il rapporto semtex

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il rapporto semtex
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FABIO SORRENTINO
“il rapporto semtex”
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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti
sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore oppure sono stati utilizzati
esclusivamente in chiave romanzesca. Ogni somiglianza con eventi, luoghi o
persone reali, vive o defunte, è da considerarsi puramente casuale.
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giovedÌ
venti ottobre
Capitolo 1
La Celica giallo crema del ‘77 divorò l’ingresso del parcheggio
autobus e arrestò la sua folle corsa in sbandata regolata, a pochi metri
dall’area presidiata dagli uomini della Scientifica. Il rabbioso ruggito
del doppio magnaflow sport ovale svaporò di colpo, riconsegnando
nuovamente il sordo e incessante scrosciare della pioggia.
Arthur Miller, il più alto in grado fra quelli del C.S.I. accorsi sul luogo
dell’attentato, gettò una rapida occhiata alla figura che, abbandonato
in fretta il bolide, andava avvicinandosi con passo deciso verso la
zona dei rilievi. Istintivamente si calcò ben in testa il berretto blu
scuro con il logo del reparto e si accomodò con cura il bavero del
lungo impermeabile. Con il suo vocione arrochito, rotto dal fumo di
infinite L&M senza filtro, si lasciò sfuggire uno stizzito “ti pareva”
all’indirizzo del giovane collega. Quindi, chinandosi a raccogliere
campioni dei piccoli frammenti metallici sparsi a raggiera sull’asfalto,
bofonchiò tra sé: “ci mancava solo Simpatia…”
Il nuovo arrivato si limitò a salutare i presenti con un impercettibile
cenno del capo. Poi estrasse dalla tasca del suo trench grigio topo uno
zippo lucido con lo stemma della U.S. Navy e tentò di accendere a
più riprese ciò che restava della sigaretta fradicia, stretta
immancabilmente fra le labbra.
«Cosa hai scoperto, Arthur?» chiese senza entusiasmo il tipo,
frugando nervosamente fra le cerniere interne del suo costoso
cappotto.
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«Un altro IED1. Stavolta ha usato l’impulso inviato dal
riconoscimento digitale del cancello come detonatore.»
«Uhm, però… E della vittima? Cosa sai dirmi.»
«Abbiamo ritrovato la sua tessera sanitaria: Sara Gouldstein, 34 anni,
residente in Elizabeth Avenue, Nerwark.»
Simpatia restò in silenzio, lo sguardo rivolto nel punto esatto dove
giaceva il corpo della vittima. Uno spesso telone bianco lo copriva
fino all’attaccatura superiore dei polpacci, quindi lasciava scorgere
l’estremità delle sue gambe, pallide e nude sotto la pioggia battente.
«E’ un miracolo che lo spiazzato fosse deserto al momento
dell’esplosione» continuò Miller, mentre rigirava fra le pinze un
brandello del circuito elettrico costituente la capsula d’innesco, «di
sicuro la quantità di Semtex utilizzata avrebbe potuto generare una
strage.»
«Voglio un rapporto dettagliato sulla dinamica dell’attentato» tagliò
corto l’agente Frank Tomos, aspirando avidamente la seconda
boccata di fumo dalla bionda che aveva acceso poco prima,
utilizzando un vecchio clipper usa e getta nascosto nel taschino
interno del trench. «Deve essere sulla scrivania del mio ufficio entro
domattina» precisò, «e con domattina intendo entro le nove, Arthur.»
Il capo della Scientifica gli lanciò un’occhiata malevola da sotto la
visiera del berretto, ormai completamente bagnato. Quindi abbassò
nuovamente lo sguardo sui reperti che stava esaminando, anche se le
sue guance mostravano il livore di una rabbia repressa a fatica.
Frank si accorse della cosa ma parve non curarsene affatto: in fondo
per loro era Simpatia, quindi perché deludere i suoi numerosi
estimatori? Stringendosi nella pesante stoffa del cappotto, l’agente
Tomos scrutò rapidamente l’intera zona dei rilievi. Gli uomini di
Miller erano divisi in coppia e lavoravano di buona lena in diversi
punti del piazzale, chini fra le pozzanghere che punteggiavano il
parcheggio autobus. I ragazzi armeggiavano con i flash delle loro
digitali, riempivano buste di cellophane con campioni di polveri e
schegge metalliche che avrebbero poi catalogato e analizzato in
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Improvised Explosive Device
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laboratorio, rilevavano distanze e posizioni originarie dei veicoli
coinvolti nell’esplosione.
D’un tratto Tomos notò che i paramedici stavano per traslare il
cadavere della donna nel solito guanto nero a cerniera. Di lì a poco i
resti della vittima sarebbero stati caricati nell’ambulanza per essere
trasportati nella morgue del New York Presbyterian Hospital, quindi
avrebbero affrontato gli esami autoptici di prammatica.
Frank fischiò all’indirizzo dei due sanitari, mostrando loro il tesserino
e intimandogli con la destra di attendere. Quindi si avviò con passo
deciso in direzione dell’ambulanza.
«Fossi in te, mi eviterei il fastidio. Non è davvero un bello spettacolo,
agente» ironizzò ad alta voce Miller, mentre si tirava su per
sgranchirsi le gambe intirizzite dal freddo.
«Torna a lavoro, tu. E non preoccuparti» gracchiò Simpatia di spalle.
«Sono un Federale, io. A certe cose ci sono abituato» sottolineò in
tono sarcastico, mentre lanciava la sua cicca in una pozza oleosa, un
lurido misto di acqua e catrame.
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I tergicristalli della Celica alzarono bandiera bianca non appena
Simpatia imboccò il maxi ingorgo che intasava la mezzeria della
Broadway. Un breve, intenso garrito e le spazzole si bloccarono a
metà della loro incessante corsa.
«Merda!» imprecò Frank, prendendo a pugni il clacson, posto nel
centro del volante. Quindi sprofondò, abbattuto, nella comodità del
suo sedile in alcantara beige e restò per qualche istante a fissare i
grossi goccioloni d’acqua che, scivolando lungo il parabrezza,
disegnavano piccole gore fluide fra la coppia di immobili asticelle in
gomma.
Il traffico della Broadway nell’ora di punta era qualcosa di malefico e
micidiale, una lenta ed incredibile gogna a cui gli automobilisti
dovevano rassegnarsi ogniqualvolta la Lafayette veniva transennata
per riparazioni ai sottoservizi. La cosa più fastidiosa era sicuramente
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riuscire a vedere, dall’abitacolo della vettura, le alte finestre vetro del
23iesimo piano del Federal Plaza che occhieggiavano sornione in
attesa del suo arrivo. Il grattacielo era lì, a meno di 200 metri in linea
d’aria, ma sarebbe rimasto fermo a quella distanza ancora per una
buona mezz’ora. D’istinto guardò il cruscotto sul lato passeggeri, poi
ricordò di non avere mai voluto in dotazione l’odioso lampeggiante
con sirena. Non c’erano valide alternative: bisognava solo attendere,
armandosi di santa pazienza. Immaginava già il doppio mento di
Philip Ross, capo della sezione Manhattan, sbatacchiare su e giù in
preda all’ennesimo travaso di bile.
«Parola mia, al prossimo ritardo ti faccio trasferire nelle campagne
del Maryland» avrebbe terminato come al solito il capo, con quel suo
sguardo studiatamente torvo e l’espressione simile a quella di un
giudice che sta per emettere una sentenza di colpevolezza per alto
tradimento. Quindi, allontanandosi dalla soglia dell’ufficio, Philip
avrebbe imprecato ad alta voce il suo particolare insulto finale:
«Vaccaro presuntuoso ed insolente!»
Imponendosi di pensare ad altro, Simpatia si girò verso il sedile
posteriore e cominciò a cercare con gli occhi la copia settimanale di
Sport Illustrated che aveva acquistato due giorni prima. Mentre
scandagliava la confusione di documenti, veline e cartacce che
affollavano il retro dell’auto, Frank lanciò una sbirciata attraverso il
lunotto posteriore e si accorse di uno striminzito lembo di asfalto
vuoto tra il suo bolide e la vettura che aveva in coda. Rapito da una
soluzione improvvisa, il federale soppesò in pochi istanti l’esiguo
spazio libero alle sue spalle e la propria abilità di pilota.
Quindi disinserì velocemente il freno d’emergenza e sgasò
d’improvviso in retromarcia, descrivendo una sorta di stretta L e
ritrovandosi con metà pianale sul largo marciapiedi sul quale
affacciava il New York Criminal Defence Lawyer.
La manovra fu tanto repentina quanto precisa e, prima che gli altri
automobilisti riuscissero a rendersi conto di cosa stesse accadendo, la
Celica aveva già percorso contromano sulla banchina l’intera
lunghezza che la separava dall’incrocio con Franklin street. Il
proprietario del Quiznos, i camerieri e alcuni dei clienti uscirono in
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strada per capire cosa avesse urtato in maniera così fragorosa le
quattro colonne di sedie impilate una sull’altra sotto la spessa tendina
color ambra. Tagliando velocemente il quadrivio, Frank Tomos scartò
di un soffio un furgone pubblicitario della Sharp che lo stava
investendo in pieno e andò ad occupare la corsia opposta, quella del
corretto senso di marcia che conduceva in Benson street. Da lì svoltò
a sinistra sulla Leonard, lasciandosi dietro l’area di sosta del Collect
Pond Park, e mezzo minuto dopo sgommava all’imbocco dalla Worth
Street, parcheggiando alla meno peggio di fronte al Federal Plaza. A
quel punto spense il motore, recuperò il dossier che aveva preparato
la sera precedente a casa di sua zia May e si precipitò nella hall
dell’edificio sotto il crepitare monotono di una pioggia persistente.
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Un breve segnale acustico precedé lo scorrimento automatico delle
porte. Frank abbandonò il candore luminescente prodotto dal bianco
satinato dell’ascensore per immergersi nella cappa di calore che
avvolgeva l’atrio del 23iesimo piano.
Salutati gli agenti della sicurezza che occupavano il posto di guardia,
Simpatia passò il badge nel sistema magnetico di riconoscimento e
superò velocemente la doppia serie di tornelli. Quindi fu inghiottito
dal grigiore del lungo corridoio che conduceva al reparto operativo
del Bureau, illuminato a fatica da piccole lampade al neon, disposte a
notevole distanza fra loro lungo la parete destra dell’andito.
La porta del suo ufficio era aperta e un bel paio di Prada, nere e
lucidissime, spuntavano dal bordo della scrivania.
«Ancora quegli orribili calzini» borbottò Frank, apparendo
d’improvviso sull’ingresso della stanza.
Un largo sorriso prese forma sul volto giovanile del tipo che
occupava il suo posto. L’uomo era intento a chiacchierare al telefono,
la cornetta stretta fra la spalla sinistra e l’orecchio, mentre, con le esili
gambe distese sul tavolo di formica verde, sfogliava lentamente le
pagine sgualcite di un quotidiano. Il suo completo grigio, un bel
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taglio di principe di galles, spiccava sotto la luce della lampada, posta
accanto al telefono sulla scrivania.
Una camicia azzurrina in tartan, di altissima fattura, esaltava la
doratura di una pelle lucida e abbronzata, fresca di rasatura. I capelli
neri e liscissimi erano sistemati con cura in una lunga fila laterale
mentre gli occhi, colorati di un verde inteso con venature di grigio,
scrutavano divertiti l’espressione rassegnata del nuovo venuto.
«Ora devo lasciarti, John» s’affrettò a tagliare Sid Costantine, «è
appena arrivato uno scocciatore. Tienimi aggiornato se ci sono
novità.»
«Illuminami, Sid» esordì in tono contrariato l’agente Tomos, dopo che
il suo collega ebbe riagganciato. «E’ da quando ti hanno trasferito che
mi domando cosa c’è che non vada nella tua scrivania.»
«Nulla» rispose il giovane, lanciandogli una copia del Newsday,
«semplicemente la tua sedia è più comoda della mia.»
«Ancora quell’allibratore, vero? Quanto gli devi? Settecento, mille
forse?»
«C’è poco da stare allegri, agente Tomos» lo pungolò acido
Costantine, sistemandosi il nodo della cravatta raso in seta. «Piuttosto
ti consiglio di leggere l’articolo a pagina sei.»
Frank diede una rapida scorta ai titoli di copertina, poi aprì
direttamente il giornale alla pagina indicata. Uno spesso font in
grassetto recitava: «nuova esplosione a sud di manhattan. il
lungo braccio del terrore torna ad avvinghiare il
distretto.» Sotto l’incipit apocalittico, un dettagliato resoconto
di
cinque colonne riportava la notizia dello IED scoppiato nel
parcheggio della 43esima, snocciolando con cura tutti i particolari
relativi ai due precedenti attentati avvenuti due mesi prima nel cuore
della Grande Mela, a sole tre settimane di distanza fra loro. «Lo stato
di New York sembra ricaduto pesantemente nel mirino dei terroristi»
concludeva lo zelante reporter «e le istituzioni, FBI in primis, hanno il
dovere di dimostrare ai contribuenti l’ effettiva validità del loro
lavoro nella lotta a tale genere di attacchi, sia da un punto di vista
operativo che sotto il profilo logistico-gestionale.»
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«Montano l’opinione pubblica, gettandoci sulla graticola» commentò
stizzito Simpatia, appallottolando nervosamente il giornale e
gettandolo nel cestino.
«Senti qui» continuò il collega, leggendo ad alta voce le edizioni online di diversi quotidiani locali:
«Daily News: osama o un nuovo caso kaczynski? Manhattan
Globe: nuovo attentato in cittÀ. le istituzioni alla
finestra. E ancora, Today’s News: la rabbia supera il dolore:
di chi È la colpa? Stiamo diventando il nervo scoperto, caro
Frank.»
D’un tratto si udì il trillo del telefono. Simpatia fece segno a Sid di
sparire dalla sua poltrona, quindi vi si accomodò. Quella che stava
lampeggiando era la spia dell’interno. Prima di alzare la cornetta,
prese un lungo respiro:
«Pronto»
«Ti voglio subito nel mio ufficio. Porta con te il damerino.»
Seguì il fastidioso beep di fine conversazione.
«Chi era?» domandò Costantine dal retro della sua scrivania.
L’espressione accigliata del collega lasciava ben pochi dubbi in
proposito.
«Era il capo, Sid. Vuole vederci subito…Incazzato come uno che ha
dormito tutta la notte col culo scoperto.»
~‡~
La tana di Philip Ross, capo della sezione investigativa dell’ FBI di
New York, era una sorta di ambigua camera dei trofei. Ogni volta che
vi metteva piede, Simpatia provava la stessa identica sensazione di
smarrimento che gli procuravano gli atri degli ospedali e delle
cliniche private. In effetti, facendo a meno delle numerose cornici
appese ai muri lattiginosi e degli innumerevoli premi vinti nelle gare
di giardinaggio ed esposti in bella mostra sugli scaffali della libreria,
l’ufficio di Big Mama poteva tranquillamente essere scambiato per
una piccola ed asettica sala operatoria. Forse era il bianco surreale
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delle pareti o l’ordine maniacale che vigeva sull’imponente scrivania
grigia, il cui sostegno centrale era simile a quello dei lettini sui quali i
primari armeggiavano fra bisturi, pinze, sangue e siringhe. L’unica
apertura presente nella stanza era rappresentata da un alto finestrone
in plexiglass dal quale si godeva la vista rilassante del Thomas Paine
Park, accanto a Foley Square. In lontananza, defilati sulla destra, i
simboli del potere cominciavano ad essere avvolti da una sottile
coltre di bruma: per uno strano gioco di vapore, i primi piani del
Dipartimento di Giustizia apparivano celati da una densa nuvola
fumosa, come se all’interno di quei locali stesse divampando un
improvviso incendio, mentre l’unica parte visibile della splendida
chiesa romana di Sant’Andrea era lo stretto campanile a pianta
rettangolare. Silenzioso sullo sfondo, Il ponte di Brooklyn
attraversava le sponde dell’East River come un vecchio e stanco
gigante dal cuore di cemento e muscoli di acciaio.
L’ufficio era vuoto e Sid ne approfittò per curiosare fra le raccolte di
libri presenti sugli scaffali. Frank invece restò fermo davanti alla
scrivania, con lo sguardo perso sulla targhetta luccicante che
riportava l’acronimo dell’agenzia.
Incise sulla spessa lamina d’argento e immerse in una cornice di feltro
color indaco, le parole Fidelity, Bravery e Integrity apparivano ora
più che mai un pesante fardello di cui farsi carico. Per un istante la
mente di Tomos fu assediata da un’incomprensibile serie d’immagini
che si sovrapponevano confusamente tra loro, come in una sorta di
sogno bislacco e angosciante: tutt’ad un tratto rivide il salone della
sua vecchia casa in Colorado, invaso da estranei, vestiti in abito scuro
e con una posticcia espressione di cordoglio stampata sul volto. Poi
rivisse il momento della proclamazione ufficiale del suo grado
d’agente, con Zia May, Norma e Jean che applaudivano sorridenti nel
grande giardino dell’Accademia di Quantico. Infine un alito di freddo
sembrò accarezzargli le guance e si ritrovò nel parcheggio autobus
nei pressi della 43esima, mentre osservava sgomento il corpo
orribilmente deturpato dell’ultima vittima, una giovane dai capelli
rossi di nome Sara.
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«Sedetevi» sbottò Philip Ross, apparendo oltre la soglia della stanza.
Di colpo Frank ritornò alla tranquillità asettica dell’ufficio mentre
l’agente Costantine cercava di celare a fatica l’imbarazzo dovuto al
suo eccesso di curiosità.
«Ho appena ricevuto un paio di telefonate» esordì Big Mama in tono
greve. Prima di continuare a parlare, il capo si sporse dalla poltrona
presidenziale con schienale reclinabile sulla quale era scivolato ed
aprì un cofanetto di legno, posto sul lato destro del suo desco.
Quindi, con lentezza metodica, estrasse dalla cassettina un grosso
sigaro Avana e ne annusò a lungo l’aroma caratteristico.
«Allora?» l’incalzò Sid, impaziente di conoscere il motivo della loro
convocazione.
Philip parve incenerirlo con lo sguardo. In silenzio staccò
un’estremità dell’avana e, dopo averlo portato alle labbra con
solennità, aspirò una profonda boccata di fumo. Piccole volute
biancastre presero a salire ondeggiando verso l’alto e subito la stanza
fu invasa da un odore asprigno e pungente.
«La C.I.A. e La N.S.A. sono ufficialmente fuori dai giochi, ragazzi»
proseguì il capo, aggrottando la fronte spaziosa in una smorfia di
disappunto. «A seguito dell’ultimo episodio, la palla è passata nelle
mani del Dipartimento di Giustizia. Gli specialisti hanno analizzato a
fondo gli elementi relativi alla dinamica dei tre attentati: la
percentuale legata ad un ipotetico coinvolgimento di gruppi
integralisti d’oltreoceano è calata parecchio. Pensano si tratti di un
singolo individuo, uno psicopatico che agisce in maniera del tutto
autonoma.»
«Come sono giunti a questa ipotesi?» dubitò Frank, sistemandosi
meglio nella sedia ed incrociando le braccia sul petto con fare
polemico. «E’ stato usato del semtex e le esplosioni sono avvenute qui
a Manhattan, nel cuore pulsante della città.»
«Certo» aggiunse infervorato l’agente Costantine, «è facile lavarsene
le mani con queste chiacchiere.»
«Insomma!» proruppe livido di collera Big Mama. L’espressione truce
del suo faccione rubizzo cozzava vistosamente con la voce chioccia e
graffiante:
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«Le cose stanno in questa maniera, punto e basta! Il Segretario
Generale ha demandato l’incarico al direttore del Dipartimento,
enfatizzando la necessità di pervenire in tempi brevi all’archiviazione
del caso. In fondo, c’era da aspettarsi una simile decisione: a tre mesi
dal primo attentato, non abbiamo registrato alcuna rivendicazione da
parte di gruppi terroristici e anche se il tipo di esplosivo potrebbe
avallare la tesi integralista, la quantità di materiale utilizzato, la
modalità costruttiva degli ordigni e i luoghi prescelti come obiettivi
da colpire non raggiungono gli standard riscontrati in precedenti
azioni stragiste.»
Simpatia ascoltò in silenzio le parole di Philip Ross. Il suo sguardo
superava lo spesso lastrone di plexiglass, rapito dai primi raggi solari
che, pavidi ed esitanti, cominciavano a squarciare con fatica la
cupezza di una mattinata fredda e incolore. Con il pensiero volò
lontano alle giornate di fine estate di Lakewood, afose ed
interminabili come il mantello brunito delle Montagne Rocciose…
Non sarebbero bastati altri dieci anni per riuscire ad abituarsi
all’ingrato e volubile clima Newyorkese. «Immagino tu abbia già
elaborato un piano di lavoro» abbozzò Frank, riportando la sua
attenzione sul testone rasato di Philip Ross. Quindi aggiunse con voce
atona: «I nomi?»
Big Mama accennò un flebile sorriso di compiacimento. Per quanto li
asfissiasse, li marcasse e li spremesse come limoni maturi, il capo
conosceva bene il valore dei suoi uomini. A dispetto della giovane
età, Simpatia era un tipo tosto: sotto la scorza da vaccaro dell’ovest,
rude e scapestrato, si nascondevano in realtà il fiuto e la tenacia di un
vecchio segugio da riporto, una sorta di buffo incrocio fra un golden
retriver e un dogo argentino.
«E’ un periodo del cazzo, lo sai Frank,» si schermì in tono
stranamente docile Philip, «e credo dovrete sbrigarvela da soli. Non
voglio novellini in questa faccenda. Comunque ho pressato parecchio
affinché le due gemelle ci fornissero tutto l’aiuto disponibile e alla fine
hanno ceduto. Se ti viene in mente qualche elemento valido
provvederanno a trasferirlo nella nostra sede.»
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«Dacci un paio d’ore per studiare la cosa» si limitò a rispondere
l’agente Tomos, scambiandosi un’occhiata d’intesa con il suo collega.
«Ok» concluse il capo, cominciando a sfogliare le pagine fitte di note
della sua agenda nera. «Mettetevi subito a lavoro. E mi raccomando:
dinamici e risoluti! La situazione la conoscete.»
Costantine e Simpatia abbandonarono velocemente l’ufficio di Ross,
le facce cristallizzate in un’espressione incupita e pensosa. A metà del
breve corridoio che li riportava nel loro reparto, l’agente Tomos
estrasse da una tasca dei pantaloni il Nokia N900 e fece scorrere
velocemente i nominativi di tutti i contatti presenti in rubrica.
«Hai già in mente qualcuno?» chiese di malavoglia Sid, frugandosi
alla ricerca di una monetina per il distributore automatico di caffè.
«La vecchia compagnia al completo, Sid. Chiama Maloon, Ulisses e
Gallo.»
~‡~
La musica rimbombava assordante dal palchetto metallizzato che
affacciava direttamente sulla consolle del DJ. Le luci stroboscopiche
riducevano la pista del Touch ad una serie di ossessionanti
fotogrammi fluorescenti, caotici e ridondanti tra il luccichio di
paillettes e il riflesso delle pareti specchiate.
Simpatia poggiò i gomiti sulla spalletta della balconata. Quindi si
sporse in avanti, cercando di inghiottire quanta più aria possibile.
Proprio in quell’istante la macchina del fumo rilasciò la sua nube
vaporosa sugli occupanti della sala da ballo e un intenso odore
incensato risalì velocemente verso l’alto, investendo i locali dei privè
al livello superiore. Gli occhi arrossati per l’inaspettata sorpresa,
Frank imprecò sottovoce e mosse i primi passi verso il comodo sofà
disposto lungo la parete di fondo della galleria, passandosi sulla
fronte il bordo gelato del bicchiere contenente il terzo rhum e menta.
Louis conversava sottovoce con la sua nuova amichetta, una bionda
rifatta dalle gambe chilometriche e con un nasino alla francese che
donava un candido tocco naive al suo aspetto da copertina.
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Stravaccato nel divano in ecopelle color sabbia, Gallo stringeva in
una mano una coppa di Cristal e di tanto in tanto sfiorava con le
labbra l’orecchio della procace compagnia. A qualche palmo di
distanza sulla sua destra, una rossa in shorts, camperos e camicetta
attillata lanciava occhiate malevole al bell’imbusto scostante e
presuntuoso che a stento le aveva rivolto la parola da quando
avevano messo piede nel Touch.
In fondo il problema non era lei. Semplicemente, Simpatia non era il
tipo adatto per quel genere di incontri. Frank odiava le disco e i
nightclub, i ristoranti italiani di lusso e i fiumi di champagne nel
pieno della notte. Appena giunto in città aveva provato a modificare i
suoi gusti, cercando di conformarsi alla stile di vita della grande
metropoli. Inutile dirlo, dopo appena un paio di mesi la buona
volontà era andata a farsi benedire, così come la voglia di ritrovarsi
ogni volta con la testa irrimediabilmente martellata dall’emicrania e
l’intimo di una sconosciuta arrotolato fra le lenzuola del divano-letto.
«Hai un minuto, Louis?» ululò l’agente Tomos, sforzandosi di
superare il fracasso infernale pompato dall’impianto audio del club.
«Qualcosa non va? Bevi un po’ di champagne, amico mio» ribatté
Gallo con aria allegramente inebetita.
«Dobbiamo parlare, e preferirei farlo adesso» sentenziò irritato
Simpatia. Avrebbe voluto aggiungere un brutto stronzo liberatorio
alla sua affermazione, tuttavia si guardò dal farlo. In fin dei conti,
conosceva bene le abitudini del suo amico e forse quell’epiteto
sarebbe stato più consono rivolgerlo a se stessi per la dabbenaggine
con la quale aveva accettato quell’incontro notturno.
«Di qualsiasi cosa si tratti, ne parleremo stasera al Touch» aveva
esclamato entusiasta Louis durante la telefonata mattutina. «Ho
agganciato due sorelle niente male e devo assolutamente castigarne
una. Tu intrattieni l’altra, ce la spassiamo un po’ e a fine serata mi
racconti l’intera faccenda. Non puoi rifiutare, Frank. Sei sparito di
colpo e dovrei ancora avercela con te.»
Simpatia aveva accettato l’invito senza rifletterci troppo sopra. Ora, in
contropartita, le palle gli erano diventate turgide abbastanza da fargli
male.
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Gallo si scusò con Molly, la bambolina ossigenata con le tette a
pressione, quindi si sistemò il completo bianco di Armani e seguì
Tomos oltre una tenda di velluto rosso. Abbandonato il privè, i due si
ritrovarono avvolti dalla lieve penombra dello stretto corridoio che
conduceva verso la zona toilettes del primo piano.
«Che cazzo ti prende, Frank?» esordì tra il sorpreso e il contrariato
Louis. All’interno di quella specie di budello dal soffitto a volta, la
musica giungeva ovattata e lontana. Immerse in un soffuso riverbero
azzurrino, prodotto da una serie di lanterne a led in stile orientale,
alcune coppie di giovani si scambiavano baci e tastatine a pochi metri
dalla scala di collegamento al piano inferiore.
«Mi sono rotto i coglioni di cazzeggiare» sbottò Simpatia
accendendosi l’ennesima sigaretta della serata. «Accompagniamo le
tipe e andiamo a casa mia. Mi hanno affidato il caso dell’attentatore
seriale: ho due giorni per tirar su una piccola task force e rendere tutti
gli elementi operativi. Il Segretario Generale controllerà di persona
l’operato della nostra sezione e il capo sta già cominciando a
mordermi la coda.»
~‡~
L’intera squadra era raccolta nel salotto del loft al piano terra.
L’appartamento, così come amava definirlo Simpatia, era in realtà una
spaziosa struttura a due piani che si ergeva a pochi passi dall’ alta
quercia secolare segnante l’incrocio fra la Decima e Bergen
Boulevard, nel piccolo comune di Bergen. L’ingresso della
costruzione era munito di un vasto spiazzato dove gli ospiti potevano
parcheggiare le loro vetture, eccezion fatta per la Celica. Quella,
ovviamente, finiva ogni sera nel box in muratura che costeggiava il
fianco destro della casa. Il retro della villa affacciava in un giardino a
pianta rettangolare, attrezzato con un piccolo prato inglese e diverse
aiuole colme di oleandri, gerani ed ortensie. Una lunga cortina di
platani e ontani separava la sua zona verde da quella appartenente
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alle abitazioni che si proiettavano distanziate sul prolungamento
della nona strada.
«La prima esplosione è avvenuta il Lexinghton Avenue alle ore 19»
osservò l’agente Tomos, mentre passava un gin-tonic gelato tra le
mani carnose di Emile Ulisses. «L’obiettivo è stato il sottopasso che
conduce alla linea sei della metropolitana. Dopo l’enorme boato, nel
giro di pochi secondi le fiamme hanno abbracciato la passerella
magnetica della galleria e gli avventori sono rimasti intrappolati in
un’apocalisse di fumo e fuoco. L’attentato ha provocato otto vittime e
sedici feriti, la maggior parte dei quali intossicati dalle esalazioni
prodotte dalla combustione delle parti plastiche che rivestivano le
pareti e l’intero impianto elettrico del sottopasso. L’onda d’urto
generata dal semtex ha mandato in tilt le ventole d’areazione del
condotto e ha completamente squarciato i tre gabbiotti della sicurezza
che si trovano a circa metà strada fra i varchi d’accesso e la
banchina.»
«Cazzo» ironizzò Emile, scuotendo il bicchiere per rimescolare il
ghiaccio, «meno male che ho perso l’abitudine di frequentare
l’Atlantic Grill da un pezzo.»
«Hanno dei prezzi da bomba, vero?» postillò salace Sid Costantine,
lasciando cadere ancora una volta l’occhio da pesce lesso sulla corta
gonna plissettata di Valery Maloon, articolista presso il Morning
Postal, ex spogliarellista nonché vecchia fiamma di Simpatia.
Frank sospirò con aria sconfitta: Il duo comico Costantine-Ulisses
sembrava voler riprendere l’attività.
«Conosciamo le generalità di tutti quelli coinvolti nell’incidente?»
chiese Louis Gallo, alzandosi dal divano e puntando dritto verso il
mobiletto bar del salone. Per lui le solite tre dita d’armagnac, da buttar
giù con un’unica, rovente sorsata.
«Attentato, Louis. Si è tratta di un attentato, non di un incidente.
Comunque, si: abbiamo nomi, indirizzi e quant’altro ma finora
nessuno ha avanzato uno studio specifico sulla base delle ricerche
effettuate.»
«Sempre la stessa storia» commentò con finta apatia Valery,
scartabellando tra i fogli sciolti dell’ultimo dossier redatto dall’agente
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Tomos. «Mentre imperversa il ballo delle competenze, nessuno vuole
entrare sul serio nel merito delle indagini, giusto Frank?»
Simpatia tacque, i tratti del suo viso irrigiditi in una smorfia di
insofferenza. Odiava doverle dare ragione. A seguito di una prima
raffazzonata analisi, la C.I.A. aveva demandato l’onere del lavoro all’
N.S.A. e quest’ultima, a seguito del secondo evento stragista, si era
affrettata a passare la palla al principale braccio operativo del
Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il Federal Bureau of
Investigation.
«Dopo due settimane, un’altra esplosione ha interessato il centro di
Little Italy» riprese asciutto l’agente Tomos.
«Se ricordo bene stai parlando della bomba piazzata davanti al
Florio’s restaurant» l’interruppe Gallo, riaccomodandosi davanti al
basso tavolino e azzannando con voracità un trancio di pizza ai
peperoni.
«Esattamente. Il locale si trova a circa trecento metri dalla stazione
metro di Grand Street e lo scoppio è avvenuto intorno all’ora di
pranzo. L’ordigno era nascosto in uno dei cassonetti dell’immondizia
posti lungo il ciglio della strada. Stavolta sono stati contati quattro
morti e sei feriti, tutti avventori che consumavano seduti ai tavolini
apparecchiati sotto il pergolato esterno.»
«Ovviamente abbiamo la lista completa dei clienti che si trovavano
nel locale al momento dell’esplosione, sono stati interrogati il
proprietario e tutto lo staff del ristorante e sono stati visionati i filmati
di tutte le telecamere a circuito chiuso che possono aver ripreso la
zona intorno all’ora d’interesse» si augurò Louis Gallo con voce
velata dall’incertezza: In fondo si trattava di attenersi soltanto alla
procedura. Semplice routine.
«Certo» lo rassicurò Frank, lanciandogli una cartellina gialla dalla
copertina plastificata. «Tutte le informazioni specifiche sul caso sono
contenute lì dentro. Ho fatto cinque copie del documento, cosicché
ognuno di noi avrà una visione completa della situazione e potrà
approfondire con calma la totalità degli elementi finora in nostro
possesso.»
18
Dopo aver distribuito anche a Costantine ed Ulisses una stampa del
dossier, Simpatia tracciò brevemente la dinamica dell’ultimo
attentato, ricordando stralci del rapporto presentatogli da Arthur
Miller il giorno precedente e affidandosi alle sensazioni che aveva
provato recandosi di persona sul luogo della detonazione.
Quand’ebbe finito di parlare, l’agente Tomos appoggiò una coscia sul
bordo del lungo tavolo da pranzo che dominava l’area prospiciente il
soggiorno e restò per un po’ in silenzio, fissando con sguardo pallido
e stranito l’opalescente nudità della parete, investita dalla caparbia
luce al neon della plafoniera lineare a sospensione.
«Tutto bene, Frank?» sussurrò Sid, ridestando il suo collega
dall’interminabile momento d’oblio nel quale pareva essere scivolato.
«Scusate» sillabò con fatica Simpatia. Tra le labbra apparve il filtro
scurito di una Black Devil a vaniglia. Dopo averla accesa, il federale
ne annusò profondamente la tenue e delicata fragranza, come se la
semplicità di quel gesto potesse aiutarlo a liberarsi dalla asfissiante
stretta mentale provocatagli da un pensiero ormai fisso:
«Sono due giorni che ci provo, eppure non riesco a cancellare dagli
occhi l’immagine del viso sfigurato di quella donna. E’ come se mi
perseguitasse…»
19
lunedi
24 ottobre
Capitolo 2
L’agente Tomos parcheggiò il bolide a pochi passi dal New York
Public Library Gift Shop e si diresse a passo svelto dall’altro lato della
strada. Il freddo di quel penultimo lunedì di ottobre era così
pungente da attanagliare i pensieri. Amplificato da improvvise
raffiche di vento, Frank lo sentiva permeare i vestiti, oltrepassando la
pelle e spingendosi fino al midollo delle sue ossa. I cancelli del New
Montefiore Cemetery erano stranamente aperti nel giorno dello
Shemini Atzeret. Varcata la soglia del sepolcreto, Simpatia si aggirò
in silenzio fra le lapidi del primo e del secondo settore, delimitati da
una fitta serie di siepi che costeggiavano una lunga passerella
20
realizzata in basolato vulcanico. Il camminamento portava ad una
specie di crocicchio, al centro del quale si ergeva un’elegante cappella
ebraica a base ottagonale, dalle mura tinteggiate di un bianco candido
e dalla copertura grigia a falde. L’edificio, certamente luogo di riposo
per un’intera generazione di benestanti immigrati ebrei, era immerso
in una fitta corona di frassini e lecci, macchie solidago nel blu acciaio
di metà mattinata.
Alle spalle della tomba gentilizia, l’agente Tomos intravide un
capannello di figure in abito scuro. Erano disposte a semicerchio a
metà della terza fila di loculi che costituivano il quarto settore: alcune
stringevano fra le mani piccoli mazzi di fiori, altre avevano il capo
chino e i polsi incrociati dietro la schiena. Di fronte a loro, un pastore
imbacuccato nei paramenti liturgici recitava con voce
meccanicamente impostata il salmo dell’estremo saluto, mentre due
uomini in doppio petto armeggiavano con delle corde davanti
all’esile leggio.
Due coppie di ghirlande sapientemente addobbate sporgevano sul
lato sinistro del triste assembramento. In cima ad una delle
composizioni floreali, una sorta di drappo plastificato di color oro
riportava la scritta: “All’angelo di nome Sara, gli amici del Pets Hospital.”
Prima di raggiungere l’ultima fila di presenti, Frank estrasse dalla
tasca il suo cellulare e diede una rapida occhiata allo schermo:
Nessuna chiamata, né alcun messaggio nuovo in entrata. L’orologio
indicava le undici precise. A quel punto inspirò a lungo l’odore
dell’erba intrisa di umidità ed attese leggermente in disparte il
termine della funzione religiosa.
In un altro frangente, la divisione del lavoro sarebbe stata effettuata
in maniera diversa. Probabilmente avrebbe demandato a Valery
l’onere di presenziare al funerale della vittima, cercando di strappare
qualche confessione ad amici e parenti. Al contrario, lui si sarebbe
limitato ad agire dietro le quinte, analizzando le informazioni
desunte dai diversi canali investigativi, magari nascondendosi nella
tranquillità del suo appartamento di Bergen.
E invece ora si trovava lì, in prima persona.
21
Aveva spedito Louis alla sede della SunLab Inc., la multinazionale
dove Sara lavorava come bioricercatrice associata ad uno studio per
l’elaborazione di una nuova molecola farmaceutica.
«Fai un po’ di domande in giro, ascolta i colleghi del progetto e
controlla il suo ufficio» gli aveva detto la sera precedente. Emilie
Ulisses, da genio informatico quale era, aveva ricevuto il gravoso
compito di scandagliare l’etere in lungo e in largo, in cerca di
qualsiasi elemento potesse essere accorpato ai dati fino a quel
momento in loro possesso. In aggiunta, avrebbe dovuto impegnarsi a
scoprire i punti cardine della traccia rossa, definendo per grosse linee
il percorso seguito dal contrabbando internazionale degli esplosivi a
base di C4.
Per quanto riguardava Sid, una volta ottenuto il mandato di
perquisizione dal procuratore federale, aveva deciso di affiancarlo a
Valery nelle ricerche da condurre all’interno dell’abitazione della
vittima. Un’intera giornata accanto a quel belloccio e allupato tombeur
de femmes , lindo e pinto come quei modelli mezzo froci che
riempivano le copertine di MaryClare o Vogue: di sicuro una
condanna per la caustica Maloon, una penitenza degna del Dante
Alighieri più vendicativo e inflessibile. A fine indagine, lei sarebbe
tornata a casa sfinita, seccata, addirittura sfibrata dalle avances
continue e dal comportamento stucchevole del damerino. Dal suo
canto, l’agente Costantine avrebbe finalmente capito che esistevano
donne che non potevano essere conquistate sfruttando
esclusivamente l’eleganza, la ricchezza e la bellezza. Donne dalle
quali era preferibile stare alla larga…
~‡~
22
Melody Duncan. Sua madre. Sul finire degli anni ’80, dietro le quinte
dei palcoscenici musicali di mezza Europa, veniva chiamata la bionda
dalle dita fatate.
Infilando lo sguardo fra le chiome corvine delle due donne che gli
porgevano le spalle, Frank puntò gli occhi sul feretro zincato di Sara
Gouldstein che lentamente veniva lasciato scivolare all’interno della
fossa dagli addetti della compagnia di pompe funebri.
Un salto nel buio. Un tuffo nel passato con un’apnea interminabile,
lunga all’incirca venticinque anni.
Mentre sottili lame opalescenti cominciavano a lacerare l’uggiosa
tendina di nuvoloni che stazionava alta nel cielo, Simpatia rivisse
d’improvviso bocconi della sua adolescenza. L’eco dei ricordi invase
le camere della memoria e Frank si rivide appena tredicenne
nell’ampio soggiorno della sua casa di Lakewood.
Indossava una camicia a quadroni color salmone, con bottoncini a
clip, ed un jeans avion attillato, sbrindellato di proposito all’altezza
delle ginocchia e sulle tasche posteriori. Un must fra i ragazzini
dell’epoca.
La stanza era inondata di luce e un soffice calore si diffondeva fin sul
fondo della sala. Seduta accanto a lui sul lungo pancone nero laccato,
Melody gli sorrideva con espressione amorevole.
Di fronte a loro la magnifica tastiera del Borgato a coda lunga
attendeva silenziosa.
Insieme ripetevano accordi, scale e armonie. Poi la lezione terminava
e Frank si lasciava affascinare per ore dalle perfette esecuzioni di
quella talentuosa artista: Jazz, bossanova e bluegrass si alternavano
con brani di Chopin, Schubert e Bach. Il pallore di quelle dita nervose
e affusolate sembrava mescolarsi al candore dei tasti del piano per
dare origine ad una sinfonia di emozioni ogni volta incredibili.
L’uomo che andava avvicinandosi per primo alla fossa era un tipo
alto e ben piantato, stretto in un impermeabile blu scuro che
avvolgeva un bel completo classico della stessa tinta. Le sue tempie,
spruzzate di bianco, mostravano un accenno di calvizie mentre le
labbra carnose erano sormontate da un paio di baffi grigi, sottili e ben
curati. Lentamente si piegò in avanti, poggiando un ginocchio sul
23
terriccio appena smosso. Quindi lanciò nello scavo un voluminoso
fascio di rose pallide e restò per un momento immobile in quella
posizione. Simpatia non poté far a meno di notare l’austerità di quel
volto dai tratti irrigiditi, immerso in un dolore composto, venato di
profonda rassegnazione. I suoi penetranti occhi castani apparivano
lucidi e leggermente arrossati, eppure le sue gote erano asciutte,
segno che nessuna lacrima ne aveva solcato la superficie. Portandosi
una bionda alla bocca, il federale ricordò l’espressione stravolta di
suo padre in un’occasione simile.
Anthony Tomos non era sempre stato un ubriacone malinconico.
Prima che la sventura colpisse la sua famiglia, il vecchio Tony era un
uomo dinamico e risoluto nonché un alto ufficiale della Marina
Militare Americana.
Gente che conta amava ripetere ai suoi tre figli.
Aveva incontrato Melody Duncan in un bistrot di Parigi, durante una
delle sue rarissime vacanze estive, e da quel giorno i due non si erano
più lasciati.
Era l’Agosto del ’70.
Appena venti mesi dopo, insieme alle nozze celebrate nella piccola
chiesa battista di Alameda Avenue, era arrivato anche un
marmocchio di nome Franklin, un fagotto vispo e dagli occhietti neri
come la notte. Ogni volta che ricordava il periodo della sua
fanciullezza, Simpatia avvertiva una forte stretta al cuore e i tratti del
suo volto si rattrappivano irrimediabilmente in un’espressione di
mesta commiserazione. Appena compiuti i quattordici anni, quel
fanciullo spensierato e felice, che si divertiva a bighellonare sotto il
sole fra le macchie di sempreverdi dello Stanton Park, era stato
scaraventato d’improvviso negli abissi più reconditi di un incubo
lungo sette anni. Come sotto l’influsso di uno spaventoso sortilegio,
tutto a un tratto il piccolo Frank era diventato il protagonista
inconscio di un’opera di Victor Hugo, L’uomo che ride. In particolar
modo, Simpatia sentiva attecchire sulla propria pelle una delle tante
massime contenute in quel libro : Nel destino di ogni uomo può esserci
una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione.
24
Una telefonata nel cuore della notte. Zia May in preda allo sgomento,
un fiume di lacrime che le rigava il viso dai tratti aggraziati. Era stata
la disperazione ad uccidere Melody ed ora le sue dita gelide e mortali
avevano agguantato i restanti componenti della famiglia Tomos.
Troppe le pressioni, troppi gli impegni di lavoro dovuti alla sua
nuova condizione di astro nascente della musica classica. I doveri di
madre, il fiato sul collo di un agente farabutto e senza scrupoli, la
lontananza di un marito pressoché assente, imbarcato per buona
parte dell’anno ora su questa ora su quella corazzata, distante miglia
e miglia da casa. E, ancora, i sempre più frequenti cocktails a base di
ansiolitici, sonniferi e barbiturici, abusati per cercare di sopire i primi
sintomi di una rara forma di depressione.
Melody si era tolta la vita in una fredda notte di settembre, gettandosi
dalla terrazza di una suite al 36esimo piano del Mercury Trinity
Palace di Montreal.
Da quel momento in poi, Frank si era tramutato nel bambino
descritto da Hugo: abbandonato, angosciato, affamato e a piedi nudi,
aveva preso a vagare da solo nella tempesta, cercando di raggiungere
un filo di fumo intravisto solo per un attimo.
Gli anni che seguirono furono puro dolore.
Anthony era distrutto, squarciato in mille pezzi dalla sofferenza e dal
rimorso. In breve tempo divenne un vegetale attaccato ad una
bottiglia, tanto che dovette abbandonare il suo lavoro in Marina per
entrare in una comunità di recupero. Tempo e soldi sprecati: tutte le
volte che ne riusciva, Tony agguantava il bicchiere con più foga di
prima, crogiolandosi nel patetico circolo vizioso dell’autodistruzione.
Senza più madre e con un padre ridotto all’ombra ripugnante di se
stesso, Frank fu affidato alle cure di zia May, la sorella di Melody.
Thomas e Alicia, i suoi fratelli minori, ebbero invece la sventura di
capitare in quel circo ambulante che era la famiglia di zio Simon,
all’epoca venditore di auto nel Michigan e germano minore
dell’ufficiale Anthony Tomos. Quando riuscì a rivederli, a circa tre
anni dalla morte di sua madre, ebbe l’impressione di incontrare due
perfetti sconosciuti. A quel punto dovette ingoiare a forza l’idea che
la sua famiglia fosse svanita per sempre.
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La coppia di bell’imbusti in doppio petto terminò il suo infame
lavoro, rinterrando con cura la fossa che conteneva la bara di Sara, e
lentamente il costernato cordone di omaggianti cominciò a sfaldarsi.
Alcuni si avvicinarono alla lapide marmorea e, dopo averne baciato
la scritta in bassorilievo, abbandonarono ai suoi fianchi piccole
composizioni floreali. Altri, infagottati nei loro giacconi pesanti,
preferirono incamminarsi verso l’uscita con la testa incassata nelle
spalle. Ovunque gli sguardi vitrei e quasi assorti riflettevano l’infido
senso d’oppressione e di mestizia che abbuiava gli animi in quella
desolante giornata. Liberandosi dignitosamente dagli abbracci e dalle
manifestazioni di cordoglio dei pochi rimasti, Madison Gouldstein
raggiunse con sollecitudine la sagoma intonacata del pastore e i due
rimasero a parlare in disparte per qualche minuto. Quand’ebbe
terminato di conversare, il padre della defunta fece un cenno ad un
tipo segaligno che stringeva in una mano una lucida ventiquattrore e
questi si attaccò al cellulare con aria battagliera.
«Il Signor Gouldstein?» esordì Simpatia, affiancandosi alla figura
ancora prestante del vecchio magnate.
Madison scrutò di sottecchi l’aspetto di quello sconosciuto, senza
arrestare la sua camminata verso la Lincoln nera che lo attendeva
lungo il cordolo piastrellato del terzo settore.
«Levati dai piedi, brutto scribacchino» ringhiò sottovoce, aggrottando
le sopracciglia cespugliose. «Ho già ripetuto a tutte le testate che non
rilascerò dichiarazioni. Ora vai al diavolo!»
Indignato, Frank lo afferrò saldamente per una spalla, impedendogli
di andare oltre. Mentre un paio di energumeni in ray-ban scure
sbucavano scattanti dalle portiere anteriori della lussuosa
presidenziale, Simpatia
bloccò il suo reticente interlocutore mostrandogli il tesserino con il
distintivo.
«Dovrebbe essere più cortese con il prossimo» l’ammonì il federale,
osservando lo spesso alone di stupore calato sul viso di Gouldstein,
«specialmente se si tratta di qualcuno venuto appositamente per
cercare di renderle giustizia.»
26
«Deve scusarmi, agente» ribatté pacato il vecchio magnate, alzando la
mano per arrestare a qualche metro di distanza i suoi cagnacci da
presa. «E’ un momento difficile e l’ultima cosa che voglio sono i
riflettori della stampa puntati su ciò che resta della mia famiglia.»
«Immagino» si limitò a rispondere il federale, «tuttavia spero non le
dispiaccia rispondere a qualche domanda. La morte di sua figlia
rientra nelle competenze del mio caso, quindi…»
«Nessun problema» precisò Madison Gouldstein, «mi accompagna
all’auto?»
«Preferirei parlare qui. Non vorrei perdere l’occasione di scambiare
quattro chiacchiere anche con gli amici più stretti di Sara.»
Madison sospirò impercettibilmente. Quindi chiamò a voce alta il suo
factotum, l’uomo con la valigetta che aveva appena terminato la sua
lunga telefonata:
«Sammy!»
«Tutto confermato, Mr. Gouldstein» prese a dire lo stecchino in un
tono a metà strada fra lo zelante e il mellifluo, avvicinandosi con
passo veloce al suo datore di lavoro. «La riunione comincerà tra due
ore. Se ci sbrighiamo a partire potremmo arrivare…»
«Annulla tutto, Sammy» lo zittì su due piedi Madison, «e torna pure
in ufficio. Io ti raggiungerò più tardi.»
«Ma signore…» cercò timidamente di protestare l’attendente,
sistemandosi i grossi occhiali rotondi sulla sommità del suo naso
schiacciato.
«Sei sordo? Fallo!»
«Come desidera, Mr. Gouldstein» concluse con aria abbacchiata il
segretario. Quindi se ne tornò ciondolante verso la lunga berlina dai
vetri oscurati. Simpatia notò un rivolo di soddisfazione attraversare
repentino i lineamenti del magnate.
Un paio di minuti dopo, la Lincoln che ospitava il seguito del
fondatore della G&M Editions attraversò l’ampio basolato del
cimitero e sparì oltre l’alta cortina verde che circondava l’austera
cappella ebraica.
27
«Allora» domandò Madison, estraendo dalla tasca del suo
impermeabile uno stupendo portasigarette in oro bianco, «cosa
voleva sapere di preciso?»
~‡~
“Soggetto atipico”. Così l’avrebbero probabilmente definita gli
strizzacervelli al soldo dell’ F.B.I. e, per la prima volta nella sua
decennale carriera, Frank si sarebbe trovato nell’ incresciosa
situazione di dovergli dare ragione. In effetti, la vita di Sara appariva
davvero una sorta di cervellotico rompicapo. Da un lato c’era la
ragazza difficile, in continua guerra contro un padre miliardario e
ficcanaso, che aveva abbandonato la splendida tenuta di famiglia per
rifugiarsi appena ventenne in un cesso di appartamento affittato a sue
spese nella grigia contea di Nerwark. Piccoli problemini con la legge,
causati da un paio di fermi per droga e distruzione della cosa
pubblica, uniti ad un matrimonio con un violento pittore francese,
terminato troppo frettolosamente fra aule di tribunale e denunce per
percosse, aiutavano a rimarcare con decisione il versante bizzoso ed
irruente del suo carattere. In contropartita, l’amore per gli animali e
per i libri, l’alto livello di specializzazione raggiunto in anni e anni di
applicazione nello studio, la determinazione, il senso del dovere e
l’entusiasmo con cui si approcciava ai suoi diversi impegni umanitari
del fine settimana mostravano l’essenza gentile e virtuosa di un
animo ancora candido, eppure costantemente minato da un profondo
tormento interiore. Secondo le parole di suo padre, negli ultimi tempi
Sara non doveva passarsela troppo bene.
«Di solito parcheggiava l’auto nel vialetto che da sul retro della villa»
aveva riferito Madison Gouldstein, «in modo da sgattaiolare in casa
senza dovermi incontrare. Era molto legata a sua madre e spesso
veniva a sincerarsi sulle sue condizioni: purtroppo mia moglie Rose
soffre di una grave malattia respiratoria che l’ha inchiodata al letto
ormai da tre anni. A volte, rientrando da lavoro, mi affacciavo
dall’altra parte del giardino per scorgere i fanali della sua Audi.
28
Anche se tra noi non c’era più alcun tipo di dialogo, ero comunque
felice di sapere che era venuta per passare qualche oretta con Rose.»
Nel discorso era saltato fuori che, circa due mesi prima della sua
tragica fine, la giovane bioricercatrice dai capelli rossi aveva smesso
improvvisamente di recarsi nell’abitazione paterna per far visita alla
madre, limitandosi a telefonarle tre volte a settimana.
«Rose mi diceva di avvertire nell’inflessione della sua voce qualcosa
di strano» aveva concluso l’uomo simbolo della G&M Editions,
«sembrava nervosa, preoccupata. Io non ho dato troppo peso alla
cosa: era tipico di Sara avere dei brevi periodi di nichilismo.»
Dai pochi altri intimi che si erano attardati nei pressi della sepoltura,
il federale aveva appreso notizie poco rilevanti. Ognuno aveva dato
una descrizione personale della vittima e l’immagine di fondo che
scaturiva da quell’ingarbugliato intrico di deposizioni rivelava una
donna dinamica e costantemente affaccendata nell’ inseguire le sue
mille attività, con una spiccata attitudine alla leadership e allo scontro
con il sesso opposto.
La risma di nubi caliginose, inanellate l’una accanto all’altra con
sardonica complicità, si era ormai dileguata puntando dritto verso
nord-est. Il cielo era diventato terso e grosse chiazze di luce
cominciavano ad investire le pareti degli edifici che si affacciavano
sui cancelli del New Montefiori Cemetery. Di contro, nelle zone
d’ombra, il rigore di quella giornata autunnale continuava ad essere
vivido e penetrante. Superato velocemente l’ingresso del sepolcreto,
l’agente Tomos raggiunse la zona dove aveva parcheggiato la sua
auto. Prima di salire a bordo, fece tappa in un bar situato all’angolo
con la 39esima e si sedette ad uno degli sgabelli sistemati davanti ad
un massiccio bancone in mogano a forma di L. Il locale era semivuoto
e il proprietario stava immergendo in una tinozza d’acqua bollente
un infinito set di tazzine e cucchiai. Frank ordinò il suo caffè doppio,
corretto all’amaretto come gli aveva insegnato una vecchia
conoscenza italiana. Quindi, mentre attendeva la sua comanda, gettò
un’occhiata sui titoli di prima pagina del Times. Il granitico riff di
“Highway to hell” degli AC/DC interruppe la sua svogliata lettura e
29
Simpatia si affrettò a rispondere al cellulare: sul display lampeggiava
con insistenza il numero di Emilie Ulisses.
«Salvami, Net» mugolò il federale in tono apaticamente fievole.
«Qualcosa bolle in pentola» brusì smanioso il gigante panciuto. Frank
riusciva a figurarselo seduto nella sua poltrona girevole mentre,
sorridente e con gli occhi illividiti da profonde occhiaie, si grattava la
pelata arrossata della sua testa d’uovo.
«Allora?» ribattè Simpatia, portandosi alle labbra la tazzina cocente,
«cosa hai scoperto?»
«Ho trascorso l’intera notte davanti a questo dannato monitor, Mr.
Tomos» cominciò a cincischiare Emilie, «e giuro su Abramo che stavo
per gettare la tower dalla finestra…»
Ulisses era fatto così e Frank lo conosceva bene. Prima di riportare la
notizia vittoriosa di un suo successo, il genio informatico della Selex
Galileo Inc. avrebbe sproloquiato sulle immani difficoltà incontrate
lungo la strada che avrebbe poi condotto al raggiungimento del suo
obiettivo, farneticando a riguardo di arcane passwords custodite
dietro inaccessibili sistemi crittografici.
Ovviamente, l’intera pantomima era votata a pontificare le sue
indubbie qualità di mago della rete.
«Dacci un taglio, Net. Sei bravo, sei il migliore. Ora parla!»
«Ho lavorato su quella specie di filmati che mi hai fatto spedire dalla
Enterprise Parking Sistem» si affrettò a chiarire lo sneaker2, «e ho
scoperto qualcosa d’interessante. Sia nel caso dell’attacco alla linea
metro della Lexinghton che nell’esplosione davanti al Florio’s si
intravede un F150 Platinum parcheggiato nei paraggi.»
«E per quanto riguarda il semtex?» l’incalzò il federale, sperando in
una risposta positiva.
«Penso di aver ristretto sensibilmente il cerchio delle supposizioni,
ma è un discorso lungo. Hai già pranzato?»
2
Esperto informatico che riesce ad inserirsi in un sistema o in una rete per aiutare i
proprietari a prendere coscienza di un problema di sicurezza. Anche detti "white hat
hacker", molte di queste persone sono impiegate legalmente in aziende di sicurezza
informatica.
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Frank alzò gli occhi al cielo, l’afflizione dipinta sul volto a mo’ di
maschera funebre.
«Ho capito. Cosa ti porto, ciccione maledetto?»
Una grassa risata inondò l’altoparlante del suo N 900, tramutandosi
subito dopo in un paio di rasposi colpi di tosse: «Un gateau di patate
con provola e spinaci, un’insalatina russa, una pizza prosciutto,
funghi e peperoni e una bottiglia di chardonnay gelato, grazie…»
Prima che Simpatia potesse mandarlo al diavolo, Emilie aveva già
interrotto la comunicazione.
~‡~
La topaia in cui viveva Net era ubicata al terzo piano di un decrepito
condominio edificato all’incrocio fra Elton Evenue e la 160esima Est.
La vetusta costruzione, costituita da sei livelli, aveva una strana
pianta a forma di E ed era tinteggiata con una vernice giallo
paglierino sbiadita ormai da tempo immemore. Il lato opposto della
strada sulla quale affacciava quell’orribile relitto di ferro e cemento
ospitava una delle sedi dell’Esercito Della Salvezza e, inutile a dirsi,
di sera la zona diventava luogo di ritrovo per tossici, ubriaconi,
puttane e senzatetto.
Praticamente, qualcosa di molto simile ad una graziosa Bel-Air in
miniatura.
Simpatia lasciò l’auto a pochi metri dal portone dello stabile,
infilandola a lisca di pesce tra i resti carbonizzati di una vecchia El
Camino e un furgone bianco dai vetri rotti e con le ruote tranciate.
Mentre richiudeva la portiera con l’aiuto di una coscia, Frank si
accorse che, ciondolando da un piccolo muretto di mattoni, un
giovane teppistello dalla testa rasata occhieggiava furtivo la sua
bambina.
Scostando leggermente un lembo del trench grigio, l’agente Tomos
lasciò che l’attenzione del perdigiorno cadesse sulla lunga fondina di
cuoio stretta al di sotto del pettorale sinistro. Quindi, investendolo
con uno sguardo omicida, si avviò deciso e a mani impegnate verso i
31
gradini antistanti l’ingresso del condominio. A metà della rampa che
conduceva al terzo piano, Simpatia fu raggiunto dall’intro ovattato di
un pezzo che gli veniva familiare: una voce acuta, totalmente in
maschera, ripeteva un subliminale “naa-nana-naa” accompagnata da
un hammond a dir poco nervoso e da una rullata pulita e precisa.
«Mai i tuoi vicini non vengono mai a prenderti a calci?» gracchiò a
gran voce il federale, quando si ritrovò davanti al naso il faccione
paffuto di Emilie Ulisses. «Un altro paio di testate e mi avresti trovato
qui fuori svenuto, brutto stronzo! Abbassa questa cazzo di musica,
una buona volta…»
Il genio informatico sorrise, poi si affrettò a liberare le mani
dell’amico dallo scatolone contenente le pizze, sul quale era poggiata
una vistosa busta di plastica verde.
«Questo è uno dei vantaggi del lavoro a domicilio, agente»
sghignazzò il padrone di casa, posando gli acquisti su di un tavolo
rotondo dal piano in vetro ed ispezionando con cupidigia l’interno
del sacchetto. «Superate le dieci, il fabbricato diventa praticamente
vuoto ed io mi diverto a fare casino anche per gli assenti.»
Da ricovero, pensò Frank, cercando disperatamente il telecomando
del potente impianto hi-fi che pompava a palla dalla parete di fondo
dell’angusto monolocale.
Pochi istanti dopo, il solo graffiante di Blackmore si eclissava in un
impietoso fade out, tra la soddisfazione di Simpatia e le imprecazioni
caustiche di Net.
«Allora» esordì il federale, gettando sul letto la montagna di panni
sporchi che era accatastata in mille pieghe su di una poltrona senza
un bracciolo, «questo lungo discorso di cui mi parlavi?»
Emilie si accomodò con espressione rassegnata ad una sedia posta
davanti alla sua stretta scrivania. La fragranza succulenta emanata
dalle pizze ancora calde sembrava annebbiargli i pensieri: tutto ciò
che gli interessava in quel frangente era riempire le pareti del suo
insaziabile stomaco. Sperando di cavarsela con quattro parole, Ulisses
pigiò il led luminoso segnalante Stand-by sulla tastiera del pc. Quindi
invitò l’agente Tomos a sedersi accanto a lui e cominciò la
spiegazione del proprio puntiglioso lavoro:
32
«Come ti dicevo, per prima cosa mi sono dedicato ai video registrati
dalle telecamere della Enterprise nei giorni delle esplosioni. Non
capisco come certe società riescano a stare ancora sulla piazza: le loro
telecamere a circuito chiuso sono qualcosa di abominevole. Farebbero
una gran bella figura in un museo di antiquariato.»
«Riferirò ai chi di dovere» ribatté asciutto Simpatia, «ora vai avanti.»
«Così com’erano, i video risultavano inservibili. Ho dovuto utilizzare
un cugino iperpotenziato del Vreveal, capisci?»
Frank rimase muto, grattandosi il centro della nuca con aria confusa.
«Se, vabbè, ci vediamo!» sbottò amareggiato Emilie. «Ma cazzo, lo
accendi qualche volta il computer oppure lo tieni solo come
sopramobile?»
Un perentorio Vaffanculo rimbombò nella tranquillità del monolocale.
«Ciò che sto cercando di spiegarti è che ho dovuto effettuare un
lavoro di riqualificazione digitale delle riprese video. Mi sono servito
di un programma leggermente modificato, non molto diffuso nella
rete. E’ un’ implementazione particolare di un software già presente
in commercio, il Vreveal. La maggior parte dei cineamatori lo usa per
incrementare la resa dei video che realizzano in esterna.»
«Ah ecco. E alla fine hai notato un Ford pick-up presente nelle zone
interessate dagli attentati» tagliò corto l’agente Tomos,
giocherellando nervosamente con lo zippo marchiato US Navy.
Net digitò la password di accesso ad una delle sue utenze, poi cliccò
con il cursore mouse un’icone viola elettrico e sul monitor del pc
partirono una serie di file Avi. «Qui siamo in prossimità dell’incrocio
di Lexinghton» prese a dire Net, indicando il vertice alto della
schermata, «vedi l’orario?»
«18 e 30»
«Aguzza la vista, Frank. Dove si trova?»
Simpatia squadrò in lungo e in largo l’intera estensione dell’area
registrata nel video in cerca di un F 150 Platinum.
«Ci sono!» esclamò ad un tratto, «Martin J levenson LLP, alla destra
del secondo palo. Tra la Mercedes e quella specie di catorcio
funebre.»
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«E’ una Volvo, amico» l’imbeccò seccato Ulisses, scartando una
caramella consolatrice. La stessa identica vettura era parcheggiata
proprio alle spalle del condominio e, ovviamente, apparteneva
all’inquilino sciatto e flaccido che occupava uno degli appartamenti al
terzo piano.
«Quante volte hai rivisto il filmato?» l’incalzò eccitato il federale.
Aveva timore anche solo a sfiorare un simile pensiero… Forse la
fortuna aveva deciso di porgere loro una mano misericordiosa.
«Almeno venticinque» assicurò incolore il genio informatico, «ma
non ho rilevato nessun altro elemento d’interesse. La vettura ha
parcheggiato alle 18 e 20 ed ha abbandonato la Lexinghton appena
due minuti prima dell’esplosione. Nessuno è uscito dall’auto. Da qui
il motivo del mio sospetto.»
Simpatia rimase immobile a guardare le immagini che scorrevano sul
monitor, le lunghe dita callose sfioranti le guance smagrite, ricoperte
da un sottile filo di barba.
Net caricò le riprese effettuate dal circuito di sorveglianza della JMK
Reality Inc., l’agenzia di brokers della 192 Grand Street a pochi passi
dal Florio’s, obiettivo del secondo attentato. Insieme ricontrollarono
le immagini che scorrevano lente nella luminescenza dello schermo al
plasma.
«L’orologio segna le 12 e 45» sottolineò Ulisses, succhiando
rumorosamente i resti del confetto a menta, «e guarda quale vettura è
ferma di fronte al Di Palo’s?» Non c’erano dubbi: quello che stavano
osservando era lo stesso F 150 Platinum, avion e con i vetri fumè. «In
questo caso è rimasto a godersi lo spettacolo, poiché era ancora lì al
momento dell’esplosione» concluse l’informatico.
«Bel lavoro, Net» si complimentò con sincero encomio Simpatia. Il
ciccione aveva probabilmente passato tutta la notte a visionare,
ripristinare, tagliare e montare l’intero repertorio di video inviatogli
dall’agente Costantine la mattina precedente. Un’ impresa lunga e
tediosa, ma che alla fine aveva portato i suoi buoni frutti.
«Non c’è verso di risalire a parte della targa, vero?» cercò di illudersi
Frank, poggiando una mano sulla schiena curva del suo amico.
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Lo sneaker lo attraversò con uno sguardo ambiguo. Quindi sfilò gli
occhiali che erano scivolati a metà del suo naso aquilino e cominciò a
pulirne i vetri con una pezzuola color pesca.
«Ammetto di essere bravo, agente» soppesò in tono serioso Net, «ma
non puoi chiedermi l’impossibile. Non sai quante volte ho cercato di
arrestare le immagini nel momento della sua ripartenza, sperando di
analizzare il retro dell’auto da un’altra angolazione. Niente, la
velocità del mezzo distorce il frame, e zoomando i numeri diventano
semplici macchie scure su fondo bianco. Mi spiace, Frank.»
«Non dispiacerti, bello»lo rassicurò il federale, alzandosi lentamente
dalla sconquassata poltrona, «sei solo all’inizio dell’opera e per il
momento hai raggiunto un gran risultato. Adesso quanto meno
conosciamo qualcosa del nostro ipotetico avversario.»
La penombra in cui Ulisses aveva forzato il suo appartamento
divenne ad un tratto quasi soffocante. Il federale si avvicinò alla
tapparella della finestra, posta sul fondo della stanza alla sinistra
della scrivania, e prese a tirarne la ruvida cinghia in cotone. La
serranda plastificata iniziò ad avvolgersi nel rullo sovrastante
emettendo una oscura sinfonia, fatta di continui gemiti e scricchiolii.
Frank capì che era rimasta bloccata in quella posizione per chissà
quanto tempo.
Una nube di luce calda ed ambrata scivolò furtiva dall’apertura
finalmente libera e l’intero ambiente abbandonò le fattezze cavernose
in cui aveva ristagnato fino ad allora per assumere l’aspetto di un
luogo abitato.
Simpatia si sporse dal davanzale per controllare la sua bambina
posteggiata oltre l’estremo occidentale del fabbricato. Sebbene il sole
avesse preso a brillare alto nel cielo da un’oretta abbondante, l’aria
era ancora fresca e piccoli sbuffi volitivi ricordavano di tanto in tanto
l’apprestarsi della stagione invernale.
«Passiamo alla traccia rossa, Net» interloquì nuovamente il federale,
voltandosi a scrutare il viso paffuto e giallognolo di Ulisses. L’amico
era ancora stravaccato sulla sua sedia dallo schienale reclinabile, con
le braccia pelose incrociate dietro la testa e i piedi poggiati l’uno
sull’altro sul bordo della scrivania.
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