Allegato 1 - ritornoinsenegal.org

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DIRITTI PREVIDENZIALI TRA ITALIA E SENEGAL
In tema di ritorno dei migranti (o di circolazione degli stessi tra il contesto produttivo di origine e quello
ricevente) si pone sovente l’accento su progetti pilota di accesso privilegiato al credito, miranti alla
canalizzazione del risparmio privato verso investimenti produttivi. Me in tale ordine di ragionamento si
trascura purtroppo con eccessiva leggerezza l’esistenza di una vasta porzione di risparmio pubblico e
obbligatorio, che i lavoratori stranieri, così come gli autoctoni, sono chiamati a versare imperativamente a
fini pensionistici. Ci riferiamo come è ovvio al risparmio veicolato dalla contribuzione agli Enti di previdenza.
Se la detta contribuzione non riesce, per ostacoli amministrativi di varia natura, a far scaturire un diritto alla
pensione, lo stesso meccanismo di protezione sociale, in linea teorica apprestato a tutela dei lavoratori,
finisce per drenare le risorse dei lavoratori stessi, sperperandole e sottraendole per paradosso proprio a
quel bisogno di protezione sociale a cui invece si vorrebbe fornire risposta. Ma questa è precisamente la
condizione in cui si trovano di regola i lavoratori migranti presenti in Italia.
E’ stato calcolato nello studio della rete EMN-Italia dal titolo Immigrati e sicurezza sociale. Il caso italiano
che i lavoratori stranieri residenti in Italia pagano ogni anno 7 miliardi di contributi all’Inps ma non ricevono
quasi nulla in termini di pensione. Benché gli stranieri residenti in Italia rappresentino circa il 13% della
forza lavoro, percepiscono solo lo 0,2% delle pensioni complessivamente pagate dall’Inps.
Per di più, nel momento in cui lasciano definitivamente l’Italia, nemmeno possono percepire il cosiddetto
“assegno sociale” che viene concesso a chi raggiunge i limiti di età prescritti dalla legislazione (oggi 65 anni
e 3 mesi) e non ha altri redditi, ma solo se risiede stabilmente in Italia. Il risultato, soprattutto per coloro
che hanno dei progetti migratori di natura “circolare” (tra costoro vi è la maggioranza dei senegalesi), è
quello di versare inutilmente i contributi senza poter mai ottenere una pensione, sia pure di piccola entità e
calcolata sulla contribuzione versata. Tutto ciò costituisce indubbiamente un incentivo al lavoro nero.
L’ineffettività del diritto alla pensione, con specifico riguardo al caso senegalese, emergerà tenendo in
considerazione un dato ulteriore, e cioè che nel 2015 l’età per andare in pensione è pari ormai a 66 anni e 3
mesi, mentre l’aspettativa di vita media in Senegal ad oggi raggiunge a stento l’età di 63 anni (fonte United
Nations Development Programme).
La questione del mancato accesso alla pensione non è affatto inedita nel contesto delle migrazioni
internazionali, si tratta al contrario di un fenomeno largamente conosciuto, prevedibile e previsto. Per
porre riparo a tale inconveniente sin dai primi anni del Novecento è stato congegnato uno strumento che
ha sempre accompagnato i processi migratori: quello della stipula di accordi bilaterali tra paesi di
emigrazione e paesi di destinazione. Tali convenzioni, che rappresentano anche l’occasione per rinsaldare
rapporti di amicizia tra gli Stati e per fissare obiettivi generali di cooperazione, contengono solitamente
clausole che consentono la portabilità all’estero delle prestazioni, la totalizzazione dei contributi (cioè la
somma delle contribuzioni maturate in diversi paesi) e il godimento della pensione anche da parte del
lavoratore straniero rimpatriato prima di aver raggiunto l’età pensionabile.
La stipula degli accordi bilaterali in tema di diritti pensionistici mira a raggiungere una parità di trattamento
dei cittadini dei paesi contraenti, rimuovendo gli ostacoli che si frappongono ai danni degli stranieri nel
godimento delle prestazioni previdenziali per la quali essi hanno nondimeno pagato regolarmente i
contributi previsti dalla legge. Va tuttavia registrata una chiusura negli ultimi anni da parte dell’Italia alla
stipula di ulteriori convenzioni bilaterali con i paesi da cui maggiormente provengono i lavoratori
extracomunitari. L’ultima di tali convenzioni, stipulata con la Tunisia, risale al 1987.
Per quel che riguarda i lavoratori senegalesi, benché questi abbiano alle spalle una storia di insediamento
tra le più lunghe in Italia, non si è andati oltre la redazione di testi condivisi con le autorità senegalesi, senza
tuttavia arrivare alla stipula definitiva della convenzione. E’ bene ricordare che la Commissione europea con
la sua comunicazione del 30 marzo 2012 dedicata a “La dimensione esterna del coordinamento in materia di
sicurezza sociale nell'Unione europea” ha richiamato l’attenzione degli Stati membri sull'importanza di una
strategia comune dell'UE in materia di coordinamento dei regimi di protezione sociale anche con riguardo
ai lavoratori provenienti da paesi terzi; infatti l’assenza di convenzioni bilaterali con i paesi di nuova
immigrazione equivale a condannare tante persone, che hanno lavorato regolarmente a pagato
giustamente i contributi, a non poter riscuotere le prestazioni maturate. La situazione descritta appare
ancora più paradossale se si osserva il regime molto più avanzato istituito dai regolamenti comunitari,
secondo i quali i lavoratori di paesi terzi che hanno circolato sul territorio della UE possono beneficiare della
totalizzazione dei contributi, anche se l’Italia non ha stipulato una convenzione in tal senso con i paesi di
origine.
Questa situazione potrà essere modificata solo con l’impegno dei Governi senegalese e italiano; per
propiziare la ripresa degli incontri e del dialogo intergovernativo crediamo che la società civile sensibile al
tema possa sin da subito sollecitare delle iniziative quantomeno al livello delle istituzioni parlamentari dei
due paesi, istituzioni per definizione più sensibili a raccogliere gli stimoli che provengono dal mondo
associativo.
In data 27 maggio 2014 diversi parlamentari della Camera dei Deputati italiana hanno presentato al
ministro del lavoro e al ministro degli affari esteri italiani l’interpellanza numero 2-00534, con la quale è
stata sollecitata l’adozione rapida di un accordo bilaterale con il Senegal. Con la detta interpellanza si
chiedeva ai ministeri indicati di riferire in merito allo stato “dei rapporti tra la delegazione italiana e quella
senegalese nella stipula di una convenzione in tema di sicurezza sociale e se sia intenzione del Governo e, in
caso di risposta affermativa, con quali tempi, modalità e contenuti, riprendere i contatti con il Senegal per
l’adozione di un accordo bilaterale”. Alla seduta del 5 giugno 2014 il sottosegretario al lavoro e alle politiche
sociali Massimo Cassano rispondeva oralmente in Aula all'interpellanza, confermando la validità dello
strumento delle convenzioni bilaterali in quanto teso a “rimuovere gli ostacoli che potrebbero precludere ai
lavoratori migranti il pieno godimento dei diritti previdenziali”; dunque il Governo italiano, pur
manifestando l'esigenza di tenere conto degli effetti finanziari derivanti dall'adozione di tale tipologia di
accordi, manifestava il proprio interesse alla tematica in oggetto e anzi ricordava l'impegno profuso dal
ministero degli affari esteri nel favorire il rientro in Patria dei migranti senegalesi con programmi specifici di
accesso al credito e di sviluppo del settore privato.
Rimane comunque sul campo l’ineludibile esigenza di correggere il disequilibrio tra contribuzione versate e
prestazioni ricevute, il che si potrà ottenere, almeno per quel che riguarda la comunità senegalese in Italia,
mediante la riattivazione dello strumento degli accordi bilaterali tra Paesi di emigrazione e Paesi di
destinazione.
In aggiunta a quanto fin qui sostenuto, va ancora segnalato che la questione dell’incertezza della pensione
travalica ormai la condizione dei lavoratori migranti, infatti dopo l’entrata in vigore della cosiddetta
“riforma Fornero” (legge 241 del 22 dicembre 2011) si è operato un innalzamento repentino dell’età
pensionabile che ha reso problematico l’accesso alla pensione anche per i lavoratori autoctoni, non solo per
gli stranieri. Infatti è previsto un aumento progressivo e costante dell’età pensionabile, in armonia con
l’aumento delle aspettative di vita media. Già nel 2016 l’età pensionabile arriverà a 66 anni e 7 mesi per gli
uomini, e altri aumenti sono programmati per il 2019 e di lì in poi ogni due anni; le donne subiranno un
rapido e drastico allineamento all’età pensionabile prevista per gli uomini. Al contempo anche l’anzianità
contributiva minima necessaria per accedere alla pensione anticipata subirà degli aumenti coerenti con
l’aumento complessivo dell’età pensionabile.
In tale mutato contesto è frequente il rischio, specie per i lavoratori più in là con gli anni ma che non hanno
ancora raggiunto l’età fissata dalla legge per l’accesso alla pensione, di trovarsi privi di lavoro (magari a
seguito di procedure di ristrutturazione o di “esodi” forzati) senza al contempo poter maturare la pensione
sulla base dei contributi versati.
Proprio per porre riparo a tale situazione problematica sono attualmente allo studio in Italia delle proposte
per introdurre sistemi di flessibilità nel sistema pensionistico. L’idea è semplice: consentire dei
pensionamenti anticipati operando una decurtazione dell’ammontare di pensione dovuto. In occasione di
tale auspicabile riforma del sistema pensionistico ci sembra doveroso che si tenga conto anche della
situazione dei lavoratori migranti che manifestano il desiderio di fare ritorno nel paese di origine.
Detto in altre parole sosteniamo che, indipendentemente dalla pur necessaria stipula di convenzioni
bilaterali con i Paesi a maggiore tasso migratorio, vengano stabiliti per via legislativa (e per tutte le
nazionalità di migranti) dei sistemi di “pensionamento flessibile” espressamente dedicati alla particolare
categoria dei lavoratori migranti orientati al rientro del paese di origine. Auspichiamo che le competenti
istituzioni italiane, nella redazione della annunciata “proposta organica” in tema di accesso flessibile alla
pensione, tengano in considerazione le specifiche esigenze di tutela di questa platea di utenti del sistema
pensionistico, e che ciò possa iscriversi in un contesto generale di maggiore attenzione alle problematiche
sottese al fenomeno del “ritorno” dei migranti.