lo spettacolo dell`autocontrollo
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lo spettacolo dell`autocontrollo
VIRGILI STEFANO LO SPETTACOLO DELL'AUTOCONTROLLO La disciplina dello scontro fisico nella formazione del karateka PREMESSA Scrivere di “Arti Marziali”, nella maggior parte dei casi, equivale a narrare un pezzo di storia medioevale orientale, le gesta di memorabili Maestri, nobili guerrieri, meravigliosi cultori dell'Arte della spada. Poi, generalmente, si passerà alla trattazione del legame tra Arte marziale e filosofia/religione con annessi strumenti meditativi. E ancora, il passaggio della cultura marziale orientale in territorio occidentale con esaltazione dei grandi Maestri esportatori e dei pionieri nostrani che, attraverso immensi sacrifici, hanno contribuito alla diffusione capillare del Karate. Naturalmente non mancherà il puntuale elenco di tecniche offensive e difensive (pugni, calci, proiezioni, eccetera), le varie modalità di combattimento, lo studio della forma, con le possibili traduzioni dalla lingua giapponese di tutte (o quasi) le situazioni tecniche prese in esame. E infine un accennato risvolto psicologicoemozionale con i decantati effetti benefici circa una rinnovata “calma interiore”, acquisizione di “autocontrollo”, “rispetto” per 1 il prossimo, “vincere senza combattere” e quant'altro di magico possa scaturire da una pratica in cui le caratteristiche fisiche e motorie (capacità condizionali e coordinative) rivestono, comunque, un'importanza basilare. Perché il Karate, a differenza di altre diffuse discipline sportive, favorisce e sviluppa un grande autocontrollo? Cosa significa, dal punto di vista culturale-psicologico-socialefisico combattere contro un avversario senza arrivare al contatto? Il presente lavoro non ha la pretesa di aggiungere niente di nuovo a quanto già abbondantemente espresso nella letteratura di settore. Piuttosto il desiderio (e l'obiettivo) è cercare di approfondire la dimensione meno visibile, ovvero quella componente interiore così esaltata nel fine-processo, ma di cui difficilmente si riesce ad intravedere la sorgente, la lenta formazione, il percorso a fasi alterne caratterizzato da numerose cadute e altrettante contraddizioni. Da praticante più che ventennale di Karate, ho comunque resistito alla tentazione di presentare inizialmente il contesto socio-culturale di riferimento (la cosiddetta società postmoderna, il XXI secolo) estremamente complesso, fluido, ”spettacolare”, nel quale, inevitabilmente, si è trovato invischiato il Karate tradizionale. Sarebbe suonata come una faziosa presa di posizione in favore della “beatificazione”, di una ricerca terminata a buon fine, della risoluzione di molti (quasi tutti) problemi che sarebbe emersa a seguito della successiva ode verso gli aspetti educativi, socializzanti, formativi, delle opportunità di crescita generale che un addestramento costante in una palestra di Karate favorisce in tutte le persone, senza distinzioni anagrafiche. Invece, dopo una breve introduzione in cui ho richiamato alcuni aspetti fondamentali (e poco conosciuti anche dai praticanti di lunga data), ho ritenuto di esplicitare, proprio in fase iniziale, le grandi potenzialità di questa Arte marziale. Sono state prese in considerazione le categorie Educazione, Socializzazione, Formazione in rapporto alla corporeità, in una particolare forma di “agire comunicativo”, senza peraltro addentrarsi in progetti formativi “strutturati” che, nella 2 fattispecie in oggetto, non avrebbero molto senso. Nella seconda parte, altresì, ho cercato di de-costruire molte situazioni, di smantellare certezze e positività, collocando il Karate in un panorama storico-sociale-culturale che, inevitabilmente, estrapola tutte le incertezze, tentativi di restyling, le contraddizioni, i dubbi sull'effettiva efficacia dello stesso Karate. Quali sono i motivi che inducono una persona a dirigere la sua attenzione, la sua curiosità verso il Karate? Nel terzo millennio, in una società-spettacolo caratterizzata dal potere dei media, cosa significano “rispetto” e “controllo”? Cercando di rispondere a questi (non banali) interrogativi, mi accingo ad esporre qualche risultato di ricerche effettuate, valutate, rielaborate e commentate secondo il mio punto di vista “marziale”, personale e contestabile. 1. INTRODUZIONE 3 1.1. COS'E' IL KARATE? Il Karate si presenta al pubblico come una pratica sportiva basata sul combattimento senza armi. E' in realtà un'espressione completa della civiltà orientale. Tutti i popoli del mondo hanno sviluppato, ad un certo momento della loro storia, una cultura del combattimento, ma nella loro mentalità i popoli d'Oriente non dimenticarono che l'addestramento al combattimento è una preziosa forma educativa e vollero mantenerla nelle espressioni fisiche e morali. Si può quindi affermare che il Karate è un'Arte, una disciplina che si applica a mani nude e che rafforza il corpo e lo spirito. Il Karate è un'attività completa ed una filosofia di vita. Dal punto di vista prettamente fisico, l'utilizzo dei quattro arti e un'infinità di posture e schemi motori, la caratterizza come una delle pratiche sportive più complete. Uno degli aspetti più singolari del Karate è che può essere intrapreso da chiunque a prescindere dall'età, dal fisico, dal genere. Non si finisce mai di imparare. Ancora oggi è forte la convinzione che “Arte Marziale” sia sinonimo di violenza: fare Karate significa aggressività, litigiosità, pericolosità. Nella pratica del Karate, invece, si “educa l'allievo” a coltivare un sentimento importante: il rispetto. Per il Dojo (palestra di addestramento), per il Sensei (Maestro - colui che guida), per i compagni (amici con cui condividere gioie e fatiche). Ogni lezione inizia e termina con il saluto, un vero e proprio rituale. In riga, in ordine, in silenzio. 4 Bambini e adulti, allievi e insegnanti: tutti insieme inginocchiati di fronte al Maestro. Rigoroso silenzio, momento importante di condivisione e introspezione in cui vengono scandite le regole pronunciate in giapponese. L'allenamento/addestramento rappresenta un contesto altamente specialistico nel quale si realizzano una serie di condizioni psico/fisico/sociali. In primo luogo uno sviluppo delle capacità motorie e cognitive, con particolare attenzione al miglioramento della propria consapevolezza corporea e quindi del controllo e gestione del corpo in movimento nello spazio. Inoltre uno sviluppo della propria consapevolezza interiore e della capacità di controllare la propria emotività; l'opportunità di espressione, socializzazione, confronto; una partecipazione attenta e motivata ad un lavoro di gruppo nel pieno rispetto delle regole. Da non sottovalutare, infine, la lotta all'emarginazione, con speciale attenzione all'inserimento nel gruppo di individui portatori di problematiche particolari. Per riuscire a creare un momento di allenamento che sia funzionale e sicuro, è necessario instaurare con i compagni un rapporto di reciproco affidamento e collaborazione. Quindi, cos'è il Karate? Il Karate è pazienza. Solo chi ha pazienza otterrà risultati e soddisfazioni che durano nel tempo. Chi ha fretta si ferma presto. Il Karate è costanza. Solo così si costruiscono tecnica, equilibrio, coordinazione, spirito. Il Karate è impegno. Fisico e mentale. Il Karate è rispetto. Nella vita quotidiana, in ogni situazione, il praticante di Karate deve comportarsi educatamente e rispettosamente verso il prossimo. Il Karate è un'attività psico-fisico-motoria completa. Disciplina consigliata proprio per lo sviluppo armonico del corpo. Il Karate è uno stile di vita. Una via lungo tutto l'arco dell'esistenza, caratterizzata da regole, principi e qualità morali senza il rispetto dei quali un karateka, per quanto 5 atleticamente forte e preparato, non potrà mai definirsi tale. Lo scopo del Karate non è vincere o perdere, ma perfezionare il carattere della persona. Cosa non è il Karate? Il Karate non è violenza. Si impara a rispettare gli altri durante l'addestramento. Chi pensa di praticare il Karate per fare il bullo o il prepotente, generalmente abbandona la palestra dopo poche lezioni. Ma il Karate costituisce, comunque, un antidoto importante circa i fenomeni devianti. Il Karate non è una disciplina “traumatica”. E' scientificamente provato che si verificano infortuni molto più frequentemente in altri settori sportivi. Il Karate non è uno sport. Non è un'attività finalizzata al risultato agonistico, anche se esiste una branca definita “Karate sportivo” con gare ufficiali a tutti i livelli. 1.2. L'ARTISTA MARZIALE COME SPORTIVO PROFESSIONISTA ANTITESI DELLO Le arti marziali tradizionali nascono dall'istinto innato dell'uomo all'autodifesa e sviluppano, attraverso l'osservazione razionale dei movimenti degli animali in fase di combattimento, una serie di tecniche marziali atte a metterlo nelle condizioni di difendersi efficacemente sia dagli attacchi (armati e non) di altri uomini, sia da quelli degli stessi animali osservati. Il raggiungimento di un buon livello di preparazione e di efficacia in queste arti marziali, oltre allo sviluppo di doti fisico-atletiche, porta a un totale miglioramento di se stessi come uomini. E' interessante sottolineare che stati mentali quali il rispetto della disciplina interna, il controllo delle emozioni, la resistenza alla fatica fisica ed intellettuale, la costante cura verso il rafforzamento caratteriale, la tensione alla purificazione spirituale raggiunti durante intensi allenamenti/addestramenti vengono trasposti dal praticante, prima in modo inconsapevole poi sempre più coscientemente, dal dojo alla propria vita. Si migliora la qualità del rapporto con gli altri, con gli eventi 6 quotidiani, si tende verso una dimensione equilibrata. Il Karate può essere inteso come una “lotta spirituale” che ogni praticante intraprende con se stesso per liberarsi da forze negative interne ed esterne che limitano fisicamente e mentalmente, provocando infelicità. Arti marziali, dunque, come rivoluzione interiore per il raggiungimento di una libertà individuale. Si contrappongono alle Istituzioni sociali che, per fini economici-utilitaristici, controllano e smorzano molti “slanci vitali”, tutte quelle affermazioni e manifestazioni delle reali doti umane avvertite, spesso, come destabilizzanti e sovversive dai gestori del potere fondato sul controllo mentale delle masse. Lo sport professionistico è una delle più eclatanti dimostrazioni di società consumistica e le arti marziali tradizionali sono chiaramente antitetiche a un modello basato sulla competizione fine a se stessa in cui gli atleti sono addestrati quasi come cani da combattimento mettendo in atto qualsiasi mezzo per vincere e divertire un pubblico pagante. Importante è vincere, comunque apparire come vincenti anche immeritatamente, con l'inganno, facendo uso di doping. Si barattano le proprie qualità, la propria evoluzione in cambio dell'approvazione sociale che spesso mette a rischio gravemente la salute. Si rinuncia ad una autenticità atletica per indossare una maschera che possa soddisfare la “domanda di mercato”. L'artista marziale è l'esatta antitesi dello sportivo professionista. Un praticante di Karate non cerca la vittoria sul campo ma su se stesso, sui propri limiti, non cerca di vincere in ogni modo su un avversario/nemico. Piuttosto cerca di “vincere con”, vincere insieme, cerca un miglioramento attraverso lo scontro fisico che deve trasformarsi in uno scontro/incontro proficuo per entrambi. Un praticante di Karate non cerca il successo e l'approvazione sociale, ma con modestia e pazienza lavora su se stesso per evolvere, raggiungere una perfezione (mai completa), anche se contrapposta ai valori dominanti. 7 1.3. DOJO-KUN – I CINQUE PRECETTI “Vado in palestra ad allenarmi!” Per un vero praticante di Karate non è proprio così. Il luogo di addestramento ha un significato più completo e profondo rispetto al termine occidentale “palestra”. Dojo significa “Luogo dove si cerca la Via”. Dojo dove si pratica l'Arte marziale prescelta; è il Luogo in cui si impara, si cresce, si migliora. Dojo come Luogo degno di massimo rispetto per il Maestro, rispetto per gli allievi più anziani, rispetto per il tatami (tappeto/parquet dove si svolge l'addestramento), rispetto per gli attrezzi di allenamento, rispetto per il compagno di pratica, rispetto per tutto ciò che aiuta a progredire e migliorare. Dojo che ha le sue regole e i suoi precetti comportamentali. Dojo Kun significa letteralmente “Regole del Luogo dove si segue la Via”. E' la rappresentazione linguistica dell'essenza del cosiddetto Karate-do (la Via del Karate). E' la risposta alla domanda: Cos'è il Karate-do? Si tratta di un insieme di precetti etici basilari per la pratica del Karate tradizionale. Nella sua formulazione pone cinque regole fondamentali che il praticante deve conoscere e soprattutto introiettare. La funzione del Dojo Kun non è tanto legata al perfezionamento tecnico ma piuttosto a quello interiore che di riflesso conduce all'affinamento dell'esecuzione del gesto tecnico. I cinque precetti nascono infatti come sintesi estrema dei valori e degli obiettivi del Karate, che vede nella difesa e non nell'offesa uno degli scopi primari della disciplina. Nel costante allenamento delle applicazioni e nel percorso conoscitivo indotto dal Karate, corrispondenza tra interno ed esterno e rafforzamento dello spirito diventano mete essenziali del praticante. Questa disciplina che guida al sé attraverso la padronanza delle tecniche, considera fondamentale la conoscenza e l'interiorizzazione del Dojo Kun perché vede in 8 esso l'insegnamento della correttezza comportamentale e del rispetto universale. Il karateka deve appropriarsi del senso profondo e sentirlo istintivamente come via comportamentale estendibile alla condizione esistenziale. Ciascuno dei cinque precetti si presta a interpretazioni non univoche, ma il significato essenziale di ogni frase è inequivocabile. L'ordine con il quale i precetti si susseguono non è basato su alcun criterio gerarchico. Il Karate è Via per migliorare il carattere. Necessità di tendere a una continua trasformazione interiore basata su una obiettiva autocritica. Per miglioramento si deve intendere qualcosa di più impegnativo di un semplice adeguamento a ciò che comunemente si considera giusto e buono in un carattere; il concetto di miglioramento attraverso la pratica del Karate presuppone una conoscenza obiettiva dei propri limiti, delle debolezze e delle potenzialità che ciascuno presenta. Tendere al miglioramento significa quindi approssimarsi ad una conoscenza approfondita di sé stessi senza credere, peraltro, di poter esaurire una volta per tutte quel lungo e lento percorso di ricerca che non ha fine e impone una costante ricerca interiore. Il perfezionamento del carattere passa attraverso l'acquisizione di una sincera umiltà, l'abbandono dell'orgoglio personale, il raggiungimento di una vera modestia che impone coscienza di sé e sottrae la persona dall'eccesso di valutazione o di svalutazione delle proprie abilità. L'umiltà, praticata costantemente nell'esercizio di un atteggiamento corretto e sempre pronto al confronto, deve quindi facilitare l'assimilazione di nozioni necessarie al perfezionamento tecnico. Raggiungere efficacia nel controllo della tecnica (kyon) e della forma (kata) significa non fare esclusivamente affidamento sulle doti naturali, ma perseguire la via del perfezionamento considerando un dovere il superamento dei propri limiti. Solo nell'accettazione di un aggiustamento continuo che non sconfini nell'ossessione di arrivare ad una perfezione ideale irraggiungibile, il karateka può imparare a porsi sul tatami come nella vita, non cedendo ad utopie pericolose ed esercitandosi all'adattabilità senza 9 rinunciare alla propria individuale personalità. Nella concentrazione sulle tecniche e nella sopportazione dello sforzo fisico e spirituale richiesto per sfidare i propri limiti si compie pertanto la parte essenziale dell'evoluzione del carattere. Il Karate è Via di sincerità. Per sincerità si intende la pratica di un'autentica apertura che impone di scoprirsi senza raccontarsi in modo compiaciuto, di mettersi a nudo per lasciarsi indagare e conoscere dagli altri. Sincerità significa essere onesti nell'analisi di se stessi e degli altri senza incorrere in sterili giudizi. Sincerità è soprattutto limpidezza, azioni e pensieri dettati dal cuore e dalla mente purificati dall'egocentrismo, dal risentimento, da edonismo ed egoismo. Per il karateka la sincerità con se stesso e con gli altri è un esercizio ineliminabile, senza il quale la pratica non avrebbe senso. Se attraverso il Karate è possibile capire i propri limiti e tendere ad un'analisi obiettiva dei valori etici che riguardano le cose del mondo, la chiarezza è condizione essenziale per intraprendere un simile percorso conoscitivo. La sincerità richiesta nella pratica del Karate è dunque coraggio morale. Il Karate è Via per rafforzare la costanza dello spirito. Significa, cioè, considerare la continuità dell'esercizio uno strumento essenziale per affinare abilità tecniche e facoltà interiori. Senza costanza e volontà non c'è speranza per la crescita e la conoscenza di quelle energie individuali che solo l'allenamento collettivo fa emergere nel suo essere interazione e scambio fra le parti. Il rafforzamento della costanza abitua alla sopportazione dello sforzo fisico e porta allo sviluppo, al dispendio mirato, alla concentrazione e alla rigenerazione di energie sottili. La continuità porta ad attribuire un significato nuovo alla fatica giacché il potenziamento dello spirito passa attraverso l'esercizio paziente dell'allenamento e la sua sublimazione. Nell'allenamento costante e prolungato si attua la ripetizione instancabile delle tecniche e nella resistenza del karateka si intravede l'acquisizione della disciplina interiore. Praticare il Karate seguendo una traccia spirituale significa considerare assolutamente indivisibili l'esercizio della tecnica e 10 il suo valore, in quanto mezzo per approssimarsi ad un ideale di perfezione. Il Karate è Via per imparare il rispetto universale. Avere rispetto significa poter capire per amore di conoscenza ciò che è difforme, superare gli angusti spazi di una percezione limitata dalla contingenza e aprirsi ad un'ampiezza interiore che può accogliere le diverse sfaccettature dei fenomeni. Nel rispetto universale rientra necessariamente quello rivolto all'avversario sul tatami, in quel “nobile” confronto in cui l'incontro/scontro diventa quindi metafora della sfida che l'individuo attua incessantemente con se stesso per conoscersi e, valicando i propri limiti, porsi in armonia con il “Tutto”. Rispettare significa seguire una Via che richiede fedeltà ai principi senza incorrere nel dogmatismo impositivo. Solo così il rispetto per ciò che risulta estraneo e diverso può diventare consapevole accettazione delle diverse espressioni di spiritualità che connotano l'esperienza umana. Il Karate è Via per acquisire l'autocontrollo. L'importanza dell'autocontrollo è assoluta nella pratica del Karate. Autocontrollo in senso stretto significa valutare aperture e chiusure considerando la possibilità di interazione con l'avversario, lo spazio e il tempo. L'autocontrollo si esprime nella facoltà di mitigare le pulsioni, non reprimendo ma disciplinando il proprio istinto. Avere autocontrollo significa meditare sulle azioni per l'impatto che esse possono avere all'esterno e sedare le tensioni interiori addestrandosi al dominio e alla neutralizzazione di una “visceralità” frutto di un istinto non canalizzato, senza tuttavia rinunciare alla sincerità e alla spontaneità del proprio essere. Autocontrollo, quindi, come acquisizione di modalità comportamentali adeguate alle circostanze, capacità di sopportazione e dominio di se stessi anche in situazioni spiazzanti, conoscenza delle potenzialità raggiunte ed affinate, piena coscienza della loro efficacia, ma soprattutto consapevolezza che il fine ultimo è l'astensione imperturbabile. L'essenza dei principi sopra menzionati contribuisce in modo decisivo a differenziare il Karate da qualsiasi altra disciplina sportiva. 11 2. KARATE ED EDUCAZIONE 12 2.1. OBIETTIVO UOMO La cultura occidentale si caratterizza per una ricerca esasperata della prestazione e del successo, in ogni campo e a tutti i costi. Con ogni probabilità si sta perdendo di vista (forse è già perso) il valore fondamentale dello sport con la S maiuscola: lo sport come libera e creativa espressione del proprio corpo e della propria mente, come strumento di sviluppo dell'individuo in quanto tale e non solo in relazione al confronto con l'altro. La ricerca, sotto il profilo metodologico-scientifico, è indirizzata verso il “come” ottenere sempre più rapidamente e in modo efficace il massimo della prestazione competitiva, mentre il “chi”, cioè l'individuo con tutte le sue problematiche, entra in gioco soltanto come una delle tante variabili da considerare per ottenere comunque il risultato finale: la vittoria in gara. L'uomo da obiettivo è divenuto un mezzo. Le Arti marziali correttamente trasmesse possono colmare un vuoto educativo particolarmente evidente e preoccupante soprattutto se messo in relazione al fenomeno dell'abbandono nel mondo giovanile. Ovvero quel rifiuto totale e definitivo che il giovane dimostra nei confronti dell'attività sportiva in generale, del mondo dello sport, dopo essere stato sottoposto ad una pressione psico-fisica assolutamente inadeguata. Abbandono di tutto ciò che non attiene e porta rapidamente al risultato agonistico. L'Arte marziale, nella sua autentica accezione, è sempre stato un mezzo di crescita per l'uomo in quanto tale, indipendentemente dalla sua età anagrafica. L'Arte marziale ha come obiettivo, da sempre, di raggiungere l'eccellenza per l'uomo. Il massimo sviluppo del proprio potenziale non limitato da un settore della vita, ma a tutta la sua possibile estensione. Per confrontarsi con se stesso, per conoscersi e conoscere la realtà che lo circonda, l'uomo deve utilizzare uno strumento fondamentale: la presenza mentale.1 1 Il Maestro Francesco Cuzzocrea ha espresso in sintesi il suo pensiero in un interessante articolo apparso sul sito Internet del Dojo Italia Seigokan. Cuzzocrea ha un'esperienza di trentacinque 13 Tutta l'educazione delle Arti Marziali ruota intorno all'educazione alla presenza. Per essere presenti, però, non è sufficiente volerlo. Presenza significa preparazione, affinare gli strumenti (pensiero, cuore, corpo) che è il fine stesso del Karate-do (la Via del Karate). Il Karate non ha lo scopo di vincere un nemico: è fatto per lavorare ad un progetto più vasto. Si tratta di un sofisticato strumento educativo. Oggi si confonde spesso l'educazione con l'erudizione, il pensiero concettuale. L'uomo è bombardato di nozioni, concetti, teorie che sempre più raramente vive sulla propria pelle. Eppure l'autentica educazione passa prima attraverso la pelle, attraverso il corpo prima di raggiungere la ragione. “Tirar fuori”, permettere a ognuno di esprimere il meglio di sé nelle molteplici situazioni della vita. Il Karate, seppur arricchito delle nuove conoscenze metodologiche, deve conservare il suo ruolo educativo attraverso la trasmissione culturale che deriva dalla tradizione. La ritualizzazione culturale, la forma (kata) non deve essere intesa semplicemente come una sequenza codificata di tecniche, ma un rapporto con l'ambiente, con il Maestro, con i compagni di pratica, aver cura del dojo '. 2.2. ARTI MARZIALI E CAMBIAMENTO In un interessante articolo Giancarlo Rossi2 esprime, in base all'esperienza maturata nel corso degli anni, che l'interesse per le Arti marziali non scaturisce dalla mera volontà di impegnarsi in uno sport. Chi si rivolge alle Arti marziali, infatti, sembra 2 anni nella pratica delle Arti Marziali, attualmente insegna Seigokan Goju-Ryu Karate-do a Reggio Calabria ed è Docente di Difesa Personale della Polizia di Stato. Psicologo e psicoterapeuta, il Dr. Giancarlo Rossi ha iniziato un percorso associato che utilizza l'esercizio marziale a fini antidepressivi e antistress. Collabora con il Maestro Salvatore Mezzone presso la Kung fu Academy di Caserta. Ha scritto numerosi articoli su riviste scientifiche. Sito Internet www.kungfuitalia.it. 14 sapere, anche se solo vagamente, che esse non possono essere equiparate ad uno sport qualsiasi o, tanto meno, ad un hobby. Per quanto possa suonare pretenzioso, le Arti marziali sono, piuttosto, il mezzo attraverso cui l'individuo è messo nella condizione di acquisire un nuovo e più articolato modo di vedere la realtà. L'interesse per questa specifica pratica, infatti, a volte è dettato dalla necessità, interiormente avvertita, di dare una nuova evoluzione o una svolta alla propria esistenza, per quanto confuso possa essere questo sentimento. Si parla di bisogno di completezza per indicare la ricerca di quel “qualcosa” che arricchisca l'identità di cui si è già in possesso. L'avvio di questa specifica esperienza, che si rileva poi di grande importanza per i praticanti più assidui e di lunga durata, ha spesso inizio da uno stato di sofferenza. La scelta stessa sembra essere veicolata dalla necessità di raggiungere un equilibrio più sano: la crisi in cui versa l'individuo porta ad optare per una dimensione che si rivelerà successivamente evolutiva. Molti esempi confermano che gli eccessi di aggressività o depressione, che si manifestano in ragazzi e adulti a seguito di crisi personali, familiari, sentimentali, possono trovare nel Karate e in genere nelle Arti marziali un modello comportamentale in cui venire educati ad una nuova forma di stabilità, preludio di un benessere psico-fisico-relazionale. Il percorso esperenziale delle Arti marziali, continua il Dr. Rossi, viene talvolta descritto dai praticanti come “duro”, “faticoso”, “lungo”. Sembra, però, che proprio queste caratteristiche forniscano valore aggiunto ad un iter formativo che riguarda l'intera persona, piuttosto che un aspetto limitato di essa. Quello affrontato è, a ben vedere, un percorso che ha richiesto sacrifici ed impegno, in cui la persona ha investito notevoli energie; la conseguenza di questo lavoro è rappresentata dal forte e positivo impatto sulla vita di chi lo ha intrapreso, che costituisce la forza motrice per proseguire ancora in quel cammino. L'esperienza del Karate, tuttavia, non è prerogativa esclusiva del singolo, ma è piuttosto un'attività che pone il singolo a contatto con altre persone in un contesto interattivo di crescita 15 collettiva. Nel Karate l'altro è soprattutto un elemento di comparazione, un “altro corporeo”, una presenza in carne ed ossa con cui avviene un contatto fisico, con cui interagisce attraverso il movimento, ancor prima che con la parola. L'obiettivo fondamentale resta, comunque, il miglioramento di sé. Il rapporto con l'altro, quindi, è fondato sulla necessità di una crescita personale che viene regolamentato da tecniche che, attraverso il sentire col corpo, sono volte a potenziare l'aspetto evolutivo della relazione. Infatti nelle Arti marziali sentire meglio se stessi permette di sentire meglio l'altro e viceversa. In buona sostanza, attraverso la pratica del Karate l'evoluzione personale viene a coincidere con una contemporanea evoluzione delle relazioni interpersonali. Le Arti marziali permettono al singolo di educare aspetti propri della persona, talvolta vissuti con un senso di inadeguatezza, in vista di un utilizzo più funzionale degli stessi e in virtù di una crescente consapevolezza di sé. Giancarlo Rossi espone un interessante parallelo fra Arti marziali e psicoterapia. Se tale “processo di educazione” in psicoterapia si attua attraverso il dialogo verbale tra paziente ed un esperto, nel Karate ciò si verifica tramite una sorta di dialogo di movimenti corporei tra allievi e Istruttori. Ad ogni modo, è proprio questo dialogo, fra quel che si è e ciò che l'altro propone, ad infondere nuove traiettorie all'esistenza di una persona. Il cambiamento del singolo, in genere, è dato in gran parte da schemi nuovi appresi all'interno di contesti relazionali nuovi. La relazione, quando realmente significativa ed evolutiva, non diviene più un campo in cui agire un ruolo stereotipato, ma piuttosto una sorta di microscopio che permette di vedere se stessi e gli altri, quindi di intervenire in maniera più funzionale nelle relazioni. Nel percorso marziale, dunque, la relazione non è più una messa in scena incondizionata di modelli comportamentali appresi in passato, ma un campo dove è possibile dedicarsi alla crescita personale, proprio a partire dal confronto. In questo modo aspetti difensivi o caratteriali come la timidezza o 16 l'aggressività, trovano un mezzo per evolvere in forme più funzionali e gratificanti, anziché stagnare nella persona fino ad inquinarne l'esistenza. Le esperienze relazionali, tuttavia, si inseriscono sempre all'interno di un percorso che ha un “prima” e un “dopo”, perciò, pur apportando nuovi elementi, vanno sempre inquadrate all'interno di un'identità con una sua propria continuità nel tempo. Il “nuovo” rende possibili articolazioni diverse del “vecchio”, ma non un cambiamento tout court. Ciò perché è la struttura preesistente a riconoscere e introdurre i nuovi elementi insiti in un'esperienza rendendoli attivi. I nuovi aspetti introdotti permettono al “vecchio” di declinarsi in modi diversi dal passato e, quindi, di modificare il proprio repertorio comportamentale e relazionale. L'esperienza del Karate (e delle Arti marziali) deve essere sempre inserita all'interno di un percorso individuale specifico, poiché per ogni praticante avrà una diversa risonanza interiore ed un diverso significato. Comunque offrirà a tutti i praticanti la possibilità di arricchire la propria personalità e di apprendere nuovi modi di essere. Inoltre ogni persona è costituita da un insieme di diversi contesti relazionali, che vanno da quello familiare, amicale, lavorativo, eccetera. Quel che evolve a seguito di un'esperienza profondamente formativa, dunque, non è solo il sé dei singoli, ma i sistemi stessi di persone che a quel sé sono legati. Importare in un contesto la soluzione comportamentale scoperta altrove, è un modo per condividere la possibilità di nuovi percorsi funzionali. Allora non è azzardato affermare che una profonda e duratura esperienza nella pratica del Karate può consentire agli individui di attuare gli insegnamenti appresi anche nella vita di tutti i giorni. Le tecniche marziali, quindi, si mostrano non fini a se stesse né propedeutiche al combattimento, ma portatrici di un equilibrio e di un'armonia interiori che si riverberano sui diversi aspetti dell'esistenza. 17 2.3. EDUCAZIONE FISICA (DAI SEI AI NOVANT'ANNI DI ETA') Il Karate-do implica un metodo di combattimento senza armi. Ma lo scopo ultimo dell'Arte marziale è migliorare il proprio carattere ed elevare il proprio spirito attraverso lo studio di tecniche fondamentali (kihon), della forma (kata), del combattimento (kumite) che riguarda l'uso di pugni, calci, leve articolari e proiezioni, nonché l'uso del corpo negli spostamenti in tutte le direzioni. Con l'allenamento si pratica un'ottima educazione fisica finalizzata allo sviluppo della forza, dell'equilibrio, della velocità, della coordinazione generale e speciale. Infatti il Karate, con le sue tecniche, coinvolge la quasi totalità della muscolatura. Inoltre, attraverso l'allenamento, si impara a conoscere più profondamente se stessi, a capire gli altri, a maturare una maggiore sicurezza nelle proprie capacità e a sviluppare una personalità più equilibrata. E poi una comprensione del Karate consente una valida capacità di difesa personale. Insomma il Karate, nella sua secolare esperienza, ha formulato metodiche particolarmente efficaci per lo sviluppo di capacità attraverso uno specifico e costante addestramento che è la base primaria per una difesa personale. Previsione del pericolo, capacità di sottrarsi alle aggressioni evitando il pericolo, capacità di difendersi efficacemente dal pericolo in qualsiasi circostanza3. 3 Il Karate nasce a Okinawa dove il combattimento a mano nuda conobbe una rigogliosa fioritura durante i periodi di oppressione in cui, alla popolazione, era vietato il porto d'armi. L'isola subì, nel XV secolo, la dominazione cinese, durante la quale, per prevenire le rivolte, vennero vietate tutte le armi. Gli abitanti si accinsero allora a perfezionare le antiche tecniche di combattimento a mano nuda, mutuati dalle “arti del pugno” cinesi. Poi, all'inizio del XVII secolo, Okinawa fu conquistata da un signore feudale giapponese che mantenne a sua volta il divieto delle armi. Per essere in grado di difendersi contro l'occupante armato, gli abitanti di Okinawa lavorarono intensamente al combattimento a mano nuda. Fu un addestramento compiuto clandestinamente, a piccoli gruppi all'interno dell'isola. Nel corso del XIX secolo ebbe luogo l'assimilazione di Okinawa alla cultura giapponese e il significato delle tecniche di combattimento si modificò. Con il primo 900 fu riconosciuto il valore educativo del cosiddetto “okinawa-te” e venne presa la decisione di insegnarlo addirittura nelle scuole. Fu il grande Maestro Funakoshi, che ebbe l'incarico di insegnare queste tecniche in alcune Università giapponesi, a coniare il termine “Karate”: mano vuota, cioè una dimensione più ampia che riguarda lo stato d'animo richiesto alla pratica del Karate. Più avanti il Maestro Funakoshi aggiunse la nozione di “do” (Via o cammino) imponendo alla pratica una vera e propria trasformazione qualitativa. L'arte marziale denominata Karate-do fu 18 Per raggiungere tanto, il Karate si preoccupa di formare il praticante attraverso una serenità interiore che gli consente di valutare opportunamente le alternative che si presentano, contribuendo attraverso l'esercizio fisico a tenere ben lontano il pericolo più importante: la malattia. Il Karate è quindi sinonimo di vita sana e serena. Il Karate è una forma di Educazione fisica che si attua con la pratica e la competizione, è una disciplina che fa uso di tutte le parti del corpo nel modo più scientifico possibile, è una pratica che porta alla crescita dell'equilibrio psico-fisico. Infatti, oltre ad un miglioramento delle capacità prettamente fisiche del soggetto attraverso l'apprendimento e la ripetizione (scientifico-razionale) di svariate forme di esercizi, i praticanti si impadroniscono degli strumenti per proseguire la crescita e raggiungere un proprio equilibrio. Inoltre avviene gradualmente una crescita del livello di esecuzione degli esercizi stessi; la conoscenza diviene più dinamica , si acquista una maggiore padronanza di sé e del proprio corpo con benefici estendibili alla persona nella sua globalità. Tramite l'Educazione fisica l'individuo comprende l'importanza della collaborazione con il gruppo e trasferisce questo spirito, caratteristico della sfera sportiva, in ambito sociale. La persona che ha seguito correttamente una forma di Educazione fisica ha molte probabilità di essere un soggetto socialmente buono, adatto a svolgere un ruolo positivo nei rapporti con gli altri anche al di fuori della sua attività sportiva specifica. Il Karate, da questo punto di vista, non fa eccezione. Anzi, si può aggiungere che le caratteristiche di sacrificio, serietà, dedizione, intelligenza creativa dei suoi praticanti, può collocare questa Arte marziale fra le forme di attività fisica più educative, ad ogni livello di età o condizione. Tant'è che non è così importante e decisivo il raggiungimento di una certa meta, ma il modo e lo spirito con cui si procede lungo la Via della propria conoscenza. E si definisce “Marziale” (cioè la richiesta e necessità di un accettata dagli altri Maestri e fu esportata, a poco a poco, in tutto il mondo occidentale. 19 comportamento corretto e disciplinato) un' “Arte”, ovvero l'adattamento delle tecniche apprese alla propria costituzione fisica, alla propria maturità, senza limitazioni anagrafiche. Il Karate è un'attività fisico-motoria completa e simmetrica, sviluppa armonicamente tutta la muscolatura, contribuisce al miglioramento dell'elasticità muscolare, dell'equilibrio, della coordinazione neuro motoria. Per questa ragione è una disciplina indicata per tutti, ragazzi e ragazze dai sei ai ….. novant'anni di età! 2.4. IL KARATE E LE DONNE Negli ultimi anni si sta verificando un'inversione di tendenza che, finalmente, smentisce l'errata convinzione che il Karate sia una disciplina riservata esclusivamente ad un pubblico maschile. Sempre più donne di ogni età si avvicinano e si appassionano al Karate, ma sono ancora molte che ne restano lontane perché influenzate da pregiudizi e informazioni errate. Nell'immaginario collettivo persiste ancora la convinzione che, in generale, le Arti marziali siano esibizioni di forza bruta evidenziando inoltre, in maniera senz'altro riduttiva, il solo aspetto legato alla difesa personale. Le tecniche apprese insegnano a non opporre mai forza alla forza, ma a sfruttare l'attacco dell'avversario per neutralizzare la pericolosità. L'allenamento costante favorisce l'acquisizione di un corpo sano, flessibile, accresce la fiducia in se stessi conferendo calma e serenità rendendo così inutile ogni esibizione di forza. Non c'è mai brutalità né violenza, piuttosto sincerità, rispetto, autocontrollo e continuo sforzo di automiglioramento e crescita interiore. E' già stato accennato come il Karate non sia solo pratica fisica ma una disciplina “psico-fisica” in cui si avverte il legame causale fra movimenti del corpo e la propria personalità ed è per tutti – uomini e donne – un'occasione per iniziare un viaggio alla scoperta di se stessi. Praticare Karate significa innanzitutto spogliarsi del vissuto quotidiano (pregiudizi, ansie, 20 maschere, paure) per superare i propri limiti, imparare a credere nelle proprie capacità e avere in mente che il primo avversario è sempre e solo dentro di noi. Da questa considerazione è facile comprendere che il Karate è adatto a tutti e durante l'allenamento non importa se di fronte si ha una donna o un uomo. Nella pratica si annullano le differenze poiché il fine è comune: la dimensione corpo-mente, il rispetto e il progresso comune. Uno dei falsi miti vuole le donne fisicamente inadatte alla pratica delle Arti marziali. Se è vero che gli uomini sono per natura più forti, le donne sono generalmente più veloci e dotate di maggiore ampiezza articolare, caratteristiche ben più importanti della forza nel Karate. Inoltre per contestare l'errata convinzione che la prativa del Karate possa compromettere la femminilità, basterebbe osservare le ragazze che si allenano nel dojo. Con ogni probabilità sono le parole di Maria Luisa Brandi4 che sanciscono alcuni concetti basilari e chiudono l'argomento in questione: “Qualcuno si arrabbierà, ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e più Arti marziali, meno sci e più nuoto. Bambine, l'800 è finito, ditelo ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura muscolo-scheletrica e un fisico equilibrato. Per una ragazza è essenziale imparare le Arti marziali: oltre al fatto che servono all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stesse, senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono anche i requisiti primi dell'eleganza e del portamento”. 2.5. UNO STRUMENTO EDUCATIVO PER RAGAZZI DIVERSAMENTE ABILI 4 Maria Luisa Brandi, endocrinologa, Docente presso la Facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Firenze, è tra i massimi esperti in Italia in materia di Osteoporosi e Medicina dello Sport. Le parole citate sono tratte da un intervento tenutosi nell'ambito del 2° Congresso di Medicina dello Sport a Uliveto Terme nel Luglio 2003. 21 Nel corso degli ultimi anni vi è stata una progressiva sensibilizzazione sulle problematiche dei soggetti diversamente abili e della loro integrazione nel contesto sociale. Facendo riferimento ad alcuni articoli firmati da Laura Bortoli e Ofelio Michielan, l'Associazione Ren Bu Kan Karate di Conegliano5, nelle fattispecie, è stata teatro di iniziative in questo senso (soprattutto rivolte a bambini), in maniera tale da poter acquisire modelli di comportamento e ruoli affermativi (spesso negati in quanto sempre dipendenti dagli altri) che contribuiscano a costruire un'immagine di sé utile ad affrontare in modo sempre più positivo la propria esperienza. Non è necessario affrontare realmente un combattimento (kumite): spesso non è neanche possibile a causa delle complesse implicazioni coordinative e tecnico-tattiche che un confronto del genere presuppone. Nonostante ciò, afferma il Maestro Michielan, sono migliorate le capacità di autocontrollo ed il senso di autonomia personale sia nell'affrontare la lezione in palestra, sia nel contesto quotidiano della vita. Se a ciò hanno contribuito il consolidamento delle capacità motorie e la soddisfazione di vedere concretamente progressi di apprendimento (soprattutto nel kata) con conseguente incremento della sicurezza personale, si è pure rivelato momento importante anche la semplice espressione vocale del kiai6, occupazione di spazio sonoro che diviene spazio simbolico di affermazione di sé 5 6 L'Associazione Ren Bu Kan ha lo scopo di propagandare il Karate come mezzo di formazione fisica e morale, promuovendo ogni forma di attività agonistica ed associativa secondo le idee, lo spirito e i fini del Karate tradizionale. La Prof.ssa Laura Bortoli, Docente di Teoria e Tecnica dell'Attività motoria adattata presso l'Università di Chieti-Pescara ha fornito molti interessanti contributi bibliografici soprattutto sul rapporto Allenatore/Atleta e sulla preparazione mentale nello Sport. Il Maestro Ofelio Michielan, 63 anni, cintura nera 6° dan, ex Allenatore della Nazionale FIKTA (Federazione Italiana Karate Tradizionale), tiene periodicamente stage in diversi Paesi del mondo. Ha fondato l'Associazione Ren Bu Kan promuovendo, anche in forma di volontariato, corsi propedeutici volti all'insegnamento dei bambini e ragazzi diversamente abili, in particolare affetti da sindrome di Down. Ki = mente/forza psichica – Ai = unire. Kiai = unire la mente, le energie psichiche (con il corpo). Questo grido non deve esser prodotto dalle sole corde vocali, bensì deve provenire dal basso addome, dal ventre (hara) centro del Ki e della vita nella concezione orientale del mondo. Si emette un suono forte contemporaneamente all'esecuzione di una tecnica. 22 nell'ambiente e sull'universo. Inserire ragazzi disabili in un gruppo rende necessario sensibilizzare i genitori degli altri compagni di pratica all'importanza della funzione umana e sociale e al profondo valore educativo-integrativo, che abitua ad una diversa e più responsabile modalità di relazione con l'altro. Nel primo periodo, esprime ancora il Maestro Michielan, non sono mancate difficoltà: per esempio nello svolgimento delle lezioni il ritmo di lavoro poteva subire un rallentamento, i ragazzi down richiedevano tempi più lunghi per l'apprendimento di nuovi gesti; oppure si verificavano, talvolta, da parte loro atteggiamenti di rifiuto che il Maestro doveva gestire al meglio. L'inserimento in un gruppo è una situazione complicata anche per lo stesso soggetto diversamente abile, soprattutto quando esiste il lui la coscienza della propria inadeguatezza rispetto alle richieste dell'ambiente. Chi è portatore di handicap ha sperimentato sovente, nel corso della propria vita, situazioni di difficoltà, incapacità, insuccesso e la consapevolezza dei propri rilevanti limiti può portare a rinchiudersi in sé, ad evitare situazioni nuove per non rischiare il confronto con gli altri e un nuovo insuccesso. Se la disciplina del Karate può svolgere un ruolo importante nell'esperienza di qualsiasi individuo, si è rivelata, proprio per le sue caratteristiche specifiche, importantissima sul piano pedagogico anche per i ragazzi down, non solo ai fini dell'incremento e consolidamento delle capacità motorie. Infatti un aspetto determinante nella pratica del Karate è l'apprendimento delle tecniche fondamentali e della loro combinazione in momenti successivi (kata). Se nell'apprendimento delle singole tecniche è fondamentale l'aspetto coordinativo-motorio (il controllo del gesto nelle sue componenti dinamiche e spazio-temporali), nella memorizzazione della forma (kata) entrano in gioco anche aspetti specificatamente cognitivi. La pratica del Karate contribuisce, dunque, a sollecitare l'impegno cognitivo: nei casi di insufficienza mentale può costituire una possibilità di realizzare o continuare processi di 23 apprendimento, in situazione (palestra) emotivamente coinvolgente e motivante. Tant'è che le difficoltà incontrate inizialmente gradatamente scomparivano, conclude Laura Bortoli: il ritmo delle lezioni si normalizzava, si riscontravano nuovi apprendimenti anche di gesti via via più complessi; dopo sei mesi è stato possibile far sostenere a tutti i ragazzi del gruppo le prove di verifica del grado di apprendimento raggiunto. Naturalmente, col trascorrere del tempo si evidenziavano anche i limiti della situazione, poiché si allargava il divario, dal punto di vista tecnico e motorio, tra i ragazzi down e i loro compagni. E' stato ritenuto utile, pertanto, un loro inserimento in un gruppo di amatori, così da offrire comunque l'opportunità di proseguire questa esperienza di crescita personale e integrazione. Relazionare con soggetti portatori di handicap, infine, risulta problematico sia per la generica difficoltà di comunicare con persone che sentiamo “diverse”, sia per l'assenza di competenze pedagogiche specifiche. Eppure un atteggiamento di disponibilità umana, di ascolto e osservazione, la capacità di differenziare e individualizzare l'insegnamento sono elementi fondamentali di ogni relazione pedagogica: di quella tra Allenatore e Atleta (in un contesto tecnico-competitivo), di quella con il ragazzo diversamente abile praticante di Karate (essenzialmente educativa). 3. AGENZIE DI SOCIALIZZAZIONE 24 3.1. UN'ECCEZIONE CHE CONFERMA LA “REGOLA” Le Agenzie di socializzazione sono quelle istituzioni presenti all'interno della società che hanno un ruolo determinante nei processi di organizzazione, regolamentazione, sviluppo e mantenimento dei gruppi e che ne garantiscono integrità e coesione. La famiglia è la più importante Agenzia di socializzazione, in quanto in essa si costruiscono i primi legami affettivi e si interiorizzano le norme e i valori più elementari. Viene definita, per questa ragione, “socializzazione primaria” dove il bambino trova affetto, protezione, modelli e basi comportamentali semplici. La scuola rappresenta il secondo step di socializzazione inquadrandosi in un ambito più formale dove si acquisiscono ruoli più istituzionalizzati e competenze specifiche. Si parla in questo caso di “socializzazione secondaria” proprio perché è riferita ad un contesto più complesso, esterno all'ambito familiare dove i ruoli assumono una valenza formale. E' superfluo affermare che oggigiorno, nella cosiddetta civiltà post-industriale, si assiste ad un inarrestabile disgregarsi dell'organizzazione sociale causato dal mutato stile di vita e alla inconsapevole mancanza trasmissione di valori in particolare da parte della famiglia, che costituisce per l'essere umano il primo contatto con la realtà e la sua prima forma di socializzazione. La famiglia che dovrebbe rappresentare il fondamento per un corretto sviluppo della personalità, il luogo sicuro dove potersi rifugiare dopo le “sconfitte” durante il corso dell'esistenza, sta perdendo (in molte circostanze) il proprio ruolo essenziale, insostituibile. Un compito, tuttavia, che può esser colmato da altre Agenzie di socializzazione forti e concrete, attraverso le quali vengono favoriti aggregazione, condivisione di ideali, acquisizione di valori, focalizzazione al meglio dei propri obiettivi. Un esempio calzante di questa “socializzazione secondaria” è lo sport che risponde al bisogno di acquisizione di valori e, soprattutto, l'interiorizzazione di “regole”. E se le regole assumono talvolta un significato impositivo, prescrittivo, 25 vessatorio, in realtà (inconsciamente) tutte le persone hanno bisogno di regole circa il “cosa fare”. Lo sport generalmente garantisce un corretto equilibrio psicologico e relazioni sociali stabili tramite regole formali. Anche se, in mancanza di risultati agonistici e aspettative parzialmente disattese del gruppo, lo sport può divenire causa di tensione, stress, paura e sentimento di inadeguatezza soprattutto nei soggetti più giovani ancora emotivamente troppo fragili che si devono confrontare con una realtà non in linea con la propria volontà di realizzazione. Tutto ciò provoca una forma di disagio psico-sociale che può sconfinare nel rifiuto e nell'abbandono della disciplina. Il Karate e, in genere, le Arti marziali costituiscono un'eccezione. Nella pratica delle Arti marziali l'individuo sviluppa innanzitutto una grande consapevolezza del proprio io e innesca una serie di reazioni positive dovute al fatto che il Karate, nella sua più tradizionale accezione, non concepisce la vittoria/sconfitta contro un avversario/nemico, ma piuttosto “vincere se stessi”. Un antico proverbio orientale recita: “Chi riesce a vincere se stesso è più potente di chi conquista un'intera città”. Il significato è che la persona umana ha un potere illimitato. Ovvero ha soltanto i limiti che esso stesso si pone. L'individuo è talmente potente che riesce persino a limitare o sopprimere il proprio potenziale. Quando si pratica il Karate c'è aggregazione, amicizia, spirito di gruppo, condivisione di ideali, la passione per l'Arte marziale, l'obiettivo di migliorare la propria tecnica e “vincerecon”, la certezza di un punto di riferimento: il Maestro e i compagni di allenamento. Quindi è possibile affermare che il “sistema” Karate costituisca una vera e propria efficiente Agenzia di socializzazione in cui sarebbe auspicabile la presenza attiva di genitori, parenti, amici. 3.2. ARTI MARZIALI E NEGOZIAZIONE 26 La capacità alla disponibilità significa anche comprendere, cercare con impegno di superare le inevitabili difficoltà che si presentano in tutti gli ambienti della convivenza quotidiana. Le Arti marziali sono “conoscenza di se stessi”, dell'avversario e, più in generale, delle persone con con cui si interagisce. Si intende cioè una difesa proporzionata all'offesa, una reazione proporzionata all'azione. Pur raggiungendo l'obiettivo dell'incolumità, tiene in considerazione la salvaguardia, per quanto possibile, dell'altra persona che viene rispettata come essere umano. Il Karate (e in genere le Arti marziali) è uno strumento per affinare l'abilità della negoziazione. Una metafora per la negoziazione e uno strumento formativo esperenziale. Se per negoziazione si intende sostanzialmente l'atto di effettuare una trattativa che abbia come fine il raggiungimento di un accordo (indipendentemente dal contesto) che sia possibilmente soddisfacente per le due parti, l'atto del negoziare prevede spesso il saper dire di “sì” e di “no” al momento giusto e proporre sempre qualche alternativa alla controparte. Non lasciare l'avversario “con le spalle al muro” poiché un animale ferito combatte più ferocemente e sarà meno incline all'accordo. Negoziare attraverso le Arti marziali porta a dire “sì”, poi “no”, poi “sì?”7. In altre parole “sì” a se stessi, “no” all'avversario, “sì?” ancora all'avversario. In primo luogo dire “sì” all'integrità fisica, all'equilibrio fisicomentale, alla calma e serenità, alle convinzioni personali. In secondo luogo dire “no” all'aggressione e aggressività di un avversario, non accettazione di qualsiasi atto intimidatorio. Scendere a compromessi è come accettare un attacco: è in gioco l'integrità fisica. La merce di scambio per negoziare si chiama determinazione, equilibrio, preparazione psico-fisica. Infine, dopo il “no” c'è un'offerta, una controproposta che 7 Il modello in questione fa riferimento a “Il potere di un positivo No: come dire No e ancora arrivare al Sì” di William Ury. Il Prof. Ury dirige il Global Negotiation Project presso l'Università di Harvard e opera da trent'anni come mediatore in ambito aziendale e politico. 27 rispetta le necessità dell'altro. La reazione al turbamento di un equilibrio non sarà di tipo distruttivo, non è un secco “no” che non lascia vie d'uscita. E' un “no” che che lascia spazio al dialogo, all'accordo ricercato tra le parti, che tende a riequilibrare. In altre parole, a neutralizzare un aggressione utilizzando, se possibile, la stessa forza dell'avversario causando il minor danno possibile, rispettandolo. Le Arti marziali sono pratica. Il primo passo sarà comunque rivolto ad un lavoro sul proprio corpo, sulla postura, sulle rigidità che non sono altro che lo specchio della mente. Il secondo passo fondamentale è lavorare sulla capacità di ascolto, inteso come la capacità di percepire e capire le intenzioni dell'avversario. Ciò si ottiene attraverso il contatto fisico, lavorando a stretto contatto con l'altra persona tramite una serie di esercizi propedeutici alle applicazioni più reali. “Uno parla, l'altro ascolta” e viceversa. 3.3. AUTONOMIA E RELAZIONE Nella pratica del Karate il gruppo è il contesto umano nel quale si realizza l'allenamento. Si pratica in gruppo e si eseguono tecniche sia a livello individuale che a squadre (vedi kata) in cui la partecipazione e l'armonica coordinazione del gruppo costituisce il valore fondamentale della tecnica. Perciò si deve diventare flessibili per mediare le differenze individuali nel collettivo, che prevale sull'individualità, pur non essendo quest'ultima negata o repressa. Anche nel combattimento a squadre (kumite) si forma un senso di appartenenza al gruppo in quanto il successo finale dipende dall'apporto di tutti i componenti del gruppo stesso. L'autonomia è la capacità di essere-solo, stare-solo, fare-solo e si sviluppa partecipando attivamente e di persona all'allenamento. L'essere-solo è la condizione in cui il karateka si trova quando pratica l'Arte marziale, durante la quale 28 sviluppa la capacità di separare il mondo esterno dal mondo interno, l'atteggiamento di ascolto interiore. Il Karate, essendo praticato con il corpo, può essere eseguito soltanto in prima persona sviluppando la funzione psicologica del fare-da-solo come una condizione necessaria per apprendere e crescere. Il praticante coglie la sua umanità ed i suoi limiti: si rende conto della necessità dell'altro per soddisfare i bisogni e per realizzare pienamente se stesso. Con l'autonomia si realizza, nella relazione con l'altro, la condivisione e la collaborazione costruendo un bene comune senza cadere nello sfruttamento e nel parassitismo servile. La relazione si stabilisce, durante la pratica del Karate-do, con il saluto e si realizza nel rapporto con il Maestro e i compagni del dojo. Il combattimento è un altro momento importante in cui si sperimenta l'autonomia e la reciprocità nella relazione. In questa esperienza ogni praticante è solo con se stesso ma comprende, allo stesso tempo, che senza l'altro non sarebbe possibile combattere. Per realizzare il combattimento marziale è necessario collaborare, condividere, cooperare: proprio il contrario dello scontro violento. 3.4. LA GESTIONE DEL CONFLITTO QUOTIDIANO Tra gli obiettivi educativi conseguibili con le attività marziali è lecito inserire quello della complessa gestione dei conflitti nella vita quotidiana. La famiglia e la società tendono ad insegnare due strategie errate per la gestione del conflitto: quella aggressiva passiva (fuga, menzogna, manipolazione, sarcasmo) e quella aggressiva (critica, offesa, insulto, umiliazione, violenza fisica). La terza modalità, definita “assertiva”, si basa su una buona comunicazione. E' aperta, onesta, diretta, paritaria. Assertivo è un approccio che mette in condizione di gestire in modo positivo e costruttivo i rapporti interpersonali. E' una tecnica che può essere appresa e, con la pratica, diviene una capacità 29 che può essere migliorata. E' assertiva una persona in grado di comunicare senza troppe paure il proprio vissuto, adottando un linguaggio fisico e verbale non aggressivo, esporre il proprio punto di vista senza sopraffare quello degli altri, sapendo che la verità è merce rara e quasi mai appartiene esclusivamente ad una persona. Tendere ad una soluzione che si avvicini il più possibile ai suoi obiettivi (senza aggressività) rispettando i desideri e gli obiettivi degli altri. Valutare le persone in maniera attiva, ascoltare come parlano e come si esprimono, ma anche osservare l'atteggiamento corporeo al fine di comprendere le loro reali intenzioni. Assumersi le proprie responsabilità con coraggio e consapevolezza dei propri limiti. Tutti questi comportamenti possono essere meglio adottati e più efficacemente agiti, se si fondano su valori etici del rispetto degli altri, della tolleranza, dell'empatia. Se non vi è questa base etica, la pratica di questo agire non sarebbe sostenibile in tempi lunghi poiché richiederebbe la continua ristrutturazione dell'agire rispetto a valori etici discordanti da essa. Risulterebbe troppo impegnativo e logorante; se invece vi è una consonanza con i valori etici, l'azione diventa connaturata e spontanea, senza costi aggiuntivi. Una persona assertiva è in grado di mantenere una condizione psicologica di rilassamento, conseguenza di una buona autostima. Una delle ragioni più frequenti nello sviluppo del conflitto è che viene vissuto come competizione, come una gara con un vincitore e un perdente, e non come l'espressione di bisogni apparentemente divergenti. Non a caso oggigiorno assistiamo continuamente a dibattiti-scontri nei quali prevale l'obiettivo di affermare la propria “verità” e la “falsità-delegittimazione” della posizione dell'avversario. L'assertività, invece, non vuole imporre la propria “verità” ma punta a comportamenti collaborativi, con l'obiettivo di concludere il conflitto con soluzioni condivise di reciproca soddisfazione: una condizione definita vincitore/vincitore (win/win). In generale la gestione del conflitto passa attraverso varie 30 “azioni”. In primo luogo accettare il conflitto come parte della natura umana e riconoscere l'esistenza del conflitto quando si manifesta (non negarlo). Poi entrare in conflitto con la consapevolezza di un'occasione per sviluppo e crescita. Riconoscere, valutare l'importanza del conflitto e adeguarsi ad esso, essere consapevoli che il conflitto non è la persona, mantenere la giusta distanza. Tutte questi approcci sono sperimentabili attraverso il Karate (e le Arti marziali) insieme ai loro valori aggiunti costituiti dalla capacità di autocontrollo e gestione delle tensioni attraverso una consapevole autostima e l'uso della respirazione. Ascoltare le motivazione dell'altro, equivale fisicamente all'unione, al guardare nella sua stessa direzione, ad entrare nei suoi panni, a prendersi cura dell'avversario.8 Non interrompere l'altro, cioè lasciare fluire la sua azione, non bloccarla ma assecondandola verso il proprio obiettivo etico principale, che non è la propria vittoria bensì il ripristino dell'armonia. Dialogare con l'altro nella ricerca di un punto di equilibrio comune: in termini fisici significa unirsi all'avversario cercando un centro comune (relazione franca e rispettosa). Tendere, infine, a una soluzione assertiva (win/win) e il Karate, come generalmente tutte le Arti marziali tradizionali, rappresenta il modo più assertivo per la gestione di uno scontro fisico. Il benessere psicologico dipende anche dal ruolo che svolgono Insegnanti, Istruttori, Maestri i quali non possono limitarsi all'insegnamento delle tecniche, ma piuttosto devono assumere un compito formativo importante. Mahony9 mette in guardia dai rischi derivanti dall'esclusiva formazione tecnica: “Adolescenti, identificati come delinquenti, 8 9 Vedi Cambi in “La cura in Pedagogia – note critiche” in Corso di Perfezionamento 2008-09 Università degli Studi di Firenze – Facoltà di Scienze della Formazione; Boffo – Torlone (a cura di) “L'inclusione sociale e il dialogo interculturale nei contesti europei” Firenze 2008. Alessandro Mahony, psicologo e Docente presso l'Università degli Studi di Brescia, studioso e praticante di Arti Marziali, ha prodotto interessanti pubblicazioni e articoli sul tema della Psicologia dello Sport sia in ambito di ricerca che di intervento e sull'attività sportiva (nella fattispecie il Karate) sotto il profilo educativo, pedagogico, psico-terapeutico. 31 che avevano seguito per sei mesi un corso di taekwondo tradizionale (con tecniche di meditazione, brevi letture sulla disciplina stessa praticata, apprendimento delle tecniche fisiche) mostravano un decremento dell'aggressività e dell'ansia con incremento rilevante di autostima. Contrariamente, in un altro gruppo che aveva seguito un corso di taekwondo moderno (solo tecniche fisiche), i ragazzi mostrarono un'aumentata tendenza alla delinquenza e un aumento dello stato di aggressività”. 4. FORMAZIONE E MAESTRO La maggior parte delle persone passa più tempo ad apprendere e ad insegnare che a produrre beni e servizi. Dopo 32 il sonno, la formazione è la prima attività della nostra società.10 Si potrebbe considerare legittimo parlare della società attuale come di una società formativa. Con ciò non si vuole intendere che la società si spiega attraverso il modello formativo, ma semplicemente che questo fenomeno ha invaso la maggior parte delle attività della vita, del lavoro, del tempo libero. Con la formazione dunque dobbiamo necessariamente fare i conti nel percorso quotidiano. L'azione formativa oggi, rispetto al passato, concerne piuttosto un campo di azioni complesse che incrociano diverse performance: di informazione, di simbolizzazione, di addestramento, di propaganda, di cultura, di educazione, fino ad arrivare alle azioni terapeutiche e politiche. L'introduzione di un sistema formativo si riconosce nei nuovi processi professionali e organizzativi che vengono messi in atto. Con la formazione si passa da una struttura professionale istituzionalmente legittimata ad una socialmente riconosciuta. Assieme ai formatori legittimati (per esempio gli Insegnanti) troviamo formatori occasionali, consulenti, coloro che intervengono nelle attività no profit e di assistenza, i professionisti del lavoro, i professionisti della cura del quotidiano. Il superamento attuale dei precedenti modelli (strutture gerarchiche tra le persone, tra i saperi e le professioni) ha permesso la ricomposizione tra il sapere e il fare, tra il sapere, l'essere e il fare. In questo senso l'azione non è più necessariamente dipendente dal sapere, ma è sapere esso stesso. E governare questo “sapere” significa accedere alla formazione. Il soggetto non viene più “addestrato a”, piuttosto si “forma a”, si “forma con”, si “forma per”. Con la formazione, la soggettività stessa diventa autrice dell'apprendimento e del cambiamento. In questo senso il soggetto non è più manipolato dai contenuti, ma entra in relazione con la materia attraverso la mediazione del formatore. 10 Jacky Beillerot, Professore emerito all'Università di Parigi, Docente si Scienze dell'Educazione, membro del Consiglio Nazionale dell'Innovazione di Francia. Vedi “La società pedagogica” PUF Parigi 1984. 33 Il sapere, quindi, non è più oggetto di un passaggio diretto Maestro – Allievo, ma piuttosto relazione tra Maestro – Sapere/Pratica – Allievo. Il superamento del modello duale (dipendenza) con il rapporto triangolare (scelta, decisione, consapevolezza) sono alla base della concezione formativa. Non è dunque il possesso del sapere che caratterizza il rapporto del Maestro con il suo allievo, ma la qualità di relazione di sapienza che il rapporto riesce ad instaurare e governare. Nella società moderna della complessità non c' bisogno di “soggetti costruiti”, ma di “soggetti costruttori”, capaci di prendere decisioni e risolvere problemi: la cosiddetta postmodernità richiede autonomia, flessibilità, forza, sicurezza, mediazione. Allora è possibile senz'altro evidenziare i nessi significativi che distinguono una formazione nella pratica del Karate. 4.1. UN MODELLO FORMATIVO PER IL KARATE Nel Karate formare evoca un'azione profonda sulla persona, un'azione di trasformazione di tutto l'essere. Si tratta dunque di un'azione globale che porta a sua volta sul sapere, sul saper fare, sul saper essere. Formare implica, inoltre, che l'istruzione che passa da Maestro ad allievo venga messa in pratica nella vita. Formare significa un approccio alla conoscenza, ma anche ai valori e alla personalizzazione del soggetto che apprende. Una concezione formativa costruita sull'epistemologia dei bisogni è strettamente funzionale ad una concezione deterministica e di dipendenza degli esseri umani dalla natura, dagli archetipi. Nella dimensione del desiderio, l'individuo si riconosce soggetto capace di progettare la propria identità. In questo caso il “soggetto in formazione” non può essere cambiato dall'esterno, ma è in cambiamento quando la sua pratica diventa azione interiorizzata e ricerca consapevole. 34 L'apprendimento nel Karate non è un'istruzione di adattamento, ma un processo di cambiamento in quanto progetto, sperimentazione, ipotesi di ricerca personale. Nella società post-moderna, di fronte alla moltiplicazione e all'accrescimento delle conoscenze, ci si interroga sulla possibilità di ricostruire un universo sociale, culturale e formativo che faccia posto sia alla ragione che all'essere, alla razionalizzazione e alla soggettività. Un universo inevitabilmente complesso, in cui si perderà il sentimento della certezza, si riconoscerà il sentimento instabile di ogni conoscenza, ma sarà capace di stabilire legami e mediazioni tra fatti contraddittori, cercherà di integrare saperi differenti. L'allievo non può essere messo davanti a una serie di principi e regole assolute, ma piuttosto davanti alla propria produzione. In questo quadro di riferimento un processo formativo nell'ambito del Karate implica una completa rivoluzione prospettica. Si tratta infatti di leggere il modello dell'insegnamento alla luce della concezione formativa e non del semplice addestramento. Su questo aspetto il sistema del Karate confronta assieme la propria storicità con il presente e il futuro. La logica di separare il sistema tra tradizione e modernità è più una logica politica che formativa, ma soprattutto è una logica astratta. Nessuno è perfettamente tradizionale o perfettamente moderno. Ciò che il Karate ha espresso e esprime, in ogni tempo e in ogni luogo, è l'interpretazione che ogni Maestro e ogni allievo danno della propria “teoria-azione” in rapporto al modello conosciuto e nella sua implementazione nel contesto. Se vi è più o meno rispetto di tradizioni e di modelli storici, comunque ciò che può essere trasmesso, insegnato, “formato”, è un progetto di Karate che si confronta sempre nel divenire. E' in questa dimensione che vanno ricercate le diverse correlazioni e le relazioni significative che danno senso a questa pratica nella storia e nei contesti. Il Karate è fondamentalmente una “forma-azione” che si realizza attraverso il corpo, ma paradossalmente il suo paradigma fondamentale non si confronta con la sola corporeità e nemmeno con il movimento, ma con la mente, lo 35 spirito. Nel Karate il corpo è la materia che diventa “elemento pensante”, sede dell'unità mente-corpo e dunque oggetto e soggetto insieme. Un altro aspetto formativo è la dimensione di interculturalità che esprime. La sua connotazione originaria orientale dal punto di vista storico e la sua divulgazione in Occidente lo porta a dover essere pensato non più come materia di una tradizione, colonizzazione culturale, ma espressione di transcultura capace di connettere significati e comportamenti nella pluralità e nella differenza delle culture. Più il Karate acquista in interculturalità e più viene concepito come pratica vitale e di sviluppo globale. La pratica del Karate senza la conoscenza della sua storia è una pratica coatta, portatrice di dipendenze più che di pensiero e sviluppo formativo. E' nella conoscenza dei suoi processi e delle sue spiegazioni che si ritrova la matrice dinamica della sua tecnica e della sua strategia formativa. Per quanto riguarda la competenza nel Karate, possiamo distinguere un livello di base che si confronta con il quotidiano della vita e una formazione professionale. Nel primo aspetto il Karate ha la necessità di confrontarsi con i contesti di appartenenza in cui risiede e di stabilire con questi legami di contiguità e implementazione. Il bambino, l'adulto, l'anziano che praticano Karate, prima di confrontarsi con la cultura, la storia, la filosofia e con i suoi miti, si correlano con la propria corporeità, con la propria mente, la propria psiche, ovvero con le loro identità. Esiste una dinamica che ogni azione sull'uomo (che si dica formativa) che deve rispettare: l'identità delle persone e dei loro contesti. La pratica del Karate, a differenza di altre discipline sportive, è una filosofia di vita e di comportamento. Il nodo sta nel confronto tra addestramento e formazione. La vita e il quotidiano non necessitano di addestramento ma piuttosto di ragionamento e di apprendimento consapevole ed equilibrato. All'estremo specifico della materia è il significato che assume la pratica del Karate per i professionisti. Il confronto sta nell'efficacia e nell'efficienza delle “expertise” di quei praticanti. 36 In questo ambito la formazione diventa molto più complessa, modellizzata, strutturata, determinata. Qui è la storia che spesso vince sui contesti. La qualità, in questa prospettiva, è il grado di competenza relativa, più assoluta possibile, nell'interpretazione delle tecniche e delle sue strategie. Il professionista si riconosce dalla sua riflessività, ovvero dal controllo continuo della sua pratica (sottoposta alla relatività) con la pratica trasmessa (dalla storia) nelle sue configurazioni e spiegazioni. Nel professionista è il modello che vince sulla vita. Nella vita è l'identità che vince sul modello. La formazione comprende entrambe queste anime dando sede a ciascuna. Una “società formativa” ha la necessità di reggersi sulla competenza dei suoi formatori. Essa si trasmette attraverso le persone e i processi. Questi ultimi prendono anima e corpo attraverso le identità delle persone. I miti e i riti tuttavia non sono semplicemente delle soggettivazioni, ma strutture di sapere e di expertise incarnate nei soggetti e nelle loro identità. Ogni formatore sa che queste soggettività rappresentano dei processi che devono diventare oggetto di apprendimento. Con la qualità della formazione dei formatori si distingue il vero Karate dal falso Karate. 4.2. IL RUOLO DELL'ISTRUTTORE E DEL MAESTRO Nel Karate-do l'aspetto primario e prioritario è la Tecnica. Il Karate-do è una pratica così ben codificata che si è trasmessa e tramandata negli anni (secoli) con una propria perfezione, una propria configurazione di insieme, cioè come un sistema perfetto e stabile. Colui che possiede le chiavi per entrare in questa configurazione d'insieme, è l'Istruttore, anche se non padroneggia il sistema per i limiti della tecnica in sé. Primo compito dell'Istruttore è dunque quello di conoscere perfettamente la tecnica, nelle sue relazioni interne ed esterne. 37 Secondariamente si tratta di prendere in carico un gruppo di allievi e alfabetizzarli. Per fare ciò l'Istruttore si deve dotare di una metodologia di insegnamento, anzi più esattamente una metodologia di istruzione. Secondo alcuni autori, i tre grandi gruppi di problemi posti dalla trasmissione della conoscenza sono: che cosa e a quale fine si trasmetta; chi debba trasmettere e chi debba essere il destinatario della trasmissione; in quale maniera si debba trasmettere. E' l'organizzazione delle conoscenze a decidere profondamente intorno allo stile pedagogico. Di conseguenza si dovrà considerare l'azione dell'Istruttore quale occasione e strumento per collocare le richieste conoscitive. L'Istruttore è già un mezzo, una strategia di insegnamento, un prodotto fabbricato. Quindi un insegnamento inteso come trasmissione formale delle conoscenze, di istruzione (e non di educazione). Conoscere la tecnica vuol dire entrare in un mondo di segni e simboli, pieni nel loro significato e finiti nel loro messaggio. L'Istruttore conosce questo linguaggio e (in genere) lo fa suo. Ma non è così semplice e scontato. Far proprio un linguaggio così simbolico e così interiorizzato culturalmente, è possibile soltanto col compiersi di una identificazione. Perciò si diventa Istruttore, al di là degli attestati formali, quando inizia a costruirsi la relazione tra se stesso e quel linguaggio/tecnica. L'Istruttore di Karate-do è colui che per mezzo della tecnica parla, comunica, trasmette significati. Il suo è un linguaggio di gesti, codici, simboli, situazioni, costruzioni corporee, figure. L'Istruttore non è più l'allievo che assimila una tecnica; è colui che nella tecnica inizia il cammino della costruzione del sé. Egli infatti lavora la tecnica, la esplora, la sperimenta, la mette in relazione continua con le proprie capacità fisiche e psichiche. Il corpo (la corporeità) è l'altro aspetto della tecnica che un Istruttore ha il compito di sviscerare e far proprio nella sua complessità. Un Istruttore deve quindi relazionare la tecnica con il proprio corpo (e non viceversa, come l'allievo), solo in questo modo attiva il processo di conoscenza di sé, del proprio 38 linguaggio corporeo e diviene capace di leggere i segnali personali, cercare la strada per maturare al meglio la propria personale tecnicità. L'Istruttore fa molta fatica, la sua è una fatica fisica, corporea, “scientifica”. In questo sforzo di realizzazione vi è, da subito, la consapevolezza della potenzialità della tecnica e delle difficoltà e, quindi, la necessità di una programmazione. Si tratta cioè di strutturare scientificamente le conoscenze psico-fisiologiche da porre in rapporto e supporto alla tecnica di insegnamento. L'organizzazione “ingegneristica” dell'istruzione tecnicocorporea, in definitiva, sottolinea il primo livello di superamento nella pratica, la reciprocità corpo-tecnica. La Tecnica nel Karate-do non deve tuttavia essere intesa riduttivamente come una parte del corpo da agire, ma soprattutto come una struttura viva, struttura in apprendimento. La scelta del Karate-do viene fatta non per esprimere un semplice allenamento, ma per qualcosa che va al di là delle proprie capacità, al di là del corpo, per la simbologia che esso rappresenta. In questo caso il mito diventa un facilitatore dell'apprendimento, per cui diventa meno necessario relazionarsi da subito con la psicologia delle persone o con la sociologia del gruppo, quanto piuttosto con la maestria dell'insegnamento, con l'istruzione, con la progettazione del percorso, con la valutazione dello stesso. Un Istruttore si accorge quando gli allievi devono rinforzare una parte del corpo per portare a compimento una tecnica, quando hanno bisogno di promuovere, associare, esplorare una tecnica, un gesto, una figura oppure quando bisogna ricorrere ad un concetto o un principio per aiutare la comprensione. A questo punto è in grado di leggere dentro al gesto, la forma; egli arriva cioè a capire se l'allievo ha la competenza della forma. Si diventa competenti quando dietro la forma vi è un expertise. Quando, oltre la competenza vi è la padronanza, si deve spostare l'attenzione sulla figura del Maestro che è stato un Istruttore, ha expertise tecnica, ma è diventato “altro”. Il Maestro non ha davanti a sé soltanto apprendisti, ma “persone” che entrano in un sistema filosofico, quello appunto 39 del Karate-do che per alcuni rappresenta proprio la Via. Agli allievi il Maestro situa la filosofia del Karate-do attraverso la pratica, ovvero un superamento della tecnica, e diviene formazione. Il Maestro concepisce il suo intervento come un triangolo i cui vertici sono rappresentati dal sapere delle persone, dalla forma alta del Karate, dalla strategia della formazione. Dal punto di vista dell'insegnamento, il Maestro non si limita ad istruire sulla tecnica, bensì si apre al mondo delle “persone in formazione”. Per penetrare l'universo di una pratica così antica e strutturata nello spazio e nel tempo come quella del Karate-do, il Maestro deve fare un percorso dentro di sé, deve coinvolgere la propria dimensione umana, culturale e professionale nella sua azione. Il Maestro non deve neanche considerare il Karate come un rituale, altrimenti toglie alla pratica la sua forza vitale e creativa. Conosce e capisce i simboli e la loro vera significazione, vive i simboli e la loro creazione, lavora la tecnica in modo tale da farla diventare un prolungamento del proprio corpo. Per superare la tecnica ed entrare nella pratica, per entrare cioè nella dimensione di Maestro, va superato il sistema “comportamentistico” dell'istruzione e dell'addestramento a favore di un'impronta educativa e formativa. Quando si lavora nell'area prossimale delle potenzialità del soggetto, allora l'allievo ha il massimo dell'apporto dell'insegnamento: a questo punto si può parlare di eccellenza di “essere Maestro”. Entrare cioè nella conoscenza dell'altro; l'allievo e/o il gruppo sono soggettività relazionali. Il Maestro che insegna, valuta, dimostra, differenzia rappresenta un polo della relazione; l'altro polo è la presenza, la partecipazione e il sistema di attese degli allievi. L'identità del Maestro non può essere l'Io egoico del superuomo che guarda l'altro dal proprio mondo, ma un Io/Altro che scorge il mondo da di dentro e dal di fuori con empatia e distacco. Empatia per capire, distacco per aiutare. 40 4.3. LA COMPETENZA DEL VALUTARE Valutare è una vera e propria operazione di attribuzione di valore a fatti, eventi, oggetti, persone, in relazione agli scopi che colui che valuta intende perseguire. La valutazione presuppone la disponibilità di un sistema di discriminazione della qualità e quantità degli “oggetti” da valutare, un sistema capace di consentire una “classificazione” e un'interpretazione che vada oltre le loro caratteristiche intrinseche. Il giudizio può essere formulato solo in base al sistema di discriminazione elaborato e prescelto. Nell'ambito dell'apprendimento del Karate, la valutazione è un'attribuzione di valore alle performance del soggetto in esame, cioè alla modalità con la quale l'allievo interpreta il modello, la configurazione, il dialogo, l'etica, le tecniche che stanno alla base della disciplina. Quindi non è la “tecnica” in sé che viene valutata, ma il livello di interpretazione della tecnica. Altra cosa è valutare la tecnica, ovvero la pratica del Karate nella sua struttura originale di modello. In questo senso si opera un'analisi scientifica e storico-umanistica della disciplina stessa: ciò va oltre la pratica di insegnamento/apprendimento. La tecnica in sé è una configurazione virtuale, ma essa prende vita e dunque possibilità di valutazione dall'interpretazione che ne danno le persone che la eseguono. Anche la persona che valuta è soggetto all'interpretazione della tecnica, in quanto soggetto che la conosce e la pratica. Valutare è dunque l'interpretazione di un'interpretazione del sistema che è all'origine del rapporto tra valutatore e valutato. Valutare è una relazione, cioè una situazione sociale. Tra i principali requisiti del processo di valutazione va sottolineato necessariamente il processo di decentramento. Decentrarsi significa fare una separazione da sé per situarsi sull'altro e sulla situazione. Tutto ciò diventa possibile solo se colui che valuta (il Maestro) riesce a tenere sotto controllo le proprie strutture egoiche. L'altro (l'allievo) ha i propri schemi personali e il valutatore deve cercare di conoscerli e comprenderli. E' sugli schemi dell'altro che il valutatore stabilisce l'identità o la differenziazione con il modello virtuale 41 del Karate. Il Maestro, come pure il praticante, ha un proprio modello di Karate; in più conosce il modello virtuale, il modello a cui arrivare ed è su queste progressive identità e differenziazioni che elabora la mappa dei criteri di valutazione. Se non dovesse succedere questo, se il Maestro resta ancorato ai propri schemi egoici, egli valuta l'altro come se stesso (non trovandovi riscontro) e la valutazione necessariamente penalizzerebbe l'allievo. Un altro aspetto importante è il clima e igiene della valutazione. La valutazione necessita di un contesto ad hoc. Se l'ambiente di valutazione non si presenta con un clima di qualità fatta di attenzione, ascolto, serenità, le valutazioni assomigliano piuttosto a giudizi comuni, parziali, generalizzati, a volte emozionali o tecnicistici, in altri casi ipocriti poiché spogliati dalla personalità del soggetto valutato e posizionati sulla personalità del singolo Maestro o sulla dimensione di clan del gruppo. Una corretta valutazione invece è rappresentata da uno spazio e da un tempo (situazionale) in cui ci sia, contemporaneamente, la possibilità di uno spazio e di un tempo di interpretazione da parte del Maestro e di autovalutazione e feed back da parte del praticante di Karate. 4.4. APPRENDERE AD APPRENDERE La percezione del Karate da parte del praticante/Insegnante, dai primi anni Settanta in poi, è andata evolvendosi da un atteggiamento passivo-accettante ad un atteggiamento attivomodificante. Da una mera riproduzione degli schemi proposti dalla tradizione si è passati ad una loro valutazione critica e al loro adattamento alle esigenze del “discente” (parametri antropomorfici, rapporto obiettivo-efficacia, eccetera). Questo passaggio, inteso talvolta come allontanamento dai dettami canonici, è stato poi accettato come riscoperta del carattere di estrema flessibilità connaturato allo spirito marziale. Da questo 42 atteggiamento consegue una più positiva apertura agli scambi interdisciplinari tra Arti e stili diversi. Se in passato l'arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze tecniche implicava quasi naturalmente la pratica di una disciplina parallelamente all'altra, oggigiorno viene ritenuta altrettanto proficua la conoscenza del “nuovo” attraverso l'interiorizzazione e l'elaborazione dei principi cognitivi, di pensiero che lo governano. Viene abbandonata l'idea di un bagaglio tecnico stratificato a vantaggio di un patrimonio strutturato di principi dei quali la tecnica rappresenta il contesto applicativo. Tutto questo non inficia ovviamente il valore della pratica, che è lo stimolo primo per l'elaborazione del principio e ne è il successivo e fondamentale passo per l'assimilazione. E' possibile, risalendo ad un piano d'azione generale, affermare che tutte le discipline marziali hanno alla loro base alcuni principi comuni che a loro volta costituiscono la base di alcuni meccanismi di apprendimento e relazione; si può infatti ritenere “aggressione” e “difesa” i due elementi imprescindibili di ogni relazione umana o di ogni processo di conoscenza. Aggressione come tentativo – involontario o indotto – da parte della “novità” di mutare il nostro o altrui equilibrio e Difesa come ripristino dell'equilibrio primitivo (rifiuto della novità) oppure come un nuovo equilibrio ristabilito dopo l'elaborazione e l'assimilazione del nuovo concetto. Gli stessi meccanismi psichici e mentali attivati dall'irrompere della novità (per esempio il ricondurre lo sconosciuto alle categorie del conosciuto) suggeriscono una difesa che si struttura come “associazione” in risposta ad una “dissociazione”. I praticanti di Karate (e delle altre Arti marziali) traducono tutto ciò anche sul piano fisico: quanto sia utile non opporre la propria forza contro la forza dell'avversario, ma piuttosto “dissociare” la forza dell'aggressore rendendola inoperante o deviarla rivolgendola verso la sua stessa origine. Operazione possibile solo se l'aggredito è associato nelle sue componenti psicofisiche o, comunque, se è in grado di ripristinarle. Nell'economia dei percorsi formativi “occidentali”, le discipline marziali orientali sono considerate quale ulteriore ampliamento della concezione dell'essere la cui adesione invita ad 43 atteggiamenti meditativi; posti in secondo piano (o come conseguenti a quella visione del sé) appaiono gli aspetti legati alla pratica. Considerare, invece, ogni atto nella quale la pratica si sostanzia come frutto di un pensiero volontario (o comunque indotto) sul quale poter agire strutturalmente, ne rileva la reale valenza cognitiva, al di là di ogni matrice “filosofica”. Alcune teorie cognitiviste sostengono che per un “pieno apprendimento” non sia sufficiente essere esposti a stimoli molteplici, ma che fra gli stimoli e il soggetto si ponga un “mediatore” che li scelga, li orienti, ne regoli l'intensità e la frequenza. Non è improprio stabilire un'identità tra la funzione del mediatore e quella del Maestro. Da questa mediazione dipenderebbero la qualità della relazione, la possibilità di superare blocchi psicologici e l'opportunità di suscitare motivazioni intrinseche: valori che già si presupponevano o si auspicavano trasmissibili dal Maestro agli allievi. Perciò diventa necessario “apprendere ad apprendere”, essere capaci di estrapolare regole generalizzabili e trasferibili in altri contesti, essere in grado di trovare relazioni implicite tra idee, eventi, oggetti. L'apparato tecnico consiste nello svolgimento di esercizi con livelli di difficoltà graduata che si configurano, in certa misura, come archetipi affinché sia possibile trarne insegnamenti e generalizzazioni da trasporre poi in situazioni problematiche che abbiano analogie strutturali con i modelli che essi illustrano. Il paragone, a tal proposito, con la forma (kata) - che spesso viene definita (dai “non addetti ai lavori”) come una vacua e inefficace simulazione - sembra assai pertinente. Di simulazione certamente si tratta, ma nell'accezione più evoluta, nel senso che si esprime compiutamente nella crescente adesione al reale prevista dagli esercizi marziali nelle loro diverse modalità (kihon, kata, kumite). L'apprendimento trae un rinforzo dalla ripetizione, diviene tanto più efficace se più facoltà vengono coinvolte nell'esercizio e se l'insoddisfazione per il risultato ottenuto raggiunto coinvolge l'individuo nell'intimo. Tramite un processo di autodiagnosi dinamica, le propensioni 44 del soggetto devono essere sviluppate, evidenziate, integrate. Anche in questo caso, senza forzature, è possibile stabilire un ambito comune con l'allenamento costante al quale un praticante di Karate si sottopone, nella consapevolezza che solo un apprendimento continuo crei e rinnovi “continuamente” le risorse psico-fisiche che una persona, nell'arco della propria vita, possiede in intensità variabile e alle quali la tecnica, al contrario del principio, è chiamata costantemente ad adeguarsi. L'autodiagnosi che il praticante (nell'accezione di colui che continuamente apprende, cioè anche il Maestro) è chiamato a svolgere consiste nel raggiungimento di una consapevolezza critica, discriminante sui propri pensieri, sulle proprie emozioni e reazioni, sulle proprie capacità ed azioni. Il percorso cognitivo che il praticante di Karate è chiamato ad intraprendere su indicazioni fornite dalla disciplina e dal suo tramite (Maestro), strutturato su versanti concettuali, tecnici e comportamentali, emerge nelle sue potenzialità di processo auto-conoscitivo progressivo e progettuale. 4.5. ALLENAMENTO, EDUCAZIONE, SOCIALIZZAZIONE L'allenamento è un insieme di pratiche progettate, programmate e organizzate secondo procedure metodologicamente corrette, in funzione di obiettivi generali e specifici. Esso è il contesto altamente specialistico nel quale si realizza anche un'importante funzione educativa sociale e socializzante. Si modificano, in modo permanente e socialmente accettabile, secondo esigenze che vanno anche oltre il contesto specifico, il comportamento dei praticanti. La connotazione più importante e di maggior valenza educativa e socializzante è l'organizzazione del comportamento motorio che si esprime per mezzo di azioni simbolicamente aggressive. Tale condizione viene realizzata tramite un severo controllo delle azioni di attacco e di difesa, attiva e passiva, che mantiene la situazione all'interno di un elevato grado di sicurezza. 45 Nel contesto dell'allenamento e della gara vi è la costante ed esplicita presenza di componenti simboliche e rituali nei comportamenti psicomotori degli individui in azione; ciò determina una situazione che induce i praticanti di Karate all'interiorizzazione di comportamenti nei quali l'aggressività si esprime in forme rispettose della incolumità e della dignità reciproca. La codificazione delle azioni consentite, dei comportamenti accettabili e la finalizzazione stessa dei comportamenti e delle azioni in funzione del conseguimento della superiorità/punteggio, mantiene l'interazione oppositiva nell'ambito di una realistica simulazione del combattimento di antica memoria. Inoltre per realizzare un contesto allenante in tutta sicurezza, nel Karate (e in genere nelle Arti marziali) è necessario instaurare con i compagni di pratica un rapporto di reciproco affidamento (rispetto delle regole) e di collaborazione fattiva. Quanto più e meglio si realizzano condizioni di complessità situazionali e dinamismo motorio vicino all'intensità limite (ma con un elevato grado di sicurezza), tanto più e tanto meglio sarà possibile progredire nell'acquisizione delle abilità specifiche. Per potersi allenare in queste condizioni, bisogna che i praticanti acquisiscano progressivamente la capacità di autocontrollo assoluto, al fine di evitare di sorpassare i limiti di sicurezza e di vivere i piccoli incidenti di percorso in totale serenità, accettandoli come errori e non come minaccia alla propria incolumità. Quindi l'esigenza di porre in essere una vasta gamma di esercizi con il partner “condizionato” e la necessità di cambiare spesso partner proprio per variare continuamente le situazioni-stimolo, al fine di accumulare informazioni relative a una serie di comportamenti psico-motori individuali in combattimento, indispensabile presupposto alla maturazione di abilità tattiche individuali molto evolute. Un ulteriore aspetto importante riguarda la solidarietà. L'instaurazione di un rapporto di collaborazione molto stretto che coinvolge la dimensione affettivo-morale della personalità porta ad un rapporto di profonda solidarietà. “Sudare insieme”, “attaccare” ed “essere attaccato”, “subire” o “prevalere” all'interno di un processo intenzionalmente creato che 46 consente il “progredire insieme”, comporta il riconoscimento dell'altro e del suo valore che è il fondamento del rapporto di profonda solidarietà che nasce tra partner, il cui valore educativo risulta evidente. La verifica continua, all'interno delle situazioni di allenamento, delle proprie valenze e dei propri limiti, la constatazione dell'indispensabilità della collaborazione col partner/avversario per il loro superamento, attivano processi molto efficaci di comunicazione e di socializzazione, che vengono ulteriormente rafforzate dal contesto di pratica marziale. L'esercizio di comportamenti e pratiche intenzionalmente aggressive ma non violente, nell'ambito di un contesto “sportivo-rituale” governato da regole precise e severe, determina l'interiorizzazione, da parte dei praticanti di Karate, di valori che sono agli antipodi rispetto ai modelli sociopatici di aggressività proposti, ad esempio, da un certo tipo di cinematografia molto diffusa (e non solo). 47 5. KARATE SPETTACOLO E SOCIETA' DELLO 5.1. VINCERE O IMPARARE A COMBATTERE ? Il combattimento rappresenta il momento dello scontro tra due “avversari”, ognuno dei quali può portare attacchi isolati, in successione, in combinazione, con lo scopo di superarsi a vicenda, senza tuttavia colpirsi con la deliberata volontà di procurare un danno fisico. Ciò significa controllo del colpo che non ha una esclusiva valenza fisica, bensì costituisce un esercizio di alta intensità e concentrazione psichica.11 11 Molti autori e illustri Maestri di Karate in ogni parte del mondo hanno evidenziato, seppur con diverse sfaccettature, la differenza esistente tra kumite reale, sportivo, tradizionale. Il combattimento reale è quello che ha dato origine a tutte le forme di Arti marziali; il combattimento sportivo ha senso in una gara regolata da punteggi, vincitori, classifiche; il kumite tradizionale richiama e rimanda ai principi di antica memoria formando il praticante all'idea che (paradossalmente) è possibile “vincere senza combattere”. Il Karate sportivo privilegia il gesto atletico basato sulla tecnica per conseguire il successo per cui il sistema corpo-mente funziona in 48 La pratica del Karate non deve essere identificata con la prestazione agonistica: corpo e mente non sono esercitati per se stessi, ma l'uno per l'altra, in una pratica che costituisce una vera filosofia di vita, uno studio durante tutto l'arco dell'esistenza. In questa ottica l'arte del combattere, che si materializza nel rito del kumite, assume un ruolo universalmente valido quando la persona, in ogni momento della vita (quotidiano o solenne) viene messa alla prova. La risposta è dentro di sé e va ricercata nella capacità di reagire opportunamente agli stimoli esterni, di controllare emozioni ed azioni. Il combattimento, il confronto/scontro prepara a fornire risposte immediate e a porsi domande future. Per affrontare un combattimento (e un qualsiasi frangente della vita quotidiana) è necessario conoscere le proprie risorse, prevedere i movimenti dell'avversario, gli sviluppi delle situazioni contingenti proprio per predisporre una risposta adeguata. Le condizioni ambientali determineranno la scelta dell'attesa-difesa oppure dell'iniziativa-attacco, affrontando la realtà a viso aperto, senza sotterfugi. Sul piano educativo, la pratica del kumite (tradizionale) permette l'accettazione del confronto, l'espressione di un combattimento privo di rischi, l'applicazione e l'utilizzo appropriato degli elementi tecnici fondamentali, favorendo una corretta maturazione della personalità nel bambino e nell'adolescente, così come un adeguato consolidamento di essa nell'adulto e nell'anziano. Ciò che conta realmente non è la gara o il risultato della stessa, bensì quanto l'Arte riesce a migliorare il praticante. Ognuno, nel Karate tradizionale, è importante per ciò che realmente è, non per quel che sembra. L'Arte marziale costituisce la Via dell'essere, non quella dell'apparire. termini finalistici e il fine agonistico privilegia l'atletismo del corpo relegando (parzialmente) sullo sfondo la personalità. Il Karate tradizionale sviluppa la concezione olistica della vita, sperimenta la totalità integrata di organismo, pensiero, socialità mediante la presa di coscienza. 49 5.2. CONTATTO, DISTANZA, CONFRONTO Nelle Arti marziali marziali tutto comincia dal contatto fisico: toccare, afferrare, prendere, colpire, lottare con e contro l'”altro”. E' in questo caos che si incontrano enormi difficoltà. La società post-moderna si basa, in modo sempre più rilevante, su una comunicazione audiovisiva, mediata da strumenti tecnologici: la cultura del non-contatto. L'uomo ha disimparato ad utilizzare lo spazio intorno a sé e a gestire gli “invasori”. La frequenza cardiaca aumenta, nel sangue viene immessa adrenalina, la muscolatura si contrae e si prepara all'attacco, il mento si flette, le spalle si chiudono: una chiusura totale. L'esperienza del confronto (e dello scontro) sperimentata nelle discipline marziali, è un'occasione per conoscere se stessi più approfonditamente ed evidenziare le proprie modalità di comportamento in situazioni di stress. Accettare un altro nella propria “bolla prossemica” diventa un modo per analizzare se stessi. L'analisi del sé, se gestita con competenza, diventa un ottimo esercizio dove “allenarsi” ad utilizzare al meglio le proprie potenzialità, un vero e proprio brain training. Apprendere nuovi schemi di comportamento, da utilizzare nel momento del confronto, è come spiccare un salto nel vuoto ed è necessario fidarsi dell'altro. Per imparare a combattere bisogna combattere, ed allenarsi con un valido compagno di viaggio. In tutte le forme di combattimento sono attivate le funzioni di spazio e di tempo: due componenti della psiche necessarie per costruire il pensiero e connotare la realtà. Nell'uomo lo spaziotempo è una percezione soggettiva che nel Karate viene educata al massimo grado e può esser riferita a se stessi e/o alla relazione con l'altro. Percepire lo spazio-tempo nel kumite significa vedere ed intuire la variazione della distanza tra sé e il compagno/avversario in base ai movimenti di avvicinamento e/o allontanamento dei partner del combattimento. 50 La pratica del combattimento sviluppa la capacità dell'insight12 (intuizione), il processo mentale che, senza ragionamento, fa comprendere nella situazione del combattimento l'istante nel quale viene superato il limite spazio-tempo ideale posto tra sé e l'altro. Il combattimento di Karate-do si basa innanzitutto sulla percezione della sensibilità dell'unità mente-corpo e poi sulla sua elaborazione cognitiva-intellettuale. Quando si combatte, infatti, si intuisce a partire dal sensibile corporeo ed il senso psichico si realizza nella mente prima ancora di ragionare. La visione del campo dove si svolge il kumite deve comprendere tutto l'orizzonte esistente: bisogna guardare in tutte le direzioni senza muovere gli occhi poiché lo sguardo dà orientamento e direzione all'azione stessa. Si impara ad osservare l'insieme senza rimanere fissi al particolare. L'attenzione fluttuante è un altro atteggiamento della personalità che viene formato dal kumite. Quando l'attenzione viene fissata su un unico “oggetto” diventa rigida, resta legata ad esso e rallenta l'azione. Al contrario, quando si muove velocemente su tutto il campo, è flessibile e l'azione diventa mobile: rappresenta comunque una dimensione molto difficile da acquisire. Inoltre il kumite, per essere efficace, richiede la formazione nella personalità di alcune qualità come la determinazione, l'essenzialità, la creatività. Quindi perseveranza svolgendo un'azione per volta, mettendo in essa tutto se stesso. Eseguire le tecniche nel modo più “economico” possibile ottenendo il massimo dell'efficacia con il minimo sforzo. Si forma nella mente la capacità di cogliere il nocciolo dei problemi, eliminare il superfluo, capire ciò che nella vita vale la pena di essere vissuto. Il combattimento esalta la creatività del praticante al massimo delle sue potenzialità, poiché in esso nulla può essere previsto e/o programmato, ma tutto si svolge nel “qui e ora 12 Vedi “Il Karate-do nella formazione della personalità – Riflessioni di un Maestro” e alcuni articoli su riviste scientifiche di Carmine Grimaldi. Medico specializzato in Psicologia medica, Psicoterapia, Pneumologia, laureato in Filosofia e Maestro IV dan di Karate, Grimaldi svolge la sua attività presso la Scuola di Specializzazione di Psicologia Biodinamica di Cagliari e ricopre la funzione di Direttore presso il Centro di Psicoterapia Dinamica di Ancona. 51 dell'accadere e dell'agire”. La strategia e la tattica sono rimodellate, istante per istante, in base alle variazioni della situazione; una continua mutazione-in-movimento in cui vince chi inventa la soluzione adeguata nel tempo-spazio propizio prima dell'altro. Il kumite educa così la personalità ad essere creativa anche nella vita, a padroneggiare l'imprevisto che, quando non si è educati a riconoscere e gestire, può mettere a soqquadro mente e corpo col rischio di commettere grossolani errori di valutazione. L'emozione più frequente e intensa nel Karate-do è la paura. Si avverte soprattutto nel combattimento, ma anche nella relazione con il Maestro e nel confronto con i compagni di pratica. Si sperimenta la paura di essere superati dal compagno/avversario, perciò viene necessariamente formulata una strategia tale da conseguire il successo; la paura di recare offesa all'integrità dell'altro induce ad imparare e praticare l'autocontrollo delle tecniche. L'educazione all'autocontrollo delle tecniche, infatti, differenzia il Karate tradizionale dai cosiddetti “sport di combattimento” (boxe, tai-boxe, kick-boxe, full-contact, eccetera) e lo rende un efficace sistema educativo per eliminare la violenza. Il combattimento nel Karate-do diventa un rito simbolico per sperimentare e vivere il tema universale della “lotta” nel mondo quotidiano. Combattere diventa un evento pedagogico nel quale non ha valore la vittoria e/o la sconfitta, quanto l'imparare a combattere. Essere pronti e consapevoli della realtà in una condizione di intensa emotività, reagire con rapidità in funzione delle modificazioni impreviste dell'ambiente richiede un costante allenamento per sviluppare le funzioni della mente atte a conseguire la capacità di essere sempre presenti a se stessi e vigili in ogni situazione esistenziale. 5.3. LA PALESTRA EMOTIVA 52 Spesso alcune gravi manifestazioni di ansia trovano le radici nell'infanzia. Il bambino si trova prematuramente immerso in situazioni nelle quali gli vengono imposte nuove regole, deve iniziare a competere con i pari in ciò che è ritenuto essere l'inizio ufficiale della “scalata verso il successo”. Il Karate è un ansiolitico nel suo aspetto fisiologico e soprattutto nell'aspetto psico-fisico-sociale. Il giococombattimento con i coetanei scatena una molteplicità di reazioni emotive, controllate e guidate dal Maestro, contribuendo così a strutturare delle modalità comportamentali stabili e funzionali al controllo degli stati ansiosi. Sono proprio le piccole esperienze di disagio e di conflittualità, che scaturiscono in un allenamento di Karate, che fungono da vera “palestra emotiva” potenziando le capacità di controllo di ansia, rabbia, paura su se stessi e sugli altri. Il Karate è una “disciplina” che induce nel tempo all'acquisizione di regole di vita basate sul rispetto degli altri, sul rafforzamento della volontà di superare le difficoltà (sia fisiche che mentali), sui principi di lealtà sportiva. Durante la pratica, il Maestro scandisce dei comandi che aiutano i bambini (e gli adulti) a capire il “momento dell'azione” e il “tempo dell'attesa”, sviluppando coordinazione motoria, capacità respiratoria, capacità di autocontrollo psico-fisico. La sindrome di Gianburrasca piuttosto che lo stato di inibizione sociale13, rafforzate spesso da precoci etichette, possono essere contrastate (sebbene parzialmente) mettendo il giovane allievo nelle condizioni ottimali per familiarizzare con nuove esperienze psico-motorie, caratterizzate soprattutto da una rinnovata/modificata sicurezza e fiducia nel contatto fisico con gli altri. Il controllo delle nuove gestualità e la possibilità di metterle in pratica (sempre nel rispetto dell'altro), danno l'opportunità al bambino di trovare idonee modalità risolutive a situazioni che non si possono facilmente riprodurre nel corso 13 Si parla di Sindrome di Gianburrasca in riferimento a un bambino che può presentare un basso livello di attenzione, un eccesso di impulsività, logorrea, facile distraibilità, atteggiamenti di disturbo, ipercinesi (intenso stato di irrequietezza motoria. Per inibizione sociale si intende l'insieme dei comportamenti e delle reazioni somatiche dovute alle difficoltà nel rapporto con gli altri: spesso viene definita semplicisticamente timidezza. 53 della giornata. Naturalmente il rafforzamento dell'apparato muscolare/scheletrico e la conseguente percezione che il proprio corpo diventi più agile e forte, possono divenire un mezzo per acquisire maggiore sicurezza e fiducia in se stesso. Per quanto concerne il bullismo, si tratta di una serie di comportamenti caratterizzati da intenti violenti, vessatori e persecutori, manifestati da bambini e adolescenti nei confronti di loro coetanei, ma non solo. Il bullismo sembra essere una delle spie del malessere dei nostri tempi ed è sinonimo di un disagio relazionale che si manifesta soprattutto tra bambini, adolescenti, giovani. Non è circoscritto a nessuna categoria sociale, ma è un fenomeno trasversale. Il fenomeno si distingue per la “deumanizzazione” nei confronti dell'altro (vittima) che viene considerato alla stregua di un oggetto. Se è vero che il bullismo è determinato dall'aggressività e dalla mancanza di regole, si può affermare di buon grado che un'attività di “segno contrario” come il Karate può costituire una sorta di bilanciamento al disturbo antisociale. Bisogna tener presente che l'aggressività del potenziale bullo è una “pentola a pressione” che deve trovare sfogo all'esterno e il dojo rappresenta proprio il luogo più adatto per l'emersione e lo sfogo degli impulsi violenti. Il Maestro (e in parte i compagni di pratica) sono gli “agenti catalizzatori” di un processo di “regolaazione” del giovane in questione. Probabilmente non ci sono altre attività sportive (nel contesto specifico di “aiuto al bullo”) che, come le Arti marziali, producono una tale forza di risocializzazione e di ri-costruzione sia a livello fisico che a livello mentale. Il giovane apprende un metodo e condivide un codice normativo di comportamento sociale. Deve impararne i presupposti teorici e saperli tradurre in pratica. Deve applicare le tecniche, imparare a conoscere il proprio corpo, coordinare i movimenti complessi, agire con senso di responsabilità e lealtà verso il Maestro e i compagni, battersi con coraggio e fiducia in se stesso imparando anche dalle delusioni. Il Karate tradizionale rappresenta un mezzo formidabile per rivalorizzare le condotte provocatorie dei giovani a rischio, aumentando e sviluppando le attitudini a partecipare, in 54 maniera costruttiva, all'attività sociale del gruppo. Implica il rispetto delle regole, stimola a raggiungere obiettivi comuni e condivisi, facilita l'apprendimento di modalità di vita solidale. Chiedersi quale sia il proprio potenziale e quanto di esso abbiamo esplorato o raggiunto, non è una domanda così banale. Nelle Arti marziali il confine non esiste. Non esiste limite al possibile apprendimento. Non tutti sanno o si chiedono perché praticano o insegnano: porsi la domanda è fondamentale. Dalla realtà esterna iniziamo a spostare l'attenzione verso la realtà interna. La ricerca vera nel Karate è soprattutto una ricerca di senso e quando viene a confondersi con la ricerca di risultati agonistici tutto ciò delegittima proprio la funzione essenziale di “mezzo di espressione e crescita”. 5.4. I DANNATI DELLO SPETTACOLO Facendo riferimento alla società romana di duemila anni fa, è interessante ripercorrere brevemente le motivazioni, gli accadimenti e le strategie di potere alla base dei noti “ludi gladiatorii”. La radicale diffusione sociale del fenomeno fu, ovviamente, oggetto delle strategie delle classi dominanti, uno strumento di condizionamento popolare attraverso la magnanimità di politici sovvenzionatori, tanto che ad un certo momento fu vietato questo esercizio ai candidati due anni prima delle elezioni. La diffusione dei giochi, interessando larghe fasce della popolazione, in breve tempo guadagnò spazi maggiori a scapito di altre forme di intrattenimento, quali il teatro. A fianco di queste manifestazioni presero corpo altre due “esibizioni” collaterali: la “venationes” e la “damnatio ad bestiam”14. I lauti guadagni dei giochi stimolarono i “lanisti” (allenatori dei 14 La caccia alle belve feroci (spesso esotiche) e la condanna a morte attraverso l'impiego di animali per delinquenti, criminali, disertori. La ricerca capillare, ben organizzata e spasmodica di bestie feroci, fu tale da mettere in pericolo la sopravvivenza di elefanti e leopardi. 55 gladiatori) e i “procuratores” (osservatori delle reclute da avviare alla professione) e la possibilità di accumulare sesterzi incrementò le schiere degli aspiranti “atleti”. Da sottolineare la scrupolosa preparazione atletica dei gladiatori in apposite strutture ben organizzate, le palestre gladiatorie. Il programma dei ludi prevedeva, di norma, venationes al mattino, poi giochi, acrobazie e condanne a morte; quindi nel pomeriggio lo scontro tra i gladiatori. Per suggestionare al meglio il pubblico e infiammarlo con accorgimenti studiati, i gladiatori indossavano armature ed abiti che ricordavano le popolazioni vinte dai Romani: Galli, Traci, Sanniti. Le “tifoserie” si differenziavano in sostenitori dei gladiatori con scudo piccolo e ammiratori di atleti con scudo grande; la rivalità tra tali tifosi non fu affare esclusivo della plebe, ma coinvolse anche gli Imperatori. La diffusione dei giochi provocò anche un'esigenza pratica: quella di avere “stadi” adatti a contenere gli spettatori, ovvero gli anfiteatri a forma ellittica, con la prerogativa essenziale della migliore visibilità dello spettacolo, suddivisi in diversi ordini di posti secondo l'eterna esigenza gerarchica e dotati di un ingente numero di maestranze per il sostentamento della struttura e la realizzazione dei giochi stessi. La sera precedente i combattimenti, i gladiatori generalmente erano ospiti dei finanziatori dei giochi ed erano a disposizione dei tifosi e per le valutazioni degli “scommettitori”. Preannunciati per settimane da appositi cartelloni pubblicitari esposti per le strade, i gladiatori erano anche al centro di un curioso mercato di oggetti legati alla loro immagine e ai giochi: una mania esplosa a macchia d'olio che riguardava oggetti di largo uso quotidiano (l'attuale merchandising). Gli “amatores” (antesignani dei moderni tifosi) non erano gli unici acquirenti di tali oggetti. La febbre dei giochi era tale da coinvolgere anche il neofita più distaccato, sino a farne l'adepto più ortodosso. Le cronache riportano sconti fisici pesanti tra opposte tifoserie, come quelli avvenuti tra Nocerini e Pompeiani, avvenuto nell'anfiteatro di Pompei nel 59 d.c.15 15 Vedi collana “Atlanti dei saperi” Fabrizio Paolucci – Giunti Editore. Nella fattispecie, le autorità romane presero seri provvedimenti nei confronti degli Amministratori locali, vietando per anni 56 La sorte di un gladiatore vinto dipendeva dalla grazia, in genere concessa dal promotore dei giochi, a sua volta ottemperante alle richieste del pubblico. Ragioni esclusivamente pratiche impedirono l'uccisione di molti gladiatori: ad esempio il rimborso elevato in caso di morte, nonché la notevole influenza dei “tifosi” dello sconfitto. Ragion di stato, strategia e diplomazia politica, sfruttamento della plebe e condanne religiose, furono le multiforme versioni di un potere capace di distrazione sociale attraverso il subdolo svolgersi di giochi e spettacoli. Si inebetirono le masse sfruttandone il cruento piacere, in una sorprendente analogia ambientale e organizzativa che ricalca pienamente quella moderna (o post-moderna) a riprova di uno sterile accumulo di secoli sulla pelle delle masse. 5.4.1. NELL'ARENA CON I GLADIATORI DEL DUEMILA Tutti in piedi ad urlare: “Ammazzalo, finiscilo”...16 Uomini e donne in preda alla stessa sete di sangue mentre sul ring del Palazzetto dello Sport di Roma scendono in campo i gladiatori del 2000 per l'esordio italiano del “free fight”, ovvero quello scontro senza regole che negli Stati Uniti si chiama “ultimate fighting” e in Brasile “valetudo”. Non si tratta di un'Arte marziale né di un Sport di combattimento: è soltanto ed esclusivamente un massacro. Una sorta di rissa da strada dove si può lottare, colpire, calciare, proiettare, fratturare, afferrare con tutte le parti del corpo (esclusi gomiti e testa, teoricamente). Tra i contendenti calci bassi alle ginocchia, scambi di pugni in pieno viso, lotta a terra fra leve e strangolamenti, colpi a due mani sulla nuca quando l'avversario è al tappeto ormai indifeso. Pubblico in visibilio, tutti in piedi. Tuttavia ci sono state anche esibizioni di Arti marziali abbastanza applaudite. 16 anche l'esercizio dell'impianto campano. Articolo su “La Repubblica” del 15 Febbraio 1998. 57 “Il livello degli atleti è alto, ma il pubblico e gli sponsor non se ne accorgono. La gente viene solo per il free fight. Sia chiara una cosa: noi li abbiamo solo ospitati, questa roba è la tomba delle Arti marziali”.17 5.4.2. UN TERRITORIO INOSPITALE Ai tempi della società dell'intrattenimento, nessuno spettacolo è sottovalutato quanto il wrestling. Non sono mancati estimatori illustri18, ma la percezione generalmente diffusa è che il wrestling sia esclusivamente un sottoprodotto culturale “buono per ragazzini citrulli e camionisti della West Virginia”. Lo spettatore di wrestling è considerato “una sorta di imbecille incapace di rendersi conto che Babbo Natale non esiste e che la lotta cui sta assistendo con tanto trasporto è assolutamente finta”.19 In realtà è lo stesso concetto di finzione messo in gioco ad essere incredibilmente sofisticato. Il wrestling è finto quanto lo è un film, nell'obbedienza a una trama preordinata scritta da alcuni sceneggiatori. Naturalmente finge che quanto accade sul ring sia un combattimento vero, che le rivalità e le alleanze siano autentiche. Ma il wrestling non è un reality show e non ha la pretesa (vera o presunta) di documentare la vita nel suo svolgersi. Il wrestling si fonda su un patto narrativo tra attore e spettatore. In un certo senso finge di fingere di essere vero: nessuna persona sufficientemente intelligente potrebbe urlare eccitata alla vista di un indiano affetto da gigantismo che chiude nella bara un gigante tatuato vestito da becchino..... 17 18 19 Intervista ad Ennio Falsoni, uno degli Organizzatori della serata romana al Palazzetto dello Sport. Falsoni è un gigante del Karate italiano: Maestro 5° dan, tre volte campione europeo e capitano della nazionale italiana medaglia d'argento ai Campionati mondiali del 1972. E' autore di numerose pubblicazioni di Arti marziali. Roland Barthes, saggista critico letterario, linguista e semiologo francese, fra i maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista, ha scritto un saggio breve sul fenomeno wrestling. Articolo “Wrestling Spoon River” di Carlo Carabba su “Nuovi Argomenti” 2009. 58 Ma in un altro senso finge di di essere finto, tant'è che, in alcune interviste alla fine degli incontri, molti “atleti” si lamentavano per la durezza degli scontri e la veridicità circa i corpi contundenti. Il wrestler è un culturista di centoventi chili che sul ring effettua acrobazie circensi. Passa la sua vita a girare per la provincia americana come i fenomeni da baraccone delle fiere di paese, da cui ha preso origine il wrestling come lo conosciamo oggi. Per reggere i ritmi dello spettacolo e ottenere un fisico muscoloso e agile fa uso di antidolorifici, steroidi, eccitanti. Già da alcuni anni il wrestling ha chiesto ed ottenuto di essere considerato uno spettacolo (e non uno sport) e i suoi “atleti” non sono tenuti al alcun tipo di controllo della giustizia sportiva americana. Nel wrestling l'immedesimazione totale tra attore e personaggio è la norma, e sempre a favore del secondo. Pare che in un primo momento gli organizzatori chiedessero al wrestler di far credere al pubblico che non esistesse altro che il personaggio che compariva sul ring (in gergo gimnick). Poi si resero conto che non occorreva spingersi tanto in là, semplicemente era sufficiente che a comparire fosse sempre la gimnick, mai l'uomo che la interpretava. In questo sta la grande differenza tra il wrestler e l'attore. Al praticante di wrestling, come ad un supereroe, è chiesto di rinunciare alla propria identità civile e di apparire sempre come quel dato personaggio con tanto di nome, cognome, soprannome. La gloria è sempre della gimnick, all'uomo che le sta dentro sono destinati l'anonimato e l'oblio. Il wrestling diventa l'unica cosa vera e la vita fuori dal ring un territorio inospitale in cui non si può più abitare. “Sul ring non mi può succedere nulla, è là fuori che mi faccio male”.20 20 Le parole di “Randy The Ram” (Mickey Rourke) prima del combattimento fatale in “The Wrestler”, film diretto da Darren Aronofsky, vincitore del Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia nel 2008. 59 5.5. UNA BATTUTA D'ARRESTO NEL PROCESSO DI INCIVILIMENTO L'enorme sviluppo dei media nella società contemporanea alimenta l'immaginazione degli individui in molteplici modi, offrendo loro modelli di comportamento, quadri d'azione e modi di pensare che diventano altrettante risorse nella vita di tutti i giorni e nella costruzione della propria identità. Sono risorse per l'immaginazione delle persone, abituano la gente a guardare la realtà come uno “spettacolo”. Muoversi nella vita sociale come nell'atto di assistere ad una rappresentazione di cui ciascuno è solo uno spettatore, costituisce un modo di vivere tipicamente “post-moderno” caratterizzato dal diffuso narcisismo. Non si è interessati a ottenere risultati duraturi, né tanto meno al progresso sociale, ma piuttosto si mira all'apparenza e ad un successo immediato, come se ciascun individuo fosse al centro dell'attenzione di un pubblico, reale o immaginario che sia. Cambiamenti nei modelli, sia in famiglia, sia negli altri luoghi di socializzazione secondaria, favoriti dallo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione, hanno contribuito all'emersione di personalità preoccupate narcisisticamente solo delle apparenze e non tanto del conseguimento di obiettivi socialmente rilevanti o di fornire prestazioni utili alla vita di comunità. Il tratto principale è un'ipertrofia del sé che non conosce limiti o confini rispetto al mondo. Naturalmente ne consegue un aumento dei problemi sociali e un accresciuto senso di disagio individuale. In una società narcisistica la realtà è concepita come un succedersi di spettacoli, in cui c'è qualcosa da vedere e in cui farsi vedere. Il legame tra il narcisismo come pratica socializzatrice diffusa, lo spettacolo, la produzione di merci e la formazione sociale post-moderna e della comunicazione globale è assicurato dai media, la cui pervasività in ogni ambiente sociale consente il funzionamento di questo sistema. Lo sport, in particolare i grandi eventi teletrasmessi, sono un esempio di come la società dello spettacolo al tempo stesso 60 promuova i consumi e rafforzi le tendenze narcisistiche degli individui. Lo sport è un esempio rilevante della riuscita circolarità fra strutture sociali (materiali e culturali) e la formazione di identità personali, su cui si fonda la società postmoderna. Un circolo virtuoso tra media, vita quotidiana, rappresentazione e spettacolo/narcisismo a livello individuale. E' evidente il nesso stabilitosi tra costituzione dell'identità individuale e media bypassando gli ambienti educativi tradizionali: una sorta di “video-socializzazione”. I mezzi di comunicazione riversano negli ambienti sociali una quantità indefinibile di immagini e di eventi sportivi; questi consentono alle persone di plasmare la propria identità, coltivando il proprio senso di appartenenza acquistando maglie ufficiali, gadget, prodotti sponsorizzati, aderendo nei fatti all'individualismo consumistico che è l'ideologia della società post-moderna e dello spettacolo. Dal punto di vista sociale i conti non tornano. Lo spettacolo sportivo (come generalmente gli altri tipi di spettacolo) rafforza la personalità narcisistica e gli individui non sono centrati solo su se stessi, assorti nel piacevole compito di consumare beni e di auto-gratificarsi materialmente e simbolicamente, ma soprattutto appaiono insensibili ai diritti altrui, disattenti al bene comune e disimpegnati nella sfera pubblica. Super-spettacolo nell'era della riproducibilità dell'evento ed insieme mitologia civile ed epopea popolare, risposta ai bisogni espressivi insoddisfatti e, persino, strategia di controllo sociale. In altri termini, l'imbarbarimento della società non è solo la somma di tante “cadute individuali”, ma è pure il risultato di paure e tensioni collettive dovute al forte cambiamento in atto, che richiederebbe personalità all'altezza delle tante possibilità offerte da una società complessa, ma che da molti (troppi) vengono rifiutate in nome del quieto vivere o della sindrome narcisistica. Allora i barbari sono di nuovo tra noi. Anzi, barbari siamo noi stessi, nella misura in cui cediamo all'illusoria potenza delle tecnologie più avanzate e alle suggestioni della società dello spettacolo. 61 5.6. IL CONTESTO SPETTACOLARE Nell'immaginario tradizionale, capitalismo e spettacolo si trovano agli opposti. Tale radicato stereotipo vacilla ormai da tempo sotto i colpi della colonizzazione della realtà da parte dei mezzi di comunicazione e della pubblicità: il risultato è che la società oggi è costituita sempre più da consumatori di un mercato che assomiglia a un Luna park, piuttosto che da cittadini dotati di potere critico. “Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini”21. Per questo motivo lo spettacolo non è qualcosa di esterno alla società ma, al contrario, è la sua struttura profonda. Tuttavia lo spettacolo è, allo stesso tempo, solo un settore della società separato dagli altri e lo strumento attraverso cui questa parte domina il tutto. Questa contraddizione fa sì che esso sia necessariamente falso e ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società. Questo settore che domina sul resto della società non è altro che l'economia. Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna. E' il risultato della frammentazione sociale derivante dal fatto che un settore domina sugli altri e della ricomposizione dell'unità perduta nella realtà sul piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita degli individui. Si realizza quindi una neo21 Vedi Guy Debord in “La società dello spettacolo” 1967 - De Donato Editore. Debord, filosofo e saggista francese, con questa affermazione sibillina, allude al passaggio dal capitalismo industriale a quello consumistico: l'esplosione dell'offerta delle merci ha bisogno della crescita della domanda, dove il collante fra profitto e consumatori è costituito dalla pubblicità e dalla stimolazione dei desideri. La merce si fa bella e si presenta al mondo, omologandolo a sé. La critica di Debord, nel suo saggio-cult scritto (profeticamente) quaranta anni fa, non si rivolge banalmente alla pubblicità, ma al fatto che ormai ogni rapporto sociale sia mediato da uno scambio di mercato. Viene riprodotto costantemente l'imperativo capitalistico: produzione, consumo, profitto. Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare. Debord distingue due tipologie dello spettacolo, legate a due differenti sistemi politici: “spettacolo concentrato” tipico delle società totalitarie, “spettacolo diffuso” caratteristico delle democrazie occidentali. Inoltre presenta anche il modello di “spettacolo integrato” in cui viene analizzato il rapporto realtà/finzione, con la vittoria completa di quest'ultima. 62 alienazione. Mentre nel capitalismo classico l'alienazione è il risultato del passaggio dall'essere all'avere22, nel capitalismo spettacolare essa deriva dal passaggio dall'avere all'apparire, ovvero ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima. Gli individui separati ritrovano la loro unità nello spettacolo, ma solo in quanto separati. Poiché la comunicazione è unilaterale, è il Potere che giustifica se stesso e il sistema che l'ha prodotto in un incessante discorso elogiativo delle merci da esso prodotte. Lo spettacolo presuppone, quindi, l'assenza di dialogo e la condizione per raggiungere tale risultato è la totale separazione di persone sempre più isolate nella folla atomizzata. Lo spettacolo deriva da questo stato che cerca costantemente di riprodurre, come dimostrano i beni durevoli di largo consumo che realizza. Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. Infatti l'altra faccia dello spettacolo è proprio l'assoluta passività del consumatore il quale ha esclusivamente il ruolo e l'atteggiamento del pubblico (ossia di chi sta a guardare e non interviene). In questo modo lo spettatore è dominato dal fluire delle immagini che si sono sostituite alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. E' “vero” ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere è “falso”, non esiste. Come l'immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è contrario alla vita: l'individuo più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende il proprio 22 Per Marx il lavoro non è più l'attività vitale dell'uomo, ma la vita stessa dell'uomo è fuori da tale attività. Questa alienazione del lavoro come “espropriazione dell'umana attività e forza sostanziale in quanto attività e forza sostanziale generica” le cui espressioni sensibili sono la proprietà privata, la divisione e lo scambio raggiunge il suo culmine (e la sua estrema forma perfetta) nel capitalismo, in cui le forze del lavoro sono a tal punto separate dall'uomo che le produce e la produzione di vita materiale è a tal punto separata dalla manifestazione personale, che il lavoro, l'attività vitale dell'uomo, da sua “essenza” diviene solo “un mezzo” per la sua esistenza. Vedi Karl Marx in: “Il Capitale”, “L'ideologia tedesca”, “Lineamenti fondamentali”. 63 corpo, la sua esistenza, il proprio desiderio. Si deve quindi rinunciare alla propria personalità per essere accettati dalla società, poiché questa richiede una fedeltà sempre mutevole a prodotti “fasulli”. Ciò impedirà di riconoscere i veri bisogni e aspirazioni. Nella società post-moderna il Potere ha accumulato i mezzi sufficienti, non solo per dominare la società, ma anche per plasmarla secondo i propri interessi, attraverso una produzione volta alla diffusione dell'isolamento. Lo spettacolo è l'ideologia per eccellenza perché espone nella sua pienezza l'essenza di ogni sistema ideologico: l'impoverimento, l'asservimento e la negazione della vita reale. Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale e lo spettacolo la sua manifestazione generale. Questo è il “surplus” richiesto al “lavoratore”, non più inteso come proletario-operaio, come voleva l'economia politica nella prima fase dell'accumulazione capitalistica, ma elevato al rango di consumatore durante il periodo di svago dal lavoro, bombardato da colossali investimenti in campo pubblicitario che garantiscono alla classe dominante di inculcare e imporre sempre più il modello di vita cinico, egoista, indifferente. Vittoria della finzione sulla realtà, della copia sull'originale, della forma sul contenuto. Tutto è concepito, prodotto, vissuto, tutto esiste e si muove in funzione dell'immagine che deve attirare chi guarda, il quale (a sua volta) lo fa obbedendo ad altri bisogni o richieste di apparenza. Le più elementari espressioni della vita dell'uomo quali la famiglia, la scuola, il lavoro e poi i sentimenti, pensieri, aspirazioni, tutto segue una direzione unica: quella di conformarsi all'ambiente, al costume, alla moda, alla tendenza del momento sopprimendo qualunque bisogno o richiamo interiore, qualunque autenticità e verità. L'esterno vale più dell'interno, tutto deve apparire, quasi si trattasse solo di oggetti. Ciò che appare è buono, ciò che è buono appare. 5.6.1. COMUNICAZIONE COERCITIVA 64 E INDEBITA INFLUENZA Nell'interazione tra individui e tra l'individuo e la società assume sempre più importanza la capacità di convincere, cioè di far mutare le opinioni e gli atteggiamenti degli altri. Ciò vale sia nei rapporti interpersonali, sia nella comunicazione finalizzata a creare una preferenza per un prodotto o un'idea. L'industria culturale non ha nulla di spontaneo: non è altro che uno strumento tramite il quale la società capitalistica riversa le sue norme e i suoi valori su una massa inerte e atomizzata. Attraverso l'industria culturale, la società capitalistica mette in scena la sua inesausta auto-celebrazione e ribadisce la capillarità del suo potere, a cui nulla e nessuno sfugge. Si instaura un circolo di manipolazione e bisogno in cui le aspettative preformate dell'industria vengono interiorizzate a tal punto dallo spettatore che gli si presentano con la naturalezza dei desideri e delle ambizioni spontanee. L'individuo è un burattino manipolato dalle norme sociali. L'individualità è svuotata del suo potenziale critico e al suo posto si instaura una pseudo-individualità alienata: la particolarità del “sé” è un prodotto sociale brevettato che viene falsamente spacciato come naturale. Quando la comunicazione è molto forte, ripetitiva e scientificamente strutturata anche per sfruttare emozioni e atteggiamenti inconsci, può sfociare nella coercizione e si può parlare di “indebita influenza”. Sistema per la creazione di consenso, comunicazione pubblicitaria ed elettorale in cui le emozioni vengono evocate ad arte per creare un supporto inconscio alla persuasione. I meccanismi principali di difesa sono l'autostima e l'addestramento alle facoltà critiche. Se la costruzione dell'autostima si basa sulla valorizzazione delle proprie esperienze positive, l'addestramento alla criticità è un processo culturale continuo in cui l'individuo deve costantemente porsi delle domande sugli stimoli che riceve, cercando di scoprirne la reale validità al di là dei condizionamenti emotivi e prescindendo dalla fonte. Cioè imparare a scindere la nozione dalla fonte e valutarla in sé: 65 non ritenere giusta una comunicazione semplicemente perché proveniente da un movimento di opinione in cui è solito identificarsi, ma piuttosto esaminarla anche per i contenuti che esprime rispetto alla propria intelligenza, cultura, scala di valori. Questi meccanismi cognitivi creano una sorta di “vaccinazione” nei riguardi dei luoghi comuni e delle banalità culturali, tale da consentire una difesa più solida nei confronti della “comunicazione coercitiva”, senza peraltro limitare l'individuo nell'accettazione del contributo derivante dall'interazione con l'altro che deriva da un corretto scambio di informazioni e opinioni. 5.7. LA DISSONANZA COGNITIVA Un modo per cercare di influenzare le opinioni delle persone è quello di indurre in loro della dissonanza (dissonanza cognitiva)23. Si tratta, cioè, di aggredire un certo tipo di coerenza presente nella mente dell'individuo, generare uno stato di incoerenza e, analogamente al rapporto volpe/uva24, sfruttare l'incoerenza per ristrutturare in una direzione diversa, gli atteggiamenti del soggetto sottoposto alla comunicazione. Questo principio di scongelare uno stato di equilibrio, indurre uno stato di dissonanza e ricongelare le opinioni, le credenze, gli atteggiamenti e i comportamenti ad un livello diverso di equilibri, questo meccanismo di scongelamento, modificazione 23 24 Leon Festinger, psicologo e sociologo americano, allievo di Kurt Lewin e Docente alla Stanford University, elaborò negli anni Settanta una teoria basata sull'idea che le persone hanno bisogno di coerenza tra atteggiamenti e comportamenti, fra il pensare e il fare. Tale teoria della dissonanza cognitiva insiste sul fatto che il soggetto ricerca informazioni utili a confermare il suo atteggiamento, mentre evita le informazioni dissonanti. Le trame effettive di una qualsiasi condizione dissonante fanno pensare che in questione non sia solo il livello cognitivo e informazionale, ma anche il livello dei sentimenti e delle emozioni poiché una condizione dissonante va a minare proprio l'autostima. La dissonanza cognitiva ha effetti emotivi. L'individuo non si sente solo disinformato, ma anche depresso. La volpe e l'uva è una delle più celebri favole attribuite a Esopo. Agire come la volpe con l'uva significa, metaforicamente, reagire ad una sconfitta sostenendo di non aver mai desiderato la vittoria o disprezzando il premio che si è mancato di ottenere. La reazione della volpe (che considera – e si auto-convince – l'uva troppo acerba quando invece non riesce ad afferrarla) è considerata una forma esemplare di “razionalizzazione” in psicologia clinica e di “dissonanza cognitiva” in psicologia sociale. L'io della volpe è tormentato dalla sua incapacità di raggiungere l'uva , quindi deve “difendersi” da questo stress andando a comporre la dissonanza. 66 e ricongelamento è alla base delle procedure del cosiddetto “lavaggio del cervello”. La dissonanza sta ad indicare il contrasto tra diverse credenze, opinioni, concetti; oppure fra questi e il comportamento o l'ambiente in cui l'individuo agisce. La dissonanza cognitiva può essere ridotta attraverso un cambiamento delle credenze, del proprio comportamento, dell'ambiente esterno. Essa può essere ridotta anche attraverso una ristrutturazione cognitiva che integra l'elemento dissonante con gli altri elementi. A volte, tuttavia, gli ostacoli che si oppongono a questo processo di riduzione possono essere troppo grandi, oppure un cambiamento può risolvere dei conflitti, ma crearne altri. La favola della “volpe e l'uva” e il concetto che “l'erba del vicino è sempre più verde” sono, rispettivamente, le esemplificazioni di procedure adattive e contro-adattive. L'influenzabilità di un individuo dipende da fattori ambientali, situazionali, ma soprattutto è strettamente dipendente dalle caratteristiche e dai tratti della personalità (rapporto corpo/mente). La relazione autostima/influenzabilità è curvilineare, ovvero ad alta autostima corrisponde una bassa influenzabilità, ma anche a bassa autostima si verifica una bassa influenzabilità per la difficoltà di ricezione del messaggio che arriva. I soggetti più influenzabili sono quelli connotati da un livello medio di autostima. Per quanto riguarda la relazione intelligenza/influenzabilità i risultati sono senz'altro prevedibili e riconducibili all'inversa proporzionalità tra le due categorie. Ci sono poi altre caratteristiche, ancora riferibili all'individuo, che hanno un certo peso e possono incidere sulla possibilità di persuasione, ad esempio la capacità di assumersi la responsabilità della propria vita, delle proprie azioni oppure, diversamente, la tendenza a proiettare verso l'esterno le cause di ciò che accade. Le persone con “locus of control” interno sono mediamente meno suscettibili alle pressioni dell'influenza. Proprio la valorizzazione delle risorse interne può rappresentare una delle vie possibili di “resistenza”, 67 iniziando a sviluppare proprie “difese naturali” contro la manipolazione, cioè a costruire una personale autonomia di pensiero, sempre più coerente con i valori profondi, muovendo qualche passo decisivo sul sentiero della consapevolezza di sé, del proprio corpo, della straordinaria opportunità di crescita che rappresenta l'interazione con “l'altro”. Il dojo come un luogo di “vaccinazione”?25 5.8. IL KARATE E' SOTTO PROCESSO Karate = mano vuota – vuoto della mente. Ideale condizione psichica formalmente intesa quale stato emotivo adatto alla pratica delle Arti marziali nella sua accezione storica, filosofica, culturale. Un “vuoto” auspicabile e opportuno se si considera una mente affollata da una sconcertante concentrazione di pensieri di varia natura e condizionata dal bombardamento mediatico a cui viene inesorabilmente sottoposta. Coloro che decidono di iscriversi ad una “scuola”, a un “corso” di Karate sono mossi da aspettative affatto diverse da chi sceglie di intraprendere altri percorsi sportivi. Tanto meno tale scelta è senz'altro legata ad altrettanti elementi di natura culturale, ambientale, caratteriale. Chiunque frequenti un dojo di Karate (oppure Judo, Kendo, Kung Fu, Aikido), più o meno consapevolmente, è alla ricerca di una Via (do) capace di trascendere la mera performance atletica per condurlo (magari nell'arco di una intera vita) entro imperscrutabili zone di profonda spiritualità. In pratica, nella sua forma eccellente, l'Arte marziale viene intesa e promossa quale straordinario strumento di conoscenza interiore. Proprio su questo punto, rischiano di concentrarsi i peggiori malintesi, speculazioni, millanterie, fanatismi, inadeguate 25 William McGuire (1926 – 2008), psicologo americano, Docente di Psicologia sociale alla Yale University, è stato uno dei primi studiosi a condurre ricerche sull'influenza della persuasione operata dai mass-media, pubblicità, industria dei consumi. Attraverso la teoria della “vaccinazione” (o dell'inoculazione) McGuire spiega che una possibile terapia preventiva risiede nell'esposizione a piccole dosi di “messaggi virulenti” che inducono il soggetto a sviluppare le proprie difese contro la persuasione. 68 reazioni emotive, aggressività represse, falsa sicurezza, ossessioni malate del Superman, proselitismi di bravi imbonitori. Offuscato da tale spregiudicato travisamento, deviato da infondati deliri di onnipotenza, l'incolpevole praticante corre il serio pericolo di smarrire quella “strada maestra” che, percorsa quotidianamente e costantemente, potrebbe condurlo al raggiungimento della conoscenza (mai definitiva) del proprio Io. Tutto finto! Solo una grande simulazione, una riproduzione in provetta dello “spirito autentico del Samurai”:26 è proprio da questa figura complessa che deriva la visione più tipica e astratta delle Arti marziali di cui molti Maestri nella società dello spettacolo sono (impropriamente) considerati degni portatori di continuità. La sceneggiata melodrammatica, l'immagine visionaria costruita artificialmente sul piano emotivo diviene più persuasiva dell'evento a cui si è ispirata. Su tale impostazione metodologica (kihon, kata, kumite), su questo progetto immaginativo (avversari immaginari, combattimenti con colpi controllati, garanzia di incolumità, bersagli simbolici) si fonda la moderna pratica del Karate. Il vero è diventato il verosimile, la tragica lotta per la vita si trasforma in commedia, gli atti eroici ed estremi hanno la caratteristica di una misera pantomima. Un gioco, una partitella giocata con se stessi, uno scontro virtuale, un dramma dagli esiti prestabiliti. Al limite della resistenza fisica o quando il combattimento si fa troppo duro e l'avversario pericolosamente irruento, sarà comunque sempre ben presente la calda, rassicurante certezza che qualcuno o qualcosa (Arbitro, cronometro, regolamento, Maestro) interverrà in soccorso. Naturalmente l'incivilimento dei costumi, il progresso delle idee ha portato nelle “arene” (stadi) non più il massacro di mitici gladiatori ma piuttosto aitanti giocatori di calcio o di rugby a caccia di un pallone, gettati in pasto alla folla esaltata e ai 26 Cavaliere altruista e intrepido, grande spadaccino, esteta, spietato sicario, custode della pace, il Samurai in battaglia ispira terrore, con la spada miete gloria, il suo codice gli ordina di preferire la morte alla sconfitta. Indiscusso protagonista del Medioevo giapponese, egli racchiude in sé gli aspetti più tragici e violenti della sua epoca mescolati con il gusto tipicamente nipponico della raffinatezza e l'ebbrezza della più totale assenza di paura. 69 mezzi di comunicazione. Ha avvolto i pugni chiusi del pugile non più con borchie appuntite ma con calibrati guantoni, la punta della spada degli schermitori è resa innocua dalle protezioni in dura gomma. Le coriacee mani del karateka indurite al makiwara27 rimangono nascoste sotto eleganti guantini di finta pelle, i tanto decantati e temuti “colpi mortali” in grado di uccidere al primo impatto sfiorano appena la pelle del viso e rimbalzano innocui contro parastinchi anatomici. Ecco le Arti marziali adattate ai tempi, alla civiltà, alla concezione ludico-sportiva della vita nella società attuale. Dell'invincibilità promessa, dei codici d'onore, dei precetti fondamentali, della millenaria tradizione, del nobile orgoglio, di tutto ciò cosa rimane? Il Karate è sotto processo. Negli ultimi anni, le Federazioni (con gli interessi personali e finanziari connessi) e la generalizzata incompetenza tecnicogestionale hanno trasformato una disciplina marziale tradizionalmente nobile in un semplice sport a vantaggio di qualche buon speculatore a danno di molti altri (i praticanti). Il prodotto che questi ultimi vanno ad “acquistare” può essere di buona qualità oppure di scarsa valenza: in ogni caso non c'è possibilità di controllo e, almeno inizialmente, si “compra a scatolo chiusa”. La verifica o un eventuale problematica non dà diritto a reclami o risarcimenti poiché ogni Maestro, generalmente, si ritiene migliore degli altri, magari portatore di chissà quali metodologie innovative o cercatore (con successo) di tradizione pura. Il Karate, quindi, diventa uno sport basato sull'ambizione, sulla fama di gloria di Maestri e di molti praticanti addestrati a cercare soltanto un risultato agonistico. Secondo alcune Federazioni (moltiplicate di numero in Europa e in Italia negli ultimi dieci-quindici anni ) e molti Maestri, è assurdo pretendere da un novizio, che si presenta in palestra con la 27 Il makiwara è composto da una solida di faggio laminato o da un sostegno posto all'altezza del torace e saldamente fissato sul terreno. La sommità del sostegno è di solito avvolta da corde. Durante l'addestramento rappresenta la superficie da colpire con pugni e calci per allenare gli arti al combattimento e sviluppare anche potenza e velocità di esecuzione nelle tecniche di attacco. E' un dispositivo utilizzato anche per l'addestramento delle Forze Armate in Oriente (Cina, Giappone, Corea). 70 testa imbottita di scene riprese da film pseudo-marziali, un'istintiva saggezza e una consapevolezza circa la strada da percorrere. Ritenendo inefficace una guida da estendersi ben oltre la “Tecnica” verso una obiettiva valutazione dei limiti e degli stimoli, si sposta perciò l'attenzione sulla competizione, trasformata in una parodia più vicina ad una sorta di “danza classica” che non a una disciplina marziale tradizionalmente intesa. Gli atleti pagano le iscrizioni, le trasferte, gli equipaggiamenti per allenarsi, ricevendo in cambio medaglie, coppe, cinture28, attestati formali (che non hanno alcun valore spendibile) e una quantità enorme di titoli a livello provinciale, regionale, interregionale, nazionale (naturalmente per ogni categoria di peso). L'universo del Karate è oggi caratterizzato dalla “contrazione muscolare”, privilegiando così la forza fisica per andare a gareggiare in competizioni nelle quali il contatto è vietato e dove il regolamento rigetta gran parte delle tecniche presenti nel Karate “tradizionale”. Tant'è che in molte palestre si allenano esclusivamente a migliorare quelle quattro-cinque tecniche utili all'eventuale ippon o wazaari29. E tutto il resto? Molti Maestri (o presunti tali) addirittura vivono dell'insegnamento, ma non sentono alcun desiderio di migliorare se stessi, né la qualità della vita dei loro allievi. Si limitano ad “insegnare” ciò che hanno imparato senza porsi alcuna domanda. Il risultato sarà un declassamento del Karate a sport violento e conseguentemente non adatto alla 28 29 La cintura è un mezzo che consente al karateka di verificare nel tempo i suoi programmi personali e quindi il superamento di un esame è la verifica che il lavoro svolto ha portato a un risultato tangibile. Il principiante indosserà la cintura bianca. In seguito, al superamento di una prova tecnica (spesso svolta nel dojo di allenamento con il Maestro in qualità di valutatore), potrà conseguire rispettivamente la cintura gialla, arancione, verde, blu, marrone. L'esame per cintura nera avviene davanti a una Commissione Federale. Attualmente è prassi quasi normale premiare il vincitore di una gara, anche a livello provinciale, con la cintura di grado superiore; in alcune circostanze viene “regalata” anche la cintura nera: ad esempio se il praticante ha dimostrato particolare spirito agonistico partecipando egregiamente a molteplici competizioni. Nel Kumite sportivo si intende per ippon un punto pieno, cioè una tecnica ritenuta (dagli arbitri) precisa e potente, tale da poter essere considerata decisiva, buona velocità e corretta distanza. Per wazaari si intende un mezzo punto, ovvero una tecnica di buon effetto, meno “pulita” dal punto di vista tecnico e meno decisiva rispetto a un pugno o calcio premiato con l'ippon. 71 formazione di giovani oppure la fuga di quei pochi che si avvicinano alle Arti marziali per cercarvi valori più profondi, nauseati dall'atmosfera del dojo (narcisismo-invidiacompetizione sfrenata) e dall'atteggiamento dell'Insegnante (distanza-discriminazione-sarcasmo). Non si tratta di persone deboli, inadatte alla pratica del Karate, ma individui sensibili, capaci di riconoscere l'assoluta mancanza di principi e valori all'interno di “quella scuola di Arti Marziali”. Sono in continua ascesa le discipline basate sulla forza fisica con combattimenti senza protezioni (etichettate come Arti, marziali o di qualche altra cosa, solo perché mutuano alcune tecniche tradizionali adattandole a strategie e tattiche di tutt'altro genere); allora per quale ragione perdere svariati anni di tempo ad eseguire forme “ammuffite”, esercizi “noiosi”, quando invece è sufficiente salire su un qualsiasi ring alla ricerca dello scontro “reale” per conquistare qualcosa dal punto di vista materiale e/o personale. Salvo poi rendersi conto che pratiche del genere magari servono pure allo scarico di aggressività accumulata, ma sono totalmente inutili alla crescita interiore. Nelle gare ufficiali di Karate, a causa della mancanza di contatto, il criterio con cui si assegnano i punti e, di conseguenza, il modo attraverso cui si vincono/perdono i combattimenti non è per niente chiaro. Proprio il divieto di “entrare” lascia la decisione della sconfitta o della vittoria alla completa discrezionalità degli arbitri (che sono spesso oggetto di numerose proteste) mentre l'ignaro pubblico resta escluso da qualsiasi comprensione sulle ragioni della proclamazione a vincitore di uno tra i contendenti. Che noia il kumite sportivo! Con avversari che si muovono pochissimo, si studiano per tutta la durata dell'incontro (round di tre minuti effettivi) e imbastiscono una-due iniziative accompagnate da grida di liberazione (pseudo-kime) utilizzando perentoriamente solo quelle tecniche di attacco preparate in palestra durante la settimana. Dal punto di vista politico, una motivazione alla regola di non portare i colpi a segno è che togliendo pericolosità, il Karate avrebbe goduto di un maggiore bacino di utenza (meno rischi 72 – più praticanti – più soldi per le Federazioni). Tutto ciò infatti ha favorito inizialmente buoni risultati numerici, ma da alcuni anni la dimensione del Karate è in contro-tendenza e molti corsi sono frequentati esclusivamente da bambini. Le innovative metodologie di allenamento hanno avuto una ricaduta positiva proprio per i più piccoli, mentre il resto dei praticanti, con fascia di età e aspettative diverse, si è parzialmente conformato. Così facendo i ragazzi giovani che avevano ancora voglia di una pratica dura si sono allontanati dal Karate per confluire in massa negli sport da combattimento (thai-boxe, full-contact, kick-boxe, eccetera). Statisticamente, osservando un allenamento o uno stage di Karate, sarà possibile osservare come l'età dei partecipanti oscillerà bruscamente da valori preadolescenziali a quella di soggetti con capelli brizzolati e addominali non proprio scolpiti. La fascia di età intermedia è dolorosamente assente. Il Karate “addolcito”, reso più “urbano”, con il contatto sempre più raro allontana gradualmente il Karate dal suo passato marziale e da ogni connessione con il combattimento reale. 5.9. PUNTI DI VISTA (MARZIALI)30 Un allenamento produttivo è un allenamento contundente, perché un praticante di Karate non può trovarsi nel momento del bisogno senza aver sperimentato nel dojo la sensazione 30 Considerazioni personali che hanno preso spunto da articoli scritti da Lorenzo Tussardi e Ferdinando Balzarro. Il Maestro Tussardi, 6° dan di Karate, fondatore dell'Accademia Italiana Karate Shotokan Ryu Kase Ha, protore e divulgatore del messaggio del Maestro Kase, ovvero un Karate molto duro e realistico che si è perduto con l'introduzione dell'agonismo. Ferdinando Balzarro, ex Insegnante di Educazione Fisica a Bologna, 8° dan di Karate, campione europeo di kumite a squadre con la Nazionale italiana nel 1973, campione italiano individuale di kumite, è uno dei Maestri più prestigiosi e conosciuti a livello internazionale. Inoltre la riflessione rappresenta anche una sorta di resoconto dialettico tra il sottoscritto e Maestri, Istruttori, praticanti di Karate nel corso di tanti anni e altrettanti allenamenti. Voglio ricordare i Maestri Baldi, Cerretelli, Cialli, Fici, Gori, Somigli e il mio caro amico Giordano (Istruttore 5° dan) i quali, con i loro distinti punti di vista e metodi addestartivi, hanno senz'altro contribuito ad ampliare le mie conoscenze marziali e a migliorare uno stato di benessere generale. 73 del duro impatto e senza aver verificato le proprie reazioni emotive di fronte al dolore. Che utilità può avere il “praticare Karate” evitando di portare i colpi a segno? Anche all'interno del cosiddetto Karate sportivo, per coloro cioè che intendono ormai il Karate solo uno sport e non più un'Arte marziale, che tipo di sport si deve considerare? Se deve essere una disciplina di combattimento, è pur vero e sacrosanto che l'eventualità di prendere qualche colpo dovrebbe comunque essere messa in conto, così come il riconoscimento generale si sposta naturalmente verso chi porta più colpi a segno (vedi boxe, ad esempio). Se poi non è neppure uno sport da combattimento, di nuovo appare problematico fornire una risposta abbastanza esauriente, almeno verso coloro che muovono i primi passi con curiosità e perplessità in un qualsiasi dojo. Il Karate (forse) soffre di una contraddizione difficilmente sanabile. Se praticata a pieno contatto e con l'utilizzo di tutte le tecniche del suo repertorio, può provocare danni gravi e permanenti; se si elimina il contatto e si riduce il bagaglio tecnico è sostanzialmente inefficace in un combattimento: sia in caso di difesa da aggressione reale, sia nel confronto con altre discipline potenzialmente meno pericolose ma praticate in modo più “realistico”. D'altronde ci sono “scuole di pensiero” che considerano e auspicano il Karate come un'Arte per individui disposti ad accettare un certo grado di pericolosità e l'inevitabile rischio di qualche trauma. Anzi, gli ematomi con cui bisogna convivere, devono costituire un momento importante di crescita e acquisizione di alcune qualità caratteriali da cui un karateka non può prescindere: reazione al dolore e alle proprie paure, il coraggio di decidere se proseguire o meno in un percorso marziale. Il dolore diventa così il vero “Maestro”, è una spia essenziale per prendere coscienza dei propri limiti, per rivelare la disposizione psico-fisica a continuare nella pratica, per un giudizio senza repliche circa il dislivello della montagna da scalare. L'allievo di un dojo “tradizionale” deve avere una 74 predisposizione d'animo flessibile, tale da essere plasmato e forgiato; solo in un secondo tempo l'allievo stesso conseguirà uno “spirito inflessibile” ed un “cuore fermo” tipico dei guerrieri di antica memoria. Quindi allenamenti duri con un medio/alto grado di contatto: tant'è che una lezione di Karate, per essere produttiva, deve avere alcune caratteristiche. In primo luogo nel dojo si deve creare uno stato di elevata tensione psicologica, è necessario cioè percepire la pericolosità del luogo e un certo rischio per la propria incolumità. Inoltre un vero dojo trasmette, allo stesso tempo, una un'atmosfera calma e violenta. E' un luogo carico di energia combattiva. Valorizzando ed enfatizzando oltre misura le categorie “rispetto” e “controllo”, molti Maestri giustificano così la loro scelta di praticare un Karate indolore durante le lezioni. Ma proprio perché si rispetta il compagno/avversario che bisogna cercare di colpirlo attaccando e difendendo “realisticamente”, in modo tale da migliorare vicendevolmente il livello tecnico costringendo entrambi ad attingere alle energie psico-fisiche disponibili per non soccombere. Ancora una volta le persone sono poste dinanzi alla paura e ai propri limiti che, tuttavia, vengono affrontati e gestiti nel dojo, anziché (vissuti per la prima volta) durante uno scontro reale. Se, al contrario, il contatto è bandito – dai vari regolamenti tecnico-federali e da norme interne promulgate dal Maestro – allora non si rispetta il contendente, non si è leali con lui, non c'è aiuto reciproco nel verificare l'efficacia delle tecniche di attacco e difesa. Nella fase di kumite bisogna attaccare con la massima velocità, il partner sarà costretto a raccogliere al suo interno la forza, migliorare il livello della difesa (allo scopo di non farsi colpire) e reagire con un contrattacco: e così via in una continua e reciproca ricerca di efficacia. La falsa interpretazione del “rispetto” si allinea ad un altro concetto che, a sua volta male interpretato, potrebbe recare seri danni al praticante di Karate, ovvero il controllo. Controllare una tecnica significa non scaricare tutta la potenza di cui un soggetto è capace quando arriva a contatto con 75 l'avversario. A questo proposito il Karate “moderno” sembra ormai trasformato in una grande recita con bravissimi attori, belle posizioni tecnico/posturali, sguardi nella giusta direzione, atteggiamenti da neo-Samurai pronti alla guerra. Ma di combattere sul serio non se ne parla neanche: il contatto è assolutamente vietato. Meglio atteggiarsi a guerrieri che diventarlo davvero, se non altro si evitano addestramenti durissimi e un quid non indifferente di dolori ed ematomi diffusi sul proprio corpo. Perciò, paradossalmente, esistono grandi rischi ad una pratica di Karate “indolore”. Innanzitutto non si ha un riscontro sulla propria efficacia e non si impara a dosare la potenza delle tecniche. In secondo luogo ci si abitua a colpire fuori distanza, andando a falsare un concetto che rappresenta uno dei parametri essenziali per un karateka: un deficit pericoloso qualora servisse realmente andare ad impattare con una certa probabilità di successo. In terzo luogo non c'è la possibilità di verificare come reagisce il proprio corpo di fronte ad un impatto con un corpo estraneo in movimento e nemmeno di capire se l'energia prodotta dai colpi (attacchi e/o difese) è trasferita sul bersaglio o riassorbita dal proprio corpo andando a compromettere un assetto posturale. Infine non si “allena” il temperamento, non si affrontano le paure e gli stati di alterazione emotiva, si resta sconosciuti a se stessi con l'illusione (e la speranza) che qualcuno verrà in soccorso in caso di bisogno. Se oggigiorno le Federazioni e, generalmente, tutte le palestre fanno dell'accessibilità a tutti e della mancanza di rischi per l'incolumità personale una carta importante da giocare per attirare le persone verso la pratica del Karate, un'altra visione culturale ritiene che lo stesso Karate debba ritornare una “disciplina elitaria”, appannaggio di pochi virtuosi da contrapporre alla schiera di “impiegati” delle Arti marziali che vivono di Karate senza vivere da karateka. 76 6. STUDI, RICERCHE, PERCORSI 6.1. IL KARATE A SCUOLA Il progetto Karate nasce con il preciso scopo di proporre alla Scuola Elementare un mezzo efficace e collaudato per fare Educazione motoria secondo un approccio multilaterale e polivalente. E' convinzione (federale) che il Karate, rivisitato con gli strumenti critici della scienza e proposto in termini metodologicamente adeguati al contesto scolastico, possa essere un efficace strumento per conseguire gli scopi propri dell'educazione motoria31. Si tratta, insomma, di una specialità in grado di dare un contributo efficace e di integrarsi perfettamente con altre materie di studio secondo l'approccio multidisciplinare. L'obiettivo, comunque, è fornire uno strumento in grado di formare capacità oltre l'ambito motorio, vale a dire sviluppare la facoltà di effettuare operazioni a carattere cognitivo efficaci, tempestive, creative in un contesto nel quale la situazionalità è il tratto caratterizzante. Lo scopo è quindi quello di formare giovani in grado di interagire efficacemente tra loro e con 31 Il Progetto Karate – FIJLKAM (Federazione Italiana Lotta Judo Arti Marziali) è stato tra i primi ad essere approvato dalla Commissione mista MIUR – CONI. Attivato nell'anno scolastico 2008-09, proseguirà almeno fino al 2011-12. Progetto e programma sono sviluppati sulla base di: programmi ministeriali scolastici; conoscenze fondamentali dei processi di socializzazione collettivi e psicologico-biologici individuali operanti tra i 5 e i 14 anni; moderne teorie scientifiche; esperienze maturate sulla formazione dei praticanti di Karate in tutte le fasce di età; risultati acquisiti nella formazione di atleti di alta prestazione e di campioni di kumite e kata. 77 l'ambiente, in uno scenario contraddistinto da regole. Il Progetto Scuola è strutturato in funzione di un percorso formativo che parte dal “sé” e percorre tutto l'iter che consente al soggetto di realizzare le proprie potenzialità ai massimi livelli. Gli Sport di Combattimento presenti nella Federazione (tra cui, ovviamente, anche il Karate) appartengono all'area degli sport situazionali, caratterizzati da attività neurocognitive-motorie particolarmente efficaci per lo sviluppo dell'individuo in età evolutiva. Tant'è che, presso le società sportive affiliate alla FIJLKAM, queste discipline vengono praticate a partire dai 5 anni di età. Esiste infatti, una forte domanda da parte delle famiglie che ne apprezzano le valenze educative e formative. Inoltre alcune statistiche fornite dal CIO e un'indagine pubblicata sul quotidiano IL SOLE 24 ORE dimostrano che le discipline in questione rappresentano le attività motorie/sportive più praticate dai bambini al di sotto dei dieci anni. La presenza femminile è in continua crescita e nel Karate, ad esempio, il numero delle bambine equivale grosso modo a quello dei praticanti maschi. La Federazione ha adeguato così le proprie strategie in termini culturali, metodologici, didattici, organizzativi alle esigenze delle famiglie e ai bisogni di formazione dei piccoli studenti/praticanti. I programmi proposti agli Istituti Scolastici, distinti, progressivi, graduali vengono predisposti secondo itinerari metodologici commisurati all'età, delineando una pratica scolastica divertente e, soprattutto, sicura. La differenziazione tra Scuola primaria e Scuola secondaria di primo grado innanzitutto è utile per sostenere al meglio l'impegno sul piano didattico e operativo. Naturalmente la Federazione fa proprie le finalità della Scuola primaria e secondaria, ovvero la promozione del pieno sviluppo della persona, contribuendo alla creazione di uno stimolante ambiente di apprendimento. Gli apporti culturali delle discipline di origine orientale contribuiscono a stimolare le varie dimensioni della personalità degli alunni e favoriscono l'accesso a una conoscenza, interpretazione, simbolizzazione e rappresentazione del mondo anche secondo un approccio 78 multiculturale e multietnico. Per quanto riguarda gli ambiti di applicazione, il Karate (e anche Lotta e Judo) si presta in modo particolarmente efficace ad interagire con alcuni ambiti disciplinari, correlati tra loro, in termini di conoscenze, abilità e competenze. L'ambito linguistico-artistico-espressivo, per l'utilizzazione e spiegazioni di termini e concetti provenienti da altre culture, apprendimento di termini in lingua originale e/o in lingua italiana per l'esecuzione di movimenti. L'ambito storico-geografico (capacità di orientarsi in altre epoche storiche e aree geografiche, simbolismi e ritualità); l'ambito scientifico-motorio con l'apprendimento di anatomia elementare e le differenze tra la cultura orientale e la scienza occidentale. Inoltre l'ambito ambientale-salutistico, ovvero interazione con l'ambiente e benessere psico-fisico da assumere come regola di vita permanente. Quindi i destinatari del Progetto Karate nella Scuola sono gli alunni, i Docenti e le famiglie, ai quali la Federazione intende promuovere le proprie discipline educative attraverso attività ludiche, formative, divulgative, promozionali. Principalmente, le finalità del Progetto sono, in primo luogo, di proporre uno strumento didattico in grado di contribuire, in armonia con gli altri insegnamenti, ad un equilibrato sviluppo di tutte le aree della personalità dei giovani studenti. Migliorare le capacità di apprendimento ed il livello di concentrazione dell'alunno che, grazie all'apporto del Karate, sviluppa un'organizzazione mentale in grado di regolare sequenze psico-motorie. Favorire la propensione ad assumere processi decisionali con diversi gradi di responsabilità. Contribuire, inoltre, al processo di arricchimento professionale e culturale dei Docenti scolastici attraverso un aggiornamento costituito da approcci culturali, metodologici e propedeutici ai fondamentali delle discipline federali, fornendo loro un dettagliato quadro teorico sull'importanza dell'interazione neuro-psico-motoria in funzione dello sviluppo della personalità. Gli obiettivi del Progetto, oltre a sviluppare la conoscenza del 79 Karate (e delle altre Arti marziali) nella Scuola, possono spaziare in varie dimensioni. Ad esempio l'opportunità di interazione con i Docenti interessati attraverso procedure condivise, creando un'efficace rete di rapporti; in secondo luogo collocare ufficialmente il Progetto Karate nei POF scolastici; oppure aumentare la pratica qualificata delle attività motoria integrando la disciplina marziale nel percorso formativo scolastico. Inoltre, dal punto di vista pratico, gli obiettivi sono riconducibili allo sviluppo della capacità di discriminazione percettiva con particolare riferimento allo sviluppo della “propriocettività” e all'organizzazione delle categorie di spazio e tempo. Oltre, naturalmente, agli obiettivi di natura fisico-atletico-posturale tipici dell'età in questione. Per quanto riguarda le metodologie di lavoro, sono presenti momenti d'insegnamento individuale e collettivo, diversificati in relazione alla fascia di età ed organizzati in modo da essere motivanti. Inoltre l'approccio è di tipo ludico-sportivo, in cui vengono proposte situazioni di confronto ed evitate accuratamente le esasperazioni tecnico-agonistiche. Sarà promosso uno sviluppo polivalente della motricità e della personalità, fondendo l'educazione motoria con quella sportiva. E ancora, momenti di gioco-sport collettivo per implementare i valori propri dello sport come le regole del fair play. I metodi più efficaci per il conseguimento degli obiettivi posti dalla programmazione sono il metodo ludico, metodo della libera esplorazione, metodo della scoperta guidata, metodo della serie di ripetizioni (Karate), metodo ploblem solving, metodo delle piccole competizioni. La valutazione, attraverso i test sullo sviluppo dell'attività neuro-cognitiva-motoria, viene concordata con il Docente scolastico curricolare designato e avrà, generalmente, come oggetto i dati relativi a un percorso, un gioco tecnico, un test tecnico. Questa struttura di valutazione può essere riproposta in forma combinata anche in occasione di manifestazioni di gioco-sport. Infine la struttura del Progetto Karate a Scuola tiene conto anche del fatto che, abbastanza frequentemente, i giovani studenti sono vittime di una ipocinesi, che non ha consentito 80 loro uno sviluppo e un'integrazione adeguata delle funzioni senso-motorie. Dedica particolare attenzione e cura allo sviluppo delle capacità cognitive, che sono il presupposto all'apprendimento di qualsiasi tipo di abilità motoria. 6.2. LA PERSONALITA' DEL KARATEKA L'obiettivo della ricerca effettuata da Alessandro Mahony32 è quello di valutare gli effetti e i supporti benefici di una pratica quale il Karate. Quali sono le caratteristiche dei praticanti? Variano con il tempo? Cosa si acquista praticando Karate? Nell'ambito dello studio in oggetto, oltre ad una iniziale divisione dei partecipanti in maschi e femmine, si è proceduto ad una differenziazione in base al livello raggiunto: fino al grado di cintura arancione, cinture verdi/blu/marroni, cinture nere. Dalle risposte sul questionario (anonimo) distribuito è emerso, riguardo alle domande autobiografiche, che i soggetti partecipanti, uomini e donne tra i 14 e i 50 anni, avrebbero buone relazioni sociali e affettive, buone condizioni di vita e buon equilibrio emotivo; la pratica del Karate per loro è sinonimo di fatica e soddisfazione, una buona realizzazione personale ad ogni grado di cintura. Altre dimensioni indicate sono state: ansia come carattere, l'umore (una scala della depressione), ansia e tensione prima di una gara, aggressività, le paure quotidiane (es. sostenere un esame), valutazione della propria auto-consapevolezza corporea ed efficienza fisica, capacità di impegno e ricerca del successo, controllo delle proprie capacità, dei risultati in gara. Per quanto concerne gli uomini, i risultati hanno messo in evidenza valori più bassi, rispetto ad ansia e depressioni, in confronto a uomini che non praticano sport. Valori abbastanza 32 Vedi Nota sull'Autore a pag. 32. La ricerca in questione “La personalità del karateka” è il risultato di uno studio effettuato presso alcune palestre di Karate a Milano, Como, Varese. 81 alti, invece, circa la tensione pre-gara (reale pericolo avvertito dal contatto fisico nel kumite e dal timore di una scarsa valutazione arbitrale – dopo mesi di estenuanti prove – in una competizione di kata). L'aggressività non varia con l'esperienza e non presenta valori superiori, se confrontata con altri sportivi. I karateka hanno una buona consapevolezza del proprio corpo e una buona efficienza fisica. Ambizione e ricerca del successo minori rispetto agli altri sportivi, ma si riscontrano valori alti nella capacità di impegno. Inoltre un dato (a prima vista) paradossale. Cioè le cinture nere riescono poco a controllare gli aspetti relativi alle proprie prestazioni in gara rispetto alle cinture “colorate”. Ovvero gli insuccessi sono attribuiti e vissuti più come dovuti a fattori esterni (es. la sfortuna) che a fattori interni (es. la scarsa preparazione). Da successivi colloqui mirati i ricercatori hanno rilevato che le cinture nere si sentono “realizzati”: sono giunti (almeno così ritengono) al top della tecnica e se qualcosa è andato storto, non è più vissuto come un fattore sotto controllo. Il massimo del controllo della situazione si ha nelle cinture intermedie, quando gli atleti sono ancora spinti dalla voglia di progredire e hanno la consapevolezza di migliorare sempre; gli effettivi successi ed insuccessi sono attribuiti alle proprie capacità e all'impegno profuso. Le donne ottengono risultati più tangibili rispetto agli uomini. Anch'esse risultano meno ansiose e depresse rispetto a donne che non praticano alcuna attività fisica. L'umore migliora e le paure quotidiane diminuiscono durante il percorso marziale; la consapevolezza corporea e l'efficienza è paragonabile a quella degli uomini. Caratterialmente appena più timorose rispetto agli uomini. Le donne hanno un diverso modo di rapportarsi all'ambiente, sia in allenamento che in gara. Sono più preoccupate di “apparire” (specialmente in gara), i risultati dimostrano che hanno più difficoltà (specialmente durante il periodo della cintura intermedia) ad inserirsi nel prototipo di chi pratica questa disciplina rispetto ai loro compagni di pratica maschi (probabilmente la causa è legata a fattori e condizionamenti culturali). Prima di una gara sono più tese le donne degli uomini, ma già a livello di cintura intermedia 82 aumenta la loro ambizione e il desiderio di successo rispetto alle compagne principianti (fattore che per i maschi non varia). Cosa ha di diverso dagli altri sportivi il praticante di Karate? I dati disponibili hanno fornito confronti con i calciatori, tennisti, piloti, giocatori di pallamano. Per le donne sono stati analizzati alcuni dati soltanto per quanto concerne le giocatrici di pallamano. I karateka, paragonati alla media generale degli sportivi, hanno livelli più alti di ansia sia in gara che in allenamento. Ricerca del successo minore ma una maggiore capacità di impegno e applicazione nella pratica, rispetto agli altri sportivi. In particolare, riguardo al confronto con i calciatori, il praticante di Karate possiede più autocontrollo in allenamento, ma un'autostima minore. Rispetto ai tennisti senz'altro meno paure e più fiducia sulle proprie capacità piuttosto che sull'efficacia di un fattore esterno. Per quanto concerne i piloti, nei loro confronti i karateka sanno affermare in misura minore le proprie esperienze e le proprie convinzioni. Rispetto ai giocatori di pallamano, hanno maggiore capacità di autocontrollo sia in gara che in allenamento. Invece le donne che praticano Karate, rispetto alle giocatrici di pallamano, hanno valori minori di ansia, ma tenderebbero più a valutare le proprie performance in relazione a circostanze esterne piuttosto che legate alle proprie motivazioni e capacità. Questo studio, naturalmente, ha coinvolto praticanti di Karate orientati verso il settore sportivo (gare, competizioni ufficiali a vario livello, ricerca di alta prestazione). Può definirsi, tuttavia, uno studio preparatorio per arrivare a dettagliare (per esempio) a che età è utile o consigliabile iniziare l'apprendimento del Karate, quali sono le motivazioni che spingono una persona a scegliere proprio il Karate piuttosto che un'altra disciplina sportiva o una differente Arte marziale, come migliorare una sorta di benessere psico-fisico e sviluppare, allo stesso tempo, le caratteristiche di un possibile “sportivo vincente”, di successo. 83 6.3. LA MOTIVAZIONE Lo studio pilota di Giulia Cavalli33 tenta di indagare le motivazioni esplicite (cioè coscienti) a praticare Karate in Atleti non agonisti. La ricerca mette in evidenza come la motivazione a praticare Karate nei bambini, nelle cinture di grado inferiore e in coloro meno esperti è legata a dimensioni esterne (motivazione estrinseca), ad aspetti di conoscenza della disciplina, al bisogno di stringere relazioni con gli altri e di acquisire abilità tecniche. Con l'età e gli anni di pratica, a cui necessariamente si associa un più alto livello raggiunto, la motivazione subisce un decremento nelle dimensioni più lontane dallo spirito del Karate-do, in particolare diminuisce notevolmente l'essere motivati da fattori estrinseci (esterni a sé, per ottenere qualcosa: stima, apprezzamenti, successi), il bisogno di conoscenza della disciplina e di praticare Karate per stare con gli altri. Diminuiscono quindi quei fattori che non appartengono allo spirito del Karate tradizionale, aumenta invece la motivazione a praticare Karate per rilassarsi mentalmente. E' interessante verificare come il fattore relativo al benessere psico-fisico (conoscersi, migliorarsi, “sentirsi bene”) rimane costante, con un picco significativo di caduta nella fascia di età 11-18 anni, fra i 2 e i 5 anni di pratica del Karate e nelle cinture verdi-blu-marroni. Ciò significa che è soprattutto in queste fasce che si ha un calo motivazionale a cui, molto probabilmente, è associato un maggior numero di abbandoni. La ricerca si pone l'obiettivo di fornire uno strumento di osservazione della motivazione negli allievi, finalizzato anche alla formazione di Istruttori e Maestri e all'ausilio nella loro quotidiana attività di insegnamento. Studiare la motivazione a praticare Karate consente non solo di approfondire la conoscenza dell'uomo (la ragione per cui una persona sceglie, più o meno consapevolmente, di mettere in atto certi 33 La Dott.ssa Giulia Cavalli è Docente presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università Cattolica di Milano. Lo studio-ricerca in questione “La motivazione a praticare Karate in Atleti non agonisti” è stata effettuata nel 2007 presso alcune Palestre in provincia di Milano e Bergamo (Bellinzago Lombardo, Vaprio d'Adda, Cassano d'Adda, Inzago, Cascine San Pietro, Caravaggio). 84 comportamenti), ma anche una migliore promozione dello stesso Karate tradizionale, nei termini sia di individuare l'utilizzo di strategie adeguate nell'insegnamento, sia di promuovere, a livello personale, una riflessione su se stessi. Tali obiettivi, nello studio della motivazione al Karate, si inseriscono perfettamente nello spirito che lo anima, cioè l'idea del do (Via) che porta al miglioramento di se stessi tramite una conoscenza profonda di sé e, in generale, dell'essere umano. Il Maestro cerca di trasmettere proprio la dimensione mente/corpo attraverso l'insegnamento delle tecniche, il corretto apprendimento dei kata e delle forme di combattimento tradizionale con il fine di sviluppare l'integrazione del ritmo proprio e altrui. Per operazionalizzare il costrutto complesso della motivazione a praticare Karate sono stati scelti alcuni indicatori comportamentali che tentano di integrare gli aspetti motivazionali studiati dalla psicologia con la pratica del Karatedo. Il primo obiettivo (individuare le variabili motivazionali) è stato perseguito studiando la letteratura psicologica sulla motivazione, le biografie dei Maestri del Karate tradizionali e chiedendo di spiegare il “perché” praticano Karate a 50 soggetti (39 maschi – 11 femmine, età dai 5 ai 49 anni): 13 cinture bianche, 12 cinture giallo/arancione, 12 verdi/blu/marrone, 13 cinture nere 1°-2°-3° dan. “Incontri un amico che non vedi da tanto e gli racconti che vai in palestra a praticare Karate. Lui ti chiede: Perché fai Karate? Tu cosa gli rispondi? Prova a scrivere la prima risposta che ti viene in mente”. Le risposte hanno portato alla creazione del questionario: “Perché pratico Karate?” costituito da 35 domande. Campione: 155 soggetti (111 maschi – 44 femmine) dai 5 ai 70 anni. Livello raggiunto: 31,6% cintura bianca, 32,9% cintura gialla/arancione, 14,9% cintura verde/blu/marrone, 20,6% cintura nera. Anni di pratica: 31,6% appena iniziato, 22,6% 1 anno, 20,1% 2-5 anni, 25,7% più di 7 anni. 85 Le analisi hanno evidenziato l'influenza dell'età e degli anni di pratica sul tipo di motivazione: maggiori sono l'età e l'esperienza, maggiore sarà la motivazione intrinseca; diminuisce invece il peso sulla motivazione dei fattori esterni alla persona. Coloro che hanno maggiore motivazione estrinseca mostrano anche minor interesse, impegno e motivazione totale durante le lezioni. Coloro che sono spinti a praticare Karate dal desiderio di perfezionarsi tecnicamente mostrano di non aver bisogno di fattori esterni per essere spinti ad impegnarsi nel fare gli esercizi proposti. La motivazione riferita al benessere psico-fisico predice il maggior impegno dell'allievo quando viene osservato e lodato dal Maestro. La motivazione relativa all'equilibrio psicologico predice l'elevato impegno autonomo, l'interesse per gli esercizi e per l'attività nel suo complesso. Nella fascia 11-18 anni emerge un decremento della motivazione: questo risultato appare in linea con l'esperienza di molti Maestri che vedono diminuire il numero dei propri allievi nella fase adolescenziale. Naturalmente, su tale dato, la riflessione può portare ad individuare un approccio diverso per la promozione del Karate-do proprio per questa fascia anagrafica. Infatti le caratteristiche della pre-adolescenza e adolescenza (ad esempio il rifiuto delle regole poste dall'adulto per la costruzione di un'identità) giocano un ruolo essenziale nella diminuzione della motivazione. Per quanto concerne, infine, la dimensione motivazionale del benessere psico-fisico e la rilevanza di un maggiore impegno se osservati e lodati dal Maestro, la spiegazione può essere riferita al fatto che questi soggetti sono convinti (sulla Via del Karate) che la presenza del Maestro, inteso come guida, sia un mezzo fondamentale per il raggiungimento di sé. Non deve essere letto nei termini di una dipendenza della motivazione da fattori esterni (appunto la presenza del Maestro), quanto piuttosto per la consapevolezza di potersi avvalere dell'insegnamento di colui che si trova più “avanti” nel cammino. 86 6.4. CHIUDERE LA PORTA C'era una volta la mia palestra di Karate....34 Venticinque anni fa i corsi di Karate potevano essere frequentati a cadenza quasi quotidiana ed era funzionale solo un ulteriore reparto “pesistica” sfruttato anche dai praticanti di Karate prima (o dopo) la lezione. La lezione di Karate era davvero a “porte chiuse”. Simbolicamente (e non solo) si chiudeva la porta del dojo e nessuno se ne andava prima della fine, naturalmente dopo il rispettoso saluto al Maestro e, in generale, al luogo di addestramento. Non si trattava di segreti militari che altrimenti avrebbero favorito un “nemico” (vero o presunto), ma piuttosto un desiderio di spiritualità, concentrazione, attenzione, apprendimento attraverso la gestualità rigorosa, tali da escludere una condivisione pubblica ed esibizioni-spettacolo con spettatori curiosi/confusionari. Si trattava di momenti emozionalmente forti, di totale appartenenza a riti, simboli, percorsi addestrativi, sogni. Un principiante aveva a disposizione due-tre lezioni, seguito individualmente da un Assistente del Maestro, per entrare in sintonia con l'ambiente e la particolare atmosfera respirata. Si insegnavano le tecniche di base (pugni, calci, parate) e alcune posture fondamentali. Una discreta percentuale di “adepti” se ne andava quasi subito ritenendo che quel tipico clima di energia “guerriera” non fosse in linea con le proprie aspirazioni, il proprio carattere. Ma coloro che proseguivano il cammino erano costretti gioco forza ad adattarsi al più presto, a rubare qualcosa dagli altri sotto il profilo tecnico, a difendersi come potevano durante i primi confronti con praticanti senz'altro più esperti. Anche questo step rappresentava un momento di selezione naturale; un primo gruppo di allievi si chiamava fuori: i curiosi. Ovvero coloro che hanno provato a vestire gli abiti del 34 Scorrendo molte brochure di Palestre in cui si praticano (anche) Arti marziali, è possibile verificare come la gran parte di offerta viene assorbita da attività quali Danza classica, Danza moderna e contemporanea, Danza del ventre, Danza libre e Hip-Hop, Pilates, Step e Aerobica, Bodybuilding, Difesa Personale per donne. 87 karateka seguendo un parente o amico già coinvolto, oppure conseguentemente alla visione illuminante di una pellicola cinematografica o televisiva dove bravissimi acrobati spacciano ottimi esercizi di corpo libero per Arti marziali. Ancora coloro che, solo per avvicinarsi a una nuova disciplina (dopo aver tentato magari con calcio, tennis, basket), si introducono nel dojo più vicino a casa con atteggiamento curioso e disincantato (a volte anche critico), senza sofferenza. Naturalmente gli allenamenti svolti con intensità, i primi colpi incassati decretano, in certi casi, una reazione di “fuga di superiorità”: “In quella palestra sono tutti matti!”. Diventa più opportuno e intelligente orientarsi verso un corso ben organizzato di “corpo libero” con musica latino-americana in sottofondo, salvo poi convincersi e impegnarsi in una lotta faticosa ed entusiasmante “contro se stessi” attraverso il bodybuilding e lo spinning. Ho sentito, nel corso degli anni, persone che denunciavano, sempre in questa fase iniziale, la loro impossibilità a proseguire a causa delle imprevedibili e impellenti esigenze personali, impegni disumani di studio e/o lavoro, richiamando inconsapevolmente le autentiche e costanti icone di riferimento: la volpe e l'uva. A fronte di coloro che decidono liberamente (con qualche ematoma) di andarsene, un gruppo di assidui frequentatori si profila all'orizzonte. Gli allievi che assumono atteggiamenti, posizioni - momentaneamente solo mutuate – e trovano ispirazione nelle dimostrazioni efficaci del Maestro e dei praticanti “anziani di servizio”. Delusioni, convinzione di incapacità lasciano il posto ad una sorta di illusoria emozione di “saperci fare”, di stare al passo, di giocare le proprie chances in un combattimento (seppur controllato, almeno parzialmente). Parallelamente viene implementato un sistema di addestramento caratterizzato da “mille” pugni, “mille” calci, “mille” parate. Nel vuoto. Senza bersaglio, senza avversari. Si iniziano a studiare le sequenze dei primi kata, ripetendo “mille” volte la forma basilare. Con movimenti lenti atti a memorizzare tecniche e sequenze, poi a cadenza reale, esasperando la 88 forza e determinazione durante l'esecuzione di ogni singolo movimento. Verso avversari ipotetici. L'aria viene tagliata da fendenti portati con estrema decisione e si satura di energia marziale. Comprensibilmente il momento di maggior tensione è il kumite, in cui è necessario confrontarsi con un compagno/avversario che (a sua volta) intende colpire attraverso calci e pugni. Il gioco inizia a farsi duro perché si tratta di un lungo periodo di lividi e dolori diffusi in varie parti del corpo. Tutto scientificamente controllato o gioco al massacro? Niente di tutto ciò, in quanto il Karate sviluppa nel praticante la sensazione di resistenza al dolore, l'abitudine ai colpi ricevuti in sequenza e all'avversario che avanza “minacciosamente” dal quale bisogna imparare a difendersi per contrattaccare. I Maestri erano molto decisi a richiamare l'attenzione sul controllo dei colpi. L'input assumeva grande rilevanza poiché si portavano colpi con forza (a segno) in alcune parti del corpo più resistenti, salvaguardando (e imparando a controllare con meticolosità assoluta) denti, naso, occhi. Era quella la regola scritta (e non), vigente del dojo. Un pugno d'incontro sullo sterno simbolicamente rappresentava un setto nasale rotto, un intervento urgente del dentista, un K.O. comunque di un certo spessore. La scelta di colpire quindici centimetri sotto il mento era dettata dal profondo rispetto per il compagno che si “educava” all'attenzione, ad una maggiore concentrazione visiva, ad una rivisitazione complessiva dell'apparato difensivo. Il compagno colpito non reagiva con astio, piuttosto aveva l'opportunità di migliorare la sua performance generale. Per una buona percentuale di praticanti si avvicinava il momento dei confronti ufficiali: gare stabilite dalla Federazione e/o gare organizzate dai Maestri, al margine di qualche stage. Si stava materializzando automaticamente il secondo step di abbandoni: il plotone dei soddisfatti. Ovvero coloro che sentivano l'esigenza di confrontarsi con un avversario, ottenere un successo, dimostrare comunque a se stessi di salire su un tatami e “fare a pugni” con uno sconosciuto. Personalmente ho assistito al repentino abbandono dall'attività 89 di giovani (e non) che fino a quel momento avevano dimostrato un impegno encomiabile durante gli allenamenti. Avevano infatti raggiunto l'obiettivo; la loro marzialità era indirizzata verso la prova del combattimento, sulla capacità di gestire un confronto dal punto di vista psico-fisico, magari dimostrandolo pubblicamente alla presenza di familiari e amici in qualità di testimoni. Poteva bastare così. La disciplina dello scontro fisico aveva prodotto il suo apice di ebbrezza, si poteva quindi tornare al passato con soddisfazione: il Karate aveva esaurito la sua spinta propulsiva. Le persone che non si fermavano ai primi wazaari-ippon avrebbero indossato, con fatica e umiltà, le variopinte cinture fino al colore marrone. In questo stadio si affinano gli strumenti. Migliora l'esecuzione dei colpi, la tecnica in generale, l'interpretazione del kata, si rinnova il patrimonio strategico e tattico nel kumite. E' il periodo in cui cresce la consapevolezza delle proprie capacità e delle tecniche di successo. Saranno quelle con le quali il praticante conviverà per sempre, atteggiamenti e combinazioni tecniche che si ergono a punti di forza in qualsiasi situazione. Inoltre si tratta di mesi (o anni) in cui il karateka supera la rigidità degli schemi di un addestramento caratterizzato dall'emulazione e dalla ripetizione. Inconsapevolmente crea risposte personalizzate, incisive, sorprendenti che suggellano un effettivo salto di qualità. Sono i momenti di grande affiatamento tra compagni, nasce un sincero attaccamento al dojo, si instaura un dialogo più evoluto con il Maestro e gli Assistenti, tutti prodighi di consigli tecnici, stimoli e rinforzi. Tutto ciò in un'ottica psicologica, fisica, tecnica culminante con quanto si riteneva dovesse costituire l'autentico inizio del cammino marziale: la cintura nera. Si tratta di un “esame universitario” davanti a una Commissione Federale. La qualità del kihon, l'interpretazione del kata, l'atteggiamento e il controllo nel kumite sono i parametri universalmente stabiliti dai “programmi ministeriali” per sancire l'eventuale promozione di un allievo. La presentazione di questa “tesi di laurea” è il coronamento di anni di addestramento, di lavoro incessante con lo scopo di 90 acquisire quelle auspicate competenze trasferibili anche nella cosiddetta vita quotidiana. Una vita forgiata dal Karate, scandita da un ritmo e sensazioni riconducibili all'indefinibile quid di marzialità sviluppato dentro la persona. Il Karate è una “scienza della formazione continua”, un'educazione lungo tutto l'arco della vita. Tuttavia un giovane studente, pur preparato e protagonista di un percorso didattico eccellente, può scegliere di accantonare i contenuti e impegnarsi in tutt'altro ambito, forte anche delle sue credenziali (valide una volta per tutte?). Analogamente un karateka, raggiunto il grado di 1° dan, può ritenere di essere arrivato al massimo, cioè avere conseguito un diploma importante (da ammirare incorniciato in salotto) di cui essere senz'altro orgoglioso. Inoltre presume di essere il depositario di conoscenze e di molti “segreti” del Karate, perciò si affanna a cercare un luogo in cui sia garantita la possibilità di diffondere tutto il suo immenso sapere. E' convinto di aver acquisito uno stile personale, tanto da ergersi come un neo-Istruttore portatore di innovazione, in polemica con lo status quo e con tutta quella “obsolescenza tecnica e metodologica” che contraddistingue il curriculum e la pratica di grandissimi personaggi, protagonisti (in certi casi) di aver tracciato la storia delle Arti marziali. E' giunto il momento delicato degli addii definitivi e delle chiacchiere da bar. E' il tempo delle scissioni, dei gruppi che si spostano da una realtà all'altra, dalla Federazione (riconosciuta dal CONI) ad altre neonate mini-Federazioni con la pretesa e l'illusione di schierarsi con un rinnovato movimento di idee culturali-marziali, in realtà solo ed esclusivamente di natura politica. Quante energie sprecate! E' anche il bivio dinanzi al quale decidere se proseguire un sentiero tradizionale o intraprendere la “filosofia” prettamente sportiva. La natura del combattimento (e del Karate in generale) cambia radicalmente. Un percorso finalizzato alla competizione non necessita di una grande disciplina interiore; piuttosto risulta fondamentale una preparazione fisica eccellente, una strategia/tattica funzionale alle proprie caratteristiche psico-fisico-tecniche, l'acquisizione 91 semi-meccanica di certi movimenti per incrementare le possibilità di successo. Basilare diviene il giudizio di un arbitro che deve riconoscere in uno strettissimo lasso temporale la bontà di una tecnica messa a segno con gli attributi necessari di velocità e controllo. Evidentemente non si “perde tempo” ad eseguire tecniche a vuoto, esercizi a coppie sulle applicazioni del kata con le sue molteplici interpretazioni, il combattimento con attacco dichiarato, semi-libero, il combattimento con contatto. Ho assistito ad alcune sceneggiate raccapriccianti durante le gare di Karate a livello regionale e nazionale. “Atleti” appena sfiorati al volto da un pugno o calcio, crollavano a terra fingendo palesemente un contatto (vietato dal regolamento) in realtà inconsistente. E paradossalmente il karateka-attore che subisce il (finto) K.O. vince la gara per squalifica dell'avversario, reo, quest'ultimo, di non aver controllato il colpo. Si tratta allora di una disciplina interiore riconducibile a quella di un calciatore, un tennista, un nuotatore, un praticante di scherma. Comunque un'apprezzabile impegno ad affilare le armi tecniche e ad ottimizzare la dimensione muscolarescheletrica-organica al fine di raggiungere prestazioni competitive. Salvo staccare la spina quando si esaurisce la spinta dell'entusiasmo e declinare sul bodybuilding o sterzare (non senza difficoltà) sulla thai-boxe, full-contact, boxe tradizionale impattando duramente con la molteplicità dei colpi ricevuti, senza la possibilità di “commedie” funzionali alla vittoria effimera. Personalmente ho conosciuto giovani atleticamente forti, molto preparati nella pratica del Karate sportivo che, dopo alcuni successi e altrettante delusioni, sono letteralmente scomparsi dalla scena. Infatti, a quel punto, è tardi per fare marcia indietro. I messaggi assorbiti nel corso degli anni e la conseguente impostazione mente/corpo non lasciano spazio (salvo rari casi) ad un'inversione di carreggiata. L'alternativa assume necessariamente il connotato di tradizione. Agli obiettivi a breve termine, alla preparazione mirata, all'esecuzione di sequenze/situazioni limitate, si sostituisce un 92 addestramento olistico, senza tempo. E' il percorso degli “umili”. Ovvero di tutti i praticanti che desiderano allenarsi quotidianamente sperando sempre di imparare e ottenere benefici psico-fisici, coloro che resteranno attaccati con entusiasmo alla ritualità, alla tradizione (con rinnovati emendamenti), alla continuità del praticare Karate, a un'idea di efficacia-efficienza-controllo. Gli allenamenti, in questo contesto in evoluzione, si propongono di sviscerare i dettagli, di procedere dall'analitico al globale. Le interpretazioni sono personalizzate, i metodi e gli strumenti variano. Lo scontro fisico si trasforma in lotta contro più avversari, contro armi contundenti, si evolve nella capacità di colpire con estrema decisione il partner andando a segno in certe parti del corpo ma controllando con altrettanta efficacia una tecnica veloce e potente a pochissimi centimetri dal volto. Non ci sono arbitri e cronometri. Un combattimento può durare tutto l'arco dell'intera lezione, così come un segmento di kata può divenire il nodo strutturale di un ciclo di lezioni. Silenzio, sudore, energia diffusa e palpabile, lo sguardo dei compagni di pratica, l'abbraccio col partner dopo aver dato vita a uno scontro “violento”, senza vincitori né classifiche di merito. Andare a segno con determinazione ed essere in grado di controllare (qualora sia necessario) rappresenta il fulcro essenziale del complesso mondo marziale. E' il valore aggiunto, quel surplus qualitativo che trova riscontro e applicazione fuori dal dojo. “Fare Karate” significa gestire le emozioni, controllare le reazioni, ammettere lo sfogo dell'altro e ri-mediare una situazione di conflitto, contrattaccare nel momento di “debolezza” dell'interlocutore, la capacità di mettere (simbolicamente) fuori combattimento quando è il caso di reagire/colpire duro, negoziare preventivamente allo scopo di evitare il conflitto vero e proprio. Colpire e controllare, decisione e rispetto, distanza e corpo a corpo. Il Karate si identifica “con” la vita quotidiana. Non solo per la capacità di affrontare situazioni e gestire conflitti. Piuttosto per il senso di libertà cognitiva, per la capacità critica che esclude i molteplici tentativi di condizionamento, per quella autonomia di pensiero 93 garanzia di scelte individuali consapevoli. Andare oltre con lo sguardo, anticipare le mosse. Gli “umili” si danno appuntamento nel dojo per scoprire qualcosa di nuovo dentro se stessi, per interagire e combattere, condividere idee, atteggiamenti, comportamenti. Questi soggetti non sono qualitativamente superiori agli altri. Hanno soltanto deciso e indirizzato il volano della propria vita verso la ricerca, lo studio, il miglioramento psico-fisico. Una sorta di formazione, non strutturata né tanto meno certificata, caratterizzata da credenziali interne difficilmente percepibili anche dagli stessi possessori. La palestra frequentata molti anni or sono si è trasformata in un'accozzaglia di “offerte formative” disparate e incoerenti, ma in linea con la superficialità caotica emblema della società del XXI secolo. Per questo motivo (senza velleità nostalgiche) provo tuttora emozione e meraviglia quando ho l'opportunità di varcare la soglia di un autentico dojo di Karate: ritualità, silenzio, serietà, sobrietà, sudore, corporeità, spirito combattivo. Partecipare ad una lezione di Karate tradizionale rappresenta un salto nel buio. Se ne può uscire con tanti lividi e altrettante insicurezze o piuttosto con la forza e la determinazione di un leone. Attraverso una militanza fedele, costante, consapevole, il dojo regalerà in dote una valigetta di attrezzi psichici tra i quali cercare (e trovare) la chiave giusta in “quel” particolare frangente. Quando, invece, la disciplina dello scontro fisico ha esaurito il suo carattere propulsivo, occorre ri-tornare in un dojo di Karate con l'umiltà del primo giorno di addestramento. E ri-cominciare daccapo. Chiudendo la porta alle proprie spalle. CONCLUSIONI 94 Le Arti marziali sono ormai diventate un fenomeno ad ampia diffusione e oggetto di interesse anche per la particolare trasformazione che ha subito nei principi base, soprattutto nel passaggio tra “Oriente” e “Occidente”. Un approccio orientale verso l'insegnamento del Karate è caratterizzato da alcuni aspetti essenziali. Il Maestro sceglie l'allievo tra persone che ritiene all'altezza. Il Maestro è riconosciuto come tale, non solo per la conoscenza delle tecniche, ma anche per il suo valore come persona e capacità di formatore. Il Maestro insegna la tecnica solo in parte, secondo il metodo del “non insegnare”, lasciando all'allievo il compito di sviluppare la curiosità e la sensibilità che gli consentono di impadronirsi della tecnica. La formazione prevede un processo di apprendimento senza limiti di tempo e una dedizione totale. L'allievo non paga una “quota”, ma fornisce la sua disponibilità materiale e spirituale al Maestro. La formazione marziale non si limita all'acquisizione della tecnica, ma comprende la formazione religiosa, storica e culturale dell'individuo. Non esistono metodi di classificazione gerarchica, cinture o gradi; si ritiene importante il percorso in se stesso e non la sua classificazione. Oggigiorno l'Arte marziale (in Oriente) non è praticata dal pubblico di élite, il quale preferisce rivolgersi ad attività sportive di stampo occidentale. Per quanto concerne l'impostazione “occidentale” è possibile assemblare una serie di annotazioni che a una prima lettura possono sembrare esasperatamente penalizzanti nei confronti del Karate (e delle Arti marziali) in termini di insegnamento/apprendimento e sotto il profilo socio-culturale. L'allievo sceglie la palestra più vicino a casa (per comodità), 95 piuttosto che il Maestro per le sue qualità. Un Istruttore si definisce tale per il grado o i vari “titoli” conseguiti o le sue qualità di combattente: tutte condizioni non sempre sufficienti per intraprendere la complessa Arte dell'insegnamento. L'Istruttore insegna la tecnica più in termini di informazione che di formazione della persona e la formazione marziale si limita spesso all'apprendimento della tecnica secondo i principi del collezionismo. L'alunno paga per “acquistare un prodotto” e, ovviamente, pretende una “ricevuta” materializzata in una cintura più o meno colorata da sfoggiare in pubblico. Cinture e gradi sono fondamentali: questo è il sistema formulato dalle esigenze consumistiche e di mercato dell'Occidente; l'allievo paga per imparare una tecnica e vuole un certificato che lo testimoni. Non interessa il contenuto spirituale, filosofico e di conoscenza della merce che compra, non si dà importanza al valore aggiunto, all'innovazione formativa che il Karate può offrire. Le Arti marziali sono diventate “di moda”. Gli “impiegati e i manager delle Arti marziali”, che di presentano in palestra in giacca, cravatta e valigetta a rimorchio, annotano di sovente nei loro curriculum lavorativi la pratica “guerriera”, indice e immagine di determinazione e leadership. Ogni praticante sviluppa il “suo” Karate. Il Karate è un contenitore culturale da cui attingere ciò che si ritiene più opportuno, adattabile, conveniente. Ma il Karate non ha la pretesa e l'arroganza di risolvere tutti i problemi, piuttosto rappresenta (o può divenire) uno strumento di libertà. Proprio per “vincere contro se stessi”, anche (e 96