso da parte l’affidabile Maria Stella e le ha impartito precise disposizioni:
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«Vai in televisione, parla agli italiani di maestro unico, di grembiulini, di voti al posto del giudizio,
di merito e di disciplina e vedrai che saranno tutti d’accordo. Queste cose non costano niente e
fanno fare bella figura. Poi, senza fare tanto rumore, fai saltare dal comparto otto miliardi di
euro, che in questo momento ne abbiamo proprio bisogno! Vedrai, brontoleranno un po’, ma
con questa crisi hanno ben altro cui pensare!». …
«E di buono proprio niente», direte voi? «Tracce». Come l’albumina nell’esame delle urine. Il
buono è irrilevante, come l’albumina, neanche da prendere in considerazione.
Nessun cambiamento è pensato per migliorare l’efficienza scolastica ma tutti per ridurre i
costi.
La Gelmini doveva ricavare soldi dal comparto scuola e, …ci è riuscita. Poi, per altro, senza
volerlo, le è successa una cosa strana: ha cercato solo di raccattare e, invece, è riuscita a dare alla
scuola e a chi la frequenta il senso della necessità di questo Istituto. Ha fatto riscoprire quanto
la maggior parte degli italiani tenga alla scuola, ma ad una scuola capace di incidere, pronta ad
affrontare un futuro che si presenta difficile. …ma una domanda al nostro Ministro vorrei porla
anch’io: può ragionevolmente risollevarsi un paese che non solo non investe nei giovani, ma che
addirittura taglia l’istruzione e chiude loro le scuole?...
GUIDO PARONI insegnante in pensione
Parlare di scuola, oggi, è di grande attualità e i provvedimenti del ministro Gelmini non hanno
fatto altro che sottolineare l’importanza dell’argomento, che di fatto, per un motivo o per un
altro, resta comunque uno dei centrali nella vita delle persone e delle nazioni.
La sua complessità impedisce di dare giudizi netti e conclusivi anche a chi, come me, ha vissuto
e operato nella scuola per quarant’anni: sarà piuttosto necessario, credo, fare analisi approfondite,
distinguendo di volta in volta le questioni.
Se mi volgo ad osservare le vicende passate, …devo riconoscere che la scuola ha subito un
lento ma costante decadimento, tant’è vero che dai livelli di eccellenza, riconosciuti in tutto il
mondo, si è giunti oggi ad essere i «fanalini di coda». Sicuramente una parte notevole l’hanno
avuta i disastri del Sessantotto, ed in particolare la lotta contro alcuni valori fondamentali non
solo per la scuola, ma per tutta la vita, quali: impegno, assunzione di responsabilità delle proprie
azioni, valore della cultura come capacità di formazione della vita, importanza dei contenuti
culturali, formazione spirituale (l’elenco potrebbe continuare, ma mi fermo ai valori più evidenti).
… Il disastro è stato maggiormente evidenziato quando i «sessantottini» sono diventati presidi,
condizionando l’andamento generale: infatti non tutti i professori avevano il coraggio di opporsi.
Ancora oggi è possibile sentire di alunni che provocano danni materiali e morali (i «bulli») a
persone e cose, anche di grande entità, i quali, (naturalmente «studenti») non vengono puniti:
«poverino...» è il ritornello che ancora oggi (!) si sente ripetere, come se fossero dei dementi che
non possono assumere la responsabilità delle loro azioni…
Un altro male: la sindacalizzazione spinta della scuola che ha voluto assunzioni a getto
continuo senza nessun riguardo alla preparazione e alla qualità dei docenti immessi, per non dire
della difesa a spada tratta dei colleghi ignoranti, peggiori, approfittatori (purchè avessero la tessera
sindacale in tasca)... Ecco perché è necessario intervenire con decisione, instaurando criteri che
ridiano alla scuola la capacità di educare ai valori che costruiscono la vita e ridiano i grandi
contenuti formativi… In particolare mi piace citare il «maestro unico» che è sicuramente un
ritorno a una pedagogia positiva: tutti sanno (o dovrebbero sapere) che il bambino ha bisogno di
un punto di riferimento sicuro e soprattutto unico, perché altrimenti rimane disorientato: basta
guardare infatti alle famiglie separate dove i punti di riferimento sono moltiplicati per vedere
situazioni di disagio sempre più evidente… Da sottolineare anche il ritorno del voto di condotta
che, a ben vedere, dovrebbe essere il voto più importante in quanto indicatore del livello di
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formazione raggiunto, senza il quale ogni sapere diventa problematico, oppure l’adozione del
grembiule uguale per tutti poiché la scuola troppo spesso viene scambiata per una passerella di
moda …
Per quanto invece riguarda la situazione scolastica locale, noto nella «traccia» proposta, una
decisa preoccupazione sulle sorti di una autonoma sopravvivenza.
Si fa riferimento ai «sacrifici e fatiche del compianto don Luigi Colnaghi» che ha voluto la
scuola media nel nostro Comune …Forse che i nostri padri e nonni non hanno fatto fatiche e
sacrifici per volere le scuole elementari a Cocquio, come centro di vita e di attività di grande
importanza? Bastano ragioni di tipo solo economico per queste scelte?
Da ultimo, riguardo al fatto che molte famiglie «preferiscono scegliere per i propri figli una
scuola fuori dal proprio Comune», vorrei osservare che ciò è dovuto al fatto che spesso le «altre»
scuole offrono una qualità di insegnamento e di formazione diversa e molto più rispondente alle
esigenze di dette famiglie. … Concludendo, …mi piacerebbe tanto che queste considerazioni
aiutassero a capire e ad approfondire le questioni scolastiche, sempre (e non solo oggi) così
importanti.
EVA RIVA insegnante in pensione
La scuola, l’educazione, le politiche che la riguardano sono argomenti complessi dietro cui ci
sono delicati equilibri tra culture diverse, esperienze professionali e certezze scientifiche, un
insieme non esauribili in forme semplificatorie. … Mi sembra ora che il sentimento dominante
della attuale protesta sia la preoccupazione, anzi la paura del futuro. E’ la paura che, attraverso
tagli indiscriminati, venga messo in discussione il presente della scuola non per cambiarlo in
meglio là dove va cambiato, ma per tornare al passato. In questi 40 anni, la scuola italiana è
diventata scuola di massa e, seppur traballante, tiene, nonostante su di lei si rovescino tutte le
trasformazioni sociali e culturali della società italiana. Non è fatta solo di bullismo, di insegnanti
fannulloni e di genitori che picchiano i professori, queste figure non mancano, ma non sono la
scuola.
La scuola è una grande comunità, un fattore di coesione in tempi di disgregazione che non si
può spiegare solo con la docimologia e se scricchiola è perché le si chiede di trovare percorsi per
premiare il merito e far emergere le eccellenze e nello stesso tempo di essere elemento di inclusione
sociale… Il grembiule, il voto in condotta, possono essere condivisi, ma le ricette vincenti sono
di altro tipo e passano attraverso la formazione della responsabilità individuale e collettiva e
l’alleanza tra scuola, famiglia e territorio.
I mutamenti non possono essere imposti dall’alto men che meno da decreti ministeriali. I veri
cambiamenti possono solo venire dal rispetto delle esigenze primarie dei giovani che vivono sulla
propria pelle il disagio della crescita e dall’ascolto dei docenti che si ritrovano sempre più spesso,
purtroppo, con un lavoro dequalificato.
Penso che al di là delle nozioni di base – fondamentali per poter evolvere nella scuola e nella
vita – sia importante che la scuola educhi a un positivo e costruttivo confronto tra gli studenti,
con gli insegnanti e con la realtà esterna (che tanto esterna non è); che si riesca a sviluppare la
propria identità personale, a pensare con la propria testa, a far nascere negli studenti il seme della
«curiosità».
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“ Omaggio alla nostra terra,
ai suoi personaggi, alla sua storia.”
a cura di
Maria Grazia Ferraris
Questo volume è stato impresso
nel mese di ottobre dell’anno 2009
presso Arti Grafiche Aricocchi
di Caravate (Varese)