lo spettacolo dell`autocontrollo

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lo spettacolo dell`autocontrollo
VIRGILI STEFANO
LO SPETTACOLO DELL'AUTOCONTROLLO
La disciplina dello scontro fisico
nella formazione del karateka
PREMESSA
Scrivere di “Arti Marziali”, nella maggior parte dei casi,
equivale a narrare un pezzo di storia medioevale orientale, le
gesta di memorabili Maestri, nobili guerrieri, meravigliosi cultori
dell'Arte della spada. Poi, generalmente, si passerà alla
trattazione del legame tra Arte marziale e filosofia/religione con
annessi strumenti meditativi. E ancora, il passaggio della
cultura marziale orientale in territorio occidentale con
esaltazione dei grandi Maestri esportatori e dei pionieri
nostrani che, attraverso immensi sacrifici, hanno contribuito
alla diffusione capillare del Karate. Naturalmente non
mancherà il puntuale elenco di tecniche offensive e difensive
(pugni, calci, proiezioni, eccetera), le varie modalità di
combattimento, lo studio della forma, con le possibili traduzioni
dalla lingua giapponese di tutte (o quasi) le situazioni tecniche
prese in esame. E infine un accennato risvolto psicologicoemozionale con i decantati effetti benefici circa una rinnovata
“calma interiore”, acquisizione di “autocontrollo”, “rispetto” per
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il prossimo, “vincere senza combattere” e quant'altro di magico
possa scaturire da una pratica in cui le caratteristiche fisiche e
motorie (capacità condizionali e coordinative) rivestono,
comunque, un'importanza basilare.
Perché il Karate, a differenza di altre diffuse discipline sportive,
favorisce e sviluppa un grande autocontrollo?
Cosa significa, dal punto di vista culturale-psicologico-socialefisico combattere contro un avversario senza arrivare al
contatto?
Il presente lavoro non ha la pretesa di aggiungere niente di
nuovo a quanto già abbondantemente espresso nella
letteratura di settore. Piuttosto il desiderio (e l'obiettivo) è
cercare di approfondire la dimensione meno visibile, ovvero
quella componente interiore così esaltata nel fine-processo,
ma di cui difficilmente si riesce ad intravedere la sorgente, la
lenta formazione, il percorso a fasi alterne caratterizzato da
numerose cadute e altrettante contraddizioni.
Da praticante più che ventennale di Karate, ho comunque
resistito alla tentazione di presentare inizialmente il contesto
socio-culturale di riferimento (la cosiddetta società postmoderna, il XXI secolo) estremamente complesso, fluido,
”spettacolare”, nel quale, inevitabilmente, si è trovato
invischiato il Karate tradizionale. Sarebbe suonata come una
faziosa presa di posizione in favore della “beatificazione”, di
una ricerca terminata a buon fine, della risoluzione di molti
(quasi tutti) problemi che sarebbe emersa a seguito della
successiva ode verso gli aspetti educativi, socializzanti,
formativi, delle opportunità di crescita generale che un
addestramento costante in una palestra di Karate favorisce in
tutte le persone, senza distinzioni anagrafiche.
Invece, dopo una breve introduzione in cui ho richiamato
alcuni aspetti fondamentali (e poco conosciuti anche dai
praticanti di lunga data), ho ritenuto di esplicitare, proprio in
fase iniziale, le grandi potenzialità di questa Arte marziale.
Sono state prese in considerazione le categorie Educazione,
Socializzazione, Formazione in rapporto alla corporeità, in una
particolare forma di “agire comunicativo”, senza peraltro
addentrarsi in progetti formativi “strutturati” che, nella
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fattispecie in oggetto, non avrebbero molto senso.
Nella seconda parte, altresì, ho cercato di de-costruire molte
situazioni, di smantellare certezze e positività, collocando il
Karate in un panorama storico-sociale-culturale che,
inevitabilmente, estrapola tutte le incertezze, tentativi di
restyling, le contraddizioni, i dubbi sull'effettiva efficacia dello
stesso Karate.
Quali sono i motivi che inducono una persona a dirigere la sua
attenzione, la sua curiosità verso il Karate?
Nel terzo millennio, in una società-spettacolo caratterizzata dal
potere dei media, cosa significano “rispetto” e “controllo”?
Cercando di rispondere a questi (non banali) interrogativi, mi
accingo ad esporre qualche risultato di ricerche effettuate,
valutate, rielaborate e commentate secondo il mio punto di
vista “marziale”, personale e contestabile.
1. INTRODUZIONE
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1.1. COS'E' IL KARATE?
Il Karate si presenta al pubblico come una pratica sportiva
basata sul combattimento senza armi. E' in realtà
un'espressione completa della civiltà orientale.
Tutti i popoli del mondo hanno sviluppato, ad un certo
momento della loro storia, una cultura del combattimento, ma
nella loro mentalità i popoli d'Oriente non dimenticarono che
l'addestramento al combattimento è una preziosa forma
educativa e vollero mantenerla nelle espressioni fisiche e
morali.
Si può quindi affermare che il Karate è un'Arte, una disciplina
che si applica a mani nude e che rafforza il corpo e lo spirito.
Il Karate è un'attività completa ed una filosofia di vita. Dal
punto di vista prettamente fisico, l'utilizzo dei quattro arti e
un'infinità di posture e schemi motori, la caratterizza come una
delle pratiche sportive più complete.
Uno degli aspetti più singolari del Karate è che può essere
intrapreso da chiunque a prescindere dall'età, dal fisico, dal
genere.
Non si finisce mai di imparare.
Ancora oggi è forte la convinzione che “Arte Marziale” sia
sinonimo di violenza: fare Karate significa aggressività,
litigiosità, pericolosità.
Nella pratica del Karate, invece, si “educa l'allievo” a coltivare
un sentimento importante: il rispetto. Per il Dojo (palestra di
addestramento), per il Sensei (Maestro - colui che guida), per i
compagni (amici con cui condividere gioie e fatiche).
Ogni lezione inizia e termina con il saluto, un vero e proprio
rituale. In riga, in ordine, in silenzio.
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Bambini e adulti, allievi e insegnanti: tutti insieme inginocchiati
di fronte al Maestro.
Rigoroso silenzio, momento importante di condivisione e
introspezione in cui vengono scandite le regole pronunciate in
giapponese.
L'allenamento/addestramento
rappresenta
un
contesto
altamente specialistico nel quale si realizzano una serie di
condizioni psico/fisico/sociali.
In primo luogo uno sviluppo delle capacità motorie e cognitive,
con particolare attenzione al miglioramento della propria
consapevolezza corporea e quindi del controllo e gestione del
corpo in movimento nello spazio.
Inoltre uno sviluppo della propria consapevolezza interiore e
della capacità di controllare la propria emotività; l'opportunità di
espressione, socializzazione, confronto; una partecipazione
attenta e motivata ad un lavoro di gruppo nel pieno rispetto
delle regole.
Da non sottovalutare, infine, la lotta all'emarginazione, con
speciale attenzione all'inserimento nel gruppo di individui
portatori di problematiche particolari.
Per riuscire a creare un momento di allenamento che sia
funzionale e sicuro, è necessario instaurare con i compagni un
rapporto di reciproco affidamento e collaborazione.
Quindi, cos'è il Karate?
Il Karate è pazienza. Solo chi ha pazienza otterrà risultati e
soddisfazioni che durano nel tempo. Chi ha fretta si ferma
presto.
Il Karate è costanza. Solo così si costruiscono tecnica,
equilibrio, coordinazione, spirito.
Il Karate è impegno. Fisico e mentale.
Il Karate è rispetto. Nella vita quotidiana, in ogni situazione, il
praticante di Karate deve comportarsi educatamente e
rispettosamente verso il prossimo.
Il Karate è un'attività psico-fisico-motoria completa. Disciplina
consigliata proprio per lo sviluppo armonico del corpo.
Il Karate è uno stile di vita. Una via lungo tutto l'arco
dell'esistenza, caratterizzata da regole, principi e qualità morali
senza il rispetto dei quali un karateka, per quanto
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atleticamente forte e preparato, non potrà mai definirsi tale. Lo
scopo del Karate non è vincere o perdere, ma perfezionare il
carattere della persona.
Cosa non è il Karate?
Il Karate non è violenza. Si impara a rispettare gli altri durante
l'addestramento. Chi pensa di praticare il Karate per fare il
bullo o il prepotente, generalmente abbandona la palestra
dopo poche lezioni. Ma il Karate costituisce, comunque, un
antidoto importante circa i fenomeni devianti.
Il Karate non è una disciplina “traumatica”. E' scientificamente
provato che si verificano infortuni molto più frequentemente in
altri settori sportivi.
Il Karate non è uno sport. Non è un'attività finalizzata al
risultato agonistico, anche se esiste una branca definita
“Karate sportivo” con gare ufficiali a tutti i livelli.
1.2. L'ARTISTA MARZIALE COME
SPORTIVO PROFESSIONISTA
ANTITESI
DELLO
Le arti marziali tradizionali nascono dall'istinto innato dell'uomo
all'autodifesa e sviluppano, attraverso l'osservazione razionale
dei movimenti degli animali in fase di combattimento, una serie
di tecniche marziali atte a metterlo nelle condizioni di
difendersi efficacemente sia dagli attacchi (armati e non) di altri
uomini, sia da quelli degli stessi animali osservati. Il
raggiungimento di un buon livello di preparazione e di efficacia
in queste arti marziali, oltre allo sviluppo di doti fisico-atletiche,
porta a un totale miglioramento di se stessi come uomini. E'
interessante sottolineare che stati mentali quali il rispetto della
disciplina interna, il controllo delle emozioni, la resistenza alla
fatica fisica ed intellettuale, la costante cura verso il
rafforzamento caratteriale, la tensione alla purificazione
spirituale raggiunti durante intensi allenamenti/addestramenti
vengono trasposti dal praticante, prima in modo inconsapevole
poi sempre più coscientemente, dal dojo alla propria vita. Si
migliora la qualità del rapporto con gli altri, con gli eventi
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quotidiani, si tende verso una dimensione equilibrata. Il Karate
può essere inteso come una “lotta spirituale” che ogni
praticante intraprende con se stesso per liberarsi da forze
negative interne ed esterne che limitano fisicamente e
mentalmente, provocando infelicità.
Arti marziali, dunque, come rivoluzione interiore per il
raggiungimento di una libertà individuale. Si contrappongono
alle Istituzioni sociali che, per fini economici-utilitaristici,
controllano e smorzano molti “slanci vitali”, tutte quelle
affermazioni e manifestazioni delle reali doti umane avvertite,
spesso, come destabilizzanti e sovversive dai gestori del
potere fondato sul controllo mentale delle masse.
Lo sport professionistico è una delle più eclatanti dimostrazioni
di società consumistica e le arti marziali tradizionali sono
chiaramente antitetiche a un modello basato sulla
competizione fine a se stessa in cui gli atleti sono addestrati
quasi come cani da combattimento mettendo in atto qualsiasi
mezzo per vincere e divertire un pubblico pagante. Importante
è vincere, comunque apparire come vincenti anche
immeritatamente, con l'inganno, facendo uso di doping. Si
barattano le proprie qualità, la propria evoluzione in cambio
dell'approvazione sociale che spesso mette a rischio
gravemente la salute. Si rinuncia ad una autenticità atletica per
indossare una maschera che possa soddisfare la “domanda di
mercato”.
L'artista marziale è l'esatta antitesi dello sportivo
professionista.
Un praticante di Karate non cerca la vittoria sul campo ma su
se stesso, sui propri limiti, non cerca di vincere in ogni modo
su un avversario/nemico. Piuttosto cerca di “vincere con”,
vincere insieme, cerca un miglioramento attraverso lo scontro
fisico che deve trasformarsi in uno scontro/incontro proficuo
per entrambi.
Un praticante di Karate non cerca il successo e l'approvazione
sociale, ma con modestia e pazienza lavora su se stesso per
evolvere, raggiungere una perfezione (mai completa), anche
se contrapposta ai valori dominanti.
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1.3. DOJO-KUN – I CINQUE PRECETTI
“Vado in palestra ad allenarmi!”
Per un vero praticante di Karate non è proprio così.
Il luogo di addestramento ha un significato più completo e
profondo rispetto al termine occidentale “palestra”.
Dojo significa “Luogo dove si cerca la Via”.
Dojo dove si pratica l'Arte marziale prescelta; è il Luogo in cui
si impara, si cresce, si migliora.
Dojo come Luogo degno di massimo rispetto per il Maestro,
rispetto per gli allievi più anziani, rispetto per il tatami
(tappeto/parquet dove si svolge l'addestramento), rispetto per
gli attrezzi di allenamento, rispetto per il compagno di pratica,
rispetto per tutto ciò che aiuta a progredire e migliorare.
Dojo che ha le sue regole e i suoi precetti comportamentali.
Dojo Kun significa letteralmente “Regole del Luogo dove si
segue la Via”.
E' la rappresentazione linguistica dell'essenza del cosiddetto
Karate-do (la Via del Karate).
E' la risposta alla domanda: Cos'è il Karate-do?
Si tratta di un insieme di precetti etici basilari per la pratica del
Karate tradizionale. Nella sua formulazione pone cinque regole
fondamentali che il praticante deve conoscere e soprattutto
introiettare. La funzione del Dojo Kun non è tanto legata al
perfezionamento tecnico ma piuttosto a quello interiore che di
riflesso conduce all'affinamento dell'esecuzione del gesto
tecnico.
I cinque precetti nascono infatti come sintesi estrema dei valori
e degli obiettivi del Karate, che vede nella difesa e non
nell'offesa uno degli scopi primari della disciplina. Nel costante
allenamento delle applicazioni e nel percorso conoscitivo
indotto dal Karate, corrispondenza tra interno ed esterno e
rafforzamento dello spirito diventano mete essenziali del
praticante. Questa disciplina che guida al sé attraverso la
padronanza delle tecniche, considera fondamentale la
conoscenza e l'interiorizzazione del Dojo Kun perché vede in
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esso l'insegnamento della correttezza comportamentale e del
rispetto universale. Il karateka deve appropriarsi del senso
profondo e sentirlo istintivamente come via comportamentale
estendibile alla condizione esistenziale.
Ciascuno dei cinque precetti si presta a interpretazioni non
univoche, ma il significato essenziale di ogni frase è
inequivocabile.
L'ordine con il quale i precetti si susseguono non è basato su
alcun criterio gerarchico.
Il Karate è Via per migliorare il carattere.
Necessità di tendere a una continua trasformazione interiore
basata su una obiettiva autocritica. Per miglioramento si deve
intendere qualcosa di più impegnativo di un semplice
adeguamento a ciò che comunemente si considera giusto e
buono in un carattere; il concetto di miglioramento attraverso la
pratica del Karate presuppone una conoscenza obiettiva dei
propri limiti, delle debolezze e delle potenzialità che ciascuno
presenta. Tendere al miglioramento significa quindi
approssimarsi ad una conoscenza approfondita di sé stessi
senza credere, peraltro, di poter esaurire una volta per tutte
quel lungo e lento percorso di ricerca che non ha fine e impone
una costante ricerca interiore. Il perfezionamento del carattere
passa attraverso l'acquisizione di una sincera umiltà,
l'abbandono dell'orgoglio personale, il raggiungimento di una
vera modestia che impone coscienza di sé e sottrae la
persona dall'eccesso di valutazione o di svalutazione delle
proprie abilità. L'umiltà, praticata costantemente nell'esercizio
di un atteggiamento corretto e sempre pronto al confronto,
deve quindi facilitare l'assimilazione di nozioni necessarie al
perfezionamento tecnico. Raggiungere efficacia nel controllo
della tecnica (kyon) e della forma (kata) significa non fare
esclusivamente affidamento sulle doti naturali, ma perseguire
la via del perfezionamento considerando un dovere il
superamento dei propri limiti. Solo nell'accettazione di un
aggiustamento continuo che non sconfini nell'ossessione di
arrivare ad una perfezione ideale irraggiungibile, il karateka
può imparare a porsi sul tatami come nella vita, non cedendo
ad utopie pericolose ed esercitandosi all'adattabilità senza
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rinunciare alla propria individuale personalità. Nella
concentrazione sulle tecniche e nella sopportazione dello
sforzo fisico e spirituale richiesto per sfidare i propri limiti si
compie pertanto la parte essenziale dell'evoluzione del
carattere.
Il Karate è Via di sincerità.
Per sincerità si intende la pratica di un'autentica apertura che
impone di scoprirsi senza raccontarsi in modo compiaciuto, di
mettersi a nudo per lasciarsi indagare e conoscere dagli altri.
Sincerità significa essere onesti nell'analisi di se stessi e degli
altri senza incorrere in sterili giudizi. Sincerità è soprattutto
limpidezza, azioni e pensieri dettati dal cuore e dalla mente
purificati dall'egocentrismo, dal risentimento, da edonismo ed
egoismo. Per il karateka la sincerità con se stesso e con gli
altri è un esercizio ineliminabile, senza il quale la pratica non
avrebbe senso. Se attraverso il Karate è possibile capire i
propri limiti e tendere ad un'analisi obiettiva dei valori etici che
riguardano le cose del mondo, la chiarezza è condizione
essenziale per intraprendere un simile percorso conoscitivo.
La sincerità richiesta nella pratica del Karate è dunque
coraggio morale.
Il Karate è Via per rafforzare la costanza dello spirito.
Significa, cioè, considerare la continuità dell'esercizio uno
strumento essenziale per affinare abilità tecniche e facoltà
interiori. Senza costanza e volontà non c'è speranza per la
crescita e la conoscenza di quelle energie individuali che solo
l'allenamento collettivo fa emergere nel suo essere interazione
e scambio fra le parti. Il rafforzamento della costanza abitua
alla sopportazione dello sforzo fisico e porta allo sviluppo, al
dispendio mirato, alla concentrazione e alla rigenerazione di
energie sottili. La continuità porta ad attribuire un significato
nuovo alla fatica giacché il potenziamento dello spirito passa
attraverso l'esercizio paziente dell'allenamento e la sua
sublimazione. Nell'allenamento costante e prolungato si attua
la ripetizione instancabile delle tecniche e nella resistenza del
karateka si intravede l'acquisizione della disciplina interiore.
Praticare il Karate seguendo una traccia spirituale significa
considerare assolutamente indivisibili l'esercizio della tecnica e
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il suo valore, in quanto mezzo per approssimarsi ad un ideale
di perfezione.
Il Karate è Via per imparare il rispetto universale.
Avere rispetto significa poter capire per amore di conoscenza
ciò che è difforme, superare gli angusti spazi di una percezione
limitata dalla contingenza e aprirsi ad un'ampiezza interiore
che può accogliere le diverse sfaccettature dei fenomeni. Nel
rispetto universale rientra necessariamente quello rivolto
all'avversario sul tatami, in quel “nobile” confronto in cui
l'incontro/scontro diventa quindi metafora della sfida che
l'individuo attua incessantemente con se stesso per conoscersi
e, valicando i propri limiti, porsi in armonia con il “Tutto”.
Rispettare significa seguire una Via che richiede fedeltà ai
principi senza incorrere nel dogmatismo impositivo. Solo così il
rispetto per ciò che risulta estraneo e diverso può diventare
consapevole accettazione delle diverse espressioni di
spiritualità che connotano l'esperienza umana.
Il Karate è Via per acquisire l'autocontrollo.
L'importanza dell'autocontrollo è assoluta nella pratica del
Karate. Autocontrollo in senso stretto significa valutare
aperture e chiusure considerando la possibilità di interazione
con l'avversario, lo spazio e il tempo. L'autocontrollo si esprime
nella facoltà di mitigare le pulsioni, non reprimendo ma
disciplinando il proprio istinto. Avere autocontrollo significa
meditare sulle azioni per l'impatto che esse possono avere
all'esterno e sedare le tensioni interiori addestrandosi al
dominio e alla neutralizzazione di una “visceralità” frutto di un
istinto non canalizzato, senza tuttavia rinunciare alla sincerità e
alla spontaneità del proprio essere. Autocontrollo, quindi, come
acquisizione di modalità comportamentali adeguate alle
circostanze, capacità di sopportazione e dominio di se stessi
anche in situazioni spiazzanti, conoscenza delle potenzialità
raggiunte ed affinate, piena coscienza della loro efficacia, ma
soprattutto consapevolezza che il fine ultimo è l'astensione
imperturbabile.
L'essenza dei principi sopra menzionati contribuisce in modo
decisivo a differenziare il Karate da qualsiasi altra disciplina
sportiva.
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2. KARATE ED EDUCAZIONE
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2.1. OBIETTIVO UOMO
La cultura occidentale si caratterizza per una ricerca
esasperata della prestazione e del successo, in ogni campo e
a tutti i costi.
Con ogni probabilità si sta perdendo di vista (forse è già perso)
il valore fondamentale dello sport con la S maiuscola: lo sport
come libera e creativa espressione del proprio corpo e della
propria mente, come strumento di sviluppo dell'individuo in
quanto tale e non solo in relazione al confronto con l'altro.
La ricerca, sotto il profilo metodologico-scientifico, è indirizzata
verso il “come” ottenere sempre più rapidamente e in modo
efficace il massimo della prestazione competitiva, mentre il
“chi”, cioè l'individuo con tutte le sue problematiche, entra in
gioco soltanto come una delle tante variabili da considerare
per ottenere comunque il risultato finale: la vittoria in gara.
L'uomo da obiettivo è divenuto un mezzo.
Le Arti marziali correttamente trasmesse possono colmare un
vuoto educativo particolarmente evidente e preoccupante
soprattutto se messo in relazione al fenomeno dell'abbandono
nel mondo giovanile. Ovvero quel rifiuto totale e definitivo che
il giovane dimostra nei confronti dell'attività sportiva in
generale, del mondo dello sport, dopo essere stato sottoposto
ad una pressione psico-fisica assolutamente inadeguata.
Abbandono di tutto ciò che non attiene e porta rapidamente al
risultato agonistico.
L'Arte marziale, nella sua autentica accezione, è sempre stato
un mezzo di crescita per l'uomo in quanto tale,
indipendentemente dalla sua età anagrafica.
L'Arte marziale ha come obiettivo, da sempre, di raggiungere
l'eccellenza per l'uomo. Il massimo sviluppo del proprio
potenziale non limitato da un settore della vita, ma a tutta la
sua possibile estensione.
Per confrontarsi con se stesso, per conoscersi e conoscere la
realtà che lo circonda, l'uomo deve utilizzare uno strumento
fondamentale: la presenza mentale.1
1
Il Maestro Francesco Cuzzocrea ha espresso in sintesi il suo pensiero in un interessante articolo
apparso sul sito Internet del Dojo Italia Seigokan. Cuzzocrea ha un'esperienza di trentacinque
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Tutta l'educazione delle Arti Marziali ruota intorno
all'educazione alla presenza.
Per essere presenti, però, non è sufficiente volerlo. Presenza
significa preparazione, affinare gli strumenti (pensiero, cuore,
corpo) che è il fine stesso del Karate-do (la Via del Karate).
Il Karate non ha lo scopo di vincere un nemico: è fatto per
lavorare ad un progetto più vasto. Si tratta di un sofisticato
strumento educativo. Oggi si confonde spesso l'educazione
con l'erudizione, il pensiero concettuale. L'uomo è bombardato
di nozioni, concetti, teorie che sempre più raramente vive sulla
propria pelle. Eppure l'autentica educazione passa prima
attraverso la pelle, attraverso il corpo prima di raggiungere la
ragione. “Tirar fuori”, permettere a ognuno di esprimere il
meglio di sé nelle molteplici situazioni della vita. Il Karate,
seppur arricchito delle nuove conoscenze metodologiche, deve
conservare il suo ruolo educativo attraverso la trasmissione
culturale che deriva dalla tradizione. La ritualizzazione
culturale, la forma (kata) non deve essere intesa
semplicemente come una sequenza codificata di tecniche, ma
un rapporto con l'ambiente, con il Maestro, con i compagni di
pratica, aver cura del dojo '.
2.2. ARTI MARZIALI E CAMBIAMENTO
In un interessante articolo Giancarlo Rossi2 esprime, in base
all'esperienza maturata nel corso degli anni, che l'interesse per
le Arti marziali non scaturisce dalla mera volontà di impegnarsi
in uno sport. Chi si rivolge alle Arti marziali, infatti, sembra
2
anni nella pratica delle Arti Marziali, attualmente insegna Seigokan Goju-Ryu Karate-do a Reggio
Calabria ed è Docente di Difesa Personale della Polizia di Stato.
Psicologo e psicoterapeuta, il Dr. Giancarlo Rossi ha iniziato un percorso associato che utilizza
l'esercizio marziale a fini antidepressivi e antistress. Collabora con il Maestro Salvatore Mezzone
presso la Kung fu Academy di Caserta. Ha scritto numerosi articoli su riviste scientifiche. Sito
Internet www.kungfuitalia.it.
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sapere, anche se solo vagamente, che esse non possono
essere equiparate ad uno sport qualsiasi o, tanto meno, ad un
hobby. Per quanto possa suonare pretenzioso, le Arti marziali
sono, piuttosto, il mezzo attraverso cui l'individuo è messo
nella condizione di acquisire un nuovo e più articolato modo di
vedere la realtà. L'interesse per questa specifica pratica, infatti,
a volte è dettato dalla necessità, interiormente avvertita, di
dare una nuova evoluzione o una svolta alla propria esistenza,
per quanto confuso possa essere questo sentimento. Si parla
di bisogno di completezza per indicare la ricerca di quel
“qualcosa” che arricchisca l'identità di cui si è già in possesso.
L'avvio di questa specifica esperienza, che si rileva poi di
grande importanza per i praticanti più assidui e di lunga durata,
ha spesso inizio da uno stato di sofferenza. La scelta stessa
sembra essere veicolata dalla necessità di raggiungere un
equilibrio più sano: la crisi in cui versa l'individuo porta ad
optare per una dimensione che si rivelerà successivamente
evolutiva.
Molti esempi confermano che gli eccessi di aggressività o
depressione, che si manifestano in ragazzi e adulti a seguito di
crisi personali, familiari, sentimentali, possono trovare nel
Karate e in genere nelle Arti marziali un modello
comportamentale in cui venire educati ad una nuova forma di
stabilità, preludio di un benessere psico-fisico-relazionale.
Il percorso esperenziale delle Arti marziali, continua il Dr.
Rossi, viene talvolta descritto dai praticanti come “duro”,
“faticoso”, “lungo”. Sembra, però, che proprio queste
caratteristiche forniscano valore aggiunto ad un iter formativo
che riguarda l'intera persona, piuttosto che un aspetto limitato
di essa. Quello affrontato è, a ben vedere, un percorso che ha
richiesto sacrifici ed impegno, in cui la persona ha investito
notevoli energie; la conseguenza di questo lavoro è
rappresentata dal forte e positivo impatto sulla vita di chi lo ha
intrapreso, che costituisce la forza motrice per proseguire
ancora in quel cammino.
L'esperienza del Karate, tuttavia, non è prerogativa esclusiva
del singolo, ma è piuttosto un'attività che pone il singolo a
contatto con altre persone in un contesto interattivo di crescita
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collettiva.
Nel Karate l'altro è soprattutto un elemento di comparazione,
un “altro corporeo”, una presenza in carne ed ossa con cui
avviene un contatto fisico, con cui interagisce attraverso il
movimento, ancor prima che con la parola. L'obiettivo
fondamentale resta, comunque, il miglioramento di sé. Il
rapporto con l'altro, quindi, è fondato sulla necessità di una
crescita personale che viene regolamentato da tecniche che,
attraverso il sentire col corpo, sono volte a potenziare l'aspetto
evolutivo della relazione. Infatti nelle Arti marziali sentire
meglio se stessi permette di sentire meglio l'altro e viceversa.
In buona sostanza, attraverso la pratica del Karate l'evoluzione
personale viene a coincidere con una contemporanea
evoluzione delle relazioni interpersonali.
Le Arti marziali permettono al singolo di educare aspetti propri
della persona, talvolta vissuti con un senso di inadeguatezza,
in vista di un utilizzo più funzionale degli stessi e in virtù di una
crescente consapevolezza di sé.
Giancarlo Rossi espone un interessante parallelo fra Arti
marziali e psicoterapia. Se tale “processo di educazione” in
psicoterapia si attua attraverso il dialogo verbale tra paziente
ed un esperto, nel Karate ciò si verifica tramite una sorta di
dialogo di movimenti corporei tra allievi e Istruttori. Ad ogni
modo, è proprio questo dialogo, fra quel che si è e ciò che
l'altro propone, ad infondere nuove traiettorie all'esistenza di
una persona.
Il cambiamento del singolo, in genere, è dato in gran parte da
schemi nuovi appresi all'interno di contesti relazionali nuovi. La
relazione, quando realmente significativa ed evolutiva, non
diviene più un campo in cui agire un ruolo stereotipato, ma
piuttosto una sorta di microscopio che permette di vedere se
stessi e gli altri, quindi di intervenire in maniera più funzionale
nelle relazioni.
Nel percorso marziale, dunque, la relazione non è più una
messa in scena incondizionata di modelli comportamentali
appresi in passato, ma un campo dove è possibile dedicarsi
alla crescita personale, proprio a partire dal confronto. In
questo modo aspetti difensivi o caratteriali come la timidezza o
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l'aggressività, trovano un mezzo per evolvere in forme più
funzionali e gratificanti, anziché stagnare nella persona fino ad
inquinarne l'esistenza.
Le esperienze relazionali, tuttavia, si inseriscono sempre
all'interno di un percorso che ha un “prima” e un “dopo”, perciò,
pur apportando nuovi elementi, vanno sempre inquadrate
all'interno di un'identità con una sua propria continuità nel
tempo.
Il “nuovo” rende possibili articolazioni diverse del “vecchio”, ma
non un cambiamento tout court. Ciò perché è la struttura
preesistente a riconoscere e introdurre i nuovi elementi insiti in
un'esperienza rendendoli attivi. I nuovi aspetti introdotti
permettono al “vecchio” di declinarsi in modi diversi dal
passato e, quindi, di modificare il proprio repertorio
comportamentale e relazionale.
L'esperienza del Karate (e delle Arti marziali) deve essere
sempre inserita all'interno di un percorso individuale specifico,
poiché per ogni praticante avrà una diversa risonanza interiore
ed un diverso significato. Comunque offrirà a tutti i praticanti la
possibilità di arricchire la propria personalità e di apprendere
nuovi modi di essere.
Inoltre ogni persona è costituita da un insieme di diversi
contesti relazionali, che vanno da quello familiare, amicale,
lavorativo, eccetera. Quel che evolve a seguito di
un'esperienza profondamente formativa, dunque, non è solo il
sé dei singoli, ma i sistemi stessi di persone che a quel sé
sono legati. Importare in un contesto la soluzione
comportamentale scoperta altrove, è un modo per condividere
la possibilità di nuovi percorsi funzionali.
Allora non è azzardato affermare che una profonda e duratura
esperienza nella pratica del Karate può consentire agli
individui di attuare gli insegnamenti appresi anche nella vita di
tutti i giorni. Le tecniche marziali, quindi, si mostrano non fini a
se stesse né propedeutiche al combattimento, ma portatrici di
un equilibrio e di un'armonia interiori che si riverberano sui
diversi aspetti dell'esistenza.
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2.3. EDUCAZIONE FISICA (DAI SEI AI NOVANT'ANNI DI
ETA')
Il Karate-do implica un metodo di combattimento senza armi.
Ma lo scopo ultimo dell'Arte marziale è migliorare il proprio
carattere ed elevare il proprio spirito attraverso lo studio di
tecniche fondamentali (kihon), della forma (kata), del
combattimento (kumite) che riguarda l'uso di pugni, calci, leve
articolari e proiezioni, nonché l'uso del corpo negli spostamenti
in tutte le direzioni. Con l'allenamento si pratica un'ottima
educazione fisica finalizzata allo sviluppo della forza,
dell'equilibrio, della velocità, della coordinazione generale e
speciale. Infatti il Karate, con le sue tecniche, coinvolge la
quasi totalità della muscolatura.
Inoltre, attraverso l'allenamento, si impara a conoscere più
profondamente se stessi, a capire gli altri, a maturare una
maggiore sicurezza nelle proprie capacità e a sviluppare una
personalità più equilibrata. E poi una comprensione del Karate
consente una valida capacità di difesa personale.
Insomma il Karate, nella sua secolare esperienza, ha
formulato metodiche particolarmente efficaci per lo sviluppo di
capacità attraverso uno specifico e costante addestramento
che è la base primaria per una difesa personale. Previsione
del pericolo, capacità di sottrarsi alle aggressioni evitando il
pericolo, capacità di difendersi efficacemente dal pericolo in
qualsiasi circostanza3.
3
Il Karate nasce a Okinawa dove il combattimento a mano nuda conobbe una rigogliosa fioritura
durante i periodi di oppressione in cui, alla popolazione, era vietato il porto d'armi. L'isola subì, nel
XV secolo, la dominazione cinese, durante la quale, per prevenire le rivolte, vennero vietate tutte
le armi. Gli abitanti si accinsero allora a perfezionare le antiche tecniche di combattimento a mano
nuda, mutuati dalle “arti del pugno” cinesi. Poi, all'inizio del XVII secolo, Okinawa fu conquistata
da un signore feudale giapponese che mantenne a sua volta il divieto delle armi. Per essere in
grado di difendersi contro l'occupante armato, gli abitanti di Okinawa lavorarono intensamente al
combattimento a mano nuda. Fu un addestramento compiuto clandestinamente, a piccoli gruppi
all'interno dell'isola. Nel corso del XIX secolo ebbe luogo l'assimilazione di Okinawa alla cultura
giapponese e il significato delle tecniche di combattimento si modificò. Con il primo 900 fu
riconosciuto il valore educativo del cosiddetto “okinawa-te” e venne presa la decisione di
insegnarlo addirittura nelle scuole. Fu il grande Maestro Funakoshi, che ebbe l'incarico di
insegnare queste tecniche in alcune Università giapponesi, a coniare il termine “Karate”: mano
vuota, cioè una dimensione più ampia che riguarda lo stato d'animo richiesto alla pratica del
Karate. Più avanti il Maestro Funakoshi aggiunse la nozione di “do” (Via o cammino) imponendo
alla pratica una vera e propria trasformazione qualitativa. L'arte marziale denominata Karate-do fu
18
Per raggiungere tanto, il Karate si preoccupa di formare il
praticante attraverso una serenità interiore che gli consente di
valutare opportunamente le alternative che si presentano,
contribuendo attraverso l'esercizio fisico a tenere ben lontano il
pericolo più importante: la malattia.
Il Karate è quindi sinonimo di vita sana e serena.
Il Karate è una forma di Educazione fisica che si attua con la
pratica e la competizione, è una disciplina che fa uso di tutte le
parti del corpo nel modo più scientifico possibile, è una pratica
che porta alla crescita dell'equilibrio psico-fisico. Infatti, oltre ad
un miglioramento delle capacità prettamente fisiche del
soggetto attraverso l'apprendimento e la ripetizione
(scientifico-razionale) di svariate forme di esercizi, i praticanti
si impadroniscono degli strumenti per proseguire la crescita e
raggiungere un proprio equilibrio.
Inoltre avviene gradualmente una crescita del livello di
esecuzione degli esercizi stessi; la conoscenza diviene più
dinamica , si acquista una maggiore padronanza di sé e del
proprio corpo con benefici estendibili alla persona nella sua
globalità.
Tramite l'Educazione fisica l'individuo comprende l'importanza
della collaborazione con il gruppo e trasferisce questo spirito,
caratteristico della sfera sportiva, in ambito sociale. La persona
che ha seguito correttamente una forma di Educazione fisica
ha molte probabilità di essere un soggetto socialmente buono,
adatto a svolgere un ruolo positivo nei rapporti con gli altri
anche al di fuori della sua attività sportiva specifica.
Il Karate, da questo punto di vista, non fa eccezione. Anzi, si
può aggiungere che le caratteristiche di sacrificio, serietà,
dedizione, intelligenza creativa dei suoi praticanti, può
collocare questa Arte marziale fra le forme di attività fisica più
educative, ad ogni livello di età o condizione.
Tant'è che non è così importante e decisivo il raggiungimento
di una certa meta, ma il modo e lo spirito con cui si procede
lungo la Via della propria conoscenza.
E si definisce “Marziale” (cioè la richiesta e necessità di un
accettata dagli altri Maestri e fu esportata, a poco a poco, in tutto il mondo occidentale.
19
comportamento corretto e disciplinato) un' “Arte”, ovvero
l'adattamento delle tecniche apprese alla propria costituzione
fisica, alla propria maturità, senza limitazioni anagrafiche.
Il Karate è un'attività fisico-motoria completa e simmetrica,
sviluppa armonicamente tutta la muscolatura, contribuisce al
miglioramento dell'elasticità muscolare, dell'equilibrio, della
coordinazione neuro motoria.
Per questa ragione è una disciplina indicata per tutti, ragazzi e
ragazze dai sei ai ….. novant'anni di età!
2.4. IL KARATE E LE DONNE
Negli ultimi anni si sta verificando un'inversione di tendenza
che, finalmente, smentisce l'errata convinzione che il Karate
sia una disciplina riservata esclusivamente ad un pubblico
maschile. Sempre più donne di ogni età si avvicinano e si
appassionano al Karate, ma sono ancora molte che ne restano
lontane perché influenzate da pregiudizi e informazioni errate.
Nell'immaginario collettivo persiste ancora la convinzione che,
in generale, le Arti marziali siano esibizioni di forza bruta
evidenziando inoltre, in maniera senz'altro riduttiva, il solo
aspetto legato alla difesa personale.
Le tecniche apprese insegnano a non opporre mai forza alla
forza, ma a sfruttare l'attacco dell'avversario per neutralizzare
la pericolosità. L'allenamento costante favorisce l'acquisizione
di un corpo sano, flessibile, accresce la fiducia in se stessi
conferendo calma e serenità rendendo così inutile ogni
esibizione di forza. Non c'è mai brutalità né violenza, piuttosto
sincerità, rispetto, autocontrollo e continuo sforzo di automiglioramento e crescita interiore.
E' già stato accennato come il Karate non sia solo pratica fisica
ma una disciplina “psico-fisica” in cui si avverte il legame
causale fra movimenti del corpo e la propria personalità ed è
per tutti – uomini e donne – un'occasione per iniziare un
viaggio alla scoperta di se stessi. Praticare Karate significa
innanzitutto spogliarsi del vissuto quotidiano (pregiudizi, ansie,
20
maschere, paure) per superare i propri limiti, imparare a
credere nelle proprie capacità e avere in mente che il primo
avversario è sempre e solo dentro di noi.
Da questa considerazione è facile comprendere che il Karate è
adatto a tutti e durante l'allenamento non importa se di fronte si
ha una donna o un uomo. Nella pratica si annullano le
differenze poiché il fine è comune: la dimensione corpo-mente,
il rispetto e il progresso comune.
Uno dei falsi miti vuole le donne fisicamente inadatte alla
pratica delle Arti marziali. Se è vero che gli uomini sono per
natura più forti, le donne sono generalmente più veloci e
dotate di maggiore ampiezza articolare, caratteristiche ben più
importanti della forza nel Karate. Inoltre per contestare l'errata
convinzione che la prativa del Karate possa compromettere la
femminilità, basterebbe osservare le ragazze che si allenano
nel dojo.
Con ogni probabilità sono le parole di Maria Luisa Brandi4 che
sanciscono alcuni concetti basilari e chiudono l'argomento in
questione: “Qualcuno si arrabbierà, ma diciamo la verità: meno
danza classica e più atletica, meno cavallo e più Arti marziali,
meno sci e più nuoto. Bambine, l'800 è finito, ditelo ai vostri
genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura
muscolo-scheletrica e un fisico equilibrato. Per una ragazza è
essenziale imparare le Arti marziali: oltre al fatto che servono
all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono
discipline complete, danno una concentrazione straordinaria,
fiducia in se stesse, senso dell'equilibrio e concezione dello
spazio che sono anche i requisiti primi dell'eleganza e del
portamento”.
2.5.
UNO STRUMENTO EDUCATIVO PER RAGAZZI
DIVERSAMENTE ABILI
4
Maria Luisa Brandi, endocrinologa, Docente presso la Facoltà di Medicina dell'Università degli
Studi di Firenze, è tra i massimi esperti in Italia in materia di Osteoporosi e Medicina dello Sport.
Le parole citate sono tratte da un intervento tenutosi nell'ambito del 2° Congresso di Medicina
dello Sport a Uliveto Terme nel Luglio 2003.
21
Nel corso degli ultimi anni vi è stata una progressiva
sensibilizzazione
sulle
problematiche
dei
soggetti
diversamente abili e della loro integrazione nel contesto
sociale.
Facendo riferimento ad alcuni articoli firmati da Laura Bortoli e
Ofelio Michielan, l'Associazione Ren Bu Kan Karate di
Conegliano5, nelle fattispecie, è stata teatro di iniziative in
questo senso (soprattutto rivolte a bambini), in maniera tale da
poter acquisire modelli di comportamento e ruoli affermativi
(spesso negati in quanto sempre dipendenti dagli altri) che
contribuiscano a costruire un'immagine di sé utile ad affrontare
in modo sempre più positivo la propria esperienza.
Non è necessario affrontare realmente un combattimento
(kumite): spesso non è neanche possibile a causa delle
complesse implicazioni coordinative e tecnico-tattiche che un
confronto del genere presuppone.
Nonostante ciò, afferma il Maestro Michielan, sono migliorate
le capacità di autocontrollo ed il senso di autonomia personale
sia nell'affrontare la lezione in palestra, sia nel contesto
quotidiano della vita. Se a ciò hanno contribuito il
consolidamento delle capacità motorie e la soddisfazione di
vedere concretamente progressi di apprendimento (soprattutto
nel kata) con conseguente incremento della sicurezza
personale, si è pure rivelato momento importante anche la
semplice espressione vocale del kiai6, occupazione di spazio
sonoro che diviene spazio simbolico di affermazione di sé
5
6
L'Associazione Ren Bu Kan ha lo scopo di propagandare il Karate come mezzo di formazione
fisica e morale, promuovendo ogni forma di attività agonistica ed associativa secondo le idee, lo
spirito e i fini del Karate tradizionale.
La Prof.ssa Laura Bortoli, Docente di Teoria e Tecnica dell'Attività motoria adattata presso
l'Università di Chieti-Pescara ha fornito molti interessanti contributi bibliografici soprattutto sul
rapporto Allenatore/Atleta e sulla preparazione mentale nello Sport.
Il Maestro Ofelio Michielan, 63 anni, cintura nera 6° dan, ex Allenatore della Nazionale FIKTA
(Federazione Italiana Karate Tradizionale), tiene periodicamente stage in diversi Paesi del
mondo. Ha fondato l'Associazione Ren Bu Kan promuovendo, anche in forma di volontariato,
corsi propedeutici volti all'insegnamento dei bambini e ragazzi diversamente abili, in particolare
affetti da sindrome di Down.
Ki = mente/forza psichica – Ai = unire. Kiai = unire la mente, le energie psichiche (con il corpo).
Questo grido non deve esser prodotto dalle sole corde vocali, bensì deve provenire dal basso
addome, dal ventre (hara) centro del Ki e della vita nella concezione orientale del mondo. Si
emette un suono forte contemporaneamente all'esecuzione di una tecnica.
22
nell'ambiente e sull'universo.
Inserire ragazzi disabili in un gruppo rende necessario
sensibilizzare i genitori degli altri compagni di pratica
all'importanza della funzione umana e sociale e al profondo
valore educativo-integrativo, che abitua ad una diversa e più
responsabile modalità di relazione con l'altro.
Nel primo periodo, esprime ancora il Maestro Michielan, non
sono mancate difficoltà: per esempio nello svolgimento delle
lezioni il ritmo di lavoro poteva subire un rallentamento, i
ragazzi down richiedevano tempi più lunghi per
l'apprendimento di nuovi gesti; oppure si verificavano, talvolta,
da parte loro atteggiamenti di rifiuto che il Maestro doveva
gestire al meglio.
L'inserimento in un gruppo è una situazione complicata anche
per lo stesso soggetto diversamente abile, soprattutto quando
esiste il lui la coscienza della propria inadeguatezza rispetto
alle richieste dell'ambiente.
Chi è portatore di handicap ha sperimentato sovente, nel corso
della propria vita, situazioni di difficoltà, incapacità, insuccesso
e la consapevolezza dei propri rilevanti limiti può portare a
rinchiudersi in sé, ad evitare situazioni nuove per non rischiare
il confronto con gli altri e un nuovo insuccesso.
Se la disciplina del Karate può svolgere un ruolo importante
nell'esperienza di qualsiasi individuo, si è rivelata, proprio per
le sue caratteristiche specifiche, importantissima sul piano
pedagogico anche per i ragazzi down, non solo ai fini
dell'incremento e consolidamento delle capacità motorie. Infatti
un aspetto determinante nella pratica del Karate è
l'apprendimento delle tecniche fondamentali e della loro
combinazione
in
momenti
successivi
(kata).
Se
nell'apprendimento delle singole tecniche è fondamentale
l'aspetto coordinativo-motorio (il controllo del gesto nelle sue
componenti
dinamiche
e
spazio-temporali),
nella
memorizzazione della forma (kata) entrano in gioco anche
aspetti specificatamente cognitivi.
La pratica del Karate contribuisce, dunque, a sollecitare
l'impegno cognitivo: nei casi di insufficienza mentale può
costituire una possibilità di realizzare o continuare processi di
23
apprendimento, in situazione (palestra) emotivamente
coinvolgente e motivante.
Tant'è che le difficoltà incontrate inizialmente gradatamente
scomparivano, conclude Laura Bortoli: il ritmo delle lezioni si
normalizzava, si riscontravano nuovi apprendimenti anche di
gesti via via più complessi; dopo sei mesi è stato possibile far
sostenere a tutti i ragazzi del gruppo le prove di verifica del
grado di apprendimento raggiunto. Naturalmente, col
trascorrere del tempo si evidenziavano anche i limiti della
situazione, poiché si allargava il divario, dal punto di vista
tecnico e motorio, tra i ragazzi down e i loro compagni. E' stato
ritenuto utile, pertanto, un loro inserimento in un gruppo di
amatori, così da offrire comunque l'opportunità di proseguire
questa esperienza di crescita personale e integrazione.
Relazionare con soggetti portatori di handicap, infine, risulta
problematico sia per la generica difficoltà di comunicare con
persone che sentiamo “diverse”, sia per l'assenza di
competenze
pedagogiche
specifiche.
Eppure
un
atteggiamento di disponibilità umana, di ascolto e
osservazione, la capacità di differenziare e individualizzare
l'insegnamento sono elementi fondamentali di ogni relazione
pedagogica: di quella tra Allenatore e Atleta (in un contesto
tecnico-competitivo), di quella con il ragazzo diversamente
abile praticante di Karate (essenzialmente educativa).
3. AGENZIE DI SOCIALIZZAZIONE
24
3.1. UN'ECCEZIONE CHE CONFERMA LA “REGOLA”
Le Agenzie di socializzazione sono quelle istituzioni presenti
all'interno della società che hanno un ruolo determinante nei
processi di organizzazione, regolamentazione, sviluppo e
mantenimento dei gruppi e che ne garantiscono integrità e
coesione.
La famiglia è la più importante Agenzia di socializzazione, in
quanto in essa si costruiscono i primi legami affettivi e si
interiorizzano le norme e i valori più elementari. Viene definita,
per questa ragione, “socializzazione primaria” dove il bambino
trova affetto, protezione, modelli e basi comportamentali
semplici.
La scuola rappresenta il secondo step di socializzazione
inquadrandosi in un ambito più formale dove si acquisiscono
ruoli più istituzionalizzati e competenze specifiche. Si parla in
questo caso di “socializzazione secondaria” proprio perché è
riferita ad un contesto più complesso, esterno all'ambito
familiare dove i ruoli assumono una valenza formale.
E' superfluo affermare che oggigiorno, nella cosiddetta civiltà
post-industriale, si assiste ad un inarrestabile disgregarsi
dell'organizzazione sociale causato dal mutato stile di vita e
alla inconsapevole mancanza trasmissione di valori in
particolare da parte della famiglia, che costituisce per l'essere
umano il primo contatto con la realtà e la sua prima forma di
socializzazione. La famiglia che dovrebbe rappresentare il
fondamento per un corretto sviluppo della personalità, il luogo
sicuro dove potersi rifugiare dopo le “sconfitte” durante il corso
dell'esistenza, sta perdendo (in molte circostanze) il proprio
ruolo essenziale, insostituibile. Un compito, tuttavia, che può
esser colmato da altre Agenzie di socializzazione forti e
concrete, attraverso le quali vengono favoriti aggregazione,
condivisione di ideali, acquisizione di valori, focalizzazione al
meglio dei propri obiettivi.
Un esempio calzante di questa “socializzazione secondaria” è
lo sport che risponde al bisogno di acquisizione di valori e,
soprattutto, l'interiorizzazione di “regole”. E se le regole
assumono talvolta un significato impositivo, prescrittivo,
25
vessatorio, in realtà (inconsciamente) tutte le persone hanno
bisogno di regole circa il “cosa fare”.
Lo sport generalmente garantisce un corretto equilibrio
psicologico e relazioni sociali stabili tramite regole formali.
Anche se, in mancanza di risultati agonistici e aspettative
parzialmente disattese del gruppo, lo sport può divenire causa
di tensione, stress, paura e sentimento di inadeguatezza
soprattutto nei soggetti più giovani ancora emotivamente
troppo fragili che si devono confrontare con una realtà non in
linea con la propria volontà di realizzazione. Tutto ciò provoca
una forma di disagio psico-sociale che può sconfinare nel
rifiuto e nell'abbandono della disciplina.
Il Karate e, in genere, le Arti marziali costituiscono
un'eccezione.
Nella pratica delle Arti marziali l'individuo sviluppa innanzitutto
una grande consapevolezza del proprio io e innesca una serie
di reazioni positive dovute al fatto che il Karate, nella sua più
tradizionale accezione, non concepisce la vittoria/sconfitta
contro un avversario/nemico, ma piuttosto “vincere se stessi”.
Un antico proverbio orientale recita: “Chi riesce a vincere se
stesso è più potente di chi conquista un'intera città”.
Il significato è che la persona umana ha un potere illimitato.
Ovvero ha soltanto i limiti che esso stesso si pone. L'individuo
è talmente potente che riesce persino a limitare o sopprimere il
proprio potenziale.
Quando si pratica il Karate c'è aggregazione, amicizia, spirito
di gruppo, condivisione di ideali, la passione per l'Arte
marziale, l'obiettivo di migliorare la propria tecnica e “vincerecon”, la certezza di un punto di riferimento: il Maestro e i
compagni di allenamento.
Quindi è possibile affermare che il “sistema” Karate costituisca
una vera e propria efficiente Agenzia di socializzazione in cui
sarebbe auspicabile la presenza attiva di genitori, parenti,
amici.
3.2. ARTI MARZIALI E NEGOZIAZIONE
26
La capacità alla disponibilità significa anche comprendere,
cercare con impegno di superare le inevitabili difficoltà che si
presentano in tutti gli ambienti della convivenza quotidiana. Le
Arti marziali sono “conoscenza di se stessi”, dell'avversario e,
più in generale, delle persone con con cui si interagisce. Si
intende cioè una difesa proporzionata all'offesa, una reazione
proporzionata all'azione. Pur raggiungendo l'obiettivo
dell'incolumità, tiene in considerazione la salvaguardia, per
quanto possibile, dell'altra persona che viene rispettata come
essere umano.
Il Karate (e in genere le Arti marziali) è uno strumento per
affinare l'abilità della negoziazione.
Una metafora per la negoziazione e uno strumento formativo
esperenziale.
Se per negoziazione si intende sostanzialmente l'atto di
effettuare una trattativa che abbia come fine il raggiungimento
di un accordo (indipendentemente dal contesto) che sia
possibilmente soddisfacente per le due parti, l'atto del
negoziare prevede spesso il saper dire di “sì” e di “no” al
momento giusto e proporre sempre qualche alternativa alla
controparte. Non lasciare l'avversario “con le spalle al muro”
poiché un animale ferito combatte più ferocemente e sarà
meno incline all'accordo.
Negoziare attraverso le Arti marziali porta a dire “sì”, poi “no”,
poi “sì?”7. In altre parole “sì” a se stessi, “no” all'avversario,
“sì?” ancora all'avversario.
In primo luogo dire “sì” all'integrità fisica, all'equilibrio fisicomentale, alla calma e serenità, alle convinzioni personali.
In secondo luogo dire “no” all'aggressione e aggressività di un
avversario, non accettazione di qualsiasi atto intimidatorio.
Scendere a compromessi è come accettare un attacco: è in
gioco l'integrità fisica. La merce di scambio per negoziare si
chiama determinazione, equilibrio, preparazione psico-fisica.
Infine, dopo il “no” c'è un'offerta, una controproposta che
7
Il modello in questione fa riferimento a “Il potere di un positivo No: come dire No e ancora arrivare
al Sì” di William Ury. Il Prof. Ury dirige il Global Negotiation Project presso l'Università di Harvard
e opera da trent'anni come mediatore in ambito aziendale e politico.
27
rispetta le necessità dell'altro.
La reazione al turbamento di un equilibrio non sarà di tipo
distruttivo, non è un secco “no” che non lascia vie d'uscita. E'
un “no” che che lascia spazio al dialogo, all'accordo ricercato
tra le parti, che tende a riequilibrare. In altre parole, a
neutralizzare un aggressione utilizzando, se possibile, la
stessa forza dell'avversario causando il minor danno possibile,
rispettandolo.
Le Arti marziali sono pratica.
Il primo passo sarà comunque rivolto ad un lavoro sul proprio
corpo, sulla postura, sulle rigidità che non sono altro che lo
specchio della mente.
Il secondo passo fondamentale è lavorare sulla capacità di
ascolto, inteso come la capacità di percepire e capire le
intenzioni dell'avversario. Ciò si ottiene attraverso il contatto
fisico, lavorando a stretto contatto con l'altra persona tramite
una serie di esercizi propedeutici alle applicazioni più reali.
“Uno parla, l'altro ascolta” e viceversa.
3.3. AUTONOMIA E RELAZIONE
Nella pratica del Karate il gruppo è il contesto umano nel quale
si realizza l'allenamento. Si pratica in gruppo e si eseguono
tecniche sia a livello individuale che a squadre (vedi kata) in
cui la partecipazione e l'armonica coordinazione del gruppo
costituisce il valore fondamentale della tecnica. Perciò si deve
diventare flessibili per mediare le differenze individuali nel
collettivo, che prevale sull'individualità, pur non essendo
quest'ultima negata o repressa. Anche nel combattimento a
squadre (kumite) si forma un senso di appartenenza al gruppo
in quanto il successo finale dipende dall'apporto di tutti i
componenti del gruppo stesso.
L'autonomia è la capacità di essere-solo, stare-solo, fare-solo
e si sviluppa partecipando attivamente e di persona
all'allenamento. L'essere-solo è la condizione in cui il karateka
si trova quando pratica l'Arte marziale, durante la quale
28
sviluppa la capacità di separare il mondo esterno dal mondo
interno, l'atteggiamento di ascolto interiore. Il Karate, essendo
praticato con il corpo, può essere eseguito soltanto in prima
persona sviluppando la funzione psicologica del fare-da-solo
come una condizione necessaria per apprendere e crescere. Il
praticante coglie la sua umanità ed i suoi limiti: si rende conto
della necessità dell'altro per soddisfare i bisogni e per
realizzare pienamente se stesso. Con l'autonomia si realizza,
nella relazione con l'altro, la condivisione e la collaborazione
costruendo un bene comune senza cadere nello sfruttamento
e nel parassitismo servile.
La relazione si stabilisce, durante la pratica del Karate-do, con
il saluto e si realizza nel rapporto con il Maestro e i compagni
del dojo.
Il combattimento è un altro momento importante in cui si
sperimenta l'autonomia e la reciprocità nella relazione. In
questa esperienza ogni praticante è solo con se stesso ma
comprende, allo stesso tempo, che senza l'altro non sarebbe
possibile combattere. Per realizzare il combattimento marziale
è necessario collaborare, condividere, cooperare: proprio il
contrario dello scontro violento.
3.4. LA GESTIONE DEL CONFLITTO QUOTIDIANO
Tra gli obiettivi educativi conseguibili con le attività marziali è
lecito inserire quello della complessa gestione dei conflitti nella
vita quotidiana.
La famiglia e la società tendono ad insegnare due strategie
errate per la gestione del conflitto: quella aggressiva passiva
(fuga, menzogna, manipolazione, sarcasmo) e quella
aggressiva (critica, offesa, insulto, umiliazione, violenza fisica).
La terza modalità, definita “assertiva”, si basa su una buona
comunicazione. E' aperta, onesta, diretta, paritaria. Assertivo è
un approccio che mette in condizione di gestire in modo
positivo e costruttivo i rapporti interpersonali. E' una tecnica
che può essere appresa e, con la pratica, diviene una capacità
29
che può essere migliorata.
E' assertiva una persona in grado di comunicare senza troppe
paure il proprio vissuto, adottando un linguaggio fisico e
verbale non aggressivo, esporre il proprio punto di vista senza
sopraffare quello degli altri, sapendo che la verità è merce rara
e quasi mai appartiene esclusivamente ad una persona.
Tendere ad una soluzione che si avvicini il più possibile ai suoi
obiettivi (senza aggressività) rispettando i desideri e gli obiettivi
degli altri. Valutare le persone in maniera attiva, ascoltare
come parlano e come si esprimono, ma anche osservare
l'atteggiamento corporeo al fine di comprendere le loro reali
intenzioni. Assumersi le proprie responsabilità con coraggio e
consapevolezza dei propri limiti.
Tutti questi comportamenti possono essere meglio adottati e
più efficacemente agiti, se si fondano su valori etici del rispetto
degli altri, della tolleranza, dell'empatia. Se non vi è questa
base etica, la pratica di questo agire non sarebbe sostenibile in
tempi lunghi poiché richiederebbe la continua ristrutturazione
dell'agire rispetto a valori etici discordanti da essa.
Risulterebbe troppo impegnativo e logorante; se invece vi è
una consonanza con i valori etici, l'azione diventa connaturata
e spontanea, senza costi aggiuntivi.
Una persona assertiva è in grado di mantenere una condizione
psicologica di rilassamento, conseguenza di una buona
autostima.
Una delle ragioni più frequenti nello sviluppo del conflitto è che
viene vissuto come competizione, come una gara con un
vincitore e un perdente, e non come l'espressione di bisogni
apparentemente divergenti. Non a caso oggigiorno assistiamo
continuamente a dibattiti-scontri nei quali prevale l'obiettivo di
affermare la propria “verità” e la “falsità-delegittimazione” della
posizione dell'avversario.
L'assertività, invece, non vuole imporre la propria “verità” ma
punta a comportamenti collaborativi, con l'obiettivo di
concludere il conflitto con soluzioni condivise di reciproca
soddisfazione: una condizione definita vincitore/vincitore
(win/win).
In generale la gestione del conflitto passa attraverso varie
30
“azioni”.
In primo luogo accettare il conflitto come parte della natura
umana e riconoscere l'esistenza del conflitto quando si
manifesta (non negarlo). Poi entrare in conflitto con la
consapevolezza di un'occasione per sviluppo e crescita.
Riconoscere, valutare l'importanza del conflitto e adeguarsi ad
esso, essere consapevoli che il conflitto non è la persona,
mantenere la giusta distanza.
Tutte questi approcci sono sperimentabili attraverso il Karate
(e le Arti marziali) insieme ai loro valori aggiunti costituiti dalla
capacità di autocontrollo e gestione delle tensioni attraverso
una consapevole autostima e l'uso della respirazione.
Ascoltare le motivazione dell'altro, equivale fisicamente
all'unione, al guardare nella sua stessa direzione, ad entrare
nei suoi panni, a prendersi cura dell'avversario.8
Non interrompere l'altro, cioè lasciare fluire la sua azione, non
bloccarla ma assecondandola verso il proprio obiettivo etico
principale, che non è la propria vittoria bensì il ripristino
dell'armonia.
Dialogare con l'altro nella ricerca di un punto di equilibrio
comune: in termini fisici significa unirsi all'avversario cercando
un centro comune (relazione franca e rispettosa).
Tendere, infine, a una soluzione assertiva (win/win) e il Karate,
come generalmente tutte le Arti marziali tradizionali,
rappresenta il modo più assertivo per la gestione di uno
scontro fisico.
Il benessere psicologico dipende anche dal ruolo che svolgono
Insegnanti, Istruttori, Maestri i quali non possono limitarsi
all'insegnamento delle tecniche, ma piuttosto
devono
assumere un compito formativo importante.
Mahony9 mette in guardia dai rischi derivanti dall'esclusiva
formazione tecnica: “Adolescenti, identificati come delinquenti,
8
9
Vedi Cambi in “La cura in Pedagogia – note critiche” in Corso di Perfezionamento 2008-09
Università degli Studi di Firenze – Facoltà di Scienze della Formazione; Boffo – Torlone (a cura
di) “L'inclusione sociale e il dialogo interculturale nei contesti europei” Firenze 2008.
Alessandro Mahony, psicologo e Docente presso l'Università degli Studi di Brescia, studioso e
praticante di Arti Marziali, ha prodotto interessanti pubblicazioni e articoli sul tema della Psicologia
dello Sport sia in ambito di ricerca che di intervento e sull'attività sportiva (nella fattispecie il
Karate) sotto il profilo educativo, pedagogico, psico-terapeutico.
31
che avevano seguito per sei mesi un corso di taekwondo
tradizionale (con tecniche di meditazione, brevi letture sulla
disciplina stessa praticata, apprendimento delle tecniche
fisiche) mostravano un decremento dell'aggressività e
dell'ansia
con
incremento
rilevante
di
autostima.
Contrariamente, in un altro gruppo che aveva seguito un corso
di taekwondo moderno (solo tecniche fisiche), i ragazzi
mostrarono un'aumentata tendenza alla delinquenza e un
aumento dello stato di aggressività”.
4. FORMAZIONE E MAESTRO
La maggior parte delle persone passa più tempo ad
apprendere e ad insegnare che a produrre beni e servizi. Dopo
32
il sonno, la formazione è la prima attività della nostra società.10
Si potrebbe considerare legittimo parlare della società attuale
come di una società formativa. Con ciò non si vuole intendere
che la società si spiega attraverso il modello formativo, ma
semplicemente che questo fenomeno ha invaso la maggior
parte delle attività della vita, del lavoro, del tempo libero. Con
la formazione dunque dobbiamo necessariamente fare i conti
nel percorso quotidiano.
L'azione formativa oggi, rispetto al passato, concerne piuttosto
un campo di azioni complesse che incrociano diverse
performance: di informazione, di simbolizzazione, di
addestramento, di propaganda, di cultura, di educazione, fino
ad arrivare alle azioni terapeutiche e politiche.
L'introduzione di un sistema formativo si riconosce nei nuovi
processi professionali e organizzativi che vengono messi in
atto. Con la formazione si passa da una struttura professionale
istituzionalmente legittimata ad una socialmente riconosciuta.
Assieme ai formatori legittimati (per esempio gli Insegnanti)
troviamo formatori occasionali, consulenti, coloro che
intervengono nelle attività no profit e di assistenza, i
professionisti del lavoro, i professionisti della cura del
quotidiano.
Il superamento attuale dei precedenti modelli (strutture
gerarchiche tra le persone, tra i saperi e le professioni) ha
permesso la ricomposizione tra il sapere e il fare, tra il sapere,
l'essere e il fare. In questo senso l'azione non è più
necessariamente dipendente dal sapere, ma è sapere esso
stesso. E governare questo “sapere” significa accedere alla
formazione.
Il soggetto non viene più “addestrato a”, piuttosto si “forma a”,
si “forma con”, si “forma per”. Con la formazione, la
soggettività stessa diventa autrice dell'apprendimento e del
cambiamento. In questo senso il soggetto non è più
manipolato dai contenuti, ma entra in relazione con la materia
attraverso la mediazione del formatore.
10
Jacky Beillerot, Professore emerito all'Università di Parigi, Docente si Scienze dell'Educazione,
membro del Consiglio Nazionale dell'Innovazione di Francia. Vedi “La società pedagogica” PUF
Parigi 1984.
33
Il sapere, quindi, non è più oggetto di un passaggio diretto
Maestro – Allievo, ma piuttosto relazione tra Maestro –
Sapere/Pratica – Allievo.
Il superamento del modello duale (dipendenza) con il rapporto
triangolare (scelta, decisione, consapevolezza) sono alla base
della concezione formativa.
Non è dunque il possesso del sapere che caratterizza il
rapporto del Maestro con il suo allievo, ma la qualità di
relazione di sapienza che il rapporto riesce ad instaurare e
governare.
Nella società moderna della complessità non c' bisogno di
“soggetti costruiti”, ma di “soggetti costruttori”, capaci di
prendere decisioni e risolvere problemi: la cosiddetta postmodernità richiede autonomia, flessibilità, forza, sicurezza,
mediazione.
Allora è possibile senz'altro evidenziare i nessi significativi che
distinguono una formazione nella pratica del Karate.
4.1. UN MODELLO FORMATIVO PER IL KARATE
Nel Karate formare evoca un'azione profonda sulla persona,
un'azione di trasformazione di tutto l'essere. Si tratta dunque di
un'azione globale che porta a sua volta sul sapere, sul saper
fare, sul saper essere. Formare implica, inoltre, che l'istruzione
che passa da Maestro ad allievo venga messa in pratica nella
vita. Formare significa un approccio alla conoscenza, ma
anche ai valori e alla personalizzazione del soggetto che
apprende.
Una concezione formativa costruita sull'epistemologia dei
bisogni è strettamente funzionale ad una concezione
deterministica e di dipendenza degli esseri umani dalla natura,
dagli archetipi. Nella dimensione del desiderio, l'individuo si
riconosce soggetto capace di progettare la propria identità. In
questo caso il “soggetto in formazione” non può essere
cambiato dall'esterno, ma è in cambiamento quando la sua
pratica diventa azione interiorizzata e ricerca consapevole.
34
L'apprendimento nel Karate non è un'istruzione di
adattamento, ma un processo di cambiamento in quanto
progetto, sperimentazione, ipotesi di ricerca personale.
Nella società post-moderna, di fronte alla moltiplicazione e
all'accrescimento delle conoscenze, ci si interroga sulla
possibilità di ricostruire un universo sociale, culturale e
formativo che faccia posto sia alla ragione che all'essere, alla
razionalizzazione
e
alla
soggettività.
Un
universo
inevitabilmente complesso, in cui si perderà il sentimento della
certezza, si riconoscerà il sentimento instabile di ogni
conoscenza, ma sarà capace di stabilire legami e mediazioni
tra fatti contraddittori, cercherà di integrare saperi differenti.
L'allievo non può essere messo davanti a una serie di principi
e regole assolute, ma piuttosto davanti alla propria produzione.
In questo quadro di riferimento un processo formativo
nell'ambito del Karate implica una completa rivoluzione
prospettica. Si tratta infatti di leggere il modello
dell'insegnamento alla luce della concezione formativa e non
del semplice addestramento. Su questo aspetto il sistema del
Karate confronta assieme la propria storicità con il presente e il
futuro. La logica di separare il sistema tra tradizione e
modernità è più una logica politica che formativa, ma
soprattutto è una logica astratta. Nessuno è perfettamente
tradizionale o perfettamente moderno.
Ciò che il Karate ha espresso e esprime, in ogni tempo e in
ogni luogo, è l'interpretazione che ogni Maestro e ogni allievo
danno della propria “teoria-azione” in rapporto al modello
conosciuto e nella sua implementazione nel contesto. Se vi è
più o meno rispetto di tradizioni e di modelli storici, comunque
ciò che può essere trasmesso, insegnato, “formato”, è un
progetto di Karate che si confronta sempre nel divenire. E' in
questa dimensione che vanno ricercate le diverse correlazioni
e le relazioni significative che danno senso a questa pratica
nella storia e nei contesti.
Il Karate è fondamentalmente una “forma-azione” che si
realizza attraverso il corpo, ma paradossalmente il suo
paradigma fondamentale non si confronta con la sola
corporeità e nemmeno con il movimento, ma con la mente, lo
35
spirito. Nel Karate il corpo è la materia che diventa “elemento
pensante”, sede dell'unità mente-corpo e dunque oggetto e
soggetto insieme.
Un altro aspetto formativo è la dimensione di interculturalità
che esprime. La sua connotazione originaria orientale dal
punto di vista storico e la sua divulgazione in Occidente lo
porta a dover essere pensato non più come materia di una
tradizione, colonizzazione culturale, ma espressione di transcultura capace di connettere significati e comportamenti nella
pluralità e nella differenza delle culture. Più il Karate acquista
in interculturalità e più viene concepito come pratica vitale e di
sviluppo globale.
La pratica del Karate senza la conoscenza della sua storia è
una pratica coatta, portatrice di dipendenze più che di pensiero
e sviluppo formativo. E' nella conoscenza dei suoi processi e
delle sue spiegazioni che si ritrova la matrice dinamica della
sua tecnica e della sua strategia formativa.
Per quanto riguarda la competenza nel Karate, possiamo
distinguere un livello di base che si confronta con il quotidiano
della vita e una formazione professionale.
Nel primo aspetto il Karate ha la necessità di confrontarsi con i
contesti di appartenenza in cui risiede e di stabilire con questi
legami di contiguità e implementazione. Il bambino, l'adulto,
l'anziano che praticano Karate, prima di confrontarsi con la
cultura, la storia, la filosofia e con i suoi miti, si correlano con la
propria corporeità, con la propria mente, la propria psiche,
ovvero con le loro identità.
Esiste una dinamica che ogni azione sull'uomo (che si dica
formativa) che deve rispettare: l'identità delle persone e dei
loro contesti. La pratica del Karate, a differenza di altre
discipline sportive, è una filosofia di vita e di comportamento. Il
nodo sta nel confronto tra addestramento e formazione. La vita
e il quotidiano non necessitano di addestramento ma piuttosto
di ragionamento e di apprendimento consapevole ed
equilibrato.
All'estremo specifico della materia è il significato che assume
la pratica del Karate per i professionisti. Il confronto sta
nell'efficacia e nell'efficienza delle “expertise” di quei praticanti.
36
In questo ambito la formazione diventa molto più complessa,
modellizzata, strutturata, determinata. Qui è la storia che
spesso vince sui contesti. La qualità, in questa prospettiva, è il
grado di competenza relativa, più assoluta possibile,
nell'interpretazione delle tecniche e delle sue strategie. Il
professionista si riconosce dalla sua riflessività, ovvero dal
controllo continuo della sua pratica (sottoposta alla relatività)
con la pratica trasmessa (dalla storia) nelle sue configurazioni
e spiegazioni.
Nel professionista è il modello che vince sulla vita.
Nella vita è l'identità che vince sul modello.
La formazione comprende entrambe queste anime dando sede
a ciascuna.
Una “società formativa” ha la necessità di reggersi sulla
competenza dei suoi formatori. Essa si trasmette attraverso le
persone e i processi. Questi ultimi prendono anima e corpo
attraverso le identità delle persone. I miti e i riti tuttavia non
sono semplicemente delle soggettivazioni, ma strutture di
sapere e di expertise incarnate nei soggetti e nelle loro
identità. Ogni formatore sa che queste soggettività
rappresentano dei processi che devono diventare oggetto di
apprendimento.
Con la qualità della formazione dei formatori si distingue il vero
Karate dal falso Karate.
4.2. IL RUOLO DELL'ISTRUTTORE E DEL MAESTRO
Nel Karate-do l'aspetto primario e prioritario è la Tecnica.
Il Karate-do è una pratica così ben codificata che si è
trasmessa e tramandata negli anni (secoli) con una propria
perfezione, una propria configurazione di insieme, cioè come
un sistema perfetto e stabile. Colui che possiede le chiavi per
entrare in questa configurazione d'insieme, è l'Istruttore, anche
se non padroneggia il sistema per i limiti della tecnica in sé.
Primo compito dell'Istruttore è dunque quello di conoscere
perfettamente la tecnica, nelle sue relazioni interne ed esterne.
37
Secondariamente si tratta di prendere in carico un gruppo di
allievi e alfabetizzarli. Per fare ciò l'Istruttore si deve dotare di
una metodologia di insegnamento, anzi più esattamente una
metodologia di istruzione.
Secondo alcuni autori, i tre grandi gruppi di problemi posti dalla
trasmissione della conoscenza sono: che cosa e a quale fine si
trasmetta; chi debba trasmettere e chi debba essere il
destinatario della trasmissione; in quale maniera si debba
trasmettere.
E'
l'organizzazione
delle
conoscenze
a
decidere
profondamente intorno allo stile pedagogico. Di conseguenza
si dovrà considerare l'azione dell'Istruttore quale occasione e
strumento per collocare le richieste conoscitive. L'Istruttore è
già un mezzo, una strategia di insegnamento, un prodotto
fabbricato. Quindi un insegnamento inteso come trasmissione
formale delle conoscenze, di istruzione (e non di educazione).
Conoscere la tecnica vuol dire entrare in un mondo di segni e
simboli, pieni nel loro significato e finiti nel loro messaggio.
L'Istruttore conosce questo linguaggio e (in genere) lo fa suo.
Ma non è così semplice e scontato. Far proprio un linguaggio
così simbolico e così interiorizzato culturalmente, è possibile
soltanto col compiersi di una identificazione.
Perciò si diventa Istruttore, al di là degli attestati formali,
quando inizia a costruirsi la relazione tra se stesso e quel
linguaggio/tecnica.
L'Istruttore di Karate-do è colui che per mezzo della tecnica
parla, comunica, trasmette significati. Il suo è un linguaggio di
gesti, codici, simboli, situazioni, costruzioni corporee, figure.
L'Istruttore non è più l'allievo che assimila una tecnica; è colui
che nella tecnica inizia il cammino della costruzione del sé.
Egli infatti lavora la tecnica, la esplora, la sperimenta, la mette
in relazione continua con le proprie capacità fisiche e
psichiche.
Il corpo (la corporeità) è l'altro aspetto della tecnica che un
Istruttore ha il compito di sviscerare e far proprio nella sua
complessità. Un Istruttore deve quindi relazionare la tecnica
con il proprio corpo (e non viceversa, come l'allievo), solo in
questo modo attiva il processo di conoscenza di sé, del proprio
38
linguaggio corporeo e diviene capace di leggere i segnali
personali, cercare la strada per maturare al meglio la propria
personale tecnicità.
L'Istruttore fa molta fatica, la sua è una fatica fisica, corporea,
“scientifica”.
In questo sforzo di realizzazione vi è, da subito, la
consapevolezza della potenzialità della tecnica e delle difficoltà
e, quindi, la necessità di una programmazione. Si tratta cioè di
strutturare scientificamente le conoscenze psico-fisiologiche
da porre in rapporto e supporto alla tecnica di insegnamento.
L'organizzazione “ingegneristica” dell'istruzione tecnicocorporea, in definitiva, sottolinea il primo livello di superamento
nella pratica, la reciprocità corpo-tecnica.
La Tecnica nel Karate-do non deve tuttavia essere intesa
riduttivamente come una parte del corpo da agire, ma
soprattutto come una struttura viva, struttura in apprendimento.
La scelta del Karate-do viene fatta non per esprimere un
semplice allenamento, ma per qualcosa che va al di là delle
proprie capacità, al di là del corpo, per la simbologia che esso
rappresenta. In questo caso il mito diventa un facilitatore
dell'apprendimento, per cui diventa meno necessario
relazionarsi da subito con la psicologia delle persone o con la
sociologia del gruppo, quanto piuttosto con la maestria
dell'insegnamento, con l'istruzione, con la progettazione del
percorso, con la valutazione dello stesso. Un Istruttore si
accorge quando gli allievi devono rinforzare una parte del
corpo per portare a compimento una tecnica, quando hanno
bisogno di promuovere, associare, esplorare una tecnica, un
gesto, una figura oppure quando bisogna ricorrere ad un
concetto o un principio per aiutare la comprensione. A questo
punto è in grado di leggere dentro al gesto, la forma; egli arriva
cioè a capire se l'allievo ha la competenza della forma.
Si diventa competenti quando dietro la forma vi è un expertise.
Quando, oltre la competenza vi è la padronanza, si deve
spostare l'attenzione sulla figura del Maestro che è stato un
Istruttore, ha expertise tecnica, ma è diventato “altro”.
Il Maestro non ha davanti a sé soltanto apprendisti, ma
“persone” che entrano in un sistema filosofico, quello appunto
39
del Karate-do che per alcuni rappresenta proprio la Via.
Agli allievi il Maestro situa la filosofia del Karate-do attraverso
la pratica, ovvero un superamento della tecnica, e diviene
formazione. Il Maestro concepisce il suo intervento come un
triangolo i cui vertici sono rappresentati dal sapere delle
persone, dalla forma alta del Karate, dalla strategia della
formazione. Dal punto di vista dell'insegnamento, il Maestro
non si limita ad istruire sulla tecnica, bensì si apre al mondo
delle “persone in formazione”.
Per penetrare l'universo di una pratica così antica e strutturata
nello spazio e nel tempo come quella del Karate-do, il Maestro
deve fare un percorso dentro di sé, deve coinvolgere la propria
dimensione umana, culturale e professionale nella sua azione.
Il Maestro non deve neanche considerare il Karate come un
rituale, altrimenti toglie alla pratica la sua forza vitale e
creativa. Conosce e capisce i simboli e la loro vera
significazione, vive i simboli e la loro creazione, lavora la
tecnica in modo tale da farla diventare un prolungamento del
proprio corpo.
Per superare la tecnica ed entrare nella pratica, per entrare
cioè nella dimensione di Maestro, va superato il sistema
“comportamentistico” dell'istruzione e dell'addestramento a
favore di un'impronta educativa e formativa. Quando si lavora
nell'area prossimale delle potenzialità del soggetto, allora
l'allievo ha il massimo dell'apporto dell'insegnamento: a questo
punto si può parlare di eccellenza di “essere Maestro”. Entrare
cioè nella conoscenza dell'altro; l'allievo e/o il gruppo sono
soggettività relazionali. Il Maestro che insegna, valuta,
dimostra, differenzia rappresenta un polo della relazione; l'altro
polo è la presenza, la partecipazione e il sistema di attese
degli allievi. L'identità del Maestro non può essere l'Io egoico
del superuomo che guarda l'altro dal proprio mondo, ma un
Io/Altro che scorge il mondo da di dentro e dal di fuori con
empatia e distacco.
Empatia per capire, distacco per aiutare.
40
4.3. LA COMPETENZA DEL VALUTARE
Valutare è una vera e propria operazione di attribuzione di
valore a fatti, eventi, oggetti, persone, in relazione agli scopi
che colui che valuta intende perseguire. La valutazione
presuppone la disponibilità di un sistema di discriminazione
della qualità e quantità degli “oggetti” da valutare, un sistema
capace di consentire una “classificazione” e un'interpretazione
che vada oltre le loro caratteristiche intrinseche. Il giudizio può
essere formulato solo in base al sistema di discriminazione
elaborato e prescelto.
Nell'ambito dell'apprendimento del Karate, la valutazione è
un'attribuzione di valore alle performance del soggetto in
esame, cioè alla modalità con la quale l'allievo interpreta il
modello, la configurazione, il dialogo, l'etica, le tecniche che
stanno alla base della disciplina. Quindi non è la “tecnica” in sé
che viene valutata, ma il livello di interpretazione della tecnica.
Altra cosa è valutare la tecnica, ovvero la pratica del Karate
nella sua struttura originale di modello. In questo senso si
opera un'analisi scientifica e storico-umanistica della disciplina
stessa: ciò va oltre la pratica di insegnamento/apprendimento.
La tecnica in sé è una configurazione virtuale, ma essa prende
vita e dunque possibilità di valutazione dall'interpretazione che
ne danno le persone che la eseguono. Anche la persona che
valuta è soggetto all'interpretazione della tecnica, in quanto
soggetto che la conosce e la pratica.
Valutare è dunque l'interpretazione di un'interpretazione del
sistema che è all'origine del rapporto tra valutatore e valutato.
Valutare è una relazione, cioè una situazione sociale.
Tra i principali requisiti del processo di valutazione va
sottolineato necessariamente il processo di decentramento.
Decentrarsi significa fare una separazione da sé per situarsi
sull'altro e sulla situazione. Tutto ciò diventa possibile solo se
colui che valuta (il Maestro) riesce a tenere sotto controllo le
proprie strutture egoiche. L'altro (l'allievo) ha i propri schemi
personali e il valutatore deve cercare di conoscerli e
comprenderli. E' sugli schemi dell'altro che il valutatore
stabilisce l'identità o la differenziazione con il modello virtuale
41
del Karate.
Il Maestro, come pure il praticante, ha un proprio modello di
Karate; in più conosce il modello virtuale, il modello a cui
arrivare ed è su queste progressive identità e differenziazioni
che elabora la mappa dei criteri di valutazione. Se non
dovesse succedere questo, se il Maestro resta ancorato ai
propri schemi egoici, egli valuta l'altro come se stesso (non
trovandovi riscontro) e la valutazione necessariamente
penalizzerebbe l'allievo.
Un altro aspetto importante è il clima e igiene della
valutazione. La valutazione necessita di un contesto ad hoc.
Se l'ambiente di valutazione non si presenta con un clima di
qualità fatta di attenzione, ascolto, serenità, le valutazioni
assomigliano piuttosto a giudizi comuni, parziali, generalizzati,
a volte emozionali o tecnicistici, in altri casi ipocriti poiché
spogliati dalla personalità del soggetto valutato e posizionati
sulla personalità del singolo Maestro o sulla dimensione di clan
del gruppo.
Una corretta valutazione invece è rappresentata da uno spazio
e
da
un
tempo
(situazionale)
in
cui
ci
sia,
contemporaneamente, la possibilità di uno spazio e di un
tempo di interpretazione da parte del Maestro e di
autovalutazione e feed back da parte del praticante di Karate.
4.4. APPRENDERE AD APPRENDERE
La percezione del Karate da parte del praticante/Insegnante,
dai primi anni Settanta in poi, è andata evolvendosi da un
atteggiamento passivo-accettante ad un atteggiamento attivomodificante. Da una mera riproduzione degli schemi proposti
dalla tradizione si è passati ad una loro valutazione critica e al
loro adattamento alle esigenze del “discente” (parametri
antropomorfici, rapporto obiettivo-efficacia, eccetera). Questo
passaggio, inteso talvolta come allontanamento dai dettami
canonici, è stato poi accettato come riscoperta del carattere di
estrema flessibilità connaturato allo spirito marziale. Da questo
42
atteggiamento consegue una più positiva apertura agli scambi
interdisciplinari tra Arti e stili diversi. Se in passato
l'arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze tecniche
implicava quasi naturalmente la pratica di una disciplina
parallelamente all'altra, oggigiorno viene ritenuta altrettanto
proficua
la
conoscenza
del
“nuovo”
attraverso
l'interiorizzazione e l'elaborazione dei principi cognitivi, di
pensiero che lo governano. Viene abbandonata l'idea di un
bagaglio tecnico stratificato a vantaggio di un patrimonio
strutturato di principi dei quali la tecnica rappresenta il contesto
applicativo. Tutto questo non inficia ovviamente il valore della
pratica, che è lo stimolo primo per l'elaborazione del principio e
ne è il successivo e fondamentale passo per l'assimilazione. E'
possibile, risalendo ad un piano d'azione generale, affermare
che tutte le discipline marziali hanno alla loro base alcuni
principi comuni che a loro volta costituiscono la base di alcuni
meccanismi di apprendimento e relazione; si può infatti
ritenere “aggressione” e “difesa” i due elementi imprescindibili
di ogni relazione umana o di ogni processo di conoscenza.
Aggressione come tentativo – involontario o indotto – da parte
della “novità” di mutare il nostro o altrui equilibrio e Difesa
come ripristino dell'equilibrio primitivo (rifiuto della novità)
oppure come un nuovo equilibrio ristabilito dopo l'elaborazione
e l'assimilazione del nuovo concetto. Gli stessi meccanismi
psichici e mentali attivati dall'irrompere della novità (per
esempio il ricondurre lo sconosciuto alle categorie del
conosciuto) suggeriscono una difesa che si struttura come
“associazione” in risposta ad una “dissociazione”. I praticanti di
Karate (e delle altre Arti marziali) traducono tutto ciò anche sul
piano fisico: quanto sia utile non opporre la propria forza
contro la forza dell'avversario, ma piuttosto “dissociare” la
forza dell'aggressore rendendola inoperante o deviarla
rivolgendola verso la sua stessa origine. Operazione possibile
solo se l'aggredito è associato nelle sue componenti psicofisiche o, comunque, se è in grado di ripristinarle.
Nell'economia dei percorsi formativi “occidentali”, le discipline
marziali orientali sono considerate quale ulteriore ampliamento
della concezione dell'essere la cui adesione invita ad
43
atteggiamenti meditativi; posti in secondo piano (o come
conseguenti a quella visione del sé) appaiono gli aspetti legati
alla pratica. Considerare, invece, ogni atto nella quale la
pratica si sostanzia come frutto di un pensiero volontario (o
comunque indotto) sul quale poter agire strutturalmente, ne
rileva la reale valenza cognitiva, al di là di ogni matrice
“filosofica”.
Alcune teorie cognitiviste sostengono che per un “pieno
apprendimento” non sia sufficiente essere esposti a stimoli
molteplici, ma che fra gli stimoli e il soggetto si ponga un
“mediatore” che li scelga, li orienti, ne regoli l'intensità e la
frequenza. Non è improprio stabilire un'identità tra la funzione
del mediatore e quella del Maestro. Da questa mediazione
dipenderebbero la qualità della relazione, la possibilità di
superare blocchi psicologici e l'opportunità di suscitare
motivazioni intrinseche: valori che già si presupponevano o si
auspicavano trasmissibili dal Maestro agli allievi. Perciò
diventa necessario “apprendere ad apprendere”, essere capaci
di estrapolare regole generalizzabili e trasferibili in altri
contesti, essere in grado di trovare relazioni implicite tra idee,
eventi, oggetti.
L'apparato tecnico consiste nello svolgimento di esercizi con
livelli di difficoltà graduata che si configurano, in certa misura,
come archetipi affinché sia possibile trarne insegnamenti e
generalizzazioni da trasporre poi in situazioni problematiche
che abbiano analogie strutturali con i modelli che essi
illustrano. Il paragone, a tal proposito, con la forma (kata) - che
spesso viene definita (dai “non addetti ai lavori”) come una
vacua e inefficace simulazione - sembra assai pertinente. Di
simulazione certamente si tratta, ma nell'accezione più evoluta,
nel senso che si esprime compiutamente nella crescente
adesione al reale prevista dagli esercizi marziali nelle loro
diverse modalità (kihon, kata, kumite). L'apprendimento trae un
rinforzo dalla ripetizione, diviene tanto più efficace se più
facoltà vengono coinvolte nell'esercizio e se l'insoddisfazione
per il risultato ottenuto raggiunto coinvolge l'individuo
nell'intimo.
Tramite un processo di autodiagnosi dinamica, le propensioni
44
del soggetto devono essere sviluppate, evidenziate, integrate.
Anche in questo caso, senza forzature, è possibile stabilire un
ambito comune con l'allenamento costante al quale un
praticante di Karate si sottopone, nella consapevolezza che
solo un apprendimento continuo crei e rinnovi “continuamente”
le risorse psico-fisiche che una persona, nell'arco della propria
vita, possiede in intensità variabile e alle quali la tecnica, al
contrario del principio, è chiamata costantemente ad
adeguarsi. L'autodiagnosi che il praticante (nell'accezione di
colui che continuamente apprende, cioè anche il Maestro) è
chiamato a svolgere consiste nel raggiungimento di una
consapevolezza critica, discriminante sui propri pensieri, sulle
proprie emozioni e reazioni, sulle proprie capacità ed azioni.
Il percorso cognitivo che il praticante di Karate è chiamato ad
intraprendere su indicazioni fornite dalla disciplina e dal suo
tramite (Maestro), strutturato su versanti concettuali, tecnici e
comportamentali, emerge nelle sue potenzialità di processo
auto-conoscitivo progressivo e progettuale.
4.5. ALLENAMENTO, EDUCAZIONE, SOCIALIZZAZIONE
L'allenamento è un insieme di pratiche progettate,
programmate
e
organizzate
secondo
procedure
metodologicamente corrette, in funzione di obiettivi generali e
specifici. Esso è il contesto altamente specialistico nel quale si
realizza anche un'importante funzione educativa sociale e
socializzante. Si modificano, in modo permanente e
socialmente accettabile, secondo esigenze che vanno anche
oltre il contesto specifico, il comportamento dei praticanti.
La connotazione più importante e di maggior valenza
educativa
e
socializzante
è
l'organizzazione
del
comportamento motorio che si esprime per mezzo di azioni
simbolicamente aggressive. Tale condizione viene realizzata
tramite un severo controllo delle azioni di attacco e di difesa,
attiva e passiva, che mantiene la situazione all'interno di un
elevato grado di sicurezza.
45
Nel contesto dell'allenamento e della gara vi è la costante ed
esplicita presenza di componenti simboliche e rituali nei
comportamenti psicomotori degli individui in azione; ciò
determina una situazione che induce i praticanti di Karate
all'interiorizzazione di comportamenti nei quali l'aggressività si
esprime in forme rispettose della incolumità e della dignità
reciproca. La codificazione delle azioni consentite, dei
comportamenti accettabili e la finalizzazione stessa dei
comportamenti e delle azioni in funzione del conseguimento
della superiorità/punteggio, mantiene l'interazione oppositiva
nell'ambito di una realistica simulazione del combattimento di
antica memoria.
Inoltre per realizzare un contesto allenante in tutta sicurezza,
nel Karate (e in genere nelle Arti marziali) è necessario
instaurare con i compagni di pratica un rapporto di reciproco
affidamento (rispetto delle regole) e di collaborazione fattiva.
Quanto più e meglio si realizzano condizioni di complessità
situazionali e dinamismo motorio vicino all'intensità limite (ma
con un elevato grado di sicurezza), tanto più e tanto meglio
sarà possibile progredire nell'acquisizione delle abilità
specifiche. Per potersi allenare in queste condizioni, bisogna
che i praticanti acquisiscano progressivamente la capacità di
autocontrollo assoluto, al fine di evitare di sorpassare i limiti di
sicurezza e di vivere i piccoli incidenti di percorso in totale
serenità, accettandoli come errori e non come minaccia alla
propria incolumità. Quindi l'esigenza di porre in essere una
vasta gamma di esercizi con il partner “condizionato” e la
necessità di cambiare spesso partner proprio per variare
continuamente le situazioni-stimolo, al fine di accumulare
informazioni relative a una serie di comportamenti psico-motori
individuali in combattimento, indispensabile presupposto alla
maturazione di abilità tattiche individuali molto evolute.
Un ulteriore aspetto importante riguarda la solidarietà.
L'instaurazione di un rapporto di collaborazione molto stretto
che coinvolge la dimensione affettivo-morale della personalità
porta ad un rapporto di profonda solidarietà. “Sudare insieme”,
“attaccare” ed “essere attaccato”, “subire” o “prevalere”
all'interno di un processo intenzionalmente creato che
46
consente il “progredire insieme”, comporta il riconoscimento
dell'altro e del suo valore che è il fondamento del rapporto di
profonda solidarietà che nasce tra partner, il cui valore
educativo risulta evidente. La verifica continua, all'interno delle
situazioni di allenamento, delle proprie valenze e dei propri
limiti, la constatazione dell'indispensabilità della collaborazione
col partner/avversario per il loro
superamento, attivano
processi molto efficaci di comunicazione e di socializzazione,
che vengono ulteriormente rafforzate dal contesto di pratica
marziale.
L'esercizio di comportamenti e pratiche intenzionalmente
aggressive ma non violente, nell'ambito di un contesto
“sportivo-rituale” governato da regole precise e severe,
determina l'interiorizzazione, da parte dei praticanti di Karate,
di valori che sono agli antipodi rispetto ai modelli sociopatici di
aggressività proposti, ad esempio, da un certo tipo di
cinematografia molto diffusa (e non solo).
47
5.
KARATE
SPETTACOLO
E
SOCIETA'
DELLO
5.1. VINCERE O IMPARARE A COMBATTERE ?
Il combattimento rappresenta il momento dello scontro tra due
“avversari”, ognuno dei quali può portare attacchi isolati, in
successione, in combinazione, con lo scopo di superarsi a
vicenda, senza tuttavia colpirsi con la deliberata volontà di
procurare un danno fisico. Ciò significa controllo del colpo che
non ha una esclusiva valenza fisica, bensì costituisce un
esercizio di alta intensità e concentrazione psichica.11
11
Molti autori e illustri Maestri di Karate in ogni parte del mondo hanno evidenziato, seppur con
diverse sfaccettature, la differenza esistente tra kumite reale, sportivo, tradizionale. Il
combattimento reale è quello che ha dato origine a tutte le forme di Arti marziali; il combattimento
sportivo ha senso in una gara regolata da punteggi, vincitori, classifiche; il kumite tradizionale
richiama e rimanda ai principi di antica memoria formando il praticante all'idea che
(paradossalmente) è possibile “vincere senza combattere”. Il Karate sportivo privilegia il gesto
atletico basato sulla tecnica per conseguire il successo per cui il sistema corpo-mente funziona in
48
La pratica del Karate non deve essere identificata con la
prestazione agonistica: corpo e mente non sono esercitati per
se stessi, ma l'uno per l'altra, in una pratica che costituisce una
vera filosofia di vita, uno studio durante tutto l'arco
dell'esistenza.
In questa ottica l'arte del combattere, che si materializza nel
rito del kumite, assume un ruolo universalmente valido quando
la persona, in ogni momento della vita (quotidiano o solenne)
viene messa alla prova. La risposta è dentro di sé e va
ricercata nella capacità di reagire opportunamente agli stimoli
esterni, di controllare emozioni ed azioni. Il combattimento, il
confronto/scontro prepara a fornire risposte immediate e a
porsi domande future.
Per affrontare un combattimento (e un qualsiasi frangente della
vita quotidiana) è necessario conoscere le proprie risorse,
prevedere i movimenti dell'avversario, gli sviluppi delle
situazioni contingenti proprio per predisporre una risposta
adeguata. Le condizioni ambientali determineranno la scelta
dell'attesa-difesa oppure dell'iniziativa-attacco, affrontando la
realtà a viso aperto, senza sotterfugi.
Sul piano educativo, la pratica del kumite (tradizionale)
permette l'accettazione del confronto, l'espressione di un
combattimento privo di rischi, l'applicazione e l'utilizzo
appropriato degli elementi tecnici fondamentali, favorendo una
corretta maturazione della personalità nel bambino e
nell'adolescente, così come un adeguato consolidamento di
essa nell'adulto e nell'anziano.
Ciò che conta realmente non è la gara o il risultato della
stessa, bensì quanto l'Arte riesce a migliorare il praticante.
Ognuno, nel Karate tradizionale, è importante per ciò che
realmente è, non per quel che sembra.
L'Arte marziale costituisce la Via dell'essere, non quella
dell'apparire.
termini finalistici e il fine agonistico privilegia l'atletismo del corpo relegando (parzialmente) sullo
sfondo la personalità. Il Karate tradizionale sviluppa la concezione olistica della vita, sperimenta
la totalità integrata di organismo, pensiero, socialità mediante la presa di coscienza.
49
5.2. CONTATTO, DISTANZA, CONFRONTO
Nelle Arti marziali marziali tutto comincia dal contatto fisico:
toccare, afferrare, prendere, colpire, lottare con e contro
l'”altro”. E' in questo caos che si incontrano enormi difficoltà.
La società post-moderna si basa, in modo sempre più
rilevante, su una comunicazione audiovisiva, mediata da
strumenti tecnologici: la cultura del non-contatto. L'uomo ha
disimparato ad utilizzare lo spazio intorno a sé e a gestire gli
“invasori”. La frequenza cardiaca aumenta, nel sangue viene
immessa adrenalina, la muscolatura si contrae e si prepara
all'attacco, il mento si flette, le spalle si chiudono: una chiusura
totale.
L'esperienza del confronto (e dello scontro) sperimentata nelle
discipline marziali, è un'occasione per conoscere se stessi più
approfonditamente ed evidenziare le proprie modalità di
comportamento in situazioni di stress.
Accettare un altro nella propria “bolla prossemica” diventa un
modo per analizzare se stessi. L'analisi del sé, se gestita con
competenza, diventa un ottimo esercizio dove “allenarsi” ad
utilizzare al meglio le proprie potenzialità, un vero e proprio
brain training. Apprendere nuovi schemi di comportamento, da
utilizzare nel momento del confronto, è come spiccare un salto
nel vuoto ed è necessario fidarsi dell'altro.
Per imparare a combattere bisogna combattere, ed allenarsi
con un valido compagno di viaggio.
In tutte le forme di combattimento sono attivate le funzioni di
spazio e di tempo: due componenti della psiche necessarie per
costruire il pensiero e connotare la realtà. Nell'uomo lo spaziotempo è una percezione soggettiva che nel Karate viene
educata al massimo grado e può esser riferita a se stessi e/o
alla relazione con l'altro. Percepire lo spazio-tempo nel kumite
significa vedere ed intuire la variazione della distanza tra sé e
il compagno/avversario in base ai movimenti di avvicinamento
e/o allontanamento dei partner del combattimento.
50
La pratica del combattimento sviluppa la capacità dell'insight12
(intuizione), il processo mentale che, senza ragionamento, fa
comprendere nella situazione del combattimento l'istante nel
quale viene superato il limite spazio-tempo ideale posto tra sé
e l'altro.
Il combattimento di Karate-do si basa innanzitutto sulla
percezione della sensibilità dell'unità mente-corpo e poi sulla
sua elaborazione cognitiva-intellettuale. Quando si combatte,
infatti, si intuisce a partire dal sensibile corporeo ed il senso
psichico si realizza nella mente prima ancora di ragionare. La
visione del campo dove si svolge il kumite deve comprendere
tutto l'orizzonte esistente: bisogna guardare in tutte le direzioni
senza muovere gli occhi poiché lo sguardo dà orientamento e
direzione all'azione stessa. Si impara ad osservare l'insieme
senza rimanere fissi al particolare.
L'attenzione fluttuante è un altro atteggiamento della
personalità che viene formato dal kumite. Quando l'attenzione
viene fissata su un unico “oggetto” diventa rigida, resta legata
ad esso e rallenta l'azione. Al contrario, quando si muove
velocemente su tutto il campo, è flessibile e l'azione diventa
mobile: rappresenta comunque una dimensione molto difficile
da acquisire.
Inoltre il kumite, per essere efficace, richiede la formazione
nella personalità di alcune qualità come la determinazione,
l'essenzialità, la creatività.
Quindi perseveranza svolgendo un'azione per volta, mettendo
in essa tutto se stesso. Eseguire le tecniche nel modo più
“economico” possibile ottenendo il massimo dell'efficacia con il
minimo sforzo. Si forma nella mente la capacità di cogliere il
nocciolo dei problemi, eliminare il superfluo, capire ciò che
nella vita vale la pena di essere vissuto.
Il combattimento esalta la creatività del praticante al massimo
delle sue potenzialità, poiché in esso nulla può essere previsto
e/o programmato, ma tutto si svolge nel “qui e ora
12
Vedi “Il Karate-do nella formazione della personalità – Riflessioni di un Maestro” e alcuni articoli
su riviste scientifiche di Carmine Grimaldi. Medico specializzato in Psicologia medica,
Psicoterapia, Pneumologia, laureato in Filosofia e Maestro IV dan di Karate, Grimaldi svolge la
sua attività presso la Scuola di Specializzazione di Psicologia Biodinamica di Cagliari e ricopre la
funzione di Direttore presso il Centro di Psicoterapia Dinamica di Ancona.
51
dell'accadere e dell'agire”. La strategia e la tattica sono
rimodellate, istante per istante, in base alle variazioni della
situazione; una continua mutazione-in-movimento in cui vince
chi inventa la soluzione adeguata nel tempo-spazio propizio
prima dell'altro.
Il kumite educa così la personalità ad essere creativa anche
nella vita, a padroneggiare l'imprevisto che, quando non si è
educati a riconoscere e gestire, può mettere a soqquadro
mente e corpo col rischio di commettere grossolani errori di
valutazione.
L'emozione più frequente e intensa nel Karate-do è la paura.
Si avverte soprattutto nel combattimento, ma anche nella
relazione con il Maestro e nel confronto con i compagni di
pratica. Si sperimenta la paura di essere superati dal
compagno/avversario, perciò viene necessariamente formulata
una strategia tale da conseguire il successo; la paura di recare
offesa all'integrità dell'altro induce ad imparare e praticare
l'autocontrollo delle tecniche.
L'educazione all'autocontrollo delle tecniche, infatti, differenzia
il Karate tradizionale dai cosiddetti “sport di combattimento”
(boxe, tai-boxe, kick-boxe, full-contact, eccetera) e lo rende un
efficace sistema educativo per eliminare la violenza. Il
combattimento nel Karate-do diventa un rito simbolico per
sperimentare e vivere il tema universale della “lotta” nel mondo
quotidiano. Combattere diventa un evento pedagogico nel
quale non ha valore la vittoria e/o la sconfitta, quanto
l'imparare a combattere.
Essere pronti e consapevoli della realtà in una condizione di
intensa emotività, reagire con rapidità in funzione delle
modificazioni impreviste dell'ambiente richiede un costante
allenamento per sviluppare le funzioni della mente atte a
conseguire la capacità di essere sempre presenti a se stessi e
vigili in ogni situazione esistenziale.
5.3. LA PALESTRA EMOTIVA
52
Spesso alcune gravi manifestazioni di ansia trovano le radici
nell'infanzia.
Il bambino si trova prematuramente immerso in situazioni nelle
quali gli vengono imposte nuove regole, deve iniziare a
competere con i pari in ciò che è ritenuto essere l'inizio ufficiale
della “scalata verso il successo”.
Il Karate è un ansiolitico nel suo aspetto fisiologico e
soprattutto
nell'aspetto
psico-fisico-sociale.
Il
giococombattimento con i coetanei scatena una molteplicità di
reazioni emotive, controllate e guidate dal Maestro,
contribuendo così a strutturare delle modalità comportamentali
stabili e funzionali al controllo degli stati ansiosi. Sono proprio
le piccole esperienze di disagio e di conflittualità, che
scaturiscono in un allenamento di Karate, che fungono da vera
“palestra emotiva” potenziando le capacità di controllo di ansia,
rabbia, paura su se stessi e sugli altri.
Il Karate è una “disciplina” che induce nel tempo
all'acquisizione di regole di vita basate sul rispetto degli altri,
sul rafforzamento della volontà di superare le difficoltà (sia
fisiche che mentali), sui principi di lealtà sportiva.
Durante la pratica, il Maestro scandisce dei comandi che
aiutano i bambini (e gli adulti) a capire il “momento dell'azione”
e il “tempo dell'attesa”, sviluppando coordinazione motoria,
capacità respiratoria, capacità di autocontrollo psico-fisico.
La sindrome di Gianburrasca piuttosto che lo stato di inibizione
sociale13, rafforzate spesso da precoci etichette, possono
essere contrastate (sebbene parzialmente) mettendo il giovane
allievo nelle condizioni ottimali per familiarizzare con nuove
esperienze psico-motorie, caratterizzate soprattutto da una
rinnovata/modificata sicurezza e fiducia nel contatto fisico con
gli altri. Il controllo delle nuove gestualità e la possibilità di
metterle in pratica (sempre nel rispetto dell'altro), danno
l'opportunità al bambino di trovare idonee modalità risolutive a
situazioni che non si possono facilmente riprodurre nel corso
13
Si parla di Sindrome di Gianburrasca in riferimento a un bambino che può presentare un basso
livello di attenzione, un eccesso di impulsività, logorrea, facile distraibilità, atteggiamenti di
disturbo, ipercinesi (intenso stato di irrequietezza motoria. Per inibizione sociale si intende
l'insieme dei comportamenti e delle reazioni somatiche dovute alle difficoltà nel rapporto con gli
altri: spesso viene definita semplicisticamente timidezza.
53
della giornata. Naturalmente il rafforzamento dell'apparato
muscolare/scheletrico e la conseguente percezione che il
proprio corpo diventi più agile e forte, possono divenire un
mezzo per acquisire maggiore sicurezza e fiducia in se stesso.
Per quanto concerne il bullismo, si tratta di una serie di
comportamenti caratterizzati da intenti violenti, vessatori e
persecutori, manifestati da bambini e adolescenti nei confronti
di loro coetanei, ma non solo. Il bullismo sembra essere una
delle spie del malessere dei nostri tempi ed è sinonimo di un
disagio relazionale che si manifesta soprattutto tra bambini,
adolescenti, giovani. Non è circoscritto a nessuna categoria
sociale, ma è un fenomeno trasversale. Il fenomeno si
distingue per la “deumanizzazione” nei confronti dell'altro
(vittima) che viene considerato alla stregua di un oggetto.
Se è vero che il bullismo è determinato dall'aggressività e dalla
mancanza di regole, si può affermare di buon grado che
un'attività di “segno contrario” come il Karate può costituire una
sorta di bilanciamento al disturbo antisociale. Bisogna tener
presente che l'aggressività del potenziale bullo è una “pentola
a pressione” che deve trovare sfogo all'esterno e il dojo
rappresenta proprio il luogo più adatto per l'emersione e lo
sfogo degli impulsi violenti. Il Maestro (e in parte i compagni di
pratica) sono gli “agenti catalizzatori” di un processo di “regolaazione” del giovane in questione. Probabilmente non ci sono
altre attività sportive (nel contesto specifico di “aiuto al bullo”)
che, come le Arti marziali, producono una tale forza di risocializzazione e di ri-costruzione sia a livello fisico che a
livello mentale.
Il giovane apprende un metodo e condivide un codice
normativo di comportamento sociale. Deve impararne i
presupposti teorici e saperli tradurre in pratica. Deve applicare
le tecniche, imparare a conoscere il proprio corpo, coordinare i
movimenti complessi, agire con senso di responsabilità e lealtà
verso il Maestro e i compagni, battersi con coraggio e fiducia in
se stesso imparando anche dalle delusioni.
Il Karate tradizionale rappresenta un mezzo formidabile per rivalorizzare le condotte provocatorie dei giovani a rischio,
aumentando e sviluppando le attitudini a partecipare, in
54
maniera costruttiva, all'attività sociale del gruppo. Implica il
rispetto delle regole, stimola a raggiungere obiettivi comuni e
condivisi, facilita l'apprendimento di modalità di vita solidale.
Chiedersi quale sia il proprio potenziale e quanto di esso
abbiamo esplorato o raggiunto, non è una domanda così
banale.
Nelle Arti marziali il confine non esiste.
Non esiste limite al possibile apprendimento.
Non tutti sanno o si chiedono perché praticano o insegnano:
porsi la domanda è fondamentale. Dalla realtà esterna
iniziamo a spostare l'attenzione verso la realtà interna.
La ricerca vera nel Karate è soprattutto una ricerca di senso e
quando viene a confondersi con la ricerca di risultati agonistici
tutto ciò delegittima proprio la funzione essenziale di “mezzo di
espressione e crescita”.
5.4. I DANNATI DELLO SPETTACOLO
Facendo riferimento alla società romana di duemila anni fa, è
interessante ripercorrere brevemente le motivazioni, gli
accadimenti e le strategie di potere alla base dei noti “ludi
gladiatorii”.
La radicale diffusione sociale del fenomeno fu, ovviamente,
oggetto delle strategie delle classi dominanti, uno strumento di
condizionamento popolare attraverso la magnanimità di politici
sovvenzionatori, tanto che ad un certo momento fu vietato
questo esercizio ai candidati due anni prima delle elezioni.
La diffusione dei giochi, interessando larghe fasce della
popolazione, in breve tempo guadagnò spazi maggiori a
scapito di altre forme di intrattenimento, quali il teatro. A fianco
di queste manifestazioni presero corpo altre due “esibizioni”
collaterali: la “venationes” e la “damnatio ad bestiam”14.
I lauti guadagni dei giochi stimolarono i “lanisti” (allenatori dei
14
La caccia alle belve feroci (spesso esotiche) e la condanna a morte attraverso l'impiego di animali
per delinquenti, criminali, disertori. La ricerca capillare, ben organizzata e spasmodica di bestie
feroci, fu tale da mettere in pericolo la sopravvivenza di elefanti e leopardi.
55
gladiatori) e i “procuratores” (osservatori delle reclute da
avviare alla professione) e la possibilità di accumulare sesterzi
incrementò le schiere degli aspiranti “atleti”. Da sottolineare la
scrupolosa preparazione atletica dei gladiatori in apposite
strutture ben organizzate, le palestre gladiatorie. Il programma
dei ludi prevedeva, di norma, venationes al mattino, poi giochi,
acrobazie e condanne a morte; quindi nel pomeriggio lo
scontro tra i gladiatori. Per suggestionare al meglio il pubblico
e infiammarlo con accorgimenti studiati, i gladiatori
indossavano armature ed abiti che ricordavano le popolazioni
vinte dai Romani: Galli, Traci, Sanniti. Le “tifoserie” si
differenziavano in sostenitori dei gladiatori con scudo piccolo e
ammiratori di atleti con scudo grande; la rivalità tra tali tifosi
non fu affare esclusivo della plebe, ma coinvolse anche gli
Imperatori.
La diffusione dei giochi provocò anche un'esigenza pratica:
quella di avere “stadi” adatti a contenere gli spettatori, ovvero
gli anfiteatri a forma ellittica, con la prerogativa essenziale
della migliore visibilità dello spettacolo, suddivisi in diversi
ordini di posti secondo l'eterna esigenza gerarchica e dotati di
un ingente numero di maestranze per il sostentamento della
struttura e la realizzazione dei giochi stessi.
La sera precedente i combattimenti, i gladiatori generalmente
erano ospiti dei finanziatori dei giochi ed erano a disposizione
dei tifosi e per le valutazioni degli “scommettitori”.
Preannunciati per settimane da appositi cartelloni pubblicitari
esposti per le strade, i gladiatori erano anche al centro di un
curioso mercato di oggetti legati alla loro immagine e ai giochi:
una mania esplosa a macchia d'olio che riguardava oggetti di
largo uso quotidiano (l'attuale merchandising). Gli “amatores”
(antesignani dei moderni tifosi) non erano gli unici acquirenti di
tali oggetti. La febbre dei giochi era tale da coinvolgere anche il
neofita più distaccato, sino a farne l'adepto più ortodosso. Le
cronache riportano sconti fisici pesanti tra opposte tifoserie,
come quelli avvenuti tra Nocerini e Pompeiani, avvenuto
nell'anfiteatro di Pompei nel 59 d.c.15
15
Vedi collana “Atlanti dei saperi” Fabrizio Paolucci – Giunti Editore. Nella fattispecie, le autorità
romane presero seri provvedimenti nei confronti degli Amministratori locali, vietando per anni
56
La sorte di un gladiatore vinto dipendeva dalla grazia, in
genere concessa dal promotore dei giochi, a sua volta
ottemperante
alle
richieste
del
pubblico.
Ragioni
esclusivamente pratiche impedirono l'uccisione di molti
gladiatori: ad esempio il rimborso elevato in caso di morte,
nonché la notevole influenza dei “tifosi” dello sconfitto.
Ragion di stato, strategia e diplomazia politica, sfruttamento
della plebe e condanne religiose, furono le multiforme versioni
di un potere capace di distrazione sociale attraverso il subdolo
svolgersi di giochi e spettacoli. Si inebetirono le masse
sfruttandone il cruento piacere, in una sorprendente analogia
ambientale e organizzativa che ricalca pienamente quella
moderna (o post-moderna) a riprova di uno sterile accumulo di
secoli sulla pelle delle masse.
5.4.1. NELL'ARENA CON I GLADIATORI DEL DUEMILA
Tutti in piedi ad urlare: “Ammazzalo, finiscilo”...16
Uomini e donne in preda alla stessa sete di sangue mentre sul
ring del Palazzetto dello Sport di Roma scendono in campo i
gladiatori del 2000 per l'esordio italiano del “free fight”, ovvero
quello scontro senza regole che negli Stati Uniti si chiama
“ultimate fighting” e in Brasile “valetudo”.
Non si tratta di un'Arte marziale né di un Sport di
combattimento: è soltanto ed esclusivamente un massacro.
Una sorta di rissa da strada dove si può lottare, colpire,
calciare, proiettare, fratturare, afferrare con tutte le parti del
corpo (esclusi gomiti e testa, teoricamente).
Tra i contendenti calci bassi alle ginocchia, scambi di pugni in
pieno viso, lotta a terra fra leve e strangolamenti, colpi a due
mani sulla nuca quando l'avversario è al tappeto ormai
indifeso. Pubblico in visibilio, tutti in piedi.
Tuttavia ci sono state anche esibizioni di Arti marziali
abbastanza applaudite.
16
anche l'esercizio dell'impianto campano.
Articolo su “La Repubblica” del 15 Febbraio 1998.
57
“Il livello degli atleti è alto, ma il pubblico e gli sponsor non se
ne accorgono. La gente viene solo per il free fight. Sia chiara
una cosa: noi li abbiamo solo ospitati, questa roba è la tomba
delle Arti marziali”.17
5.4.2. UN TERRITORIO INOSPITALE
Ai tempi della società dell'intrattenimento, nessuno spettacolo
è sottovalutato quanto il wrestling. Non sono mancati
estimatori illustri18, ma la percezione generalmente diffusa è
che il wrestling sia esclusivamente un sottoprodotto culturale
“buono per ragazzini citrulli e camionisti della West Virginia”.
Lo spettatore di wrestling è considerato “una sorta di imbecille
incapace di rendersi conto che Babbo Natale non esiste e che
la lotta cui sta assistendo con tanto trasporto è assolutamente
finta”.19
In realtà è lo stesso concetto di finzione messo in gioco ad
essere incredibilmente sofisticato.
Il wrestling è finto quanto lo è un film, nell'obbedienza a una
trama preordinata scritta da alcuni sceneggiatori. Naturalmente
finge che quanto accade sul ring sia un combattimento vero,
che le rivalità e le alleanze siano autentiche. Ma il wrestling
non è un reality show e non ha la pretesa (vera o presunta) di
documentare la vita nel suo svolgersi.
Il wrestling si fonda su un patto narrativo tra attore e
spettatore.
In un certo senso finge di fingere di essere vero: nessuna
persona sufficientemente intelligente potrebbe urlare eccitata
alla vista di un indiano affetto da gigantismo che chiude nella
bara un gigante tatuato vestito da becchino.....
17
18
19
Intervista ad Ennio Falsoni, uno degli Organizzatori della serata romana al Palazzetto dello Sport.
Falsoni è un gigante del Karate italiano: Maestro 5° dan, tre volte campione europeo e capitano
della nazionale italiana medaglia d'argento ai Campionati mondiali del 1972. E' autore di
numerose pubblicazioni di Arti marziali.
Roland Barthes, saggista critico letterario, linguista e semiologo francese, fra i maggiori esponenti
della nuova critica francese di orientamento strutturalista, ha scritto un saggio breve sul fenomeno
wrestling.
Articolo “Wrestling Spoon River” di Carlo Carabba su “Nuovi Argomenti” 2009.
58
Ma in un altro senso finge di di essere finto, tant'è che, in
alcune interviste alla fine degli incontri, molti “atleti” si
lamentavano per la durezza degli scontri e la veridicità circa i
corpi contundenti.
Il wrestler è un culturista di centoventi chili che sul ring effettua
acrobazie circensi. Passa la sua vita a girare per la provincia
americana come i fenomeni da baraccone delle fiere di paese,
da cui ha preso origine il wrestling come lo conosciamo oggi.
Per reggere i ritmi dello spettacolo e ottenere un fisico
muscoloso e agile fa uso di antidolorifici, steroidi, eccitanti. Già
da alcuni anni il wrestling ha chiesto ed ottenuto di essere
considerato uno spettacolo (e non uno sport) e i suoi “atleti”
non sono tenuti al alcun tipo di controllo della giustizia sportiva
americana.
Nel wrestling l'immedesimazione totale tra attore e
personaggio è la norma, e sempre a favore del secondo. Pare
che in un primo momento gli organizzatori chiedessero al
wrestler di far credere al pubblico che non esistesse altro che il
personaggio che compariva sul ring (in gergo gimnick). Poi si
resero conto che non occorreva spingersi tanto in là,
semplicemente era sufficiente che a comparire fosse sempre
la gimnick, mai l'uomo che la interpretava. In questo sta la
grande differenza tra il wrestler e l'attore. Al praticante di
wrestling, come ad un supereroe, è chiesto di rinunciare alla
propria identità civile e di apparire sempre come quel dato
personaggio con tanto di nome, cognome, soprannome.
La gloria è sempre della gimnick, all'uomo che le sta dentro
sono destinati l'anonimato e l'oblio.
Il wrestling diventa l'unica cosa vera e la vita fuori dal ring un
territorio inospitale in cui non si può più abitare.
“Sul ring non mi può succedere nulla, è là fuori che mi faccio
male”.20
20
Le parole di “Randy The Ram” (Mickey Rourke) prima del combattimento fatale in “The Wrestler”,
film diretto da Darren Aronofsky, vincitore del Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia nel
2008.
59
5.5. UNA BATTUTA D'ARRESTO NEL PROCESSO DI
INCIVILIMENTO
L'enorme sviluppo dei media nella società contemporanea
alimenta l'immaginazione degli individui in molteplici modi,
offrendo loro modelli di comportamento, quadri d'azione e modi
di pensare che diventano altrettante risorse nella vita di tutti i
giorni e nella costruzione della propria identità. Sono risorse
per l'immaginazione delle persone, abituano la gente a
guardare la realtà come uno “spettacolo”.
Muoversi nella vita sociale come nell'atto di assistere ad una
rappresentazione di cui ciascuno è solo uno spettatore,
costituisce un modo di vivere tipicamente “post-moderno”
caratterizzato dal diffuso narcisismo. Non si è interessati a
ottenere risultati duraturi, né tanto meno al progresso sociale,
ma piuttosto si mira all'apparenza e ad un successo
immediato, come se ciascun individuo fosse al centro
dell'attenzione di un pubblico, reale o immaginario che sia.
Cambiamenti nei modelli, sia in famiglia, sia negli altri luoghi di
socializzazione secondaria, favoriti dallo straordinario sviluppo
dei mezzi di comunicazione, hanno contribuito all'emersione di
personalità preoccupate narcisisticamente solo delle
apparenze e non tanto del conseguimento di obiettivi
socialmente rilevanti o di fornire prestazioni utili alla vita di
comunità. Il tratto principale è un'ipertrofia del sé che non
conosce limiti o confini rispetto al mondo. Naturalmente ne
consegue un aumento dei problemi sociali e un accresciuto
senso di disagio individuale.
In una società narcisistica la realtà è concepita come un
succedersi di spettacoli, in cui c'è qualcosa da vedere e in cui
farsi vedere.
Il legame tra il narcisismo come pratica socializzatrice diffusa,
lo spettacolo, la produzione di merci e la formazione sociale
post-moderna e della comunicazione globale è assicurato dai
media, la cui pervasività in ogni ambiente sociale consente il
funzionamento di questo sistema.
Lo sport, in particolare i grandi eventi teletrasmessi, sono un
esempio di come la società dello spettacolo al tempo stesso
60
promuova i consumi e rafforzi le tendenze narcisistiche degli
individui. Lo sport è un esempio rilevante della riuscita
circolarità fra strutture sociali (materiali e culturali) e la
formazione di identità personali, su cui si fonda la società postmoderna. Un circolo virtuoso tra media, vita quotidiana,
rappresentazione e spettacolo/narcisismo a livello individuale.
E' evidente il nesso stabilitosi tra costituzione dell'identità
individuale e media bypassando gli ambienti educativi
tradizionali: una sorta di “video-socializzazione”. I mezzi di
comunicazione riversano negli ambienti sociali una quantità
indefinibile di immagini e di eventi sportivi; questi consentono
alle persone di plasmare la propria identità, coltivando il
proprio senso di appartenenza acquistando maglie ufficiali,
gadget,
prodotti
sponsorizzati,
aderendo
nei
fatti
all'individualismo consumistico che è l'ideologia della società
post-moderna e dello spettacolo.
Dal punto di vista sociale i conti non tornano. Lo spettacolo
sportivo (come generalmente gli altri tipi di spettacolo) rafforza
la personalità narcisistica e gli individui non sono centrati solo
su se stessi, assorti nel piacevole compito di consumare beni e
di auto-gratificarsi materialmente e simbolicamente, ma
soprattutto appaiono insensibili ai diritti altrui, disattenti al bene
comune e disimpegnati nella sfera pubblica. Super-spettacolo
nell'era della riproducibilità dell'evento ed insieme mitologia
civile ed epopea popolare, risposta ai bisogni espressivi
insoddisfatti e, persino, strategia di controllo sociale.
In altri termini, l'imbarbarimento della società non è solo la
somma di tante “cadute individuali”, ma è pure il risultato di
paure e tensioni collettive dovute al forte cambiamento in atto,
che richiederebbe personalità all'altezza delle tante possibilità
offerte da una società complessa, ma che da molti (troppi)
vengono rifiutate in nome del quieto vivere o della sindrome
narcisistica.
Allora i barbari sono di nuovo tra noi. Anzi, barbari siamo noi
stessi, nella misura in cui cediamo all'illusoria potenza delle
tecnologie più avanzate e alle suggestioni della società dello
spettacolo.
61
5.6. IL CONTESTO SPETTACOLARE
Nell'immaginario tradizionale, capitalismo e spettacolo si
trovano agli opposti. Tale radicato stereotipo vacilla ormai da
tempo sotto i colpi della colonizzazione della realtà da parte
dei mezzi di comunicazione e della pubblicità: il risultato è che
la società oggi è costituita sempre più da consumatori di un
mercato che assomiglia a un Luna park, piuttosto che da
cittadini dotati di potere critico.
“Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da
divenire immagine. Lo spettacolo non è un insieme di
immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle
immagini”21.
Per questo motivo lo spettacolo non è qualcosa di esterno alla
società ma, al contrario, è la sua struttura profonda. Tuttavia lo
spettacolo è, allo stesso tempo, solo un settore della società
separato dagli altri e lo strumento attraverso cui questa parte
domina il tutto. Questa contraddizione fa sì che esso sia
necessariamente falso e ingannevole, giacché struttura le
immagini secondo gli interessi di una parte della società.
Questo settore che domina sul resto della società non è altro
che l'economia. Lo spettacolo è così il prodotto della
mercificazione della vita moderna. E' il risultato della
frammentazione sociale derivante dal fatto che un settore
domina sugli altri e della ricomposizione dell'unità perduta nella
realtà sul piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che
manca nella vita degli individui. Si realizza quindi una neo21
Vedi Guy Debord in “La società dello spettacolo” 1967 - De Donato Editore. Debord, filosofo e
saggista francese, con questa affermazione sibillina, allude al passaggio dal capitalismo
industriale a quello consumistico: l'esplosione dell'offerta delle merci ha bisogno della crescita
della domanda, dove il collante fra profitto e consumatori è costituito dalla pubblicità e dalla
stimolazione dei desideri. La merce si fa bella e si presenta al mondo, omologandolo a sé. La
critica di Debord, nel suo saggio-cult scritto (profeticamente) quaranta anni fa, non si rivolge
banalmente alla pubblicità, ma al fatto che ormai ogni rapporto sociale sia mediato da uno
scambio di mercato. Viene riprodotto costantemente l'imperativo capitalistico: produzione,
consumo, profitto. Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare. Debord distingue due
tipologie dello spettacolo, legate a due differenti sistemi politici: “spettacolo concentrato” tipico
delle società totalitarie, “spettacolo diffuso” caratteristico delle democrazie occidentali. Inoltre
presenta anche il modello di “spettacolo integrato” in cui viene analizzato il rapporto
realtà/finzione, con la vittoria completa di quest'ultima.
62
alienazione. Mentre nel capitalismo classico l'alienazione è il
risultato del passaggio dall'essere all'avere22, nel capitalismo
spettacolare essa deriva dal passaggio dall'avere all'apparire,
ovvero ogni “avere” effettivo deve trarre il suo prestigio
immediato e la sua funzione ultima.
Gli individui separati ritrovano la loro unità nello spettacolo, ma
solo in quanto separati. Poiché la comunicazione è unilaterale,
è il Potere che giustifica se stesso e il sistema che l'ha
prodotto in un incessante discorso elogiativo delle merci da
esso prodotte. Lo spettacolo presuppone, quindi, l'assenza di
dialogo e la condizione per raggiungere tale risultato è la totale
separazione di persone sempre più isolate nella folla
atomizzata. Lo spettacolo deriva da questo stato che cerca
costantemente di riprodurre, come dimostrano i beni durevoli
di largo consumo che realizza.
Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che
ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. Infatti l'altra
faccia dello spettacolo è proprio l'assoluta passività del
consumatore il quale ha esclusivamente il ruolo e
l'atteggiamento del pubblico (ossia di chi sta a guardare e non
interviene). In questo modo lo spettatore è dominato dal fluire
delle immagini che si sono sostituite alla realtà, creando un
mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha
perso ogni significato. E' “vero” ciò che lo spettacolo ha
interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle
immagini selezionato dal potere è “falso”, non esiste.
Come l'immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello
spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che
fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello
spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo
è contrario alla vita: l'individuo più accetta di riconoscersi nelle
immagini dominanti del bisogno, meno comprende il proprio
22
Per Marx il lavoro non è più l'attività vitale dell'uomo, ma la vita stessa dell'uomo è fuori da tale
attività. Questa alienazione del lavoro come “espropriazione dell'umana attività e forza
sostanziale in quanto attività e forza sostanziale generica” le cui espressioni sensibili sono la
proprietà privata, la divisione e lo scambio raggiunge il suo culmine (e la sua estrema forma
perfetta) nel capitalismo, in cui le forze del lavoro sono a tal punto separate dall'uomo che le
produce e la produzione di vita materiale è a tal punto separata dalla manifestazione personale,
che il lavoro, l'attività vitale dell'uomo, da sua “essenza” diviene solo “un mezzo” per la sua
esistenza. Vedi Karl Marx in: “Il Capitale”, “L'ideologia tedesca”, “Lineamenti fondamentali”.
63
corpo, la sua esistenza, il proprio desiderio.
Si deve quindi rinunciare alla propria personalità per essere
accettati dalla società, poiché questa richiede una fedeltà
sempre mutevole a prodotti “fasulli”. Ciò impedirà di
riconoscere i veri bisogni e aspirazioni.
Nella società post-moderna il Potere ha accumulato i mezzi
sufficienti, non solo per dominare la società, ma anche per
plasmarla secondo i propri interessi, attraverso una produzione
volta alla diffusione dell'isolamento.
Lo spettacolo è l'ideologia per eccellenza perché espone nella
sua pienezza l'essenza di ogni sistema ideologico:
l'impoverimento, l'asservimento e la negazione della vita reale.
Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce
è questa illusione effettivamente reale e lo spettacolo la sua
manifestazione generale. Questo è il “surplus” richiesto al
“lavoratore”, non più inteso come proletario-operaio, come
voleva l'economia politica nella prima fase dell'accumulazione
capitalistica, ma elevato al rango di consumatore durante il
periodo di svago dal lavoro, bombardato da colossali
investimenti in campo pubblicitario che garantiscono alla
classe dominante di inculcare e imporre sempre più il modello
di vita cinico, egoista, indifferente.
Vittoria della finzione sulla realtà, della copia sull'originale,
della forma sul contenuto. Tutto è concepito, prodotto, vissuto,
tutto esiste e si muove in funzione dell'immagine che deve
attirare chi guarda, il quale (a sua volta) lo fa obbedendo ad
altri bisogni o richieste di apparenza. Le più elementari
espressioni della vita dell'uomo quali la famiglia, la scuola, il
lavoro e poi i sentimenti, pensieri, aspirazioni, tutto segue una
direzione unica: quella di conformarsi all'ambiente, al costume,
alla moda, alla tendenza del momento sopprimendo qualunque
bisogno o richiamo interiore, qualunque autenticità e verità.
L'esterno vale più dell'interno, tutto deve apparire, quasi si
trattasse solo di oggetti. Ciò che appare è buono, ciò che è
buono appare.
5.6.1.
COMUNICAZIONE
COERCITIVA
64
E
INDEBITA
INFLUENZA
Nell'interazione tra individui e tra l'individuo e la società
assume sempre più importanza la capacità di convincere, cioè
di far mutare le opinioni e gli atteggiamenti degli altri. Ciò vale
sia nei rapporti interpersonali, sia nella comunicazione
finalizzata a creare una preferenza per un prodotto o un'idea.
L'industria culturale non ha nulla di spontaneo: non è altro che
uno strumento tramite il quale la società capitalistica riversa le
sue norme e i suoi valori su una massa inerte e atomizzata.
Attraverso l'industria culturale, la società capitalistica mette in
scena la sua inesausta auto-celebrazione e ribadisce la
capillarità del suo potere, a cui nulla e nessuno sfugge. Si
instaura un circolo di manipolazione e bisogno in cui le
aspettative preformate dell'industria vengono interiorizzate a
tal punto dallo spettatore che gli si presentano con la
naturalezza dei desideri e delle ambizioni spontanee.
L'individuo è un burattino manipolato dalle norme sociali.
L'individualità è svuotata del suo potenziale critico e al suo
posto si instaura una pseudo-individualità alienata: la
particolarità del “sé” è un prodotto sociale brevettato che viene
falsamente spacciato come naturale.
Quando la comunicazione è molto forte, ripetitiva e
scientificamente strutturata anche per sfruttare emozioni e
atteggiamenti inconsci, può sfociare nella coercizione e si può
parlare di “indebita influenza”. Sistema per la creazione di
consenso, comunicazione pubblicitaria ed elettorale in cui le
emozioni vengono evocate ad arte per creare un supporto
inconscio alla persuasione.
I meccanismi principali di difesa sono l'autostima e
l'addestramento alle facoltà critiche. Se la costruzione
dell'autostima si basa sulla valorizzazione delle proprie
esperienze positive, l'addestramento alla criticità è un
processo culturale continuo in cui l'individuo deve
costantemente porsi delle domande sugli stimoli che riceve,
cercando di scoprirne la reale validità al di là dei
condizionamenti emotivi e prescindendo dalla fonte. Cioè
imparare a scindere la nozione dalla fonte e valutarla in sé:
65
non ritenere giusta una comunicazione semplicemente perché
proveniente da un movimento di opinione in cui è solito
identificarsi, ma piuttosto esaminarla anche per i contenuti che
esprime rispetto alla propria intelligenza, cultura, scala di
valori. Questi meccanismi cognitivi creano una sorta di
“vaccinazione” nei riguardi dei luoghi comuni e delle banalità
culturali, tale da consentire una difesa più solida nei confronti
della “comunicazione coercitiva”, senza peraltro limitare
l'individuo
nell'accettazione
del
contributo
derivante
dall'interazione con l'altro che deriva da un corretto scambio di
informazioni e opinioni.
5.7. LA DISSONANZA COGNITIVA
Un modo per cercare di influenzare le opinioni delle persone è
quello di indurre in loro della dissonanza (dissonanza
cognitiva)23. Si tratta, cioè, di aggredire un certo tipo di
coerenza presente nella mente dell'individuo, generare uno
stato di incoerenza e, analogamente al rapporto volpe/uva24,
sfruttare l'incoerenza per ristrutturare in una direzione diversa,
gli atteggiamenti del soggetto sottoposto alla comunicazione.
Questo principio di scongelare uno stato di equilibrio, indurre
uno stato di dissonanza e ricongelare le opinioni, le credenze,
gli atteggiamenti e i comportamenti ad un livello diverso di
equilibri, questo meccanismo di scongelamento, modificazione
23
24
Leon Festinger, psicologo e sociologo americano, allievo di Kurt Lewin e Docente alla Stanford
University, elaborò negli anni Settanta una teoria basata sull'idea che le persone hanno bisogno
di coerenza tra atteggiamenti e comportamenti, fra il pensare e il fare. Tale teoria della
dissonanza cognitiva insiste sul fatto che il soggetto ricerca informazioni utili a confermare il suo
atteggiamento, mentre evita le informazioni dissonanti. Le trame effettive di una qualsiasi
condizione dissonante fanno pensare che in questione non sia solo il livello cognitivo e
informazionale, ma anche il livello dei sentimenti e delle emozioni poiché una condizione
dissonante va a minare proprio l'autostima. La dissonanza cognitiva ha effetti emotivi. L'individuo
non si sente solo disinformato, ma anche depresso.
La volpe e l'uva è una delle più celebri favole attribuite a Esopo. Agire come la volpe con l'uva
significa, metaforicamente, reagire ad una sconfitta sostenendo di non aver mai desiderato la
vittoria o disprezzando il premio che si è mancato di ottenere. La reazione della volpe (che
considera – e si auto-convince – l'uva troppo acerba quando invece non riesce ad afferrarla) è
considerata una forma esemplare di “razionalizzazione” in psicologia clinica e di “dissonanza
cognitiva” in psicologia sociale. L'io della volpe è tormentato dalla sua incapacità di raggiungere
l'uva , quindi deve “difendersi” da questo stress andando a comporre la dissonanza.
66
e ricongelamento è alla base delle procedure del cosiddetto
“lavaggio del cervello”.
La dissonanza sta ad indicare il contrasto tra diverse
credenze, opinioni, concetti; oppure fra questi e il
comportamento o l'ambiente in cui l'individuo agisce. La
dissonanza cognitiva può essere ridotta attraverso un
cambiamento delle credenze, del proprio comportamento,
dell'ambiente esterno. Essa può essere ridotta anche
attraverso una ristrutturazione cognitiva che integra l'elemento
dissonante con gli altri elementi. A volte, tuttavia, gli ostacoli
che si oppongono a questo processo di riduzione possono
essere troppo grandi, oppure un cambiamento può risolvere
dei conflitti, ma crearne altri.
La favola della “volpe e l'uva” e il concetto che “l'erba del vicino
è sempre più verde” sono, rispettivamente, le esemplificazioni
di procedure adattive e contro-adattive.
L'influenzabilità di un individuo dipende da fattori ambientali,
situazionali, ma soprattutto è strettamente dipendente dalle
caratteristiche e dai tratti della personalità (rapporto
corpo/mente).
La relazione autostima/influenzabilità è curvilineare, ovvero ad
alta autostima corrisponde una bassa influenzabilità, ma anche
a bassa autostima si verifica una bassa influenzabilità per la
difficoltà di ricezione del messaggio che arriva. I soggetti più
influenzabili sono quelli connotati da un livello medio di
autostima.
Per quanto riguarda la relazione intelligenza/influenzabilità i
risultati sono senz'altro prevedibili e riconducibili all'inversa
proporzionalità tra le due categorie.
Ci sono poi altre caratteristiche, ancora riferibili all'individuo,
che hanno un certo peso e possono incidere sulla possibilità di
persuasione, ad esempio la capacità di assumersi la
responsabilità della propria vita, delle proprie azioni oppure,
diversamente, la tendenza a proiettare verso l'esterno le cause
di ciò che accade. Le persone con “locus of control” interno
sono
mediamente
meno
suscettibili
alle
pressioni
dell'influenza. Proprio la valorizzazione delle risorse interne
può rappresentare una delle vie possibili di “resistenza”,
67
iniziando a sviluppare proprie “difese naturali” contro la
manipolazione, cioè a costruire una personale autonomia di
pensiero, sempre più coerente con i valori profondi, muovendo
qualche passo decisivo sul sentiero della consapevolezza di
sé, del proprio corpo, della straordinaria opportunità di crescita
che rappresenta l'interazione con “l'altro”.
Il dojo come un luogo di “vaccinazione”?25
5.8. IL KARATE E' SOTTO PROCESSO
Karate = mano vuota – vuoto della mente. Ideale condizione
psichica formalmente intesa quale stato emotivo adatto alla
pratica delle Arti marziali nella sua accezione storica, filosofica,
culturale. Un “vuoto” auspicabile e opportuno se si considera
una mente affollata da una sconcertante concentrazione di
pensieri di varia natura e condizionata dal bombardamento
mediatico a cui viene inesorabilmente sottoposta.
Coloro che decidono di iscriversi ad una “scuola”, a un “corso”
di Karate sono mossi da aspettative affatto diverse da chi
sceglie di intraprendere altri percorsi sportivi. Tanto meno tale
scelta è senz'altro legata ad altrettanti elementi di natura
culturale, ambientale, caratteriale. Chiunque frequenti un dojo
di Karate (oppure Judo, Kendo, Kung Fu, Aikido), più o meno
consapevolmente, è alla ricerca di una Via (do) capace di
trascendere la mera performance atletica per condurlo (magari
nell'arco di una intera vita) entro imperscrutabili zone di
profonda spiritualità. In pratica, nella sua forma eccellente,
l'Arte marziale viene intesa e promossa quale straordinario
strumento di conoscenza interiore.
Proprio su questo punto, rischiano di concentrarsi i peggiori
malintesi, speculazioni, millanterie, fanatismi, inadeguate
25
William McGuire (1926 – 2008), psicologo americano, Docente di Psicologia sociale alla Yale
University, è stato uno dei primi studiosi a condurre ricerche sull'influenza della persuasione
operata dai mass-media, pubblicità, industria dei consumi. Attraverso la teoria della
“vaccinazione” (o dell'inoculazione) McGuire spiega che una possibile terapia preventiva risiede
nell'esposizione a piccole dosi di “messaggi virulenti” che inducono il soggetto a sviluppare le
proprie difese contro la persuasione.
68
reazioni emotive, aggressività represse, falsa sicurezza,
ossessioni malate del Superman, proselitismi di bravi
imbonitori. Offuscato da tale spregiudicato travisamento,
deviato da infondati deliri di onnipotenza, l'incolpevole
praticante corre il serio pericolo di smarrire quella “strada
maestra” che, percorsa quotidianamente e costantemente,
potrebbe condurlo al raggiungimento della conoscenza (mai
definitiva) del proprio Io.
Tutto finto! Solo una grande simulazione, una riproduzione in
provetta dello “spirito autentico del Samurai”:26 è proprio da
questa figura complessa che deriva la visione più tipica e
astratta delle Arti marziali di cui molti Maestri nella società
dello spettacolo sono (impropriamente) considerati degni
portatori di continuità.
La sceneggiata melodrammatica, l'immagine visionaria
costruita artificialmente sul piano emotivo diviene più
persuasiva dell'evento a cui si è ispirata. Su tale impostazione
metodologica (kihon, kata, kumite), su questo progetto
immaginativo (avversari immaginari, combattimenti con colpi
controllati, garanzia di incolumità, bersagli simbolici) si fonda la
moderna pratica del Karate.
Il vero è diventato il verosimile, la tragica lotta per la vita si
trasforma in commedia, gli atti eroici ed estremi hanno la
caratteristica di una misera pantomima. Un gioco, una partitella
giocata con se stessi, uno scontro virtuale, un dramma dagli
esiti prestabiliti. Al limite della resistenza fisica o quando il
combattimento si fa troppo duro e l'avversario pericolosamente
irruento, sarà comunque sempre ben presente la calda,
rassicurante certezza che qualcuno o qualcosa (Arbitro,
cronometro, regolamento, Maestro) interverrà in soccorso.
Naturalmente l'incivilimento dei costumi, il progresso delle idee
ha portato nelle “arene” (stadi) non più il massacro di mitici
gladiatori ma piuttosto aitanti giocatori di calcio o di rugby a
caccia di un pallone, gettati in pasto alla folla esaltata e ai
26
Cavaliere altruista e intrepido, grande spadaccino, esteta, spietato sicario, custode della pace, il
Samurai in battaglia ispira terrore, con la spada miete gloria, il suo codice gli ordina di preferire la
morte alla sconfitta. Indiscusso protagonista del Medioevo giapponese, egli racchiude in sé gli
aspetti più tragici e violenti della sua epoca mescolati con il gusto tipicamente nipponico della
raffinatezza e l'ebbrezza della più totale assenza di paura.
69
mezzi di comunicazione. Ha avvolto i pugni chiusi del pugile
non più con borchie appuntite ma con calibrati guantoni, la
punta della spada degli schermitori è resa innocua dalle
protezioni in dura gomma. Le coriacee mani del karateka
indurite al makiwara27 rimangono nascoste sotto eleganti
guantini di finta pelle, i tanto decantati e temuti “colpi mortali” in
grado di uccidere al primo impatto sfiorano appena la pelle del
viso e rimbalzano innocui contro parastinchi anatomici.
Ecco le Arti marziali adattate ai tempi, alla civiltà, alla
concezione ludico-sportiva della vita nella società attuale.
Dell'invincibilità promessa, dei codici d'onore, dei precetti
fondamentali, della millenaria tradizione, del nobile orgoglio, di
tutto ciò cosa rimane?
Il Karate è sotto processo.
Negli ultimi anni, le Federazioni (con gli interessi personali e
finanziari connessi) e la generalizzata incompetenza tecnicogestionale hanno trasformato una disciplina marziale
tradizionalmente nobile in un semplice sport a vantaggio di
qualche buon speculatore a danno di molti altri (i praticanti). Il
prodotto che questi ultimi vanno ad “acquistare” può essere di
buona qualità oppure di scarsa valenza: in ogni caso non c'è
possibilità di controllo e, almeno inizialmente, si “compra a
scatolo chiusa”. La verifica o un eventuale problematica non
dà diritto a reclami o risarcimenti poiché ogni Maestro,
generalmente, si ritiene migliore degli altri, magari portatore di
chissà quali metodologie innovative o cercatore (con
successo) di tradizione pura.
Il Karate, quindi, diventa uno sport basato sull'ambizione, sulla
fama di gloria di Maestri e di molti praticanti addestrati a
cercare soltanto un risultato agonistico. Secondo alcune
Federazioni (moltiplicate di numero in Europa e in Italia negli
ultimi dieci-quindici anni ) e molti Maestri, è assurdo
pretendere da un novizio, che si presenta in palestra con la
27
Il makiwara è composto da una solida di faggio laminato o da un sostegno posto all'altezza del
torace e saldamente fissato sul terreno. La sommità del sostegno è di solito avvolta da corde.
Durante l'addestramento rappresenta la superficie da colpire con pugni e calci per allenare gli arti
al combattimento e sviluppare anche potenza e velocità di esecuzione nelle tecniche di attacco.
E' un dispositivo utilizzato anche per l'addestramento delle Forze Armate in Oriente (Cina,
Giappone, Corea).
70
testa imbottita di scene riprese da film pseudo-marziali,
un'istintiva saggezza e una consapevolezza circa la strada da
percorrere. Ritenendo inefficace una guida da estendersi ben
oltre la “Tecnica” verso una obiettiva valutazione dei limiti e
degli stimoli, si sposta perciò l'attenzione sulla competizione,
trasformata in una parodia più vicina ad una sorta di “danza
classica” che non a una disciplina marziale tradizionalmente
intesa.
Gli atleti pagano le iscrizioni, le trasferte, gli equipaggiamenti
per allenarsi, ricevendo in cambio medaglie, coppe, cinture28,
attestati formali (che non hanno alcun valore spendibile) e una
quantità enorme di titoli a livello provinciale, regionale,
interregionale, nazionale (naturalmente per ogni categoria di
peso).
L'universo del Karate è oggi caratterizzato dalla “contrazione
muscolare”, privilegiando così la forza fisica per andare a
gareggiare in competizioni nelle quali il contatto è vietato e
dove il regolamento rigetta gran parte delle tecniche presenti
nel Karate “tradizionale”.
Tant'è che in molte palestre si allenano esclusivamente a
migliorare quelle quattro-cinque tecniche utili all'eventuale
ippon o wazaari29.
E tutto il resto?
Molti
Maestri
(o
presunti
tali)
addirittura
vivono
dell'insegnamento, ma non sentono alcun desiderio di
migliorare se stessi, né la qualità della vita dei loro allievi. Si
limitano ad “insegnare” ciò che hanno imparato senza porsi
alcuna domanda. Il risultato sarà un declassamento del Karate
a sport violento e conseguentemente non adatto alla
28
29
La cintura è un mezzo che consente al karateka di verificare nel tempo i suoi programmi
personali e quindi il superamento di un esame è la verifica che il lavoro svolto ha portato a un
risultato tangibile. Il principiante indosserà la cintura bianca. In seguito, al superamento di una
prova tecnica (spesso svolta nel dojo di allenamento con il Maestro in qualità di valutatore), potrà
conseguire rispettivamente la cintura gialla, arancione, verde, blu, marrone. L'esame per cintura
nera avviene davanti a una Commissione Federale. Attualmente è prassi quasi normale premiare
il vincitore di una gara, anche a livello provinciale, con la cintura di grado superiore; in alcune
circostanze viene “regalata” anche la cintura nera: ad esempio se il praticante ha dimostrato
particolare spirito agonistico partecipando egregiamente a molteplici competizioni.
Nel Kumite sportivo si intende per ippon un punto pieno, cioè una tecnica ritenuta (dagli arbitri)
precisa e potente, tale da poter essere considerata decisiva, buona velocità e corretta distanza.
Per wazaari si intende un mezzo punto, ovvero una tecnica di buon effetto, meno “pulita” dal
punto di vista tecnico e meno decisiva rispetto a un pugno o calcio premiato con l'ippon.
71
formazione di giovani oppure la fuga di quei pochi che si
avvicinano alle Arti marziali per cercarvi valori più profondi,
nauseati
dall'atmosfera
del
dojo
(narcisismo-invidiacompetizione sfrenata) e dall'atteggiamento dell'Insegnante
(distanza-discriminazione-sarcasmo). Non si tratta di persone
deboli, inadatte alla pratica del Karate, ma individui sensibili,
capaci di riconoscere l'assoluta mancanza di principi e valori
all'interno di “quella scuola di Arti Marziali”.
Sono in continua ascesa le discipline basate sulla forza fisica
con combattimenti senza protezioni (etichettate come Arti,
marziali o di qualche altra cosa, solo perché mutuano alcune
tecniche tradizionali adattandole a strategie e tattiche di
tutt'altro genere); allora per quale ragione perdere svariati anni
di tempo ad eseguire forme “ammuffite”, esercizi “noiosi”,
quando invece è sufficiente salire su un qualsiasi ring alla
ricerca dello scontro “reale” per conquistare qualcosa dal
punto di vista materiale e/o personale. Salvo poi rendersi conto
che pratiche del genere magari servono pure allo scarico di
aggressività accumulata, ma sono totalmente inutili alla
crescita interiore.
Nelle gare ufficiali di Karate, a causa della mancanza di
contatto, il criterio con cui si assegnano i punti e, di
conseguenza, il modo attraverso cui si vincono/perdono i
combattimenti non è per niente chiaro. Proprio il divieto di
“entrare” lascia la decisione della sconfitta o della vittoria alla
completa discrezionalità degli arbitri (che sono spesso oggetto
di numerose proteste) mentre l'ignaro pubblico resta escluso
da qualsiasi comprensione sulle ragioni della proclamazione a
vincitore di uno tra i contendenti.
Che noia il kumite sportivo! Con avversari che si muovono
pochissimo, si studiano per tutta la durata dell'incontro (round
di tre minuti effettivi) e imbastiscono una-due iniziative
accompagnate da grida di liberazione (pseudo-kime)
utilizzando perentoriamente solo quelle tecniche di attacco
preparate in palestra durante la settimana.
Dal punto di vista politico, una motivazione alla regola di non
portare i colpi a segno è che togliendo pericolosità, il Karate
avrebbe goduto di un maggiore bacino di utenza (meno rischi
72
– più praticanti – più soldi per le Federazioni). Tutto ciò infatti
ha favorito inizialmente buoni risultati numerici, ma da alcuni
anni la dimensione del Karate è in contro-tendenza e molti
corsi sono frequentati esclusivamente da bambini. Le
innovative metodologie di allenamento hanno avuto una
ricaduta positiva proprio per i più piccoli, mentre il resto dei
praticanti, con fascia di età e aspettative diverse, si è
parzialmente conformato.
Così facendo i ragazzi giovani che avevano ancora voglia di
una pratica dura si sono allontanati dal Karate per confluire in
massa negli sport da combattimento (thai-boxe, full-contact,
kick-boxe, eccetera). Statisticamente, osservando un
allenamento o uno stage di Karate, sarà possibile osservare
come l'età dei partecipanti oscillerà bruscamente da valori
preadolescenziali a quella di soggetti con capelli brizzolati e
addominali non proprio scolpiti. La fascia di età intermedia è
dolorosamente assente.
Il Karate “addolcito”, reso più “urbano”, con il contatto sempre
più raro allontana gradualmente il Karate dal suo passato
marziale e da ogni connessione con il combattimento reale.
5.9. PUNTI DI VISTA (MARZIALI)30
Un allenamento produttivo è un allenamento contundente,
perché un praticante di Karate non può trovarsi nel momento
del bisogno senza aver sperimentato nel dojo la sensazione
30
Considerazioni personali che hanno preso spunto da articoli scritti da Lorenzo Tussardi e
Ferdinando Balzarro.
Il Maestro Tussardi, 6° dan di Karate, fondatore dell'Accademia Italiana Karate Shotokan Ryu
Kase Ha, protore e divulgatore del messaggio del Maestro Kase, ovvero un Karate molto duro e
realistico che si è perduto con l'introduzione dell'agonismo.
Ferdinando Balzarro, ex Insegnante di Educazione Fisica a Bologna, 8° dan di Karate, campione
europeo di kumite a squadre con la Nazionale italiana nel 1973, campione italiano individuale di
kumite, è uno dei Maestri più prestigiosi e conosciuti a livello internazionale.
Inoltre la riflessione rappresenta anche una sorta di resoconto dialettico tra il sottoscritto e
Maestri, Istruttori, praticanti di Karate nel corso di tanti anni e altrettanti allenamenti. Voglio
ricordare i Maestri Baldi, Cerretelli, Cialli, Fici, Gori, Somigli e il mio caro amico Giordano
(Istruttore 5° dan) i quali, con i loro distinti punti di vista e metodi addestartivi, hanno senz'altro
contribuito ad ampliare le mie conoscenze marziali e a migliorare uno stato di benessere
generale.
73
del duro impatto e senza aver verificato le proprie reazioni
emotive di fronte al dolore.
Che utilità può avere il “praticare Karate” evitando di portare i
colpi a segno?
Anche all'interno del cosiddetto Karate sportivo, per coloro cioè
che intendono ormai il Karate solo uno sport e non più un'Arte
marziale, che tipo di sport si deve considerare?
Se deve essere una disciplina di combattimento, è pur vero e
sacrosanto che l'eventualità di prendere qualche colpo
dovrebbe comunque essere messa in conto, così come il
riconoscimento generale si sposta naturalmente verso chi
porta più colpi a segno (vedi boxe, ad esempio).
Se poi non è neppure uno sport da combattimento, di nuovo
appare problematico fornire una risposta abbastanza
esauriente, almeno verso coloro che muovono i primi passi
con curiosità e perplessità in un qualsiasi dojo.
Il Karate (forse) soffre di una contraddizione difficilmente
sanabile. Se praticata a pieno contatto e con l'utilizzo di tutte le
tecniche del suo repertorio, può provocare danni gravi e
permanenti; se si elimina il contatto e si riduce il bagaglio
tecnico è sostanzialmente inefficace in un combattimento: sia
in caso di difesa da aggressione reale, sia nel confronto con
altre discipline potenzialmente meno pericolose ma praticate in
modo più “realistico”.
D'altronde ci sono “scuole di pensiero” che considerano e
auspicano il Karate come un'Arte per individui disposti ad
accettare un certo grado di pericolosità e l'inevitabile rischio di
qualche trauma. Anzi, gli ematomi con cui bisogna convivere,
devono costituire un momento importante di crescita e
acquisizione di alcune qualità caratteriali da cui un karateka
non può prescindere: reazione al dolore e alle proprie paure, il
coraggio di decidere se proseguire o meno in un percorso
marziale. Il dolore diventa così il vero “Maestro”, è una spia
essenziale per prendere coscienza dei propri limiti, per rivelare
la disposizione psico-fisica a continuare nella pratica, per un
giudizio senza repliche circa il dislivello della montagna da
scalare.
L'allievo di un dojo “tradizionale” deve avere una
74
predisposizione d'animo flessibile, tale da essere plasmato e
forgiato; solo in un secondo tempo l'allievo stesso conseguirà
uno “spirito inflessibile” ed un “cuore fermo” tipico dei guerrieri
di antica memoria.
Quindi allenamenti duri con un medio/alto grado di contatto:
tant'è che una lezione di Karate, per essere produttiva, deve
avere alcune caratteristiche.
In primo luogo nel dojo si deve creare uno stato di elevata
tensione psicologica, è necessario cioè percepire la
pericolosità del luogo e un certo rischio per la propria
incolumità. Inoltre un vero dojo trasmette, allo stesso tempo,
una un'atmosfera calma e violenta. E' un luogo carico di
energia combattiva.
Valorizzando ed enfatizzando oltre misura le categorie
“rispetto” e “controllo”, molti Maestri giustificano così la loro
scelta di praticare un Karate indolore durante le lezioni. Ma
proprio perché si rispetta il compagno/avversario che bisogna
cercare di colpirlo attaccando e difendendo “realisticamente”,
in modo tale da migliorare vicendevolmente il livello tecnico
costringendo entrambi ad attingere alle energie psico-fisiche
disponibili per non soccombere. Ancora una volta le persone
sono poste dinanzi alla paura e ai propri limiti che, tuttavia,
vengono affrontati e gestiti nel dojo, anziché (vissuti per la
prima volta) durante uno scontro reale. Se, al contrario, il
contatto è bandito – dai vari regolamenti tecnico-federali e da
norme interne promulgate dal Maestro – allora non si rispetta
il contendente, non si è leali con lui, non c'è aiuto reciproco nel
verificare l'efficacia delle tecniche di attacco e difesa.
Nella fase di kumite bisogna attaccare con la massima
velocità, il partner sarà costretto a raccogliere al suo interno la
forza, migliorare il livello della difesa (allo scopo di non farsi
colpire) e reagire con un contrattacco: e così via in una
continua e reciproca ricerca di efficacia.
La falsa interpretazione del “rispetto” si allinea ad un altro
concetto che, a sua volta male interpretato, potrebbe recare
seri danni al praticante di Karate, ovvero il controllo.
Controllare una tecnica significa non scaricare tutta la potenza
di cui un soggetto è capace quando arriva a contatto con
75
l'avversario. A questo proposito il Karate “moderno” sembra
ormai trasformato in una grande recita con bravissimi attori,
belle posizioni tecnico/posturali, sguardi nella giusta direzione,
atteggiamenti da neo-Samurai pronti alla guerra. Ma di
combattere sul serio non se ne parla neanche: il contatto è
assolutamente vietato. Meglio atteggiarsi a guerrieri che
diventarlo davvero, se non altro si evitano addestramenti
durissimi e un quid non indifferente di dolori ed ematomi diffusi
sul proprio corpo.
Perciò, paradossalmente, esistono grandi rischi ad una pratica
di Karate “indolore”.
Innanzitutto non si ha un riscontro sulla propria efficacia e non
si impara a dosare la potenza delle tecniche.
In secondo luogo ci si abitua a colpire fuori distanza, andando
a falsare un concetto che rappresenta uno dei parametri
essenziali per un karateka: un deficit pericoloso qualora
servisse realmente andare ad impattare con una certa
probabilità di successo.
In terzo luogo non c'è la possibilità di verificare come reagisce
il proprio corpo di fronte ad un impatto con un corpo estraneo
in movimento e nemmeno di capire se l'energia prodotta dai
colpi (attacchi e/o difese) è trasferita sul bersaglio o riassorbita
dal proprio corpo andando a compromettere un assetto
posturale.
Infine non si “allena” il temperamento, non si affrontano le
paure e gli stati di alterazione emotiva, si resta sconosciuti a se
stessi con l'illusione (e la speranza) che qualcuno verrà in
soccorso in caso di bisogno.
Se oggigiorno le Federazioni e, generalmente, tutte le palestre
fanno dell'accessibilità a tutti e della mancanza di rischi per
l'incolumità personale una carta importante da giocare per
attirare le persone verso la pratica del Karate, un'altra visione
culturale ritiene che lo stesso Karate debba ritornare una
“disciplina elitaria”, appannaggio di pochi virtuosi da
contrapporre alla schiera di “impiegati” delle Arti marziali che
vivono di Karate senza vivere da karateka.
76
6. STUDI, RICERCHE, PERCORSI
6.1. IL KARATE A SCUOLA
Il progetto Karate nasce con il preciso scopo di proporre alla
Scuola Elementare un mezzo efficace e collaudato per fare
Educazione motoria secondo un approccio multilaterale e
polivalente. E' convinzione (federale) che il Karate, rivisitato
con gli strumenti critici della scienza e proposto in termini
metodologicamente adeguati al contesto scolastico, possa
essere un efficace strumento per conseguire gli scopi propri
dell'educazione motoria31.
Si tratta, insomma, di una specialità in grado di dare un
contributo efficace e di integrarsi perfettamente con altre
materie di studio secondo l'approccio multidisciplinare.
L'obiettivo, comunque, è fornire uno strumento in grado di
formare capacità oltre l'ambito motorio, vale a dire sviluppare
la facoltà di effettuare operazioni a carattere cognitivo efficaci,
tempestive, creative in un contesto nel quale la situazionalità è
il tratto caratterizzante. Lo scopo è quindi quello di formare
giovani in grado di interagire efficacemente tra loro e con
31
Il Progetto Karate – FIJLKAM (Federazione Italiana Lotta Judo Arti Marziali) è stato tra i primi ad
essere approvato dalla Commissione mista MIUR – CONI. Attivato nell'anno scolastico 2008-09,
proseguirà almeno fino al 2011-12. Progetto e programma sono sviluppati sulla base di:
programmi ministeriali scolastici; conoscenze fondamentali dei processi di socializzazione
collettivi e psicologico-biologici individuali operanti tra i 5 e i 14 anni; moderne teorie scientifiche;
esperienze maturate sulla formazione dei praticanti di Karate in tutte le fasce di età; risultati
acquisiti nella formazione di atleti di alta prestazione e di campioni di kumite e kata.
77
l'ambiente, in uno scenario contraddistinto da regole.
Il Progetto Scuola è strutturato in funzione di un percorso
formativo che parte dal “sé” e percorre tutto l'iter che consente
al soggetto di realizzare le proprie potenzialità ai massimi
livelli. Gli Sport di Combattimento presenti nella Federazione
(tra cui, ovviamente, anche il Karate) appartengono all'area
degli sport situazionali, caratterizzati da attività neurocognitive-motorie particolarmente efficaci per lo sviluppo
dell'individuo in età evolutiva.
Tant'è che, presso le società sportive affiliate alla FIJLKAM,
queste discipline vengono praticate a partire dai 5 anni di età.
Esiste infatti, una forte domanda da parte delle famiglie che ne
apprezzano le valenze educative e formative. Inoltre alcune
statistiche fornite dal CIO e un'indagine pubblicata sul
quotidiano IL SOLE 24 ORE dimostrano che le discipline in
questione rappresentano le attività motorie/sportive più
praticate dai bambini al di sotto dei dieci anni. La presenza
femminile è in continua crescita e nel Karate, ad esempio, il
numero delle bambine equivale grosso modo a quello dei
praticanti maschi.
La Federazione ha adeguato così le proprie strategie in termini
culturali, metodologici, didattici, organizzativi alle esigenze
delle famiglie e ai bisogni di formazione dei piccoli
studenti/praticanti.
I programmi proposti agli Istituti Scolastici, distinti, progressivi,
graduali vengono predisposti secondo itinerari metodologici
commisurati all'età, delineando una pratica scolastica
divertente e, soprattutto, sicura. La differenziazione tra Scuola
primaria e Scuola secondaria di primo grado innanzitutto è
utile per sostenere al meglio l'impegno sul piano didattico e
operativo. Naturalmente la Federazione fa proprie le finalità
della Scuola primaria e secondaria, ovvero la promozione del
pieno sviluppo della persona, contribuendo alla creazione di
uno stimolante ambiente di apprendimento. Gli apporti culturali
delle discipline di origine orientale contribuiscono a stimolare le
varie dimensioni della personalità degli alunni e favoriscono
l'accesso a una conoscenza, interpretazione, simbolizzazione
e rappresentazione del mondo anche secondo un approccio
78
multiculturale e multietnico.
Per quanto riguarda gli ambiti di applicazione, il Karate (e
anche Lotta e Judo) si presta in modo particolarmente efficace
ad interagire con alcuni ambiti disciplinari, correlati tra loro, in
termini di conoscenze, abilità e competenze.
L'ambito linguistico-artistico-espressivo, per l'utilizzazione e
spiegazioni di termini e concetti provenienti da altre culture,
apprendimento di termini in lingua originale e/o in lingua
italiana per l'esecuzione di movimenti.
L'ambito storico-geografico (capacità di orientarsi in altre
epoche storiche e aree geografiche, simbolismi e ritualità);
l'ambito scientifico-motorio con l'apprendimento di anatomia
elementare e le differenze tra la cultura orientale e la scienza
occidentale.
Inoltre l'ambito ambientale-salutistico, ovvero interazione con
l'ambiente e benessere psico-fisico da assumere come regola
di vita permanente.
Quindi i destinatari del Progetto Karate nella Scuola sono gli
alunni, i Docenti e le famiglie, ai quali la Federazione intende
promuovere le proprie discipline educative attraverso attività
ludiche, formative, divulgative, promozionali.
Principalmente, le finalità del Progetto sono, in primo luogo, di
proporre uno strumento didattico in grado di contribuire, in
armonia con gli altri insegnamenti, ad un equilibrato sviluppo di
tutte le aree della personalità dei giovani studenti. Migliorare le
capacità di apprendimento ed il livello di concentrazione
dell'alunno che, grazie all'apporto del Karate, sviluppa
un'organizzazione mentale in grado di regolare sequenze
psico-motorie. Favorire la propensione ad assumere processi
decisionali con diversi gradi di responsabilità. Contribuire,
inoltre, al processo di arricchimento professionale e culturale
dei Docenti scolastici attraverso un aggiornamento costituito
da approcci culturali, metodologici e propedeutici ai
fondamentali delle discipline federali, fornendo loro un
dettagliato quadro teorico sull'importanza dell'interazione
neuro-psico-motoria in funzione dello sviluppo della
personalità.
Gli obiettivi del Progetto, oltre a sviluppare la conoscenza del
79
Karate (e delle altre Arti marziali) nella Scuola, possono
spaziare in varie dimensioni. Ad esempio l'opportunità di
interazione con i Docenti interessati attraverso procedure
condivise, creando un'efficace rete di rapporti; in secondo
luogo collocare ufficialmente il Progetto Karate nei POF
scolastici; oppure aumentare la pratica qualificata delle attività
motoria integrando la disciplina marziale nel percorso
formativo scolastico. Inoltre, dal punto di vista pratico, gli
obiettivi sono riconducibili allo sviluppo della capacità di
discriminazione percettiva con particolare riferimento allo
sviluppo della “propriocettività” e all'organizzazione delle
categorie di spazio e tempo. Oltre, naturalmente, agli obiettivi
di natura fisico-atletico-posturale tipici dell'età in questione.
Per quanto riguarda le metodologie di lavoro, sono presenti
momenti d'insegnamento individuale e collettivo, diversificati in
relazione alla fascia di età ed organizzati in modo da essere
motivanti. Inoltre l'approccio è di tipo ludico-sportivo, in cui
vengono proposte situazioni di confronto ed evitate
accuratamente le esasperazioni tecnico-agonistiche. Sarà
promosso uno sviluppo polivalente della motricità e della
personalità, fondendo l'educazione motoria con quella sportiva.
E ancora, momenti di gioco-sport collettivo per implementare i
valori propri dello sport come le regole del fair play. I metodi
più efficaci per il conseguimento degli obiettivi posti dalla
programmazione sono il metodo ludico, metodo della libera
esplorazione, metodo della scoperta guidata, metodo della
serie di ripetizioni (Karate), metodo ploblem solving, metodo
delle piccole competizioni.
La valutazione, attraverso i test sullo sviluppo dell'attività
neuro-cognitiva-motoria, viene concordata con il Docente
scolastico curricolare designato e avrà, generalmente, come
oggetto i dati relativi a un percorso, un gioco tecnico, un test
tecnico. Questa struttura di valutazione può essere riproposta
in forma combinata anche in occasione di manifestazioni di
gioco-sport.
Infine la struttura del Progetto Karate a Scuola tiene conto
anche del fatto che, abbastanza frequentemente, i giovani
studenti sono vittime di una ipocinesi, che non ha consentito
80
loro uno sviluppo e un'integrazione adeguata delle funzioni
senso-motorie. Dedica particolare attenzione e cura allo
sviluppo delle capacità cognitive, che sono il presupposto
all'apprendimento di qualsiasi tipo di abilità motoria.
6.2. LA PERSONALITA' DEL KARATEKA
L'obiettivo della ricerca effettuata da Alessandro Mahony32 è
quello di valutare gli effetti e i supporti benefici di una pratica
quale il Karate.
Quali sono le caratteristiche dei praticanti? Variano con il
tempo? Cosa si acquista praticando Karate?
Nell'ambito dello studio in oggetto, oltre ad una iniziale
divisione dei partecipanti in maschi e femmine, si è proceduto
ad una differenziazione in base al livello raggiunto: fino al
grado di cintura arancione, cinture verdi/blu/marroni, cinture
nere.
Dalle risposte sul questionario (anonimo) distribuito è emerso,
riguardo alle domande autobiografiche, che i soggetti
partecipanti, uomini e donne tra i 14 e i 50 anni, avrebbero
buone relazioni sociali e affettive, buone condizioni di vita e
buon equilibrio emotivo; la pratica del Karate per loro è
sinonimo di fatica e soddisfazione, una buona realizzazione
personale ad ogni grado di cintura.
Altre dimensioni indicate sono state: ansia come carattere,
l'umore (una scala della depressione), ansia e tensione prima
di una gara, aggressività, le paure quotidiane (es. sostenere
un esame), valutazione della propria auto-consapevolezza
corporea ed efficienza fisica, capacità di impegno e ricerca del
successo, controllo delle proprie capacità, dei risultati in gara.
Per quanto concerne gli uomini, i risultati hanno messo in
evidenza valori più bassi, rispetto ad ansia e depressioni, in
confronto a uomini che non praticano sport. Valori abbastanza
32
Vedi Nota sull'Autore a pag. 32. La ricerca in questione “La personalità del karateka” è il risultato
di uno studio effettuato presso alcune palestre di Karate a Milano, Como, Varese.
81
alti, invece, circa la tensione pre-gara (reale pericolo avvertito
dal contatto fisico nel kumite e dal timore di una scarsa
valutazione arbitrale – dopo mesi di estenuanti prove – in una
competizione di kata). L'aggressività non varia con l'esperienza
e non presenta valori superiori, se confrontata con altri sportivi.
I karateka hanno una buona consapevolezza del proprio corpo
e una buona efficienza fisica. Ambizione e ricerca del
successo minori rispetto agli altri sportivi, ma si riscontrano
valori alti nella capacità di impegno. Inoltre un dato (a prima
vista) paradossale. Cioè le cinture nere riescono poco a
controllare gli aspetti relativi alle proprie prestazioni in gara
rispetto alle cinture “colorate”. Ovvero gli insuccessi sono
attribuiti e vissuti più come dovuti a fattori esterni (es. la
sfortuna) che a fattori interni (es. la scarsa preparazione). Da
successivi colloqui mirati i ricercatori hanno rilevato che le
cinture nere si sentono “realizzati”: sono giunti (almeno così
ritengono) al top della tecnica e se qualcosa è andato storto,
non è più vissuto come un fattore sotto controllo. Il massimo
del controllo della situazione si ha nelle cinture intermedie,
quando gli atleti sono ancora spinti dalla voglia di progredire e
hanno la consapevolezza di migliorare sempre; gli effettivi
successi ed insuccessi sono attribuiti alle proprie capacità e
all'impegno profuso.
Le donne ottengono risultati più tangibili rispetto agli uomini.
Anch'esse risultano meno ansiose e depresse rispetto a donne
che non praticano alcuna attività fisica. L'umore migliora e le
paure quotidiane diminuiscono durante il percorso marziale; la
consapevolezza corporea e l'efficienza è paragonabile a quella
degli uomini. Caratterialmente appena più timorose rispetto
agli uomini. Le donne hanno un diverso modo di rapportarsi
all'ambiente, sia in allenamento che in gara. Sono più
preoccupate di “apparire” (specialmente in gara), i risultati
dimostrano che hanno più difficoltà (specialmente durante il
periodo della cintura intermedia) ad inserirsi nel prototipo di chi
pratica questa disciplina rispetto ai loro compagni di pratica
maschi (probabilmente la causa è legata a fattori e
condizionamenti culturali). Prima di una gara sono più tese le
donne degli uomini, ma già a livello di cintura intermedia
82
aumenta la loro ambizione e il desiderio di successo rispetto
alle compagne principianti (fattore che per i maschi non varia).
Cosa ha di diverso dagli altri sportivi il praticante di Karate?
I dati disponibili hanno fornito confronti con i calciatori, tennisti,
piloti, giocatori di pallamano. Per le donne sono stati analizzati
alcuni dati soltanto per quanto concerne le giocatrici di
pallamano.
I karateka, paragonati alla media generale degli sportivi, hanno
livelli più alti di ansia sia in gara che in allenamento. Ricerca
del successo minore ma una maggiore capacità di impegno e
applicazione nella pratica, rispetto agli altri sportivi.
In particolare, riguardo al confronto con i calciatori, il praticante
di Karate possiede più autocontrollo in allenamento, ma
un'autostima minore. Rispetto ai tennisti senz'altro meno paure
e più fiducia sulle proprie capacità piuttosto che sull'efficacia di
un fattore esterno. Per quanto concerne i piloti, nei loro
confronti i karateka sanno affermare in misura minore le
proprie esperienze e le proprie convinzioni. Rispetto ai
giocatori di pallamano, hanno maggiore capacità di
autocontrollo sia in gara che in allenamento.
Invece le donne che praticano Karate, rispetto alle giocatrici di
pallamano, hanno valori minori di ansia, ma tenderebbero più
a valutare le proprie performance in relazione a circostanze
esterne piuttosto che legate alle proprie motivazioni e capacità.
Questo studio, naturalmente, ha coinvolto praticanti di Karate
orientati verso il settore sportivo (gare, competizioni ufficiali a
vario livello, ricerca di alta prestazione). Può definirsi, tuttavia,
uno studio preparatorio per arrivare a dettagliare (per esempio)
a che età è utile o consigliabile iniziare l'apprendimento del
Karate, quali sono le motivazioni che spingono una persona a
scegliere proprio il Karate piuttosto che un'altra disciplina
sportiva o una differente Arte marziale, come migliorare una
sorta di benessere psico-fisico e sviluppare, allo stesso tempo,
le caratteristiche di un possibile “sportivo vincente”, di
successo.
83
6.3. LA MOTIVAZIONE
Lo studio pilota di Giulia Cavalli33 tenta di indagare le
motivazioni esplicite (cioè coscienti) a praticare Karate in Atleti
non agonisti.
La ricerca mette in evidenza come la motivazione a praticare
Karate nei bambini, nelle cinture di grado inferiore e in coloro
meno esperti è legata a dimensioni esterne (motivazione
estrinseca), ad aspetti di conoscenza della disciplina, al
bisogno di stringere relazioni con gli altri e di acquisire abilità
tecniche. Con l'età e gli anni di pratica, a cui necessariamente
si associa un più alto livello raggiunto, la motivazione subisce
un decremento nelle dimensioni più lontane dallo spirito del
Karate-do, in particolare diminuisce notevolmente l'essere
motivati da fattori estrinseci (esterni a sé, per ottenere
qualcosa: stima, apprezzamenti, successi), il bisogno di
conoscenza della disciplina e di praticare Karate per stare con
gli altri. Diminuiscono quindi quei fattori che non appartengono
allo spirito del Karate tradizionale, aumenta invece la
motivazione a praticare Karate per rilassarsi mentalmente. E'
interessante verificare come il fattore relativo al benessere
psico-fisico (conoscersi, migliorarsi, “sentirsi bene”) rimane
costante, con un picco significativo di caduta nella fascia di età
11-18 anni, fra i 2 e i 5 anni di pratica del Karate e nelle cinture
verdi-blu-marroni. Ciò significa che è soprattutto in queste
fasce che si ha un calo motivazionale a cui, molto
probabilmente, è associato un maggior numero di abbandoni.
La ricerca si pone l'obiettivo di fornire uno strumento di
osservazione della motivazione negli allievi, finalizzato anche
alla formazione di Istruttori e Maestri e all'ausilio nella loro
quotidiana attività di insegnamento. Studiare la motivazione a
praticare Karate consente non solo di approfondire la
conoscenza dell'uomo (la ragione per cui una persona sceglie,
più o meno consapevolmente, di mettere in atto certi
33
La Dott.ssa Giulia Cavalli è Docente presso il Dipartimento di Psicologia dell'Università Cattolica
di Milano. Lo studio-ricerca in questione “La motivazione a praticare Karate in Atleti non agonisti”
è stata effettuata nel 2007 presso alcune Palestre in provincia di Milano e Bergamo (Bellinzago
Lombardo, Vaprio d'Adda, Cassano d'Adda, Inzago, Cascine San Pietro, Caravaggio).
84
comportamenti), ma anche una migliore promozione dello
stesso Karate tradizionale, nei termini sia di individuare
l'utilizzo di strategie adeguate nell'insegnamento, sia di
promuovere, a livello personale, una riflessione su se stessi.
Tali obiettivi, nello studio della motivazione al Karate, si
inseriscono perfettamente nello spirito che lo anima, cioè l'idea
del do (Via) che porta al miglioramento di se stessi tramite una
conoscenza profonda di sé e, in generale, dell'essere umano.
Il Maestro cerca di trasmettere proprio la dimensione
mente/corpo attraverso l'insegnamento delle tecniche, il
corretto apprendimento dei kata e delle forme di
combattimento tradizionale con il fine di sviluppare
l'integrazione del ritmo proprio e altrui.
Per operazionalizzare il costrutto complesso della motivazione
a praticare Karate sono stati scelti alcuni indicatori
comportamentali che tentano di integrare gli aspetti
motivazionali studiati dalla psicologia con la pratica del Karatedo.
Il primo obiettivo (individuare le variabili motivazionali) è stato
perseguito studiando la letteratura psicologica sulla
motivazione, le biografie dei Maestri del Karate tradizionali e
chiedendo di spiegare il “perché” praticano Karate a 50
soggetti (39 maschi – 11 femmine, età dai 5 ai 49 anni): 13
cinture
bianche,
12
cinture
giallo/arancione,
12
verdi/blu/marrone, 13 cinture nere 1°-2°-3° dan.
“Incontri un amico che non vedi da tanto e gli racconti che vai
in palestra a praticare Karate. Lui ti chiede: Perché fai Karate?
Tu cosa gli rispondi? Prova a scrivere la prima risposta che ti
viene in mente”.
Le risposte hanno portato alla creazione del questionario:
“Perché pratico Karate?” costituito da 35 domande.
Campione: 155 soggetti (111 maschi – 44 femmine) dai 5 ai 70
anni.
Livello raggiunto: 31,6% cintura bianca, 32,9% cintura
gialla/arancione, 14,9% cintura verde/blu/marrone, 20,6%
cintura nera.
Anni di pratica: 31,6% appena iniziato, 22,6% 1 anno, 20,1%
2-5 anni, 25,7% più di 7 anni.
85
Le analisi hanno evidenziato l'influenza dell'età e degli anni di
pratica sul tipo di motivazione: maggiori sono l'età e
l'esperienza, maggiore sarà la motivazione intrinseca;
diminuisce invece il peso sulla motivazione dei fattori esterni
alla persona. Coloro che hanno maggiore motivazione
estrinseca mostrano anche minor interesse, impegno e
motivazione totale durante le lezioni. Coloro che sono spinti a
praticare Karate dal desiderio di perfezionarsi tecnicamente
mostrano di non aver bisogno di fattori esterni per essere spinti
ad impegnarsi nel fare gli esercizi proposti. La motivazione
riferita al benessere psico-fisico predice il maggior impegno
dell'allievo quando viene osservato e lodato dal Maestro. La
motivazione relativa all'equilibrio psicologico predice l'elevato
impegno autonomo, l'interesse per gli esercizi e per l'attività
nel suo complesso.
Nella fascia 11-18 anni emerge un decremento della
motivazione: questo risultato appare in linea con l'esperienza
di molti Maestri che vedono diminuire il numero dei propri
allievi nella fase adolescenziale. Naturalmente, su tale dato, la
riflessione può portare ad individuare un approccio diverso per
la promozione del Karate-do proprio per questa fascia
anagrafica. Infatti le caratteristiche della pre-adolescenza e
adolescenza (ad esempio il rifiuto delle regole poste dall'adulto
per la costruzione di un'identità) giocano un ruolo essenziale
nella diminuzione della motivazione.
Per quanto concerne, infine, la dimensione motivazionale del
benessere psico-fisico e la rilevanza di un maggiore impegno
se osservati e lodati dal Maestro, la spiegazione può essere
riferita al fatto che questi soggetti sono convinti (sulla Via del
Karate) che la presenza del Maestro, inteso come guida, sia
un mezzo fondamentale per il raggiungimento di sé. Non deve
essere letto nei termini di una dipendenza della motivazione da
fattori esterni (appunto la presenza del Maestro), quanto
piuttosto per la consapevolezza di potersi avvalere
dell'insegnamento di colui che si trova più “avanti” nel
cammino.
86
6.4. CHIUDERE LA PORTA
C'era una volta la mia palestra di Karate....34
Venticinque anni fa i corsi di Karate potevano essere
frequentati a cadenza quasi quotidiana ed era funzionale solo
un ulteriore reparto “pesistica” sfruttato anche dai praticanti di
Karate prima (o dopo) la lezione.
La lezione di Karate era davvero a “porte chiuse”.
Simbolicamente (e non solo) si chiudeva la porta del dojo e
nessuno se ne andava prima della fine, naturalmente dopo il
rispettoso saluto al Maestro e, in generale, al luogo di
addestramento. Non si trattava di segreti militari che altrimenti
avrebbero favorito un “nemico” (vero o presunto), ma piuttosto
un desiderio di spiritualità, concentrazione, attenzione,
apprendimento attraverso la gestualità rigorosa, tali da
escludere una condivisione pubblica ed esibizioni-spettacolo
con spettatori curiosi/confusionari. Si trattava di momenti
emozionalmente forti, di totale appartenenza a riti, simboli,
percorsi addestrativi, sogni.
Un principiante aveva a disposizione due-tre lezioni, seguito
individualmente da un Assistente del Maestro, per entrare in
sintonia con l'ambiente e la particolare atmosfera respirata. Si
insegnavano le tecniche di base (pugni, calci, parate) e alcune
posture fondamentali. Una discreta percentuale di “adepti” se
ne andava quasi subito ritenendo che quel tipico clima di
energia “guerriera” non fosse in linea con le proprie
aspirazioni, il proprio carattere. Ma coloro che proseguivano il
cammino erano costretti gioco forza ad adattarsi al più presto,
a rubare qualcosa dagli altri sotto il profilo tecnico, a difendersi
come potevano durante i primi confronti con praticanti
senz'altro più esperti.
Anche questo step rappresentava un momento di selezione
naturale; un primo gruppo di allievi si chiamava fuori: i curiosi.
Ovvero coloro che hanno provato a vestire gli abiti del
34
Scorrendo molte brochure di Palestre in cui si praticano (anche) Arti marziali, è possibile
verificare come la gran parte di offerta viene assorbita da attività quali Danza classica, Danza
moderna e contemporanea, Danza del ventre, Danza libre e Hip-Hop, Pilates, Step e Aerobica,
Bodybuilding, Difesa Personale per donne.
87
karateka seguendo un parente o amico già coinvolto, oppure
conseguentemente alla visione illuminante di una pellicola
cinematografica o televisiva dove bravissimi acrobati
spacciano ottimi esercizi di corpo libero per Arti marziali.
Ancora coloro che, solo per avvicinarsi a una nuova disciplina
(dopo aver tentato magari con calcio, tennis, basket), si
introducono nel dojo più vicino a casa con atteggiamento
curioso e disincantato (a volte anche critico), senza sofferenza.
Naturalmente gli allenamenti svolti con intensità, i primi colpi
incassati decretano, in certi casi, una reazione di “fuga di
superiorità”: “In quella palestra sono tutti matti!”. Diventa più
opportuno e intelligente orientarsi verso un corso ben
organizzato di “corpo libero” con musica latino-americana in
sottofondo, salvo poi convincersi e impegnarsi in una lotta
faticosa ed entusiasmante “contro se stessi” attraverso il
bodybuilding e lo spinning.
Ho sentito, nel corso degli anni, persone che denunciavano,
sempre in questa fase iniziale, la loro impossibilità a
proseguire a causa delle imprevedibili e impellenti esigenze
personali, impegni disumani di studio e/o lavoro, richiamando
inconsapevolmente le autentiche e costanti icone di
riferimento: la volpe e l'uva.
A fronte di coloro che decidono liberamente (con qualche
ematoma) di andarsene, un gruppo di assidui frequentatori si
profila all'orizzonte. Gli allievi che assumono atteggiamenti,
posizioni - momentaneamente solo mutuate – e trovano
ispirazione nelle dimostrazioni efficaci del Maestro e dei
praticanti “anziani di servizio”. Delusioni, convinzione di
incapacità lasciano il posto ad una sorta di illusoria emozione
di “saperci fare”, di stare al passo, di giocare le proprie
chances in un combattimento (seppur controllato, almeno
parzialmente).
Parallelamente
viene
implementato
un
sistema
di
addestramento caratterizzato da “mille” pugni, “mille” calci,
“mille” parate. Nel vuoto. Senza bersaglio, senza avversari. Si
iniziano a studiare le sequenze dei primi kata, ripetendo “mille”
volte la forma basilare. Con movimenti lenti atti a memorizzare
tecniche e sequenze, poi a cadenza reale, esasperando la
88
forza e determinazione durante l'esecuzione di ogni singolo
movimento. Verso avversari ipotetici. L'aria viene tagliata da
fendenti portati con estrema decisione e si satura di energia
marziale.
Comprensibilmente il momento di maggior tensione è il kumite,
in cui è necessario confrontarsi con un compagno/avversario
che (a sua volta) intende colpire attraverso calci e pugni. Il
gioco inizia a farsi duro perché si tratta di un lungo periodo di
lividi e dolori diffusi in varie parti del corpo. Tutto
scientificamente controllato o gioco al massacro? Niente di
tutto ciò, in quanto il Karate sviluppa nel praticante la
sensazione di resistenza al dolore, l'abitudine ai colpi ricevuti
in sequenza e all'avversario che avanza “minacciosamente”
dal quale bisogna imparare a difendersi per contrattaccare. I
Maestri erano molto decisi a richiamare l'attenzione sul
controllo dei colpi. L'input assumeva grande rilevanza poiché si
portavano colpi con forza (a segno) in alcune parti del corpo
più resistenti, salvaguardando (e imparando a controllare con
meticolosità assoluta) denti, naso, occhi. Era quella la regola
scritta (e non), vigente del dojo. Un pugno d'incontro sullo
sterno simbolicamente rappresentava un setto nasale rotto, un
intervento urgente del dentista, un K.O. comunque di un certo
spessore. La scelta di colpire quindici centimetri sotto il mento
era dettata dal profondo rispetto per il compagno che si
“educava” all'attenzione, ad una maggiore concentrazione
visiva, ad una rivisitazione complessiva dell'apparato difensivo.
Il compagno colpito non reagiva con astio, piuttosto aveva
l'opportunità di migliorare la sua performance generale.
Per una buona percentuale di praticanti si avvicinava il
momento dei confronti ufficiali: gare stabilite dalla Federazione
e/o gare organizzate dai Maestri, al margine di qualche stage.
Si stava materializzando automaticamente il secondo step di
abbandoni: il plotone dei soddisfatti.
Ovvero coloro che sentivano l'esigenza di confrontarsi con un
avversario, ottenere un successo, dimostrare comunque a se
stessi di salire su un tatami e “fare a pugni” con uno
sconosciuto.
Personalmente ho assistito al repentino abbandono dall'attività
89
di giovani (e non) che fino a quel momento avevano dimostrato
un impegno encomiabile durante gli allenamenti. Avevano
infatti raggiunto l'obiettivo; la loro marzialità era indirizzata
verso la prova del combattimento, sulla capacità di gestire un
confronto dal punto di vista psico-fisico, magari dimostrandolo
pubblicamente alla presenza di familiari e amici in qualità di
testimoni. Poteva bastare così. La disciplina dello scontro
fisico aveva prodotto il suo apice di ebbrezza, si poteva quindi
tornare al passato con soddisfazione: il Karate aveva esaurito
la sua spinta propulsiva.
Le persone che non si fermavano ai primi wazaari-ippon
avrebbero indossato, con fatica e umiltà, le variopinte cinture
fino al colore marrone. In questo stadio si affinano gli
strumenti. Migliora l'esecuzione dei colpi, la tecnica in
generale, l'interpretazione del kata, si rinnova il patrimonio
strategico e tattico nel kumite. E' il periodo in cui cresce la
consapevolezza delle proprie capacità e delle tecniche di
successo. Saranno quelle con le quali il praticante conviverà
per sempre, atteggiamenti e combinazioni tecniche che si
ergono a punti di forza in qualsiasi situazione. Inoltre si tratta di
mesi (o anni) in cui il karateka supera la rigidità degli schemi di
un addestramento caratterizzato dall'emulazione e dalla
ripetizione. Inconsapevolmente crea risposte personalizzate,
incisive, sorprendenti che suggellano un effettivo salto di
qualità. Sono i momenti di grande affiatamento tra compagni,
nasce un sincero attaccamento al dojo, si instaura un dialogo
più evoluto con il Maestro e gli Assistenti, tutti prodighi di
consigli tecnici, stimoli e rinforzi. Tutto ciò in un'ottica
psicologica, fisica, tecnica culminante con quanto si riteneva
dovesse costituire l'autentico inizio del cammino marziale: la
cintura nera.
Si tratta di un “esame universitario” davanti a una
Commissione Federale. La qualità del kihon, l'interpretazione
del kata, l'atteggiamento e il controllo nel kumite sono i
parametri universalmente stabiliti dai “programmi ministeriali”
per sancire l'eventuale promozione di un allievo.
La presentazione di questa “tesi di laurea” è il coronamento di
anni di addestramento, di lavoro incessante con lo scopo di
90
acquisire quelle auspicate competenze trasferibili anche nella
cosiddetta vita quotidiana. Una vita forgiata dal Karate,
scandita da un ritmo e sensazioni riconducibili all'indefinibile
quid di marzialità sviluppato dentro la persona.
Il Karate è una “scienza della formazione continua”,
un'educazione lungo tutto l'arco della vita.
Tuttavia un giovane studente, pur preparato e protagonista di
un percorso didattico eccellente, può scegliere di accantonare i
contenuti e impegnarsi in tutt'altro ambito, forte anche delle
sue credenziali (valide una volta per tutte?). Analogamente un
karateka, raggiunto il grado di 1° dan, può ritenere di essere
arrivato al massimo, cioè avere conseguito un diploma
importante (da ammirare incorniciato in salotto) di cui essere
senz'altro orgoglioso. Inoltre presume di essere il depositario di
conoscenze e di molti “segreti” del Karate, perciò si affanna a
cercare un luogo in cui sia garantita la possibilità di diffondere
tutto il suo immenso sapere. E' convinto di aver acquisito uno
stile personale, tanto da ergersi come un neo-Istruttore
portatore di innovazione, in polemica con lo status quo e con
tutta quella “obsolescenza tecnica e metodologica” che
contraddistingue il curriculum e la pratica di grandissimi
personaggi, protagonisti (in certi casi) di aver tracciato la storia
delle Arti marziali.
E' giunto il momento delicato degli addii definitivi e delle
chiacchiere da bar. E' il tempo delle scissioni, dei gruppi che si
spostano da una realtà all'altra, dalla Federazione
(riconosciuta dal CONI) ad altre neonate mini-Federazioni con
la pretesa e l'illusione di schierarsi con un rinnovato
movimento di idee culturali-marziali, in realtà solo ed
esclusivamente di natura politica. Quante energie sprecate!
E' anche il bivio dinanzi al quale decidere se proseguire un
sentiero tradizionale o intraprendere la “filosofia” prettamente
sportiva. La natura del combattimento (e del Karate in
generale) cambia radicalmente.
Un percorso finalizzato alla competizione non necessita di una
grande disciplina interiore; piuttosto risulta fondamentale una
preparazione fisica eccellente, una strategia/tattica funzionale
alle proprie caratteristiche psico-fisico-tecniche, l'acquisizione
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semi-meccanica di certi movimenti per incrementare le
possibilità di successo. Basilare diviene il giudizio di un arbitro
che deve riconoscere in uno strettissimo lasso temporale la
bontà di una tecnica messa a segno con gli attributi necessari
di velocità e controllo. Evidentemente non si “perde tempo” ad
eseguire tecniche a vuoto, esercizi a coppie sulle applicazioni
del kata con le sue molteplici interpretazioni, il combattimento
con attacco dichiarato, semi-libero, il combattimento con
contatto.
Ho assistito ad alcune sceneggiate raccapriccianti durante le
gare di Karate a livello regionale e nazionale. “Atleti” appena
sfiorati al volto da un pugno o calcio, crollavano a terra
fingendo palesemente un contatto (vietato dal regolamento) in
realtà inconsistente. E paradossalmente il karateka-attore che
subisce il (finto) K.O. vince la gara per squalifica
dell'avversario, reo, quest'ultimo, di non aver controllato il
colpo.
Si tratta allora di una disciplina interiore riconducibile a quella
di un calciatore, un tennista, un nuotatore, un praticante di
scherma. Comunque un'apprezzabile impegno ad affilare le
armi tecniche e ad ottimizzare la dimensione muscolarescheletrica-organica al fine di raggiungere prestazioni
competitive. Salvo staccare la spina quando si esaurisce la
spinta dell'entusiasmo e declinare sul bodybuilding o sterzare
(non senza difficoltà) sulla thai-boxe, full-contact, boxe
tradizionale impattando duramente con la molteplicità dei colpi
ricevuti, senza la possibilità di “commedie” funzionali alla
vittoria effimera.
Personalmente ho conosciuto giovani atleticamente forti, molto
preparati nella pratica del Karate sportivo che, dopo alcuni
successi e altrettante delusioni, sono letteralmente scomparsi
dalla scena. Infatti, a quel punto, è tardi per fare marcia
indietro. I messaggi assorbiti nel corso degli anni e la
conseguente impostazione mente/corpo non lasciano spazio
(salvo rari casi) ad un'inversione di carreggiata. L'alternativa
assume necessariamente il connotato di tradizione.
Agli obiettivi a breve termine, alla preparazione mirata,
all'esecuzione di sequenze/situazioni limitate, si sostituisce un
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addestramento olistico, senza tempo. E' il percorso degli
“umili”.
Ovvero di tutti i praticanti che desiderano allenarsi
quotidianamente sperando sempre di imparare e ottenere
benefici psico-fisici, coloro che resteranno attaccati con
entusiasmo alla ritualità, alla tradizione (con rinnovati
emendamenti), alla continuità del praticare Karate, a un'idea di
efficacia-efficienza-controllo.
Gli allenamenti, in questo contesto in evoluzione, si
propongono di sviscerare i dettagli, di procedere dall'analitico
al globale. Le interpretazioni sono personalizzate, i metodi e gli
strumenti variano. Lo scontro fisico si trasforma in lotta contro
più avversari, contro armi contundenti, si evolve nella capacità
di colpire con estrema decisione il partner andando a segno in
certe parti del corpo ma controllando con altrettanta efficacia
una tecnica veloce e potente a pochissimi centimetri dal volto.
Non ci sono arbitri e cronometri. Un combattimento può durare
tutto l'arco dell'intera lezione, così come un segmento di kata
può divenire il nodo strutturale di un ciclo di lezioni. Silenzio,
sudore, energia diffusa e palpabile, lo sguardo dei compagni di
pratica, l'abbraccio col partner dopo aver dato vita a uno
scontro “violento”, senza vincitori né classifiche di merito.
Andare a segno con determinazione ed essere in grado di
controllare (qualora sia necessario) rappresenta il fulcro
essenziale del complesso mondo marziale. E' il valore
aggiunto, quel surplus qualitativo che trova riscontro e
applicazione fuori dal dojo. “Fare Karate” significa gestire le
emozioni, controllare le reazioni, ammettere lo sfogo dell'altro
e ri-mediare una situazione di conflitto, contrattaccare nel
momento di “debolezza” dell'interlocutore, la capacità di
mettere (simbolicamente) fuori combattimento quando è il caso
di reagire/colpire duro, negoziare preventivamente allo scopo
di evitare il conflitto vero e proprio. Colpire e controllare,
decisione e rispetto, distanza e corpo a corpo. Il Karate si
identifica “con” la vita quotidiana. Non solo per la capacità di
affrontare situazioni e gestire conflitti. Piuttosto per il senso di
libertà cognitiva, per la capacità critica che esclude i molteplici
tentativi di condizionamento, per quella autonomia di pensiero
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garanzia di scelte individuali consapevoli. Andare oltre con lo
sguardo, anticipare le mosse.
Gli “umili” si danno appuntamento nel dojo per scoprire
qualcosa di nuovo dentro se stessi, per interagire e
combattere, condividere idee, atteggiamenti, comportamenti.
Questi soggetti non sono qualitativamente superiori agli altri.
Hanno soltanto deciso e indirizzato il volano della propria vita
verso la ricerca, lo studio, il miglioramento psico-fisico. Una
sorta di formazione, non strutturata né tanto meno certificata,
caratterizzata da credenziali interne difficilmente percepibili
anche dagli stessi possessori.
La palestra frequentata molti anni or sono si è trasformata in
un'accozzaglia di “offerte formative” disparate e incoerenti, ma
in linea con la superficialità caotica emblema della società del
XXI secolo. Per questo motivo (senza velleità nostalgiche)
provo tuttora emozione e meraviglia quando ho l'opportunità di
varcare la soglia di un autentico dojo di Karate: ritualità,
silenzio, serietà, sobrietà, sudore, corporeità, spirito
combattivo.
Partecipare ad una lezione di Karate tradizionale rappresenta
un salto nel buio. Se ne può uscire con tanti lividi e altrettante
insicurezze o piuttosto con la forza e la determinazione di un
leone.
Attraverso una militanza fedele, costante, consapevole, il dojo
regalerà in dote una valigetta di attrezzi psichici tra i quali
cercare (e trovare) la chiave giusta in “quel” particolare
frangente.
Quando, invece, la disciplina dello scontro fisico ha esaurito il
suo carattere propulsivo, occorre ri-tornare in un dojo di Karate
con l'umiltà del primo giorno di addestramento. E ri-cominciare
daccapo.
Chiudendo la porta alle proprie spalle.
CONCLUSIONI
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Le Arti marziali sono ormai diventate un fenomeno ad ampia
diffusione e oggetto di interesse anche per la particolare
trasformazione che ha subito nei principi base, soprattutto nel
passaggio tra “Oriente” e “Occidente”.
Un approccio orientale verso l'insegnamento del Karate è
caratterizzato da alcuni aspetti essenziali.
Il Maestro sceglie l'allievo tra persone che ritiene all'altezza.
Il Maestro è riconosciuto come tale, non solo per la
conoscenza delle tecniche, ma anche per il suo valore come
persona e capacità di formatore.
Il Maestro insegna la tecnica solo in parte, secondo il metodo
del “non insegnare”, lasciando all'allievo il compito di
sviluppare la curiosità e la sensibilità che gli consentono di
impadronirsi della tecnica.
La formazione prevede un processo di apprendimento senza
limiti di tempo e una dedizione totale.
L'allievo non paga una “quota”, ma fornisce la sua disponibilità
materiale e spirituale al Maestro.
La formazione marziale non si limita all'acquisizione della
tecnica, ma comprende la formazione religiosa, storica e
culturale dell'individuo.
Non esistono metodi di classificazione gerarchica, cinture o
gradi; si ritiene importante il percorso in se stesso e non la sua
classificazione.
Oggigiorno l'Arte marziale (in Oriente) non è praticata dal
pubblico di élite, il quale preferisce rivolgersi ad attività sportive
di stampo occidentale.
Per quanto concerne l'impostazione “occidentale” è possibile
assemblare una serie di annotazioni che a una prima lettura
possono sembrare esasperatamente penalizzanti nei confronti
del Karate (e delle Arti marziali) in termini di
insegnamento/apprendimento e sotto il profilo socio-culturale.
L'allievo sceglie la palestra più vicino a casa (per comodità),
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piuttosto che il Maestro per le sue qualità.
Un Istruttore si definisce tale per il grado o i vari “titoli”
conseguiti o le sue qualità di combattente: tutte condizioni non
sempre sufficienti per intraprendere la complessa Arte
dell'insegnamento.
L'Istruttore insegna la tecnica più in termini di informazione che
di formazione della persona e la formazione marziale si limita
spesso all'apprendimento della tecnica secondo i principi del
collezionismo.
L'alunno paga per “acquistare un prodotto” e, ovviamente,
pretende una “ricevuta” materializzata in una cintura più o
meno colorata da sfoggiare in pubblico.
Cinture e gradi sono fondamentali: questo è il sistema
formulato dalle esigenze consumistiche e di mercato
dell'Occidente; l'allievo paga per imparare una tecnica e vuole
un certificato che lo testimoni. Non interessa il contenuto
spirituale, filosofico e di conoscenza della merce che compra,
non si dà importanza al valore aggiunto, all'innovazione
formativa che il Karate può offrire.
Le Arti marziali sono diventate “di moda”. Gli “impiegati e i
manager delle Arti marziali”, che di presentano in palestra in
giacca, cravatta e valigetta a rimorchio, annotano di sovente
nei loro curriculum lavorativi la pratica “guerriera”, indice e
immagine di determinazione e leadership.
Ogni praticante sviluppa il “suo” Karate. Il Karate è un
contenitore culturale da cui attingere ciò che si ritiene più
opportuno, adattabile, conveniente.
Ma il Karate non ha la pretesa e l'arroganza di risolvere tutti i
problemi, piuttosto rappresenta (o può divenire) uno strumento
di libertà. Proprio per “vincere contro se stessi”, anche (e
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