Una famiglia a caso. Amore, droga e guai nel Bronx

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Una famiglia a caso. Amore, droga e guai nel Bronx
LIBRO
IN ASSAGGIO
UNA FAMIGLIA A
CASO
AMORE, DROGA E GUAI NEL
BRONX
DI ADRIAN NICOL LEBLANC
CAPITOLO 1
Jessica viveva in Tremont Avenue, in uno dei caseggiati più poveri di una zona
poverissima del Bronx. Si cambiava anche per andare a fare la spesa. Nel ghetto, gli
imprevisti erano occasioni d’oro e bisognava essere pronti a tutto. Jessica non aveva
un gran guardaroba, si arrangiava con quel che capitava: i jeans Lee della sorella, gli
orecchini dell’amica del cuore, le magliette e il profumo della madre. Di solito la sua
comparsa per le vie del quartiere faceva scalpore. Sedici anni, portoricana dai
luminosi occhi nocciola, gran sorriso invitante, fisico voluttuoso, emanava sensualità
ovunque andasse. Chiacchierare con lei, anche in mezzo all’andirivieni di Tremont
Avenue, poteva dare la sensazione di un amoroso scambio di confidenze sotto una
tenda di lenzuola. Gli uomini in macchina le offrivano un passaggio. Quelli di una
certa età non capivano più niente. Le donne storcevano la bocca. I ragazzi facevano
promesse che non potevano mantenere.
Jessica era brava ad attirarli, meno brava a tenerseli. Si innamorava subito e
perdutamente. Voleva fidanzarsi a tutti i costi, ma finiva sempre per essere l’altra,
l’amante, quella degli incontri clandestini, la donna di nessuno. I ragazzi la
chiamavano da sotto la finestra dopo aver riaccompagnato a casa le fidanzate ufficiali,
le ragazze fisse che consideravano mogli. Jessica si divertiva lo stesso, ma se lei si
divertiva erano guai per le altre, e per una ragazza scatenata nell’età pericolosa, i guai
potevano diventare grossi.
Era la metà degli anni Ottanta e il mercato della droga a East Tremont era vivace.
Tremont Avenue corre da est a ovest, segnando il confine nord del South Bronx.
Jessica abitava appena fuori il Grand Concourse, che divide il Bronx nel senso della
lunghezza.
L’appartamento in affitto della madre dava su un sottopassaggio.
Le autoradio rimbombavano, dalle finestre filtravano le loro canzoni latinoamericane.
I ragazzi sostavano agli angoli delle strade carichi di bracciali e collane d’oro. I
bambini ruminavano il pranzo offerto dagli spacciatori, tenendo in equilibrio sulle
ginocchia i vassoi di polistirolo col cibo bisunto del fast food. Le nonne spingevano le
carrozzine. Le ragazze madri si appoggiavano ai passeggini che avevano appena
parcheggiato per potersi dedicare alla ricerca dell’anima gemella: i loro irresistibili
bebè fornivano un’ottima scusa per attaccare bottone e trovare il tanto agognato
svago. Lungo quel tratto di strada, la gente che aveva un lavoro faceva compere,
trascinando a casa le buste della spesa, o spingeva carrelli di panni piegati con cura. I
clienti degli spacciatori fendevano la folla, ritiravano la merce e si allontanavano
furtivi. Le strade che grossomodo delimitavano il mondo di Jessica — Tremont e
Anthony, Anthony e Echo, Mount Hope e Anthony, Mount Hope e Monroe — erano i
punti di spaccio più caldi del famigerato 46esimo distretto.
Quella zona aveva accolto bene la famiglia di Jessica. Sua madre Lourdes ci si era
trasferita da Manhattan insieme al fidanzato manesco, sperando che nel Bronx la loro
tormentata relazione potesse ripartire da zero. Si lasciarono poco tempo dopo, ma un
posto nuovo offriva ancora possibilità. Un pomeriggio Jessica andò a comprare la
carne per Lourdes da Ultra Fine Meats e il macellaio le chiese un appuntamento.
Jessica aveva quattordici anni all’epoca, il macellaio venticinque. Rispose che era
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troppo piccola per lui, ma che sua madre aveva trentadue anni ed era carina e
disponibile. Il macellaio tornò alla carica sette volte prima di strappare un
appuntamento a Lourdes. Due mesi dopo si trasferì da lei. I bambini lo chiamavano
Big Daddy.
Quasi immediatamente la famiglia riprese orari normali: Lourdes preparava la
colazione a Big Daddy e lo mandava al lavoro; gli altri — Robert, Jessica, Elaine e
Cesar — andavano a scuola; Lourdes faceva le pulizie e preparava la cena, tenendola
in caldo già da mezzogiorno. Big Daddy sembrava innamorato di lei; il sabato e la
domenica la portava al bowling, a ballare, o a cena fuori a City Island. E aveva
accettato i suoi quattro figli; provvedeva al loro vestiario, li portava alle partite di
softball e a fare i picnic a Bear Mountain. Si comportava come se fossero una
famiglia.
Jessica e il fratello maggiore Robert avevano lo stesso padre che era morto quando lei
aveva tre anni e non l’aveva mai voluta riconoscere; ormai solo Robert manteneva
buoni rapporti con la famiglia paterna. Elaine, la sorella minore di Jessica, aveva un
altro padre, che andava a trovare saltuariamente nei fine settimana. Cesar era stato
riconosciuto dal padre (aveva il suo cognome sul certificato di nascita), che però
spacciava e aveva messo al mondo altri figli con altre donne. Ogni tanto passava da
Lourdes; a volte Cesar andava a stare da lui e durante quelle visite gli teneva
compagnia per strada. Suo padre lo metteva al lavoro: «To’ — diceva, passandogli le
fiale di crack legate con il nastro adesivo, — reggi qua». I bambini non potevano
essere accusati di spaccio, ma quando Cesar tornava a casa Big Daddy lo metteva in
guardia da quello stile di vita.
«Non dargli retta. Se proprio devi dare retta a qualcuno, dalla a me.» Big Daddy
andava a parlare con gli insegnanti quando Cesar aveva problemi a scuola. Jessica lo
considerava un secondo padre, un onore che non era mai stato concesso a nessun altro
degli uomini di Lourdes; ma nemmeno l’affetto per Big Daddy riusciva a tenere lei e
Cesar dentro casa.
Per Jessica, l’amore era il posto più interessante dove andare e la bellezza il
passaporto per raggiungerlo. Era attratta dai ragazzi intraprendenti, da quelli con i
soldi che in genere spacciavano anche: tipi decisi che spalancavano le porte luride
della bottega come se stessero entrando a una festa e non, invece, uscendo sul
marciapiede cosparso di immondizie su una strada tutta buche. Jessica calcava il
marciapiede con altrettanta disinvoltura quando scendeva dal suo appartamento al
quarto piano e spuntava, piena di aspettative e sorridente, dall’androne con l’intonaco
scrostato. Lourdes la credeva una sognatrice: «Ha sempre voluto vivere come una
principessa. E io sempre a ripeterle: “Capita solo nelle favole. Guarda in faccia la
realtà”. Faceva sogni più grandi di lei». La metteva in guardia mentre spariva per la
squallida tromba delle scale: «Dio non te lo para il culo con un cuscino il giorno che
caschi dalle nuvole».
Fuori, tutto poteva succedere, credeva Jessica. Di solito però non succedeva granché.
Jessica partiva in cerca di uno dei suoi fidanzati, o spariva con Lillian, una delle sue
amiche del cuore. Il fratellino Cesar scorrazzava per il quartiere, inimicandosi gli altri
bambini che in fondo avrebbe voluto farsi amici. A volte Jessica convinceva i suoi
innamorati a comprare un trancio di pizza per Cesar. Le sue arti seduttive gli furono di
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insegnamento. «Mia sorella la sapeva lunga — disse Cesar. — Mi usava come esca,
così, anche se un ragazzo si incazzava con lei, passava lo stesso a prendermi. “Ecco il
mio fratellino — diceva. — Portatelo dietro.”» Più spesso, però, Cesar veniva lasciato
a casa. Seduto sui gradini rotti del palazzo di sua madre, aspettava l’occasione giusta,
osservando i ragazzi più grandi che erano i padroni della strada.
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