il rapporto semtex
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il rapporto semtex
1 FABIO SORRENTINO “il rapporto semtex” 2 Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore oppure sono stati utilizzati esclusivamente in chiave romanzesca. Ogni somiglianza con eventi, luoghi o persone reali, vive o defunte, è da considerarsi puramente casuale. 3 giovedÌ venti ottobre Capitolo 1 La Celica giallo crema del ‘77 divorò l’ingresso del parcheggio autobus e arrestò la sua folle corsa in sbandata regolata, a pochi metri dall’area presidiata dagli uomini della Scientifica. Il rabbioso ruggito del doppio magnaflow sport ovale svaporò di colpo, riconsegnando nuovamente il sordo e incessante scrosciare della pioggia. Arthur Miller, il più alto in grado fra quelli del C.S.I. accorsi sul luogo dell’attentato, gettò una rapida occhiata alla figura che, abbandonato in fretta il bolide, andava avvicinandosi con passo deciso verso la zona dei rilievi. Istintivamente si calcò ben in testa il berretto blu scuro con il logo del reparto e si accomodò con cura il bavero del lungo impermeabile. Con il suo vocione arrochito, rotto dal fumo di infinite L&M senza filtro, si lasciò sfuggire uno stizzito “ti pareva” all’indirizzo del giovane collega. Quindi, chinandosi a raccogliere campioni dei piccoli frammenti metallici sparsi a raggiera sull’asfalto, bofonchiò tra sé: “ci mancava solo Simpatia…” Il nuovo arrivato si limitò a salutare i presenti con un impercettibile cenno del capo. Poi estrasse dalla tasca del suo trench grigio topo uno zippo lucido con lo stemma della U.S. Navy e tentò di accendere a più riprese ciò che restava della sigaretta fradicia, stretta immancabilmente fra le labbra. «Cosa hai scoperto, Arthur?» chiese senza entusiasmo il tipo, frugando nervosamente fra le cerniere interne del suo costoso cappotto. 4 «Un altro IED1. Stavolta ha usato l’impulso inviato dal riconoscimento digitale del cancello come detonatore.» «Uhm, però… E della vittima? Cosa sai dirmi.» «Abbiamo ritrovato la sua tessera sanitaria: Sara Gouldstein, 34 anni, residente in Elizabeth Avenue, Nerwark.» Simpatia restò in silenzio, lo sguardo rivolto nel punto esatto dove giaceva il corpo della vittima. Uno spesso telone bianco lo copriva fino all’attaccatura superiore dei polpacci, quindi lasciava scorgere l’estremità delle sue gambe, pallide e nude sotto la pioggia battente. «E’ un miracolo che lo spiazzato fosse deserto al momento dell’esplosione» continuò Miller, mentre rigirava fra le pinze un brandello del circuito elettrico costituente la capsula d’innesco, «di sicuro la quantità di Semtex utilizzata avrebbe potuto generare una strage.» «Voglio un rapporto dettagliato sulla dinamica dell’attentato» tagliò corto l’agente Frank Tomos, aspirando avidamente la seconda boccata di fumo dalla bionda che aveva acceso poco prima, utilizzando un vecchio clipper usa e getta nascosto nel taschino interno del trench. «Deve essere sulla scrivania del mio ufficio entro domattina» precisò, «e con domattina intendo entro le nove, Arthur.» Il capo della Scientifica gli lanciò un’occhiata malevola da sotto la visiera del berretto, ormai completamente bagnato. Quindi abbassò nuovamente lo sguardo sui reperti che stava esaminando, anche se le sue guance mostravano il livore di una rabbia repressa a fatica. Frank si accorse della cosa ma parve non curarsene affatto: in fondo per loro era Simpatia, quindi perché deludere i suoi numerosi estimatori? Stringendosi nella pesante stoffa del cappotto, l’agente Tomos scrutò rapidamente l’intera zona dei rilievi. Gli uomini di Miller erano divisi in coppia e lavoravano di buona lena in diversi punti del piazzale, chini fra le pozzanghere che punteggiavano il parcheggio autobus. I ragazzi armeggiavano con i flash delle loro digitali, riempivano buste di cellophane con campioni di polveri e schegge metalliche che avrebbero poi catalogato e analizzato in 1 Improvised Explosive Device 5 laboratorio, rilevavano distanze e posizioni originarie dei veicoli coinvolti nell’esplosione. D’un tratto Tomos notò che i paramedici stavano per traslare il cadavere della donna nel solito guanto nero a cerniera. Di lì a poco i resti della vittima sarebbero stati caricati nell’ambulanza per essere trasportati nella morgue del New York Presbyterian Hospital, quindi avrebbero affrontato gli esami autoptici di prammatica. Frank fischiò all’indirizzo dei due sanitari, mostrando loro il tesserino e intimandogli con la destra di attendere. Quindi si avviò con passo deciso in direzione dell’ambulanza. «Fossi in te, mi eviterei il fastidio. Non è davvero un bello spettacolo, agente» ironizzò ad alta voce Miller, mentre si tirava su per sgranchirsi le gambe intirizzite dal freddo. «Torna a lavoro, tu. E non preoccuparti» gracchiò Simpatia di spalle. «Sono un Federale, io. A certe cose ci sono abituato» sottolineò in tono sarcastico, mentre lanciava la sua cicca in una pozza oleosa, un lurido misto di acqua e catrame. ~‡~ I tergicristalli della Celica alzarono bandiera bianca non appena Simpatia imboccò il maxi ingorgo che intasava la mezzeria della Broadway. Un breve, intenso garrito e le spazzole si bloccarono a metà della loro incessante corsa. «Merda!» imprecò Frank, prendendo a pugni il clacson, posto nel centro del volante. Quindi sprofondò, abbattuto, nella comodità del suo sedile in alcantara beige e restò per qualche istante a fissare i grossi goccioloni d’acqua che, scivolando lungo il parabrezza, disegnavano piccole gore fluide fra la coppia di immobili asticelle in gomma. Il traffico della Broadway nell’ora di punta era qualcosa di malefico e micidiale, una lenta ed incredibile gogna a cui gli automobilisti dovevano rassegnarsi ogniqualvolta la Lafayette veniva transennata per riparazioni ai sottoservizi. La cosa più fastidiosa era sicuramente 6 riuscire a vedere, dall’abitacolo della vettura, le alte finestre vetro del 23iesimo piano del Federal Plaza che occhieggiavano sornione in attesa del suo arrivo. Il grattacielo era lì, a meno di 200 metri in linea d’aria, ma sarebbe rimasto fermo a quella distanza ancora per una buona mezz’ora. D’istinto guardò il cruscotto sul lato passeggeri, poi ricordò di non avere mai voluto in dotazione l’odioso lampeggiante con sirena. Non c’erano valide alternative: bisognava solo attendere, armandosi di santa pazienza. Immaginava già il doppio mento di Philip Ross, capo della sezione Manhattan, sbatacchiare su e giù in preda all’ennesimo travaso di bile. «Parola mia, al prossimo ritardo ti faccio trasferire nelle campagne del Maryland» avrebbe terminato come al solito il capo, con quel suo sguardo studiatamente torvo e l’espressione simile a quella di un giudice che sta per emettere una sentenza di colpevolezza per alto tradimento. Quindi, allontanandosi dalla soglia dell’ufficio, Philip avrebbe imprecato ad alta voce il suo particolare insulto finale: «Vaccaro presuntuoso ed insolente!» Imponendosi di pensare ad altro, Simpatia si girò verso il sedile posteriore e cominciò a cercare con gli occhi la copia settimanale di Sport Illustrated che aveva acquistato due giorni prima. Mentre scandagliava la confusione di documenti, veline e cartacce che affollavano il retro dell’auto, Frank lanciò una sbirciata attraverso il lunotto posteriore e si accorse di uno striminzito lembo di asfalto vuoto tra il suo bolide e la vettura che aveva in coda. Rapito da una soluzione improvvisa, il federale soppesò in pochi istanti l’esiguo spazio libero alle sue spalle e la propria abilità di pilota. Quindi disinserì velocemente il freno d’emergenza e sgasò d’improvviso in retromarcia, descrivendo una sorta di stretta L e ritrovandosi con metà pianale sul largo marciapiedi sul quale affacciava il New York Criminal Defence Lawyer. La manovra fu tanto repentina quanto precisa e, prima che gli altri automobilisti riuscissero a rendersi conto di cosa stesse accadendo, la Celica aveva già percorso contromano sulla banchina l’intera lunghezza che la separava dall’incrocio con Franklin street. Il proprietario del Quiznos, i camerieri e alcuni dei clienti uscirono in 7 strada per capire cosa avesse urtato in maniera così fragorosa le quattro colonne di sedie impilate una sull’altra sotto la spessa tendina color ambra. Tagliando velocemente il quadrivio, Frank Tomos scartò di un soffio un furgone pubblicitario della Sharp che lo stava investendo in pieno e andò ad occupare la corsia opposta, quella del corretto senso di marcia che conduceva in Benson street. Da lì svoltò a sinistra sulla Leonard, lasciandosi dietro l’area di sosta del Collect Pond Park, e mezzo minuto dopo sgommava all’imbocco dalla Worth Street, parcheggiando alla meno peggio di fronte al Federal Plaza. A quel punto spense il motore, recuperò il dossier che aveva preparato la sera precedente a casa di sua zia May e si precipitò nella hall dell’edificio sotto il crepitare monotono di una pioggia persistente. ~‡~ Un breve segnale acustico precedé lo scorrimento automatico delle porte. Frank abbandonò il candore luminescente prodotto dal bianco satinato dell’ascensore per immergersi nella cappa di calore che avvolgeva l’atrio del 23iesimo piano. Salutati gli agenti della sicurezza che occupavano il posto di guardia, Simpatia passò il badge nel sistema magnetico di riconoscimento e superò velocemente la doppia serie di tornelli. Quindi fu inghiottito dal grigiore del lungo corridoio che conduceva al reparto operativo del Bureau, illuminato a fatica da piccole lampade al neon, disposte a notevole distanza fra loro lungo la parete destra dell’andito. La porta del suo ufficio era aperta e un bel paio di Prada, nere e lucidissime, spuntavano dal bordo della scrivania. «Ancora quegli orribili calzini» borbottò Frank, apparendo d’improvviso sull’ingresso della stanza. Un largo sorriso prese forma sul volto giovanile del tipo che occupava il suo posto. L’uomo era intento a chiacchierare al telefono, la cornetta stretta fra la spalla sinistra e l’orecchio, mentre, con le esili gambe distese sul tavolo di formica verde, sfogliava lentamente le pagine sgualcite di un quotidiano. Il suo completo grigio, un bel 8 taglio di principe di galles, spiccava sotto la luce della lampada, posta accanto al telefono sulla scrivania. Una camicia azzurrina in tartan, di altissima fattura, esaltava la doratura di una pelle lucida e abbronzata, fresca di rasatura. I capelli neri e liscissimi erano sistemati con cura in una lunga fila laterale mentre gli occhi, colorati di un verde inteso con venature di grigio, scrutavano divertiti l’espressione rassegnata del nuovo venuto. «Ora devo lasciarti, John» s’affrettò a tagliare Sid Costantine, «è appena arrivato uno scocciatore. Tienimi aggiornato se ci sono novità.» «Illuminami, Sid» esordì in tono contrariato l’agente Tomos, dopo che il suo collega ebbe riagganciato. «E’ da quando ti hanno trasferito che mi domando cosa c’è che non vada nella tua scrivania.» «Nulla» rispose il giovane, lanciandogli una copia del Newsday, «semplicemente la tua sedia è più comoda della mia.» «Ancora quell’allibratore, vero? Quanto gli devi? Settecento, mille forse?» «C’è poco da stare allegri, agente Tomos» lo pungolò acido Costantine, sistemandosi il nodo della cravatta raso in seta. «Piuttosto ti consiglio di leggere l’articolo a pagina sei.» Frank diede una rapida scorta ai titoli di copertina, poi aprì direttamente il giornale alla pagina indicata. Uno spesso font in grassetto recitava: «nuova esplosione a sud di manhattan. il lungo braccio del terrore torna ad avvinghiare il distretto.» Sotto l’incipit apocalittico, un dettagliato resoconto di cinque colonne riportava la notizia dello IED scoppiato nel parcheggio della 43esima, snocciolando con cura tutti i particolari relativi ai due precedenti attentati avvenuti due mesi prima nel cuore della Grande Mela, a sole tre settimane di distanza fra loro. «Lo stato di New York sembra ricaduto pesantemente nel mirino dei terroristi» concludeva lo zelante reporter «e le istituzioni, FBI in primis, hanno il dovere di dimostrare ai contribuenti l’ effettiva validità del loro lavoro nella lotta a tale genere di attacchi, sia da un punto di vista operativo che sotto il profilo logistico-gestionale.» 9 «Montano l’opinione pubblica, gettandoci sulla graticola» commentò stizzito Simpatia, appallottolando nervosamente il giornale e gettandolo nel cestino. «Senti qui» continuò il collega, leggendo ad alta voce le edizioni online di diversi quotidiani locali: «Daily News: osama o un nuovo caso kaczynski? Manhattan Globe: nuovo attentato in cittÀ. le istituzioni alla finestra. E ancora, Today’s News: la rabbia supera il dolore: di chi È la colpa? Stiamo diventando il nervo scoperto, caro Frank.» D’un tratto si udì il trillo del telefono. Simpatia fece segno a Sid di sparire dalla sua poltrona, quindi vi si accomodò. Quella che stava lampeggiando era la spia dell’interno. Prima di alzare la cornetta, prese un lungo respiro: «Pronto» «Ti voglio subito nel mio ufficio. Porta con te il damerino.» Seguì il fastidioso beep di fine conversazione. «Chi era?» domandò Costantine dal retro della sua scrivania. L’espressione accigliata del collega lasciava ben pochi dubbi in proposito. «Era il capo, Sid. Vuole vederci subito…Incazzato come uno che ha dormito tutta la notte col culo scoperto.» ~‡~ La tana di Philip Ross, capo della sezione investigativa dell’ FBI di New York, era una sorta di ambigua camera dei trofei. Ogni volta che vi metteva piede, Simpatia provava la stessa identica sensazione di smarrimento che gli procuravano gli atri degli ospedali e delle cliniche private. In effetti, facendo a meno delle numerose cornici appese ai muri lattiginosi e degli innumerevoli premi vinti nelle gare di giardinaggio ed esposti in bella mostra sugli scaffali della libreria, l’ufficio di Big Mama poteva tranquillamente essere scambiato per una piccola ed asettica sala operatoria. Forse era il bianco surreale 10 delle pareti o l’ordine maniacale che vigeva sull’imponente scrivania grigia, il cui sostegno centrale era simile a quello dei lettini sui quali i primari armeggiavano fra bisturi, pinze, sangue e siringhe. L’unica apertura presente nella stanza era rappresentata da un alto finestrone in plexiglass dal quale si godeva la vista rilassante del Thomas Paine Park, accanto a Foley Square. In lontananza, defilati sulla destra, i simboli del potere cominciavano ad essere avvolti da una sottile coltre di bruma: per uno strano gioco di vapore, i primi piani del Dipartimento di Giustizia apparivano celati da una densa nuvola fumosa, come se all’interno di quei locali stesse divampando un improvviso incendio, mentre l’unica parte visibile della splendida chiesa romana di Sant’Andrea era lo stretto campanile a pianta rettangolare. Silenzioso sullo sfondo, Il ponte di Brooklyn attraversava le sponde dell’East River come un vecchio e stanco gigante dal cuore di cemento e muscoli di acciaio. L’ufficio era vuoto e Sid ne approfittò per curiosare fra le raccolte di libri presenti sugli scaffali. Frank invece restò fermo davanti alla scrivania, con lo sguardo perso sulla targhetta luccicante che riportava l’acronimo dell’agenzia. Incise sulla spessa lamina d’argento e immerse in una cornice di feltro color indaco, le parole Fidelity, Bravery e Integrity apparivano ora più che mai un pesante fardello di cui farsi carico. Per un istante la mente di Tomos fu assediata da un’incomprensibile serie d’immagini che si sovrapponevano confusamente tra loro, come in una sorta di sogno bislacco e angosciante: tutt’ad un tratto rivide il salone della sua vecchia casa in Colorado, invaso da estranei, vestiti in abito scuro e con una posticcia espressione di cordoglio stampata sul volto. Poi rivisse il momento della proclamazione ufficiale del suo grado d’agente, con Zia May, Norma e Jean che applaudivano sorridenti nel grande giardino dell’Accademia di Quantico. Infine un alito di freddo sembrò accarezzargli le guance e si ritrovò nel parcheggio autobus nei pressi della 43esima, mentre osservava sgomento il corpo orribilmente deturpato dell’ultima vittima, una giovane dai capelli rossi di nome Sara. 11 «Sedetevi» sbottò Philip Ross, apparendo oltre la soglia della stanza. Di colpo Frank ritornò alla tranquillità asettica dell’ufficio mentre l’agente Costantine cercava di celare a fatica l’imbarazzo dovuto al suo eccesso di curiosità. «Ho appena ricevuto un paio di telefonate» esordì Big Mama in tono greve. Prima di continuare a parlare, il capo si sporse dalla poltrona presidenziale con schienale reclinabile sulla quale era scivolato ed aprì un cofanetto di legno, posto sul lato destro del suo desco. Quindi, con lentezza metodica, estrasse dalla cassettina un grosso sigaro Avana e ne annusò a lungo l’aroma caratteristico. «Allora?» l’incalzò Sid, impaziente di conoscere il motivo della loro convocazione. Philip parve incenerirlo con lo sguardo. In silenzio staccò un’estremità dell’avana e, dopo averlo portato alle labbra con solennità, aspirò una profonda boccata di fumo. Piccole volute biancastre presero a salire ondeggiando verso l’alto e subito la stanza fu invasa da un odore asprigno e pungente. «La C.I.A. e La N.S.A. sono ufficialmente fuori dai giochi, ragazzi» proseguì il capo, aggrottando la fronte spaziosa in una smorfia di disappunto. «A seguito dell’ultimo episodio, la palla è passata nelle mani del Dipartimento di Giustizia. Gli specialisti hanno analizzato a fondo gli elementi relativi alla dinamica dei tre attentati: la percentuale legata ad un ipotetico coinvolgimento di gruppi integralisti d’oltreoceano è calata parecchio. Pensano si tratti di un singolo individuo, uno psicopatico che agisce in maniera del tutto autonoma.» «Come sono giunti a questa ipotesi?» dubitò Frank, sistemandosi meglio nella sedia ed incrociando le braccia sul petto con fare polemico. «E’ stato usato del semtex e le esplosioni sono avvenute qui a Manhattan, nel cuore pulsante della città.» «Certo» aggiunse infervorato l’agente Costantine, «è facile lavarsene le mani con queste chiacchiere.» «Insomma!» proruppe livido di collera Big Mama. L’espressione truce del suo faccione rubizzo cozzava vistosamente con la voce chioccia e graffiante: 12 «Le cose stanno in questa maniera, punto e basta! Il Segretario Generale ha demandato l’incarico al direttore del Dipartimento, enfatizzando la necessità di pervenire in tempi brevi all’archiviazione del caso. In fondo, c’era da aspettarsi una simile decisione: a tre mesi dal primo attentato, non abbiamo registrato alcuna rivendicazione da parte di gruppi terroristici e anche se il tipo di esplosivo potrebbe avallare la tesi integralista, la quantità di materiale utilizzato, la modalità costruttiva degli ordigni e i luoghi prescelti come obiettivi da colpire non raggiungono gli standard riscontrati in precedenti azioni stragiste.» Simpatia ascoltò in silenzio le parole di Philip Ross. Il suo sguardo superava lo spesso lastrone di plexiglass, rapito dai primi raggi solari che, pavidi ed esitanti, cominciavano a squarciare con fatica la cupezza di una mattinata fredda e incolore. Con il pensiero volò lontano alle giornate di fine estate di Lakewood, afose ed interminabili come il mantello brunito delle Montagne Rocciose… Non sarebbero bastati altri dieci anni per riuscire ad abituarsi all’ingrato e volubile clima Newyorkese. «Immagino tu abbia già elaborato un piano di lavoro» abbozzò Frank, riportando la sua attenzione sul testone rasato di Philip Ross. Quindi aggiunse con voce atona: «I nomi?» Big Mama accennò un flebile sorriso di compiacimento. Per quanto li asfissiasse, li marcasse e li spremesse come limoni maturi, il capo conosceva bene il valore dei suoi uomini. A dispetto della giovane età, Simpatia era un tipo tosto: sotto la scorza da vaccaro dell’ovest, rude e scapestrato, si nascondevano in realtà il fiuto e la tenacia di un vecchio segugio da riporto, una sorta di buffo incrocio fra un golden retriver e un dogo argentino. «E’ un periodo del cazzo, lo sai Frank,» si schermì in tono stranamente docile Philip, «e credo dovrete sbrigarvela da soli. Non voglio novellini in questa faccenda. Comunque ho pressato parecchio affinché le due gemelle ci fornissero tutto l’aiuto disponibile e alla fine hanno ceduto. Se ti viene in mente qualche elemento valido provvederanno a trasferirlo nella nostra sede.» 13 «Dacci un paio d’ore per studiare la cosa» si limitò a rispondere l’agente Tomos, scambiandosi un’occhiata d’intesa con il suo collega. «Ok» concluse il capo, cominciando a sfogliare le pagine fitte di note della sua agenda nera. «Mettetevi subito a lavoro. E mi raccomando: dinamici e risoluti! La situazione la conoscete.» Costantine e Simpatia abbandonarono velocemente l’ufficio di Ross, le facce cristallizzate in un’espressione incupita e pensosa. A metà del breve corridoio che li riportava nel loro reparto, l’agente Tomos estrasse da una tasca dei pantaloni il Nokia N900 e fece scorrere velocemente i nominativi di tutti i contatti presenti in rubrica. «Hai già in mente qualcuno?» chiese di malavoglia Sid, frugandosi alla ricerca di una monetina per il distributore automatico di caffè. «La vecchia compagnia al completo, Sid. Chiama Maloon, Ulisses e Gallo.» ~‡~ La musica rimbombava assordante dal palchetto metallizzato che affacciava direttamente sulla consolle del DJ. Le luci stroboscopiche riducevano la pista del Touch ad una serie di ossessionanti fotogrammi fluorescenti, caotici e ridondanti tra il luccichio di paillettes e il riflesso delle pareti specchiate. Simpatia poggiò i gomiti sulla spalletta della balconata. Quindi si sporse in avanti, cercando di inghiottire quanta più aria possibile. Proprio in quell’istante la macchina del fumo rilasciò la sua nube vaporosa sugli occupanti della sala da ballo e un intenso odore incensato risalì velocemente verso l’alto, investendo i locali dei privè al livello superiore. Gli occhi arrossati per l’inaspettata sorpresa, Frank imprecò sottovoce e mosse i primi passi verso il comodo sofà disposto lungo la parete di fondo della galleria, passandosi sulla fronte il bordo gelato del bicchiere contenente il terzo rhum e menta. Louis conversava sottovoce con la sua nuova amichetta, una bionda rifatta dalle gambe chilometriche e con un nasino alla francese che donava un candido tocco naive al suo aspetto da copertina. 14 Stravaccato nel divano in ecopelle color sabbia, Gallo stringeva in una mano una coppa di Cristal e di tanto in tanto sfiorava con le labbra l’orecchio della procace compagnia. A qualche palmo di distanza sulla sua destra, una rossa in shorts, camperos e camicetta attillata lanciava occhiate malevole al bell’imbusto scostante e presuntuoso che a stento le aveva rivolto la parola da quando avevano messo piede nel Touch. In fondo il problema non era lei. Semplicemente, Simpatia non era il tipo adatto per quel genere di incontri. Frank odiava le disco e i nightclub, i ristoranti italiani di lusso e i fiumi di champagne nel pieno della notte. Appena giunto in città aveva provato a modificare i suoi gusti, cercando di conformarsi alla stile di vita della grande metropoli. Inutile dirlo, dopo appena un paio di mesi la buona volontà era andata a farsi benedire, così come la voglia di ritrovarsi ogni volta con la testa irrimediabilmente martellata dall’emicrania e l’intimo di una sconosciuta arrotolato fra le lenzuola del divano-letto. «Hai un minuto, Louis?» ululò l’agente Tomos, sforzandosi di superare il fracasso infernale pompato dall’impianto audio del club. «Qualcosa non va? Bevi un po’ di champagne, amico mio» ribatté Gallo con aria allegramente inebetita. «Dobbiamo parlare, e preferirei farlo adesso» sentenziò irritato Simpatia. Avrebbe voluto aggiungere un brutto stronzo liberatorio alla sua affermazione, tuttavia si guardò dal farlo. In fin dei conti, conosceva bene le abitudini del suo amico e forse quell’epiteto sarebbe stato più consono rivolgerlo a se stessi per la dabbenaggine con la quale aveva accettato quell’incontro notturno. «Di qualsiasi cosa si tratti, ne parleremo stasera al Touch» aveva esclamato entusiasta Louis durante la telefonata mattutina. «Ho agganciato due sorelle niente male e devo assolutamente castigarne una. Tu intrattieni l’altra, ce la spassiamo un po’ e a fine serata mi racconti l’intera faccenda. Non puoi rifiutare, Frank. Sei sparito di colpo e dovrei ancora avercela con te.» Simpatia aveva accettato l’invito senza rifletterci troppo sopra. Ora, in contropartita, le palle gli erano diventate turgide abbastanza da fargli male. 15 Gallo si scusò con Molly, la bambolina ossigenata con le tette a pressione, quindi si sistemò il completo bianco di Armani e seguì Tomos oltre una tenda di velluto rosso. Abbandonato il privè, i due si ritrovarono avvolti dalla lieve penombra dello stretto corridoio che conduceva verso la zona toilettes del primo piano. «Che cazzo ti prende, Frank?» esordì tra il sorpreso e il contrariato Louis. All’interno di quella specie di budello dal soffitto a volta, la musica giungeva ovattata e lontana. Immerse in un soffuso riverbero azzurrino, prodotto da una serie di lanterne a led in stile orientale, alcune coppie di giovani si scambiavano baci e tastatine a pochi metri dalla scala di collegamento al piano inferiore. «Mi sono rotto i coglioni di cazzeggiare» sbottò Simpatia accendendosi l’ennesima sigaretta della serata. «Accompagniamo le tipe e andiamo a casa mia. Mi hanno affidato il caso dell’attentatore seriale: ho due giorni per tirar su una piccola task force e rendere tutti gli elementi operativi. Il Segretario Generale controllerà di persona l’operato della nostra sezione e il capo sta già cominciando a mordermi la coda.» ~‡~ L’intera squadra era raccolta nel salotto del loft al piano terra. L’appartamento, così come amava definirlo Simpatia, era in realtà una spaziosa struttura a due piani che si ergeva a pochi passi dall’ alta quercia secolare segnante l’incrocio fra la Decima e Bergen Boulevard, nel piccolo comune di Bergen. L’ingresso della costruzione era munito di un vasto spiazzato dove gli ospiti potevano parcheggiare le loro vetture, eccezion fatta per la Celica. Quella, ovviamente, finiva ogni sera nel box in muratura che costeggiava il fianco destro della casa. Il retro della villa affacciava in un giardino a pianta rettangolare, attrezzato con un piccolo prato inglese e diverse aiuole colme di oleandri, gerani ed ortensie. Una lunga cortina di platani e ontani separava la sua zona verde da quella appartenente 16 alle abitazioni che si proiettavano distanziate sul prolungamento della nona strada. «La prima esplosione è avvenuta il Lexinghton Avenue alle ore 19» osservò l’agente Tomos, mentre passava un gin-tonic gelato tra le mani carnose di Emile Ulisses. «L’obiettivo è stato il sottopasso che conduce alla linea sei della metropolitana. Dopo l’enorme boato, nel giro di pochi secondi le fiamme hanno abbracciato la passerella magnetica della galleria e gli avventori sono rimasti intrappolati in un’apocalisse di fumo e fuoco. L’attentato ha provocato otto vittime e sedici feriti, la maggior parte dei quali intossicati dalle esalazioni prodotte dalla combustione delle parti plastiche che rivestivano le pareti e l’intero impianto elettrico del sottopasso. L’onda d’urto generata dal semtex ha mandato in tilt le ventole d’areazione del condotto e ha completamente squarciato i tre gabbiotti della sicurezza che si trovano a circa metà strada fra i varchi d’accesso e la banchina.» «Cazzo» ironizzò Emile, scuotendo il bicchiere per rimescolare il ghiaccio, «meno male che ho perso l’abitudine di frequentare l’Atlantic Grill da un pezzo.» «Hanno dei prezzi da bomba, vero?» postillò salace Sid Costantine, lasciando cadere ancora una volta l’occhio da pesce lesso sulla corta gonna plissettata di Valery Maloon, articolista presso il Morning Postal, ex spogliarellista nonché vecchia fiamma di Simpatia. Frank sospirò con aria sconfitta: Il duo comico Costantine-Ulisses sembrava voler riprendere l’attività. «Conosciamo le generalità di tutti quelli coinvolti nell’incidente?» chiese Louis Gallo, alzandosi dal divano e puntando dritto verso il mobiletto bar del salone. Per lui le solite tre dita d’armagnac, da buttar giù con un’unica, rovente sorsata. «Attentato, Louis. Si è tratta di un attentato, non di un incidente. Comunque, si: abbiamo nomi, indirizzi e quant’altro ma finora nessuno ha avanzato uno studio specifico sulla base delle ricerche effettuate.» «Sempre la stessa storia» commentò con finta apatia Valery, scartabellando tra i fogli sciolti dell’ultimo dossier redatto dall’agente 17 Tomos. «Mentre imperversa il ballo delle competenze, nessuno vuole entrare sul serio nel merito delle indagini, giusto Frank?» Simpatia tacque, i tratti del suo viso irrigiditi in una smorfia di insofferenza. Odiava doverle dare ragione. A seguito di una prima raffazzonata analisi, la C.I.A. aveva demandato l’onere del lavoro all’ N.S.A. e quest’ultima, a seguito del secondo evento stragista, si era affrettata a passare la palla al principale braccio operativo del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il Federal Bureau of Investigation. «Dopo due settimane, un’altra esplosione ha interessato il centro di Little Italy» riprese asciutto l’agente Tomos. «Se ricordo bene stai parlando della bomba piazzata davanti al Florio’s restaurant» l’interruppe Gallo, riaccomodandosi davanti al basso tavolino e azzannando con voracità un trancio di pizza ai peperoni. «Esattamente. Il locale si trova a circa trecento metri dalla stazione metro di Grand Street e lo scoppio è avvenuto intorno all’ora di pranzo. L’ordigno era nascosto in uno dei cassonetti dell’immondizia posti lungo il ciglio della strada. Stavolta sono stati contati quattro morti e sei feriti, tutti avventori che consumavano seduti ai tavolini apparecchiati sotto il pergolato esterno.» «Ovviamente abbiamo la lista completa dei clienti che si trovavano nel locale al momento dell’esplosione, sono stati interrogati il proprietario e tutto lo staff del ristorante e sono stati visionati i filmati di tutte le telecamere a circuito chiuso che possono aver ripreso la zona intorno all’ora d’interesse» si augurò Louis Gallo con voce velata dall’incertezza: In fondo si trattava di attenersi soltanto alla procedura. Semplice routine. «Certo» lo rassicurò Frank, lanciandogli una cartellina gialla dalla copertina plastificata. «Tutte le informazioni specifiche sul caso sono contenute lì dentro. Ho fatto cinque copie del documento, cosicché ognuno di noi avrà una visione completa della situazione e potrà approfondire con calma la totalità degli elementi finora in nostro possesso.» 18 Dopo aver distribuito anche a Costantine ed Ulisses una stampa del dossier, Simpatia tracciò brevemente la dinamica dell’ultimo attentato, ricordando stralci del rapporto presentatogli da Arthur Miller il giorno precedente e affidandosi alle sensazioni che aveva provato recandosi di persona sul luogo della detonazione. Quand’ebbe finito di parlare, l’agente Tomos appoggiò una coscia sul bordo del lungo tavolo da pranzo che dominava l’area prospiciente il soggiorno e restò per un po’ in silenzio, fissando con sguardo pallido e stranito l’opalescente nudità della parete, investita dalla caparbia luce al neon della plafoniera lineare a sospensione. «Tutto bene, Frank?» sussurrò Sid, ridestando il suo collega dall’interminabile momento d’oblio nel quale pareva essere scivolato. «Scusate» sillabò con fatica Simpatia. Tra le labbra apparve il filtro scurito di una Black Devil a vaniglia. Dopo averla accesa, il federale ne annusò profondamente la tenue e delicata fragranza, come se la semplicità di quel gesto potesse aiutarlo a liberarsi dalla asfissiante stretta mentale provocatagli da un pensiero ormai fisso: «Sono due giorni che ci provo, eppure non riesco a cancellare dagli occhi l’immagine del viso sfigurato di quella donna. E’ come se mi perseguitasse…» 19 lunedi 24 ottobre Capitolo 2 L’agente Tomos parcheggiò il bolide a pochi passi dal New York Public Library Gift Shop e si diresse a passo svelto dall’altro lato della strada. Il freddo di quel penultimo lunedì di ottobre era così pungente da attanagliare i pensieri. Amplificato da improvvise raffiche di vento, Frank lo sentiva permeare i vestiti, oltrepassando la pelle e spingendosi fino al midollo delle sue ossa. I cancelli del New Montefiore Cemetery erano stranamente aperti nel giorno dello Shemini Atzeret. Varcata la soglia del sepolcreto, Simpatia si aggirò in silenzio fra le lapidi del primo e del secondo settore, delimitati da una fitta serie di siepi che costeggiavano una lunga passerella 20 realizzata in basolato vulcanico. Il camminamento portava ad una specie di crocicchio, al centro del quale si ergeva un’elegante cappella ebraica a base ottagonale, dalle mura tinteggiate di un bianco candido e dalla copertura grigia a falde. L’edificio, certamente luogo di riposo per un’intera generazione di benestanti immigrati ebrei, era immerso in una fitta corona di frassini e lecci, macchie solidago nel blu acciaio di metà mattinata. Alle spalle della tomba gentilizia, l’agente Tomos intravide un capannello di figure in abito scuro. Erano disposte a semicerchio a metà della terza fila di loculi che costituivano il quarto settore: alcune stringevano fra le mani piccoli mazzi di fiori, altre avevano il capo chino e i polsi incrociati dietro la schiena. Di fronte a loro, un pastore imbacuccato nei paramenti liturgici recitava con voce meccanicamente impostata il salmo dell’estremo saluto, mentre due uomini in doppio petto armeggiavano con delle corde davanti all’esile leggio. Due coppie di ghirlande sapientemente addobbate sporgevano sul lato sinistro del triste assembramento. In cima ad una delle composizioni floreali, una sorta di drappo plastificato di color oro riportava la scritta: “All’angelo di nome Sara, gli amici del Pets Hospital.” Prima di raggiungere l’ultima fila di presenti, Frank estrasse dalla tasca il suo cellulare e diede una rapida occhiata allo schermo: Nessuna chiamata, né alcun messaggio nuovo in entrata. L’orologio indicava le undici precise. A quel punto inspirò a lungo l’odore dell’erba intrisa di umidità ed attese leggermente in disparte il termine della funzione religiosa. In un altro frangente, la divisione del lavoro sarebbe stata effettuata in maniera diversa. Probabilmente avrebbe demandato a Valery l’onere di presenziare al funerale della vittima, cercando di strappare qualche confessione ad amici e parenti. Al contrario, lui si sarebbe limitato ad agire dietro le quinte, analizzando le informazioni desunte dai diversi canali investigativi, magari nascondendosi nella tranquillità del suo appartamento di Bergen. E invece ora si trovava lì, in prima persona. 21 Aveva spedito Louis alla sede della SunLab Inc., la multinazionale dove Sara lavorava come bioricercatrice associata ad uno studio per l’elaborazione di una nuova molecola farmaceutica. «Fai un po’ di domande in giro, ascolta i colleghi del progetto e controlla il suo ufficio» gli aveva detto la sera precedente. Emilie Ulisses, da genio informatico quale era, aveva ricevuto il gravoso compito di scandagliare l’etere in lungo e in largo, in cerca di qualsiasi elemento potesse essere accorpato ai dati fino a quel momento in loro possesso. In aggiunta, avrebbe dovuto impegnarsi a scoprire i punti cardine della traccia rossa, definendo per grosse linee il percorso seguito dal contrabbando internazionale degli esplosivi a base di C4. Per quanto riguardava Sid, una volta ottenuto il mandato di perquisizione dal procuratore federale, aveva deciso di affiancarlo a Valery nelle ricerche da condurre all’interno dell’abitazione della vittima. Un’intera giornata accanto a quel belloccio e allupato tombeur de femmes , lindo e pinto come quei modelli mezzo froci che riempivano le copertine di MaryClare o Vogue: di sicuro una condanna per la caustica Maloon, una penitenza degna del Dante Alighieri più vendicativo e inflessibile. A fine indagine, lei sarebbe tornata a casa sfinita, seccata, addirittura sfibrata dalle avances continue e dal comportamento stucchevole del damerino. Dal suo canto, l’agente Costantine avrebbe finalmente capito che esistevano donne che non potevano essere conquistate sfruttando esclusivamente l’eleganza, la ricchezza e la bellezza. Donne dalle quali era preferibile stare alla larga… ~‡~ 22 Melody Duncan. Sua madre. Sul finire degli anni ’80, dietro le quinte dei palcoscenici musicali di mezza Europa, veniva chiamata la bionda dalle dita fatate. Infilando lo sguardo fra le chiome corvine delle due donne che gli porgevano le spalle, Frank puntò gli occhi sul feretro zincato di Sara Gouldstein che lentamente veniva lasciato scivolare all’interno della fossa dagli addetti della compagnia di pompe funebri. Un salto nel buio. Un tuffo nel passato con un’apnea interminabile, lunga all’incirca venticinque anni. Mentre sottili lame opalescenti cominciavano a lacerare l’uggiosa tendina di nuvoloni che stazionava alta nel cielo, Simpatia rivisse d’improvviso bocconi della sua adolescenza. L’eco dei ricordi invase le camere della memoria e Frank si rivide appena tredicenne nell’ampio soggiorno della sua casa di Lakewood. Indossava una camicia a quadroni color salmone, con bottoncini a clip, ed un jeans avion attillato, sbrindellato di proposito all’altezza delle ginocchia e sulle tasche posteriori. Un must fra i ragazzini dell’epoca. La stanza era inondata di luce e un soffice calore si diffondeva fin sul fondo della sala. Seduta accanto a lui sul lungo pancone nero laccato, Melody gli sorrideva con espressione amorevole. Di fronte a loro la magnifica tastiera del Borgato a coda lunga attendeva silenziosa. Insieme ripetevano accordi, scale e armonie. Poi la lezione terminava e Frank si lasciava affascinare per ore dalle perfette esecuzioni di quella talentuosa artista: Jazz, bossanova e bluegrass si alternavano con brani di Chopin, Schubert e Bach. Il pallore di quelle dita nervose e affusolate sembrava mescolarsi al candore dei tasti del piano per dare origine ad una sinfonia di emozioni ogni volta incredibili. L’uomo che andava avvicinandosi per primo alla fossa era un tipo alto e ben piantato, stretto in un impermeabile blu scuro che avvolgeva un bel completo classico della stessa tinta. Le sue tempie, spruzzate di bianco, mostravano un accenno di calvizie mentre le labbra carnose erano sormontate da un paio di baffi grigi, sottili e ben curati. Lentamente si piegò in avanti, poggiando un ginocchio sul 23 terriccio appena smosso. Quindi lanciò nello scavo un voluminoso fascio di rose pallide e restò per un momento immobile in quella posizione. Simpatia non poté far a meno di notare l’austerità di quel volto dai tratti irrigiditi, immerso in un dolore composto, venato di profonda rassegnazione. I suoi penetranti occhi castani apparivano lucidi e leggermente arrossati, eppure le sue gote erano asciutte, segno che nessuna lacrima ne aveva solcato la superficie. Portandosi una bionda alla bocca, il federale ricordò l’espressione stravolta di suo padre in un’occasione simile. Anthony Tomos non era sempre stato un ubriacone malinconico. Prima che la sventura colpisse la sua famiglia, il vecchio Tony era un uomo dinamico e risoluto nonché un alto ufficiale della Marina Militare Americana. Gente che conta amava ripetere ai suoi tre figli. Aveva incontrato Melody Duncan in un bistrot di Parigi, durante una delle sue rarissime vacanze estive, e da quel giorno i due non si erano più lasciati. Era l’Agosto del ’70. Appena venti mesi dopo, insieme alle nozze celebrate nella piccola chiesa battista di Alameda Avenue, era arrivato anche un marmocchio di nome Franklin, un fagotto vispo e dagli occhietti neri come la notte. Ogni volta che ricordava il periodo della sua fanciullezza, Simpatia avvertiva una forte stretta al cuore e i tratti del suo volto si rattrappivano irrimediabilmente in un’espressione di mesta commiserazione. Appena compiuti i quattordici anni, quel fanciullo spensierato e felice, che si divertiva a bighellonare sotto il sole fra le macchie di sempreverdi dello Stanton Park, era stato scaraventato d’improvviso negli abissi più reconditi di un incubo lungo sette anni. Come sotto l’influsso di uno spaventoso sortilegio, tutto a un tratto il piccolo Frank era diventato il protagonista inconscio di un’opera di Victor Hugo, L’uomo che ride. In particolar modo, Simpatia sentiva attecchire sulla propria pelle una delle tante massime contenute in quel libro : Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione. 24 Una telefonata nel cuore della notte. Zia May in preda allo sgomento, un fiume di lacrime che le rigava il viso dai tratti aggraziati. Era stata la disperazione ad uccidere Melody ed ora le sue dita gelide e mortali avevano agguantato i restanti componenti della famiglia Tomos. Troppe le pressioni, troppi gli impegni di lavoro dovuti alla sua nuova condizione di astro nascente della musica classica. I doveri di madre, il fiato sul collo di un agente farabutto e senza scrupoli, la lontananza di un marito pressoché assente, imbarcato per buona parte dell’anno ora su questa ora su quella corazzata, distante miglia e miglia da casa. E, ancora, i sempre più frequenti cocktails a base di ansiolitici, sonniferi e barbiturici, abusati per cercare di sopire i primi sintomi di una rara forma di depressione. Melody si era tolta la vita in una fredda notte di settembre, gettandosi dalla terrazza di una suite al 36esimo piano del Mercury Trinity Palace di Montreal. Da quel momento in poi, Frank si era tramutato nel bambino descritto da Hugo: abbandonato, angosciato, affamato e a piedi nudi, aveva preso a vagare da solo nella tempesta, cercando di raggiungere un filo di fumo intravisto solo per un attimo. Gli anni che seguirono furono puro dolore. Anthony era distrutto, squarciato in mille pezzi dalla sofferenza e dal rimorso. In breve tempo divenne un vegetale attaccato ad una bottiglia, tanto che dovette abbandonare il suo lavoro in Marina per entrare in una comunità di recupero. Tempo e soldi sprecati: tutte le volte che ne riusciva, Tony agguantava il bicchiere con più foga di prima, crogiolandosi nel patetico circolo vizioso dell’autodistruzione. Senza più madre e con un padre ridotto all’ombra ripugnante di se stesso, Frank fu affidato alle cure di zia May, la sorella di Melody. Thomas e Alicia, i suoi fratelli minori, ebbero invece la sventura di capitare in quel circo ambulante che era la famiglia di zio Simon, all’epoca venditore di auto nel Michigan e germano minore dell’ufficiale Anthony Tomos. Quando riuscì a rivederli, a circa tre anni dalla morte di sua madre, ebbe l’impressione di incontrare due perfetti sconosciuti. A quel punto dovette ingoiare a forza l’idea che la sua famiglia fosse svanita per sempre. 25 La coppia di bell’imbusti in doppio petto terminò il suo infame lavoro, rinterrando con cura la fossa che conteneva la bara di Sara, e lentamente il costernato cordone di omaggianti cominciò a sfaldarsi. Alcuni si avvicinarono alla lapide marmorea e, dopo averne baciato la scritta in bassorilievo, abbandonarono ai suoi fianchi piccole composizioni floreali. Altri, infagottati nei loro giacconi pesanti, preferirono incamminarsi verso l’uscita con la testa incassata nelle spalle. Ovunque gli sguardi vitrei e quasi assorti riflettevano l’infido senso d’oppressione e di mestizia che abbuiava gli animi in quella desolante giornata. Liberandosi dignitosamente dagli abbracci e dalle manifestazioni di cordoglio dei pochi rimasti, Madison Gouldstein raggiunse con sollecitudine la sagoma intonacata del pastore e i due rimasero a parlare in disparte per qualche minuto. Quand’ebbe terminato di conversare, il padre della defunta fece un cenno ad un tipo segaligno che stringeva in una mano una lucida ventiquattrore e questi si attaccò al cellulare con aria battagliera. «Il Signor Gouldstein?» esordì Simpatia, affiancandosi alla figura ancora prestante del vecchio magnate. Madison scrutò di sottecchi l’aspetto di quello sconosciuto, senza arrestare la sua camminata verso la Lincoln nera che lo attendeva lungo il cordolo piastrellato del terzo settore. «Levati dai piedi, brutto scribacchino» ringhiò sottovoce, aggrottando le sopracciglia cespugliose. «Ho già ripetuto a tutte le testate che non rilascerò dichiarazioni. Ora vai al diavolo!» Indignato, Frank lo afferrò saldamente per una spalla, impedendogli di andare oltre. Mentre un paio di energumeni in ray-ban scure sbucavano scattanti dalle portiere anteriori della lussuosa presidenziale, Simpatia bloccò il suo reticente interlocutore mostrandogli il tesserino con il distintivo. «Dovrebbe essere più cortese con il prossimo» l’ammonì il federale, osservando lo spesso alone di stupore calato sul viso di Gouldstein, «specialmente se si tratta di qualcuno venuto appositamente per cercare di renderle giustizia.» 26 «Deve scusarmi, agente» ribatté pacato il vecchio magnate, alzando la mano per arrestare a qualche metro di distanza i suoi cagnacci da presa. «E’ un momento difficile e l’ultima cosa che voglio sono i riflettori della stampa puntati su ciò che resta della mia famiglia.» «Immagino» si limitò a rispondere il federale, «tuttavia spero non le dispiaccia rispondere a qualche domanda. La morte di sua figlia rientra nelle competenze del mio caso, quindi…» «Nessun problema» precisò Madison Gouldstein, «mi accompagna all’auto?» «Preferirei parlare qui. Non vorrei perdere l’occasione di scambiare quattro chiacchiere anche con gli amici più stretti di Sara.» Madison sospirò impercettibilmente. Quindi chiamò a voce alta il suo factotum, l’uomo con la valigetta che aveva appena terminato la sua lunga telefonata: «Sammy!» «Tutto confermato, Mr. Gouldstein» prese a dire lo stecchino in un tono a metà strada fra lo zelante e il mellifluo, avvicinandosi con passo veloce al suo datore di lavoro. «La riunione comincerà tra due ore. Se ci sbrighiamo a partire potremmo arrivare…» «Annulla tutto, Sammy» lo zittì su due piedi Madison, «e torna pure in ufficio. Io ti raggiungerò più tardi.» «Ma signore…» cercò timidamente di protestare l’attendente, sistemandosi i grossi occhiali rotondi sulla sommità del suo naso schiacciato. «Sei sordo? Fallo!» «Come desidera, Mr. Gouldstein» concluse con aria abbacchiata il segretario. Quindi se ne tornò ciondolante verso la lunga berlina dai vetri oscurati. Simpatia notò un rivolo di soddisfazione attraversare repentino i lineamenti del magnate. Un paio di minuti dopo, la Lincoln che ospitava il seguito del fondatore della G&M Editions attraversò l’ampio basolato del cimitero e sparì oltre l’alta cortina verde che circondava l’austera cappella ebraica. 27 «Allora» domandò Madison, estraendo dalla tasca del suo impermeabile uno stupendo portasigarette in oro bianco, «cosa voleva sapere di preciso?» ~‡~ “Soggetto atipico”. Così l’avrebbero probabilmente definita gli strizzacervelli al soldo dell’ F.B.I. e, per la prima volta nella sua decennale carriera, Frank si sarebbe trovato nell’ incresciosa situazione di dovergli dare ragione. In effetti, la vita di Sara appariva davvero una sorta di cervellotico rompicapo. Da un lato c’era la ragazza difficile, in continua guerra contro un padre miliardario e ficcanaso, che aveva abbandonato la splendida tenuta di famiglia per rifugiarsi appena ventenne in un cesso di appartamento affittato a sue spese nella grigia contea di Nerwark. Piccoli problemini con la legge, causati da un paio di fermi per droga e distruzione della cosa pubblica, uniti ad un matrimonio con un violento pittore francese, terminato troppo frettolosamente fra aule di tribunale e denunce per percosse, aiutavano a rimarcare con decisione il versante bizzoso ed irruente del suo carattere. In contropartita, l’amore per gli animali e per i libri, l’alto livello di specializzazione raggiunto in anni e anni di applicazione nello studio, la determinazione, il senso del dovere e l’entusiasmo con cui si approcciava ai suoi diversi impegni umanitari del fine settimana mostravano l’essenza gentile e virtuosa di un animo ancora candido, eppure costantemente minato da un profondo tormento interiore. Secondo le parole di suo padre, negli ultimi tempi Sara non doveva passarsela troppo bene. «Di solito parcheggiava l’auto nel vialetto che da sul retro della villa» aveva riferito Madison Gouldstein, «in modo da sgattaiolare in casa senza dovermi incontrare. Era molto legata a sua madre e spesso veniva a sincerarsi sulle sue condizioni: purtroppo mia moglie Rose soffre di una grave malattia respiratoria che l’ha inchiodata al letto ormai da tre anni. A volte, rientrando da lavoro, mi affacciavo dall’altra parte del giardino per scorgere i fanali della sua Audi. 28 Anche se tra noi non c’era più alcun tipo di dialogo, ero comunque felice di sapere che era venuta per passare qualche oretta con Rose.» Nel discorso era saltato fuori che, circa due mesi prima della sua tragica fine, la giovane bioricercatrice dai capelli rossi aveva smesso improvvisamente di recarsi nell’abitazione paterna per far visita alla madre, limitandosi a telefonarle tre volte a settimana. «Rose mi diceva di avvertire nell’inflessione della sua voce qualcosa di strano» aveva concluso l’uomo simbolo della G&M Editions, «sembrava nervosa, preoccupata. Io non ho dato troppo peso alla cosa: era tipico di Sara avere dei brevi periodi di nichilismo.» Dai pochi altri intimi che si erano attardati nei pressi della sepoltura, il federale aveva appreso notizie poco rilevanti. Ognuno aveva dato una descrizione personale della vittima e l’immagine di fondo che scaturiva da quell’ingarbugliato intrico di deposizioni rivelava una donna dinamica e costantemente affaccendata nell’ inseguire le sue mille attività, con una spiccata attitudine alla leadership e allo scontro con il sesso opposto. La risma di nubi caliginose, inanellate l’una accanto all’altra con sardonica complicità, si era ormai dileguata puntando dritto verso nord-est. Il cielo era diventato terso e grosse chiazze di luce cominciavano ad investire le pareti degli edifici che si affacciavano sui cancelli del New Montefiori Cemetery. Di contro, nelle zone d’ombra, il rigore di quella giornata autunnale continuava ad essere vivido e penetrante. Superato velocemente l’ingresso del sepolcreto, l’agente Tomos raggiunse la zona dove aveva parcheggiato la sua auto. Prima di salire a bordo, fece tappa in un bar situato all’angolo con la 39esima e si sedette ad uno degli sgabelli sistemati davanti ad un massiccio bancone in mogano a forma di L. Il locale era semivuoto e il proprietario stava immergendo in una tinozza d’acqua bollente un infinito set di tazzine e cucchiai. Frank ordinò il suo caffè doppio, corretto all’amaretto come gli aveva insegnato una vecchia conoscenza italiana. Quindi, mentre attendeva la sua comanda, gettò un’occhiata sui titoli di prima pagina del Times. Il granitico riff di “Highway to hell” degli AC/DC interruppe la sua svogliata lettura e 29 Simpatia si affrettò a rispondere al cellulare: sul display lampeggiava con insistenza il numero di Emilie Ulisses. «Salvami, Net» mugolò il federale in tono apaticamente fievole. «Qualcosa bolle in pentola» brusì smanioso il gigante panciuto. Frank riusciva a figurarselo seduto nella sua poltrona girevole mentre, sorridente e con gli occhi illividiti da profonde occhiaie, si grattava la pelata arrossata della sua testa d’uovo. «Allora?» ribattè Simpatia, portandosi alle labbra la tazzina cocente, «cosa hai scoperto?» «Ho trascorso l’intera notte davanti a questo dannato monitor, Mr. Tomos» cominciò a cincischiare Emilie, «e giuro su Abramo che stavo per gettare la tower dalla finestra…» Ulisses era fatto così e Frank lo conosceva bene. Prima di riportare la notizia vittoriosa di un suo successo, il genio informatico della Selex Galileo Inc. avrebbe sproloquiato sulle immani difficoltà incontrate lungo la strada che avrebbe poi condotto al raggiungimento del suo obiettivo, farneticando a riguardo di arcane passwords custodite dietro inaccessibili sistemi crittografici. Ovviamente, l’intera pantomima era votata a pontificare le sue indubbie qualità di mago della rete. «Dacci un taglio, Net. Sei bravo, sei il migliore. Ora parla!» «Ho lavorato su quella specie di filmati che mi hai fatto spedire dalla Enterprise Parking Sistem» si affrettò a chiarire lo sneaker2, «e ho scoperto qualcosa d’interessante. Sia nel caso dell’attacco alla linea metro della Lexinghton che nell’esplosione davanti al Florio’s si intravede un F150 Platinum parcheggiato nei paraggi.» «E per quanto riguarda il semtex?» l’incalzò il federale, sperando in una risposta positiva. «Penso di aver ristretto sensibilmente il cerchio delle supposizioni, ma è un discorso lungo. Hai già pranzato?» 2 Esperto informatico che riesce ad inserirsi in un sistema o in una rete per aiutare i proprietari a prendere coscienza di un problema di sicurezza. Anche detti "white hat hacker", molte di queste persone sono impiegate legalmente in aziende di sicurezza informatica. 30 Frank alzò gli occhi al cielo, l’afflizione dipinta sul volto a mo’ di maschera funebre. «Ho capito. Cosa ti porto, ciccione maledetto?» Una grassa risata inondò l’altoparlante del suo N 900, tramutandosi subito dopo in un paio di rasposi colpi di tosse: «Un gateau di patate con provola e spinaci, un’insalatina russa, una pizza prosciutto, funghi e peperoni e una bottiglia di chardonnay gelato, grazie…» Prima che Simpatia potesse mandarlo al diavolo, Emilie aveva già interrotto la comunicazione. ~‡~ La topaia in cui viveva Net era ubicata al terzo piano di un decrepito condominio edificato all’incrocio fra Elton Evenue e la 160esima Est. La vetusta costruzione, costituita da sei livelli, aveva una strana pianta a forma di E ed era tinteggiata con una vernice giallo paglierino sbiadita ormai da tempo immemore. Il lato opposto della strada sulla quale affacciava quell’orribile relitto di ferro e cemento ospitava una delle sedi dell’Esercito Della Salvezza e, inutile a dirsi, di sera la zona diventava luogo di ritrovo per tossici, ubriaconi, puttane e senzatetto. Praticamente, qualcosa di molto simile ad una graziosa Bel-Air in miniatura. Simpatia lasciò l’auto a pochi metri dal portone dello stabile, infilandola a lisca di pesce tra i resti carbonizzati di una vecchia El Camino e un furgone bianco dai vetri rotti e con le ruote tranciate. Mentre richiudeva la portiera con l’aiuto di una coscia, Frank si accorse che, ciondolando da un piccolo muretto di mattoni, un giovane teppistello dalla testa rasata occhieggiava furtivo la sua bambina. Scostando leggermente un lembo del trench grigio, l’agente Tomos lasciò che l’attenzione del perdigiorno cadesse sulla lunga fondina di cuoio stretta al di sotto del pettorale sinistro. Quindi, investendolo con uno sguardo omicida, si avviò deciso e a mani impegnate verso i 31 gradini antistanti l’ingresso del condominio. A metà della rampa che conduceva al terzo piano, Simpatia fu raggiunto dall’intro ovattato di un pezzo che gli veniva familiare: una voce acuta, totalmente in maschera, ripeteva un subliminale “naa-nana-naa” accompagnata da un hammond a dir poco nervoso e da una rullata pulita e precisa. «Mai i tuoi vicini non vengono mai a prenderti a calci?» gracchiò a gran voce il federale, quando si ritrovò davanti al naso il faccione paffuto di Emilie Ulisses. «Un altro paio di testate e mi avresti trovato qui fuori svenuto, brutto stronzo! Abbassa questa cazzo di musica, una buona volta…» Il genio informatico sorrise, poi si affrettò a liberare le mani dell’amico dallo scatolone contenente le pizze, sul quale era poggiata una vistosa busta di plastica verde. «Questo è uno dei vantaggi del lavoro a domicilio, agente» sghignazzò il padrone di casa, posando gli acquisti su di un tavolo rotondo dal piano in vetro ed ispezionando con cupidigia l’interno del sacchetto. «Superate le dieci, il fabbricato diventa praticamente vuoto ed io mi diverto a fare casino anche per gli assenti.» Da ricovero, pensò Frank, cercando disperatamente il telecomando del potente impianto hi-fi che pompava a palla dalla parete di fondo dell’angusto monolocale. Pochi istanti dopo, il solo graffiante di Blackmore si eclissava in un impietoso fade out, tra la soddisfazione di Simpatia e le imprecazioni caustiche di Net. «Allora» esordì il federale, gettando sul letto la montagna di panni sporchi che era accatastata in mille pieghe su di una poltrona senza un bracciolo, «questo lungo discorso di cui mi parlavi?» Emilie si accomodò con espressione rassegnata ad una sedia posta davanti alla sua stretta scrivania. La fragranza succulenta emanata dalle pizze ancora calde sembrava annebbiargli i pensieri: tutto ciò che gli interessava in quel frangente era riempire le pareti del suo insaziabile stomaco. Sperando di cavarsela con quattro parole, Ulisses pigiò il led luminoso segnalante Stand-by sulla tastiera del pc. Quindi invitò l’agente Tomos a sedersi accanto a lui e cominciò la spiegazione del proprio puntiglioso lavoro: 32 «Come ti dicevo, per prima cosa mi sono dedicato ai video registrati dalle telecamere della Enterprise nei giorni delle esplosioni. Non capisco come certe società riescano a stare ancora sulla piazza: le loro telecamere a circuito chiuso sono qualcosa di abominevole. Farebbero una gran bella figura in un museo di antiquariato.» «Riferirò ai chi di dovere» ribatté asciutto Simpatia, «ora vai avanti.» «Così com’erano, i video risultavano inservibili. Ho dovuto utilizzare un cugino iperpotenziato del Vreveal, capisci?» Frank rimase muto, grattandosi il centro della nuca con aria confusa. «Se, vabbè, ci vediamo!» sbottò amareggiato Emilie. «Ma cazzo, lo accendi qualche volta il computer oppure lo tieni solo come sopramobile?» Un perentorio Vaffanculo rimbombò nella tranquillità del monolocale. «Ciò che sto cercando di spiegarti è che ho dovuto effettuare un lavoro di riqualificazione digitale delle riprese video. Mi sono servito di un programma leggermente modificato, non molto diffuso nella rete. E’ un’ implementazione particolare di un software già presente in commercio, il Vreveal. La maggior parte dei cineamatori lo usa per incrementare la resa dei video che realizzano in esterna.» «Ah ecco. E alla fine hai notato un Ford pick-up presente nelle zone interessate dagli attentati» tagliò corto l’agente Tomos, giocherellando nervosamente con lo zippo marchiato US Navy. Net digitò la password di accesso ad una delle sue utenze, poi cliccò con il cursore mouse un’icone viola elettrico e sul monitor del pc partirono una serie di file Avi. «Qui siamo in prossimità dell’incrocio di Lexinghton» prese a dire Net, indicando il vertice alto della schermata, «vedi l’orario?» «18 e 30» «Aguzza la vista, Frank. Dove si trova?» Simpatia squadrò in lungo e in largo l’intera estensione dell’area registrata nel video in cerca di un F 150 Platinum. «Ci sono!» esclamò ad un tratto, «Martin J levenson LLP, alla destra del secondo palo. Tra la Mercedes e quella specie di catorcio funebre.» 33 «E’ una Volvo, amico» l’imbeccò seccato Ulisses, scartando una caramella consolatrice. La stessa identica vettura era parcheggiata proprio alle spalle del condominio e, ovviamente, apparteneva all’inquilino sciatto e flaccido che occupava uno degli appartamenti al terzo piano. «Quante volte hai rivisto il filmato?» l’incalzò eccitato il federale. Aveva timore anche solo a sfiorare un simile pensiero… Forse la fortuna aveva deciso di porgere loro una mano misericordiosa. «Almeno venticinque» assicurò incolore il genio informatico, «ma non ho rilevato nessun altro elemento d’interesse. La vettura ha parcheggiato alle 18 e 20 ed ha abbandonato la Lexinghton appena due minuti prima dell’esplosione. Nessuno è uscito dall’auto. Da qui il motivo del mio sospetto.» Simpatia rimase immobile a guardare le immagini che scorrevano sul monitor, le lunghe dita callose sfioranti le guance smagrite, ricoperte da un sottile filo di barba. Net caricò le riprese effettuate dal circuito di sorveglianza della JMK Reality Inc., l’agenzia di brokers della 192 Grand Street a pochi passi dal Florio’s, obiettivo del secondo attentato. Insieme ricontrollarono le immagini che scorrevano lente nella luminescenza dello schermo al plasma. «L’orologio segna le 12 e 45» sottolineò Ulisses, succhiando rumorosamente i resti del confetto a menta, «e guarda quale vettura è ferma di fronte al Di Palo’s?» Non c’erano dubbi: quello che stavano osservando era lo stesso F 150 Platinum, avion e con i vetri fumè. «In questo caso è rimasto a godersi lo spettacolo, poiché era ancora lì al momento dell’esplosione» concluse l’informatico. «Bel lavoro, Net» si complimentò con sincero encomio Simpatia. Il ciccione aveva probabilmente passato tutta la notte a visionare, ripristinare, tagliare e montare l’intero repertorio di video inviatogli dall’agente Costantine la mattina precedente. Un’ impresa lunga e tediosa, ma che alla fine aveva portato i suoi buoni frutti. «Non c’è verso di risalire a parte della targa, vero?» cercò di illudersi Frank, poggiando una mano sulla schiena curva del suo amico. 34 Lo sneaker lo attraversò con uno sguardo ambiguo. Quindi sfilò gli occhiali che erano scivolati a metà del suo naso aquilino e cominciò a pulirne i vetri con una pezzuola color pesca. «Ammetto di essere bravo, agente» soppesò in tono serioso Net, «ma non puoi chiedermi l’impossibile. Non sai quante volte ho cercato di arrestare le immagini nel momento della sua ripartenza, sperando di analizzare il retro dell’auto da un’altra angolazione. Niente, la velocità del mezzo distorce il frame, e zoomando i numeri diventano semplici macchie scure su fondo bianco. Mi spiace, Frank.» «Non dispiacerti, bello»lo rassicurò il federale, alzandosi lentamente dalla sconquassata poltrona, «sei solo all’inizio dell’opera e per il momento hai raggiunto un gran risultato. Adesso quanto meno conosciamo qualcosa del nostro ipotetico avversario.» La penombra in cui Ulisses aveva forzato il suo appartamento divenne ad un tratto quasi soffocante. Il federale si avvicinò alla tapparella della finestra, posta sul fondo della stanza alla sinistra della scrivania, e prese a tirarne la ruvida cinghia in cotone. La serranda plastificata iniziò ad avvolgersi nel rullo sovrastante emettendo una oscura sinfonia, fatta di continui gemiti e scricchiolii. Frank capì che era rimasta bloccata in quella posizione per chissà quanto tempo. Una nube di luce calda ed ambrata scivolò furtiva dall’apertura finalmente libera e l’intero ambiente abbandonò le fattezze cavernose in cui aveva ristagnato fino ad allora per assumere l’aspetto di un luogo abitato. Simpatia si sporse dal davanzale per controllare la sua bambina posteggiata oltre l’estremo occidentale del fabbricato. Sebbene il sole avesse preso a brillare alto nel cielo da un’oretta abbondante, l’aria era ancora fresca e piccoli sbuffi volitivi ricordavano di tanto in tanto l’apprestarsi della stagione invernale. «Passiamo alla traccia rossa, Net» interloquì nuovamente il federale, voltandosi a scrutare il viso paffuto e giallognolo di Ulisses. L’amico era ancora stravaccato sulla sua sedia dallo schienale reclinabile, con le braccia pelose incrociate dietro la testa e i piedi poggiati l’uno sull’altro sul bordo della scrivania. 35