il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in søren

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Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard IL CONCETTO DI LAVORO E LA POSSIBILITÀ DI UNA FILOSOFIA SOCIALE IN SØREN KIERKEGAARD The concept of labor and the possibility of a social philosophy in Søren Kierkegaard João Marcelo Crubellate UEM/PUCPR Sommario: Il mio obiettivo in questo testo è discutere la nozione di lavoro produttivo nell’ambito della opera di Kierkegaard, con speciale atenzione alla teoria degli stadi esistenziali. Partendo dal concetto di uomo come un essere relazionale cioè che si rapporta a sé stesso ed alle altre persone, cerco di esaminare come il teologo danese descrive il lavoro in ogni stadio (l’estetico, l’etico e poi il religioso). Mentre si può dire che nell’etico il lavoro (come approfondimento dell’interiorità e come lavoro produttivo) sia il dovere di ogni uomo, dovere che lo porta all’universale, e nell’estetico che il lavoro sia una noiosa attività almeno quando non si riesce ad svilupparsi qualche talento speciale, nel religioso tutto cambia. Nello stadio religioso l’altro è il prossimo cioè un somigliante e quindi l’esistenza umana prende come scopo un attuarsi del sé verso ad una possibilità che si trova oltre sé stesso, una possibilità che Kierkegaard designa come coscienza eterna. Dunque il lavoro diventa sfera anche per la manifestazione dello umano come coscienza e libertà e non soltanto uno sforzo per soddisfare le necessità materiale dell’uomo come individuo di una spezie animale. Parole Chiavi: Stadio Esistenziale; Lavoro; Soggettività Abstract: My purpose here was to discuss the notion of productive work in the philosophy of Kierkegaard. I put special attention upon the so-­‐called theory of the life’stages. Firstly I take the concept of man as a relational being, that is a being that related himself to himself and to the other people. Then I examine Kierkegaardian discussion of the concept of work in each stage: the esthetic, the ethical and the religious. It is possible to affirm that while in the ethical the work (both as the inner working of the personality and as productive work) is an universal duty, and for the esthetic it is a boring activity or at the best, is one occasion for exercising a special talent, in the religious everything changes. In the religious the Other person with whom the Self relates himself must be taken as the biblical-­‐neighbour and so the human life takes a diferente purpose: become conscious of his own eternal calling. In the same sense working becomes a way of developing the most important atributes of human beings – his self-­‐conscience and his liberty – more than a way of caring about the material necessities of life as an individual of an animal specie. Key words: Life’stages; Work; Subjectivity 41 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Introduzione Il mio obiettivo in questo testo è dimostrare che è amissibile trattare del rapporto costitutivo dell’Io, di cui scrive Kierkegaard nell’inizio del saggio sulla Malattia Mortale, anche nell’ambito concettuale del lavoro produttivo. Secondo Kierkegaard1 l’uomo è un rapportarsi ossia un rapporto che si rapporta con sé stesso, ciò che vuol dire un percorso di interiorizzazione della coscienza, un processo per cui l’uomo si costitui come un Io ovvero diventa un spirito coerente e coeso con sé stesso nella esistenza. Già il concetto di lavoro, nelle opere del teologo danese, prende di solito un senso molto vicino alla nozione di interiorizzazione, di produzione della soggettività: il lavoro sarebbe il peculiare sforzo dell’etico verso il dovere di ogni uomo e, pertanto, verso un Io nel senso universale e ideale2. Ma questo processo così importante per lo sviluppo della soggettività umana non prescinde, anzi lo esige, che l’uomo si volga alle altre persone3 e con l’altro, insieme all’altro, diventi lui stesso una persona singolare. In questa necessità ontologica dell’altro – che segnala il carattere relazionale del rapportarsi – è che io spero trovare il fondamento teorico per una nozione complementare del concetto di lavoro (Arbeide) come attuazione di sé stesso, più comune nel pensiero di Kierkegaard: quella che io chiamo in questo testo di lavoro produttivo. Per raggiungere quello obiettivo principale io cercherò di esaminare pure la teoria kierkegaardiana degli stadi esistenziali per dimonstrare che la nozione di lavoro produttivo appare in ogni stadio con un senso particolare. Però è nel stadio religioso, dove quella nozione non appare espressamente, che si potrà trovare con massima chiareza gli indizi per una filosofia sociale kierkegaardiana, sulla base della nozione di lavoro produttivo. 1
KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere Filosofiche e Teologiche). Milano: Bompiani, 2013, p. 1665. 2
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 189 e 197. 3
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 196. 42 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Come metodo cerco sempre di confrontare gli stadi tra di loro – cioè l’etico e l’estetico e poi il religioso rispetto ai due altri stadi, ciò che è addirittura il metodo del stesso Kierkegaard al meno in quello che allude ai suoi scritti pseudonime e principalmente gli scriti dov’è sviluppata da lui la teoria degli stadi, dei quali si deve distaccare l’Enten-­‐Eller. Il Lavoro nel Senso Etico Rispetto all’Estetico Secondo Kierkegaard l’essere umano è anzitutto un essere relazionale, ciò che si può capire, per esempio, già nella prima parte del tratatto sulla Malattia Mortale, dove possiamo leggere che l’Io, come un rapporto, è posto nella esistenza ossia deve svilupparsi nella esistenza per mezzo di un processo di rapporto. Conseguentemente, scrive il teologo danese, “un tale rapporto derivato, posto, è l’io dell’uomo; un rapporto che si mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro”4. Perciò la nozione di uomo come un essere relazionale si può vedere nel fondamento esistenziale del rapportarsi e lo stesso fondamento concettuale ci fa vedere che l’uomo sia, come un Io o spirito (una individualità personale e coerente, secondo Cornelio Fabro5) anche un essere derivato, posto, cioè una creatura invece di creatore di sé stesso6. Quindi quello che sia l’uomo si può conoscere soltanto quando si conoscono le condizioni del suo rapportarsi a sé stesso e all’altro che nel pensiero di Kierkegaard significa tanto il divino quanto gli altri uomini, ciò che configura al mio parere un senso sociale del rapporto fondante dell’Io. 4
KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1665. FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 65. 6
Anche quando si dice che l’uomo possa porre a sé stesso, questa possibilità non significa che possa creare a sé stesso ma soltanto che possa mettere nella esistenza un io coerente, per mezzo del suo proprio lavoro, cioè il lavoro della propria volontà impiegata su sé stessa: “(…) in a spiritual sense that by which a person gives birth is the nisus formativus [formative striving] of the will, and that is within a person’s own power (…) you are not supposed to give birth to another human being; you are supposed to give birth only to your self” (KIERKEGAARD, Søren. Either/Or I. Princeton: Princeton University Press, 1987, p. 206). 5
43 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Può tuttavia il rapporto costituttivo dell’uomo come un Io darsi nel contesto del lavoro produttivo? Kierkegaard risponde a questa domanda in un brano del suo saggio etico-­‐estetico, in mezzo alla lunga discussione sul valore del lavoro per l’etico. Così ci si può leggere: Il nostro eroe ha dunque trovato ciò che cercava, un lavoro di cui possa vivere, ed ... un’espressione più significativa del rapporto di questo con la 7
sua personalità: è la sua missione , la messa in esecuzione della quale è quindi congiunta a un soddisfacimento per la sua personalità tutt’intiera; ed ha trovato un’espressione più significativa del rapporto del suo lavoro con gli altri uomini, perché essendo il suo lavoro la sua missione, così, è vero, egli vien posto, per ciò che concerne l’essenziale, sullo stesso livello di tutti gli altri uomini, egli fa insomma con il suo lavoro la medesima cosa di 8
chicchessia altro, egli adempie la sua missione . Quello che si vede nel testo kierkegaardiano è una chiara risposta affermativa alla domanda, cioè che pure il lavoro o il rapporto fra gli uomini nel contesto del lavoro produttivo è costitutivo del sé o dell’Io: “(...) essendo il suo lavoro la sua missione, così, è vero, egli vien posto, per ciò che concerne l’essenziale, ...”. Vocazione, nel senso di un dovere con sé stesso, è la nozione più importante per discutere il lavoro dal punto di vista etico e così ne occuperemo ma non adesso. Comunque si può vedere nella affermazione sopracitata che il lavoro è preso, almeno dal punto di vista etico, come essenziale, cioè come contesto in cui l’uomo o innanzi tutto l’Io è posto, constesto in che la sua personalità – o per ne parlare una altra volta, il suo Io – si attua, si sviluppa nel mondo e per il mondo, propriamente nel senso paradossale, secondo il pensiero di Kierkegaard. Questo non è strano alla filosofia esistenzialista nel senso sviluppato da Kierkegaard e non le trade, anzi è giustamente quello che ci fa preferire la parola vocazione alla parola missione per tradurre il concetto que nella edizione americana viene tradotto come calling. Cerchiamo di parlare di un processo che in essendo 7
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Nella versione americana la parola usata è calling, vocazione. KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 196. 44 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard esistenziale sia pure essenziale ovvero sia il punto fondamentale per il destino eterno dello stesso uomo9, nonostante in quel brano ciò che troviamo sia ancora l’etico e non il religioso. Perciò la conseguenza del lavoro è che per il suo intermedio l’uomo diventa uguale a tutti gli altri uomini, cioè l’universale. Per mezzo del suo lavoro l’uomo diventa sé stesso nel senso di un Io universale, cioè non un semplice esemplare della espezie naturale (poiché questo sarebbe l’uomo nell’estetico) ma un uomo che compie in sé e per sé tutto quello che è possibile – tutte le possibilità, la potenza – ad un uomo come uomo, come persona, compiere o raggiungere: “egli adempie la sua missione”10. Con questa riflezione raggiungo un’altra volta il senso kierkegaardiano di vocazione quando il teologo danese parla sul lavoro ossia il senso etico del lavoro come dovere. Questo senso etico è già quello che si trova nella filosofia hegeliana ed è la machia centrale dell’etico nel pensiero di Kierkegaard. Quindi l’etico come lo sviluppo delle possibilità spirituali umani ha ovviamente l’umano stesso come il suo scopo ed il suo limite. L’etico è lo sviluppo del sé stesso come sé nel mondo, è l’aggiornamento o l’attuarsi che prende un Io ideale come il suo punto di riferimento11. L’etica in Kierkegaard prende il suo riferimento in due livelli, cioè il riferimento all’estetico nel livello interno di riflessione (ovvero l’Enten-­‐Eller) ed il riferimento a Hegel nel livello esterno. E quindi l’esame della nozione di lavoro deve prendere la stessa struttura anche se la mia enfasi in questo testo riposerà molto di più sul riferimento interno, cioè il riferimento verso all’estetico. Quanto a Hegel basta osservare la coincidenza tra l’etico ed il pensiero del filosofo tedesco quando lui discute il lavoro come mediazione tra particolare ed universale, e come il contesto della formazione della coscienza umana, giacché il lavoro la mette in rapporto con le altre persone, la fa tornarsi verso agli altri giacché mentre lavora per sé stesso, l’individuo lavora anche per tutta l’espezie umana12. 9
KIERKEGAARD, Søren. Briciole di filosofia (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 591. KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 196. 11
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 131. 12
HEGEL, Georg. Princípios da filosofia do direito. São Paulo: Martins Fontes, 2009, p. 182. 10
45 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard In altro luogo Hegel scrive sul lavoro come “(l’)appetito tenuto a freno”13. Come si può vedere pure questo non è per nulla diverso dell’etico in Kierkegaard, in cui le scelte per cui l’uomo diventa personalità, ossia un Io coerente, sono scelte rispetto anche ai suoi appetiti che possono esser permessi soltanto quando stano in consonanza con l’Io che deve attuarsi come un Io coerente con sé stesso. Quindi il lavoro in questo senso non è soltanto lo sforzo per superare la distanza fra possibilità e realtà nella natura o nel mondo delle cose e degli oggetti. È anche e principalmente un principio di determinazione dello spirito umano, un principio di determinazione dell’Io per cui l’uomo prende coscienza di sé stesso nel mondo e diventa realtà nell’ambito o nella sfera dello stesso uomo universale. Ma proprio su questo rapporto centrale per la filosofia hegeliana del lavoro è che Cornelio Fabro critica l’essenzialismo di Hegel e Marx e allo stesso tempo critica la loro interpretazione che concerne il rapporto fra l’uomo e la natura e fra l’uomo ed il lavoro: “come Hegel, Marx non conosce che la realtà dell’essenza, dell’uomo come Naturwesen e Gattungswesen: resulta da ciò che gli unici bisogni, ovvero quelli dominanti e determinanti, sono quelli biologici fondamentali, e gli unici rapporti validi quelli generici ovvero collettivi”14. È la stessa critica che Kierkegaard fa svilupparsi per mezzo della polemica tra le nozioni di reminiscenza e ripresa15 e ovviamente segnala la possibilità di un oltre-­‐l’uomo, cioè il religioso kierkegaardiano. Ma questo non appare ancora nell’etico e dunque il lavoro, in quello stadio, non può che significare il rapporto del sé con sé stesso per mezzo dell’altro o degli altri, cioè un porre a sé stesso e non ancora un porre ed essere posto da un altro. Facciamo un passo indietro per approfondire ancora di più il senso di lavoro nell’etico – in paragone all’estetico – nel testo di Enten-­‐Eller. In questo percorso vedremo che mentre la nozione di missione o vocazione è centrale all’etico, nell’estetico invece la centralità ricade sulla nozione di talento. Quindi facciamo 13
HEGEL, Georg. Fenomenologia dello Spirito. Milano: Bompiani, 2000, p. 289. FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 26. 15
KIERKEGAARD, Søren La ripresa. Milano: SE, 2013e, pp. 11-­‐13. 14
46 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard l’esame dei brani sul concetto di lavoro nel testo di Enten-­‐Eller, specificamente nella parte del testo riservata alla discussione dell’etico, a cominciare da un brano che ci rimette alla nozione dell’Io come un rapportarsi: “L’individuo ha la sua teleologia in se stesso, (...) il suo sé è dunque la meta, il fine verso cui s’indirizza il suo sforzo (...); il suo sé deve, in senso forte, aprirsi in ordine a tutta quanta la sua concretizione, ma a questa concretizione appartengono anche quei fattori la cui determinazione è d’agire attivamente e influentemente nel mondo ... In tal modo il movimento di colui diventa dunque a partire da se stesso verso se stesso attraverso il mondo”16. Quell’individuo di chi si parla nel brano è l’etico giacché lui è il suo proprio scopo. Cioè l’Io che deve svilupparsi nella esistenza ne è già contenuto nell’Io universale, il sé stesso è la sua meta. Diversamente, l’estetico prende la sua meta dalla natura – dalle forze naturale che operano nel suo corpo – quindi fuori da sé ovvero fuori della dinamica constitutiva del sé, dell’Io come spirito. O per esserci più esatti: l’estetico non ha nessuna meta, nessuna teleologia perché nell’estetico non si trova lo sforzo per attuarsi. L’estetico è più un lasciarsi, un abbandonarsi, che uno sforzo o lavoro17. Giacché l’etico prende sé stesso (un universale dell’Io) come il suo punto di riferimento, allora lo stesso etico può soltanto arrivare a sé stesso18 e così il mondo – e le altre persone, cioè l’altro in qualunque senso – diventa solo un mezzo, però in senso diverso di quello che lo stesso rapporto prende nell’estetico. Almeno qui, cioè nell’etico, si può dire che ci sia movimento dal sé verso a sé stesso, movimento per cui, come scrive il teologo danese, il mondo non è più di un mezzo. Almeno, lo diciamo ancora, nel ruolo di mediazione l’altro, nell’etico, è la condizione perchè l’Io diventi sé 16
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 172. KIERKEGAARD, Søren. Either/Or (Part II). Princeton: Princeton University Press, 1987, pp. 159 e 178. 18
Come ha percepito Fabro (FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 96) su questo punto, in rapporto con il trascendente l’etico non si trova per nulla in migliore situazione dell’estetico: “Se al di sopra dell’uomo non c’è Dio che fondi appunto lo ec-­‐sistere dell’uomo come garanzia, sostegno e termine effettivo del medesimo, l’esistenza si esaurisce in se stessa, come inutile e doloroso contorcimento di sé in sé”. 17
47 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard stesso, e così si può dire pure che l’altro sia in questo stadio una proiezione dello stesso sé che nell’esistenza si attua. Non è ancora un altro con realtà diversa da quella del sé, per lo meno dal punto di vista del sé. O per dire da un altro modo, l’altro non si fa uguale al sé perché, nel processo etico di attuazione del sé, l’altro è soltanto un punto di passaggio, un negativo del sé nel suo percorso verso a sé stesso19. Quindi dobbiamo ricordarci che l’individuo, il sé, partecipa del rapporto con l’altro non come negatività (“nel movimento verso se stesso tal colui non potrà dunque rapportarsi negativamente [cioè come una negatività] al suo ambiente circostante, perchè allora il suo sé è un’astrazione e tale resterà20”, come scrive Kierkegaard) ma come apertura di sé, come concretude per cui la determinazione è “d’agire ativamente e influentemente nel mondo...”21. Da questo punto di vista il rapporto col mondo e con l’altro è acutamente diverso nell’etico rispetto all’estetico una volta che nell’estetico l’uomo non è – per così dire – attivo verso il mondo ma rimane una ripetizione delle forze naturali che operano da sempre in lui. Per esserci più esatti dobbiamo dire che l’estetico neanche fondi un cosidetto mondo purchè rimanga – come estetico – nell’ambito della natura. Le conseguenze teoriche del rapporto etico fra l’Io e l’altro sono descritti per lo stesso Kierkegaard nella stessa pagina del suo saggio: “Ecco del movimento, e un reale movimento! Perchè questo movimento è atto della libertà, ma è del pari teleologia immanente, e sarà qui, perciò, che unicamente si potrà parlare di bellezza! ... Ammesso che la cosa sia giusta, dunque l’individuo viene in un certo senso a trovarsi più in alto d’ogni rapporto, ma non ne segue affatto che egli non sia in questo 19
Perciò concludiamo con Fabro (FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 19) che non esista nell’etico una vera dialettica perchè non si trova in quello stadio la compresenza ativa di contrari e neanche movimento reale, giacché il sé diventa nulla di più rispetto a sé stesso. 20
L’edizione americana è qui più chiara e merita di esser trascrita: “In the movement toward himself, he cannot relate himself negatively to the world around him, for then his self is an abstraction and remains so” (KIERKEGAARD, Søren. Either/Or (Part II). Princeton: Princeton University Press, 1987, p. 274). Dunque si può vede che è il sé che, nel rapporto con l’ambiente, con l’altro, non si trova come una negatività, mentre nello stesso rapporto l’ambiente diventa negatività rispetto al sé. 21
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 172. 48 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard rapporto”. Qua si vede pertanto quello che dicevo poco fa, cioè che l’etico fa un movimento reale però verso sé stesso, un movimento in cui l’altro non partecipa altrimenti come negatività giacché egli è esterno alla teleologia immanente del sé. Diventa di questo tipo di rapporto che la persona – l’Io – nell’etico sia più in alto del rapporto stesso e in questo senso sia pure più in alto del proprio altro. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che nello stadio etico l’approfondimento in sé stesso da cui l’uomo diventa un Io nel mondo è più importante dell’altro con cui si rapporta e anche più importante dell proprio rapporto, per cui si vede che l’etico non compie fino in fondo la condizione fondamentale del concetto di uomo come spirito nel senso che si può trovare nel testo di La Malattia Mortale22. Nell’etico l’altro non può certamente essere un altro con realtà ontologica propria, anzi è immagine del sé stesso mentre il sé è, o dev’essere, l’universale: “e se poi a volte ho un’ora libera, ebbene, allora me ne sto alla mia finestra ad osservare la gente, ed ogni persona io vedo in ordine alla sua bellezza! Insignificante, umile che sia, quella persona io vedo in ordine alla sua bellezza, perchè la vedo come quel singolo uomo che pur del pari è l’uomo universale, la vedo come colui che ha quel concreto compito di vita”23. Ecco qua la immagine del sé nell’altro, che non è più che l’universale stesso al quale il sé aspira e che l’etico vede nell’altro. L’uomo universale è lo scopo, la teleologia immanente del sé nell’etico ed è allo stesso tempo quello con cui il sé si rapporta quando si rapporta alle altre persone. Dunque conclude l’etico: “Io quanto a me non sono molto propenso a lottare, per lo meno non con altri che non sia me stesso”24. In un’altra porzione del suo testo, che potrebbe esser considerata una porzione di tendenza poetica, Kierkegaard prende la parola ad un qualsiase individuo che rappresenta per lui le persone nella sua generalità, “un determinato individuo, che 22
Ciò che ne abbiamo detto prima, che l’Io come un rapportarsi si mette in rapporto con sé stesso e con gli altri (KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1665). 23
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 174. 24
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 174. 49 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard in un certo senso è com’è la massima parte della gente”25 e per mezzo di questo individuo il teologo danese introduce esplicitamente il dibattito sul lavoro nel suo saggio etico-­‐estetico. Quindi l’ipotetico individuo, un’espressione della malinconia o della angoscia, si rimpiange che a lui stesso non sia stato dato, come un dono – cioè, sensa lavoro – il denaro: Tu non ofendi nessuno, in ciò sei diverso da quei tali esteti, tu sei di buon grado d’aiuto dove puoi, sí, quando tu sottolinei ciò che v’è di misero nel non aver danaro (...)! Il tuo scherno non si pone perciò contro gli uomini ma contro l’esistenza, nella quale, alla fin fine, le cose son disposte in modo che non tutti hanno danaro. ‘Prometeo ed Epimeteo’ dici ‘furono innegabilmente molto saggi, ma è pur incomprensibile che, mentre per altro così splendidamente ornarono gli uomini, non gli sia passato per la mente di corredarli anche di danaro!’... Che senso ha cacciare una criatura ragionevole nel mondo e farla così affaticare e superaffaticare, ... è questa la maniera di trattare un essere umano?! Su questo tema sei inesauribile. ‘La maggior parte degli uomini’ tu dici ‘vive per trovare un impiego; quando l’ha 26
trovato, vive per trovare un buon impiego; quando l’ha trovato, muore . A questo ipotetico individuo da fastidio il lavoro come il suo destino. Questa necessità è per lui un motivo di sarcasmo e di sdegno. Invece per l’etico la questione è diversa. Infatti nell’etico il lavoro porta un senso diverso di quella tendenza nichilista che si vede nel brano trascritto sopra, tendenza per cui si avvicina all’estetico. Contro della mancanza di senso e della disperazione dell’estetico, nell’etico tutto si spiega per mezzo del dovere del sé con sé stesso e così accade anche verso il lavoro: “Per la via che ha intrapreso, il nostro ero cercherà dunque invano dilucidacioni... E ascoltiamo adesso quanto gli risponderebbe un etico. La sua risposta sarebbe dunque la seguente: ‘È dovere d’ogni uomini lavorare per vivere!’ E qualora non avesse altro da aggiungere è probabile che tu per parte tua risponderesti: ‘Eccoci ancora alla vechia chiacchierata su questo e quell’altro dovere!... Ovunque è dovere!”27. 25
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 175. KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 178. 27
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 180. 26
50 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard L’affermazione del lavoro come dovere verrà ripetuta alla esaustività nel trattato sul lavoro. Nel brano trascritto si può vedere le due prospettive verso l’esistenza, quella della occasione, del lasciarsi alle forze della natura nello individuo umano e quella del dovere, dell’attuarsi verso sé stesso – l’estetico e l’etico. Per l’etico il lavoro è dovere, e per che è un dovere di ogni persona è perciò l’universale. Almeno si può dire che al lavorare l’uomo raggiunga il suo telos, il suo scopo, si può dire che lui diventi l’Io universale. Per la stessa ragione l’etico è molto severo ma non verso l’estetico anzi verso qualcuno che voglia riconoscimento per il merito del suo proprio lavoro. Per l’etico qualsiase merito rimane nel proprio lavorare, cioè nello sforzo di aggiornamento del sé che lavora per diventare sé stesso. Ovviamente che da questa perspettiva il lavoro prende con più forza quel senso peculiare dell’attuarsi dell’Io verso ad un Io universale. Ma questo senso non cancella l’altro senso del lavoro come opera produttiva (che è da un altro lato più di un semplice o specifico mestiere oppure occupazione professionale) anzi appunta propriamente a quel secondo e più concretto senso, come io ne ho segnalato prima: il rapporto del sé con l’altro si deve tradurre prima di tutto come un atteggiamento concreto in direzione delle altre persone28 invece di approfondimento contemplativo dell’interiorità isolata o pure della comprensione astratta e intellettuale di sé stesso e del mondo. Comunque da questo punto di vista etico, il dovere – anche nel suo legame col lavoro – non dovrebbe esser paragonato col semplice obbligo verso i bisogni del corpo. Non è davvero un incarico rispetto alle necessità esterni dell’uomo anzi c’è un senso interno, ideale, come incarico verso l’idealità ed universalità dell’Io: Il problema se non sarebbe lecito immaginare un mondo in cui sia innecessario lavorare per vivere è propriamente un problema sterile, non 28
È come ce lo spiega Arne Grøn nel suo testo sul rapportarsi costitutivo dell’io: “L’interiorità diviene una questione sul comprendere se stessi in ciò che si disse e si fa in rapporto all’altro di sé” (GRØN, Arne. “Comprensione di sé e dialettica della comunicazione”. In: ROCCA, Ettore (ed.) Søren Kierkegaard – L’essere umano come rapporto. Brescia: Mocelliana, 2008, p. 108). 51 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard occupandosi esso della realtà data nell’attualità ma di una realtà fittizia. E tuttavia è pur sempre un tentativo di svilire la concezione etica. Qualora infatti fosse una perfezione dell’exsistentia che non s’abbisogni. Dunque si potrebbe dire che è dovere lavorare solo nel senso in cui con questa parola s’intende una triste necessità. Il dovere non esprimerebbe dunque ciò che è comune al genero umano, ma il volgare, e ‘dovere’ non sarebbe a questo punto l’espressione di ciò che è perfetto. Ed ecco perchè io vorrei anche in tuta coerenza rispondere: ‘Sarà per forza da considerarsi un’imperfezione dell’esistenza che l’uomo non abbisogni di lavorare!’ Tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; tanto più in alto essa si trova, tanto più compare tale necessità. Questo dovere di lavorare per vivere esprime ciò che è comune al genere umano, ed esprime anche, in un altro senso, l’universale, poichè esprime la libertà. Appunto lavorando l’uomo si libera, diventa signore della natura, 29
mostra d’essere superiore alla natura . In primo piano si può osservare nel brano il legame fra l’etico e la filosofia hegeliana, giacché pure in questa l’esistenza del’uomo è prodotta mentre lui lavora. Questa sua determinazione lo conduce verso la natura, non ovviamente come un essere che si abbandoni alla sua forza (nel caso in cui sarebbe l’estetico e non l’etico) ma adesso come un che diventa maestro e signore della natura, lui diventa anche il signore di sé stesso ovvero della natura in sé stesso. In questo senso interno (verso l’interiorità umana) ed immanente è che il lavoro non può che essere la più universale necessità dell’uomo per mezzo della quale lui diventa un Io ideale nella esistenza. Quindi l’etico può licitamente concludere che la nobiltà della vita umana si relazioni diretamente al lavoro, come ne abbiamo letto sopra: “tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare (...)”. Prendiamo ancora questa relazione tra il lavoro e la dignità della vita umana per vedere che ancora nell’etico lo scopo del sé è il sé stesso. Quindi la nobiltà del lavoro si trova nel rapporto del sé con sé stesso e per cui l’altro, come ne abbiamo già visto, è soltanto un punto intermedio dell’Io verso sé stesso. Il lavoro in questo livello è un principio di autonomia dell’uomo rispetto alla natura, forse pure contro la natura (“lavorando l’uomo si libera”), rispetto alle altre persone ed anche rispetto a lui stesso, almeno nel senso delle forze naturale in lui. Questo punto è importante per capire il 29
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, pp. 181-­‐182. 52 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard significato dell’etico, perchè quando si parla del lavoro come necessità si parla addirittura che la necessità non sia allora esterna all’uomo, cioè qualcosa che si possa ridurre all’antico senso preso dalla nozione di destino, che Kierkegaard riserva allo stadio estetico. Adesso l’Io diventa la sua propria necessità e allo stesso tempo la sua propria provvidenza, o ancora per dire in un’altro modo: raggiungere l’Io diventa, propriamente per questo lavoro, un processo libero e responsabile. Questa conclusione ci aiutta a capire che questo lavoro di cui si parla qui prende anche il senso concretto di un lavoro produttivo, già che nel rapporto sociale fra gli uomini e nel rapporto utilitario fra l’uomo e le cose materiale – che sono le possibilità del lavoro produttivo – l’uomo diventerà un essere morale, responsabile per sé stesso. Questo sarà così quando, mentre lavora per soddisfare le necessità esterne e materiale, lui riesce a prendere come il suo vero lavoro quello che gli è infatti necessario: attuarsi come un Io coerente a sé stesso, ciò che è il senso più forte dell’etico. Per fissare questo argomento ho bisogno di trascrivere un altro brano del testo del teologo danese: È bello vedere i gigli del campo i quali, sebbene non filino né cuciano, son vestiti in modo che nemmeno Salomone, in tutto il suo lustro, era così splendido; (...) è bello vedere Adamo ed Eva in un paradiso in cui possono avere tutto ciò che additano; ma tuttavia è ancora più bello vedere un uomo guadagnare con il suo lavoro ciò di cui abbisogna. È belo vedere una provvidenza che soddisfa tutto e si prende cura di tutto; ma è ancor più bello vedere un uomo che per così dire è la sua propria provvidenza. Per questo l’essere umano è grande, più grande d’ogni altra criatura, in quanto può 30
prendersi cura di se stesso . Come si può vedere, ci troviamo qui nel cuore dell’etico, dove non c’è né la natura né il divino, né la fortuna o il destino né un dio personale a prendere cura dell’essere umano. C’è unicamente l’umano stesso come principio che prende cura di sé stesso verso sé stesso, che lavora per guadagnare la vita, cioè per guadagnarsi sé stesso allora come un Io, una personalità coerente nell’esistenza. C’è l’uomo come la 30
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 182. 53 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard sua propria provvidenza come il suo proprio dio, posto che lui, come ne ho detto prima, è il suo proprio punto di riferimento e l’ideale per il suo attuarsi31. Questa è la bellezza della vita etica, l’essere la provvidenza per sé stesso, e il lavoro è il mezzo per cui l’uomo raggiunge questa meta. E per questo anche il lavoro è bello, non perché sia – come potrebbe presumere l’estetico che cerca di godere la esistenza in ogni momento – una fonte di piacere immediato (comunque l’estetico non può accettare il lavoro anzi come fastidio) ma perché è la via per cui l’uomo si fa il signore della natura e sviluppa nella esistenza, come realtà, tutte le sue possibilità32. Il lavoro così interpretato ha un senso interno, immanente pari al suo senso popolare di sforzo per soddisfare le necessità di ordine materiale. Ma con questo non si vuol dire che quele necessità non siano importanti e che non sia importante lo sforzo per le soddisfare, anzi l’Enten-­‐Eller fa chiaramente un elogio a questo scopo – sebbene esterno – del lavoro. Quello che ci sembra importante è capire che quella preoccupazione diventa importante soltanto quando acquista un valore formativo per l’uomo che deve lavorare, cioè quando segnala per lui ciò che è il suo più nobile dovere. Dunque dopo scrivere su qualcuno che si lamenta della sua situazione di insecurezza rispetto alle preocupazioni material, il narratore del testo di Enten-­‐Eller aggiunge che “nulla è pur così fraudolento come il cuore umano”33 e così l’uomo sta sempre su il rischio di esser preso in giro per quello che lui stesso desidera. Il narratore continua: “Se uno vede le preoccupazioni d’ordine materiale in tal modo, come una 31
Quando l’etico fa menzione dei gigli del campo, degli uccelli o dell’uomo e della donna nel paradiso fa palese menzione del divino e dello stadio religioso, sebbene che sia un riferimento al religioso del tipo A, cioè il religioso non paradossale, non vicino alla sofferenza ed al dolore ed anche allo scandalo tipici della vita della persona che si possa qualificare come una vera testimone della fede, secondo il religioso B di Kierkegaard. 32
Un’altra volta devo richiamare l’attenzione alla immanenza come il limite della grandezza e della bellezza della esistenza e pure del lavoro nel senso etico. È propriamente questa immanenza che ci consiglia a concludere che l’altro com cui si rapporta il sé quando lavora non va al di là del sé stesso e che rimanga essendo non più di una immagine del sé. Le persone con cui si rapporta l’uomo nel lavoro non sono, dal punto di vista etico, più che un mezzo, un espediente, un intermedio del sé verso sé stesso. 33
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 184. 54 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard onorevole lotta, in un senso ancora più forte di qualsiasi altra lotta, questi sarà arrivato già abbastanza avanti. Qui, come sempre importa d’essere corretamente disposti, non sprecare il proprio tempo a desiderare, ma cogliere il proprio compito”34. Con questo si vuol dire, come si può vedere, che anche in mezzo al lavoro che si prende per sopravvivere l’etica vede la possibilità – e dunque il dovere – di attuarsi, cioè di guardare al di là delle preocupazioni di ordine materiale per trovare a sé stesso nella esistenza. Se l’uomo riesce a fare questo, allora quelle preocupazioni (che qualcuno potrebbe valutare come se fossero la più bassa forma di preoccupazione) diventano adeguate per spingerlo verso il suo vero compito: sé stesso. Quindi possiamo leggere: Una lotta con le preoccupazioni d’ordine materiale ha la proprietà altamente formativa che la recompensa è molto e molto povera, o meglio nulla: il combatente lotta per produrre la possibilità di poter continuare a combattere. Tanto più grande è la recompensa che dà la battaglia, tanto più questa giace al di fuori dell’uomo, quanto più colui che lotta oserà anche contare su tutte le ambigue passioni che albergano in ciascun uomo. Ambizione, vanità, orgoglio, queste son forze che hanno un’immensa elasticità e che possono spingere lontano ... Colui che lotta con le preoccupazioni d’ordine materiale vede subito che queste passioni lo tradiscono. (...) Ecco perchè le preoccupazioni d’ordine materiale sono così nobilianti e formative, in quanto non permettono di farsi delle illusioni su 35
quel che concerne se stessi . Qui ci troviamo davanti ad una apparente contradizione tra il senso comune del lavoro e il senso che gli vuol dare l’etico, giacché il narratore conclude che sia una virtù della lotta con le preoccupazioni di ordine materiale la povertà delle ricompense prodotte. Io non voglio approfondire qua una spiegazione sul senso dell’etico come aggiornamento del sé stesso, dell’Io ideale, nella esistenza. Comunque senza quella nozione non si può siccuramente capire il brano sopracitato e la conclusione che afferma che le grandi ricompense e quelle ricompense che giacciono fuori dell’uomo36 lo mettono sotto l’influenza della ambizione, ecc. Ma se quella persona che lavora per 34
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 185. KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, pp. 185-­‐186. 36
Ovviamente nel senso di esteriorità al processo immanente del devenire dell’uomo, il processo dell’attuarsi in cui il sé prende a sé stesso come riferimento, insomma l’etica. 35
55 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard sopravvivere non guadagnerà più del necessario per tenersi in vita, almeno troverà – con il suo affaticarsi – una via per guadagnarsi sé stesso. Qualcuno potrebbe giudicare questa idea come crudeltà però sarebbe siccuramente più saggio osservare che ciò che l’etico difende è il valore dell’abito come disposizione dell’essere, disposizione acquistata e durabile come punto oggettivo di appoggio per che si sviluppi una esistenza coerente, ossia il fondamento della vita etica. Perciò troviamo la raccomandazione contro delle ilusioni rispetto a sé stesso che una vita facile fa l’uomo produrre: in questo si vede il dibbatito, la polemica, fra la nozione di ilusione e l’idea come una realtà essenziale che il sé prende come riferimento del suo attuarsi. Cioè, mentre l’uomo possa perdersi nella esistenza nel caso in cui sia preso in giro – o meglio nel caso in cui prenda a sé stesso in giro – per i desideri e le sfide di una vita da cui lo scopo è il godere immediato di tutto quello che offre l’occasione, lui può anche guadagnare sé stesso nel caso in cui prenda la sua vita come dovere, il dovere con (rispetto a) sé stesso, dovere di attuarsi come un Io universale. Insomma, se l’Io è il prodotto dell’occasionalità, quindi il suo sé non è che una ilusione perchè è molteplicità, frammentarietà. Solo quando diventa conseguenza, il prodotto del suo proprio lavoro, l’Io diventa allora una realtà esistenziale perché unità con sé stesso. Ma prima di esserci tentati a vedere in questa polemica soltanto il suo lato astratto e prima di dimenticarci del senso obiettivo del lavoro nelle pagine del saggio di Kierkegaard, ci torniamo ancora al testo del teologo danese: Se l’individuo in questione non vede un qualcosa di superiore in questa lotta, questa è meschina ed egli avrà ragione quanto al fatto che sia una miserabilità il dover per forza lottare per poter mangiare il proprio pane con il sudore della própria fonte ... Ma perciò questa lotta è così nobilitante, in quanto lo costringe a vedervi un qualcosa d’altro, lo costringe, se non vorrà rigettare totalmente se stesso, a vederla come una onorevole lotta, e che è perciò che la ricompensa è così povera, affinché l’onore possa essere tanto più grande. Egli lotterà ben, dunque per arrivare ad assicurarsi i mezzi per la sua sussistenza, ma ciò per cui prima e soprattutto lotta è conquistare, 37
acquisire se stesso . 37
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 186. 56 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Non si tratta qui di ingenuamente valutare ogni lavoro anche sotto le più cattive condizioni. Non si dice che il lavoro il più povero, difficile e mancante di senso sia comunque accetabile dallo stretto punto di vista delle condizioni materiale. Però quello che si vuole insegnare è che anche sotto le condizioni più dure o brutte l’uomo rimane umano e può pertanto infondere l’esistenza con senso, dare significato alla esistenza. L’etico, in Kierkegaard, si può spiegare come lo sforzo per trapassare l’esistenza con l’essenza, cioè con il sé stesso di modo a diventarsi un Io coerente. Si può dire – ma non senza alcuno rischio di superficialità teorica nel caso in cui non si capisca adeguattamente l’etico kierkegaardiano – che l’etico cerca di trapassare l’esistenza con l’ideale dell’Io, ossia con un senso che l’Io stesso prende e poi infonde all’esistenza mentre sceglie a sé stesso in ogni momento o in ogni istante. Questo sforzo di trapassare conscientemente l’esistenza con l’ideale dell’Io si può circoscrivere con il concetto di lavoro, per mezzo di cui l’etico cerca di conquistare, acquistare, non qualche tipo di riccompensa esterna e neanche qualche elogio ma solo a sé stesso. Cosa cambia rispetto agli altri stadi esistenziali? Non siccuramente il lavoro come sforzo, come opera umana generale, ma forse la meta verso la quale mira quello sforzo. Quindi se il lavoro è sforzo verso la integrità e coerenza esistenziale del sé nell’etico, nell’estetico egli mira al piacere della occasione ed al guadagno personale mentre nel religioso si volta all’Assoluto come il fondamento e come una possibilità umana. Quindi possiamo dire che quello che all’estetico non è importante e che l’etico spera raggiungere per mezzo del suo proprio sforzo (cioè sé stesso come un Io reale nella esistenza) il religioso sa che è ottenuto solo dalla grazia. Per questa ragione, come si vede, all’esteta il lavoro per soddisfare il fabbisogno materiale della vita sembra così intollerabile. Tanto importante come la ricerca sui sensi del lavoro è conoscere dei sensi della nozione di altro come punto di riferimento del lavoro di sé in Kierkegaard. 57 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Questo lavoro, anche nel suo senso di lavoro produttivo, è pure il fondamento del processo per cui l’uomo pone sé stesso ed è posto nell’esistenza, insomma il processo del suo attuarsi. Verso questa meta, cioè discutere il ruolo ontologico del lavoro negli stadi esistenziali, torniamo ancora al testo di Kierkegaard: “La concezione etica che è dovere d’ogni uomo lavorare per vivere ha dunque due vantaggi su quella estetica. In primo luogo è in armonia con la realtà, ne spiega in qualcosa d’universale, mentre quella estetica sottolinea un qualcosa d’accidentale e non spiega nulla. In secondo luogo intende l’uomo in ordine alla sua perfezione, lo vede in ordine alla sua autentica bellezza”38. Alfine ci troviamo ad un confronto direto fra l’etico e l’estetico sulla questione del lavoro. Da questo punto voglio avanzare verso una discussione più specifica dell senso di lavoro nell’estetico kierkegaardiano che, come ne ho detto prima, non può esser fatta sensa un stritto paragone con lo stadio etico. Il Lavoro nel Senso Estetico Rispetto all’Etico. Nel brano con cui io ho finito la tappa precedente di questo testo si vede che l’etico è abbastanza chiaro nella concezione del lavoro come un importante universale, giacché è dovere d’ogni uomo lavorare. Come un universale e come dovere, il lavoro nel senso etico è già veramente diverso delle condizioni comuni di vita nell’estetico. Ma questo non significa che nell’estetico la nozione di lavoro non abbia qualche senso, anzi pure lo scrittore dell’Enten-­‐Eller, come io ho trascritto, appunta verso un senso estetico quando scrive sui vantaggi del senso etico. Quel senso estetico è poi sottolineado in paragone alle caratteristiche del lavoro nel senso etico. In quest’ultimo il lavoro “è in armonia con la realtà, ne spiega un qualcosa d’universale, (e) intende l’uomo in ordine alla sua perfezione, lo vede in ordine alla sua autentica bellezza”. Sulla prima caratteristica dobbiamo capire perché il teologo danese impiega il concetto di realtà che, nel suo saggio, significa l’esistenza in senso storico (Virkeligt) , nel senso di un sviluppo storico o l’attuazione della coscienza, secondo quanto afferma 38
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 189. 58 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Cornelio Fabro39. Infatti tutta la discuzione che ne abbiamo fatto fino a questo punto mira a questa premessa, cioè che l’etico prenda il lavoro come contesto o possibilità di speciale importanza per l’aggiornamento dell’uomo verso un Io ideale, lo scopo ed il punto di riferimento del sé verso sé stesso. Un’altra volta si può riccordare che per l’etico il bello è “ciò che ha la sua teleologia in se stesso”40. Ciò che il teologo danese afferma è che nel suo senso etico il lavoro (come dovere) contribuisce fondamentalmente al processo dell’attuarsi del sé – almeno verso sé stesso. L’armonia del lavoro con questo aggiornamento del sé nella esistenza segnala che il lavoro nell’etico non ha nulla che vedere con la nozione di altro come realtà ontologica diversa dal sé; nel rapporto etico del lavoro, l’altro rimane soltanto una immagine del sé. Questo è abbastanza chiaro nel brano in cui l’etico narratore dell’Enten-­‐Eller parla del movimento della coscienza: “il movimento di colui diventa dunque a partire da se stesso verso se stesso attraverso il mondo”41. Quello attuarsi ha pertanto come scopo o meta l’Io universale e su questo io vorrei sottolineare soltanto che il suo più profondo senso appunta alla coerenza nelle scelte che si fa mentre si cerca di diventarsi coerente con sé stesso. Poi è propriamente questa la origene della sua perfezione, cioè il vero senso della perfezione umana alla quale il lavoro intende, la determinazione della sua esistenza (la realtà) verso l’Io ideale. Già il senso estetico del lavoro, come ne abbiamo visto sopra, “sottolinea un qualcosa d’accidentale”42 e per contrasto non comprende l’uomo in ordine alla sua perfezione o autentica bellezza. Il lavoro nell’estetico mette in movimento la possibilità di essere qualcosa in ogni istante perché questa è la condizione ontologica estetica e pure mette in movimento ciò che è una delle più importanti determinazioni della vita estetica, come si legge poco prima di quel brano sopracitato, nello stesso Enten-­‐Eller. Dunque il lavoro segue la massima estetica che è il godere, la fruizione o magari anche 39
FABRO, Cornelio. “Introduzione”. In: KIERKEGAARD, Søren. Le grandi opere filosofiche e teologiche. Milano: Bompiani, 2013, p. 59. 40
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 171. 41
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 172. 42
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 189. 59 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard il servirsi e lo sfruttare di ogni possibilità che appaia in ogni occasione. L’estetico è in sé stesso una molteplicità. Da questo punto negativo dell’estetica segue ancora che il lavoro sarebbe una obbligazione, una “triste necessità”43, un noioso impegno mancante di senso che la disprezzabile44 lotta per soddisfare le necessità materiali. Già negli aspetti che hanno relazione con le altre persone – l’altro nel rapporto del sé con il mondo – il lavoro nel senso estetico sembra di essere un atteggiamento esattamente inverso all’oblativo45, o un atteggiamento interessato soltanto a sé stesso. Insomma nell’estetico è molto meglio che l’uomo non abbia bisogno o non abbia il dovere di lavorare, e se questo non gli è facoltto, quindi che lui possa almeno sfruttare la occasione in suo vantaggio e possa godere alcun piacere transitorio e materiale. In questo rapporto non si riesce a trovare un altro come altro. Il rischio di un cambiamento di senso verso una prospettiva estetica del lavoro è così grave, dal punto di vista etico, che si mette sotto sospetta pure il sucesso materiale ottenuto con il lavoro: “Colui che è costretto a lavorare, questi dovrà rendersi ignaro della vana gioia di poter ottenere tutto, non dovrà imparare a tenacemente giuocare tutte le sue chances sulla propria ricchezza, ad eliminare con il danaro ogni ostacolo e acquistarsi ogni libertà”46. Dunque è evidente la tendenza ascetica come fondamento delle pratiche raccomandate dall’etico nel rapporto fra l’uomo, il denaro e tutti gli altri prodotti del suo lavoro. Se in questo rapporto l’individuo dimenticarsi che sua meta non è esterna ma è interna a sé stesso, se lui 43
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 182. Su questo l’estetico e l’etico convergono verso un punto comune. 45
Giacchè consistirebbe di comportamento incline a soddisfare soltanto suoi propri bisogni e suoi propri affetti. Però dobbiamo essere prudenti con questo senso troppo negativo dell’estetico e del lavoro nel senso estetico, giacchè questa è soltanto la interpretazione etica della vita estetica. Questa appunta, oltre tutte quelle caratteristiche, anche al rapporto diretto che è possibile e importante, in alcune circostanze, fra l’uomo e la natura o pure fra l’uomo e sé stesso senza l’intermedio della coscienza, del linguaggio formale, ecc. 46
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 190. 44
60 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard dimenticarsi che lavora verso sé stesso invece del mondo e di tutto ciò che è esterno all’Io che deve attuarsi nella esistenza, allora il lavoro è diventato vanità. Allo stesso tempo il teologo danese fa vedere tra le righe il limite dell’etico ed insieme a questo la prospettiva religiosa che lui fa svilupparsi in altri testi, giacché la sintesi fra la filosofia e il protestantismo nella tradizione hegeliana-­‐danesa – e che può esser descritta per mezzo del concetto di missione o vocazione – perde nell’etico tutto il suo senzo trascendente e religioso, ancora palese nella teologia luterana e protestantesima in generale. Questa tradizione assume allora quel senso immanente di cui ne ho già parlato: la missione dell’uomo nel senso etico, la sua vocazione, è attuarsi come sé stesso cioè come un Io ideale. La sua teleologia non si trova in qualcosa oltre il mondo e oltre sé stesso, invece comincia e si conclude nell’Io, l’uomo stesso nel senso ideale perché spirito coeso e coerente con sé stesso. Insomma nell’etico il lavoro è (come processo) propriamente lo sforzo del sé e prende come meta a sé stesso. In questo senso è diverso, in principio almeno, di ogni teologia, sebbene appaia vicino al pensiero dei cosidetti hegeliani di sinistra. Così si legge: Il nostro eroe è dunque pronto a lavorare non in quanto questo gli è una duras necessitas, ma in quanto lo ritiene ciò che in assoluto v’è di più bello e di più perfetto. (Il sostenere che non possa vederlo così, poichè, con tutto ciò, costretto a rassegnarvisi, è uno di quei fraintendimenti sia stolti sia maliziosi che mettono il pregio di un essere umano al di fuori di lui, nel casuale!). Ma appunto in quanto vuol lavorare, la sua attività potrà ben veniri ad essere un lavoro, ma non una condizione di schiavitù. Egli esige dunque un’espressione più elevata per il suo lavorare, un’espressione che qualifichi il rapporto della sua attività con la sua persona e con quella degli altri uomini, un’espressione che gli possa determinare questo rapporto 47
come piacere e del pari difenderne il significato . Prima di tutto l’analisi di questo tratto ci richiede alcuna prudenza. Comunque tutti i sensi del lavoro dal punto di vista etico possono esser visti nel brano, e pure si può vedere che per l’etico il lavoro che si può tradurre da un lato come un dovere non 47
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 191. 61 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard può d’altro lato esser reduto ad una schiavitù, cosa che forse sarebbe possibile dire dal punto di vista dell’esteta48 giacché è per lui che il lavoro è ciò di cui si vuole escappare o che si vuole evitare. In questo caso, cioè l’estetico e come è proprio allo estetico, il lavoro e tutto ciò con cui si rapporta l’esteta fa riferimento a lui solo in un senso casuale, accidentale49, insomma esterno al sé nel senso della sua presenza nel mondo. Nello stesso modo anche il piacere che si può ottenere con il lavoro ha due sensi diversi tra i due stadi. Mentre nell’estetico il piacere è ciò che si cerca di ottenere nel rapporto con l’altro, nell’etico è compreso nello sforzo per rassegnarsi al progetto di diventarsi sé stesso. Un’altra volta dobbiamo dire che la missione o vocazione, nel senso etico, non centra con nessuna pretesa trascendenza, anzi prende il senso di un dovere e perciò è immanente anche se orientata ad un ideale dell’io. Ecco qui il discorso, la tesi etica: “È dovere d’ogni uomo avere una missione”50 e “ogni uomo ha una missione”51. La palese differenza tra le due affermazione non può esser spiegata come contradizione; è piuttosto un altro modo di parlare dell’esistenza etica nel contesto del lavoro, perciò quello che l’uomo ne ha già – una missione – è propriamente ciò che lui deve prendere come il suo più importante dovere: l’avere una missione. Quello che ogni uomo è già in possibilità – l’Io nel senso di coerenza e unità con sé stesso – è propriamente ciò che diventa il suo compito etico, il suo dovere nella esistenza (la realtà nel senso dell’attuazzione del sé). Quindi l’etico, per mezzo della tesi della missione ovvero del lavoro come vocazione universale, congiunge tutte le diferenze fra gli uomini ovvero tutti i diversi lavori in una categoria generale: tutti i tipi di lavoro sono, dal punto di vista etico, una sola cosa cioè una missione, una vocazione universale, che è pure il dovere di ogni persona. Così si legge: 48
Giacchè spesso per l’estetico quando si parla di un dovere si parla infatti di una schiavitù. KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 153. 50
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 194. 51
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 195. 49
62 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard L’etico reconcilia l’uomo con la vita perché afferma: ‘Ogni uomo ha una missione!’ Non annulla le diferenze, ma disse: Di tutte le diferenze c’è come resto l’universale del fatto che si tratta di una missione! Il più eminente talento è una missione, e l’individuo che ne è in possesso non può perdere di vista la realtà, egli non sta al di fuori di ciò che è comune al genere umano, perchè il suo talento è una missione. L’individuo più insignificante ha una missione (...) egli non sta al di fuori di ciò che è comune al genero umano, 52
egli ha una missione . Il lavoro nel senso etico, dunque, ha la proprietà e pure l’intento di manifestare nell’esistenza “ciò che è comune53 al genero umano”54. Invece l’estetico prende come il suo punto di riferimento un stritto particolare: il suo talento. Il contrasto fra i due stadi si può vedere nel giudizio fatto dall’etico rispetto alla nozione di talento: “E infatti quanto l’esteta affermava dei talenti aristocratici non son che parole confuse e scettiche a proposito di ciò che l’etico spiega”55. E principalmente: “Il lavoro bisogna però che non sia lavoro in senso molto stretto, ma che costantemente possa essere determinato come piacere... Si scopre presso di se stessi un qual mai talento aristocratico con cui ci si distingue dal volgo”56. Qui si vede l’importanza della nozione di talento per spiegare il senso estetico di lavoro. Mentre lavora l’esteta trova in sé stesso un talento per cui lui riesce a distinguersi dal volgo, dalla folla o anche dall’universale57. Quindi ci troviamo nello esatto oposto rispetto all’etico. La nozione di talento segnala la distinzione dell’estetico rispetto all’etico, giacché fa riferimento ad una capacità o disposizione naturale dell’individuo, un potere di natura ereditaria (per questo si dice aristocratico), ossia un attributo che si possiede in modo casuale, prodotto della fortuna e non del dovere di lavorare per e sul sé stesso. E pure nel contesto del lavoro, come di resto in tutta la esistenza, non si può paragonare l’estetico ad un collettivo del sé ma invece quello stadio può, insomma, 52
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 195. Ossia universale ed ideale. 54
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 195. 55
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 194. 56
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 192. 57
Ovviamente che non si può paragonare l’universale con la folla e nemmeno col volgo. Loro sono diversi tra di loro in senso qualitative, così come ci sono l’universale etico e l’assoluto religioso. 53
63 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard esser spiegato come una sorta di godimento immediato delle opportunità, in questo caso dei talenti che si possiedano. Mentre l’etico lavora per la unità del sé con sé stesso l’esteta trova nell’esercizio del suo talento la condizione della molteplicità degli uomini, per cui ci si diferenzia dalle altre persone e fa della vita qualcosa di più interessante58. L’estetico è, insomma, la molteplicità59 e pertanto si può vedere che per quanto lavorare sia importante per vivere, tutto quello che riduca l’uomo al generale, alla indiferenza ed alla indistinguibilità, è propriamente per questo (cioè per essere contro la molteplicità) indigno dell’uomo come uomo, nel senso come ci comprende l’esteta. Dunque possiamo vedere come l’esteta parla della giornatta quotidiana: “Si è costretti a lavorare per vivere ...così, si dicca ciò che si vuole, è disposta la vita, ... è il lato sordido dell’exsistentia! Per ogni ventiquattr’ore se ne dorme sete, ... è tempo sprecato, ... ma così dev’essere ... Su ventiquattr’ore si lavora cinque ore, ... è tempo specrato, (...) il proprio talento si carezza come si fa con un infante (...) lo si sviluppa in quelle dodici ore della giornata, si dorme le sete, si è non-­‐uomini le cinque, ... e in tal modo la vita diventerà pur veramente decente, sì, perfino veramente bela”60. Ecco tutta l’ironia con cui l’esteta parla del lavoro come dovere, cioè come attività universale e consueta: al suo parere questo non è più che un spreco di tempo o pure una caduta dell’uomo ad una condizione inferiore, non umana. Concludiamo poi che anche nel rapporto con la nozione di lavoro il pensiero di Kierkegaard cerca di mettere in oposizione l’etico e l’estetico. Ci resta ancora vedere cosa possiamo imparare di quello che lo stadio religioso c’è da dire sulla questione del lavoro, e questo noi cercheremo di fare adesso. 58
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 193. Infatti, come ne abbiamo già visto ogni uomo è in principio molteplicità, soltanto che l’estetico rimane sempre in questa condizione mentre l’etico e pure il religioso cercano di diventarsi, per loro lavoro e rassegnamento, unicità esistenziali. 60
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 194. 59
64 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard È Possibile Parlare di Lavoro nel Senso Religioso? L’Altro Come il Prossimo e Come un Fondamento del Sé. Pure il religioso kierkegaardiano, alla somiglianza dell’estetico che insegue le opportunità sulla base o criterio del godere, non si avvicina strittamente dalla idea di lavoro come sforzo per l’attuarsi del sé. Comunque possiamo descrivere il suo atteggiamento come rassegnazione che così si volge al divino e non ovviamente verso la natura come quell’altro stadio esistenziale. Ma pure come perfino l’estetico c’è cosa da dire sul lavoro dunque lo stesso si può aspettare dallo stadio religioso, anche se ne succeda in un senso più ampio rispetto agli altri stadi. Infatti se il religioso è rassegnazione in relazione al paradosso del Dio-­‐uomo61 è propriamente questa rassegnazione che porta il religioso, per un’altra via, al dibattito sul lavoro giacché la rassegnazione è una prima e essenziale scelta che si fa per vivere secondo le esigenze di quel paradosso, delle cui la più importante e fondamentale è la sofferenza62. Quanto al religioso ci basta ricordare che è lo stadio in cui l’uomo prende il divino come il suo scopo esistenziale ovvero la meta del suo attuarsi63 e così questo attuarsi, come un lavoro del sé (adesso verso Dio, il paradosso del Dio-­‐uomo, “la determinazione più decisiva possibile della soggettività”, secondo Kierkegaard64) non può esser recato ad effetto dal proprio uomo. Solo Dio, come un maestro donatore della verità, può allora portare l’uomo fino a quella nuova condizione esistenziale65. Qui dobbiamo tornarci ad un lungo brano in cui il teologo danese fa la distinzione tra un professore ed un donatore della verità: Se il maestro dev’essere l’occasione che ha il compito di far ricordare al discepolo, allora non è affatto in grado di ricordargli ch’egli in fondo conosce 61
KIERKEGAARD, Søren. Briciole di filosofia (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, pp. 627-­‐635. KIERKEGAARD, Søren. Esercizio del cristianesimo (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1981. 63
KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1813. 64
KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1825. 65
KIERKEGAARD, Søren. Briciole di filosofia (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, pp. 607-­‐609. 62
65 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard la verità, perchè il discepolo è precisamente la non-­‐verità. Ciò per cui il maestro può essere per lui l’occasione per ricordare, è ch’egli è la non-­‐
verità. Ma con questa consapevolezza il discepolo viene a trovarsi escluso della verità, più che se egli non sapesse di essere la non-­‐verità. (...). Rispetto a questo atto di coscienza vale il principio socratico che il maestro è soltanto ocasione, chiunque egli sia, fosse pure un Dio; poichè la mia non verità io non la posso scoprire che da me stesso, perchè essa non è scoperta se non quando sono io a scoprirla (...). Se ora il discepolo deve ricevere la verità, allora bisogna che il maestro gliela porti; non solo ma bisogna che gli dia anche la condizone per comprenderla (...). ma colui che dà al discepolo non soltanto la verità ma anche la condizione, non è un maestro. Ogni insegnamento riposa in ultima analisi su questo, che la condizione è presente: se questa manca, il maestro non può nulla, perchè in caso diverso egli non dovrebbe formare ma creare il discepolo prima d’incominciare a istruirlo. Ma questo non è possibile ad alcun uomo: se ciò si potesse fare, 66
dovrebbe essere per opera di Dio stesso . Quindi nel religioso il lavoro di sé – l’attuarsi – non è uno sforzo immanente, non comincia e finisce nel sé stesso e per cui l’altro è soltanto un mezzo, un intermedio, una semplice immagine del sé. Propriamente perché quello che l’uomo può e deve diventare (la sua determinazione più decisiva) viene non da sé ma dall’Altro è che in questa condizione l’uomo diventa, nel senso più evidente, una eterogeneità67. Chi è l’altro nell’ambito del religioso che il proprio Dio! E pertanto è un altro assoluto in sé e proprio per questo è anche assolutamente diverso dall’uomo, nel senso ontologico più forte68. A questa costatazione si relaziona pure l’affermazione che si legge nella parte conclusiva dell’Enten-­‐Eller, l’Ultimatum: “di fronte a Te abbiamo sempre torto”69. Cioè, nel religioso tutti gli uomini sono uguali ma soltanto perché, di fronte a Dio, tutti sono torti. Concludiamo allora che in questo stadio Kierkegaard fissa una distinzione profonda e definitiva tra l’uomo e Dio, tra l’Io, il sé come spirito nell’esistenza e l’altro, quando quest’altro è Dio ovvero l’assoluto: 66
KIERKEGAARD, Søren. Briciole di filosofia (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 607. GRØN, Arne. “Comprensione di sé e dialettica della comunicazione”. In: ROCCA, Ettore (ed.) Søren Kierkegaard – L’essere umano come rapporto. Brescia: Mocelliana, 2008, p. 104. 68
KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, pp. 1825-­‐1827. 69
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 257. 67
66 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Nel suo rapporto con un altro essere umano sarebbe ben possibile che egli possa in parte aver torto, in parte aver ragione, fino a un certo punto torto, fino a un certo ragione (...) dato che egli stesso ed ogni essere umano sono delle finetezze e il loro rapporto un rapporto finito che giace in un più o meno. Fintantochè, perciò, il dubbio volesse rendere finito il rapporto infinito, (...). Dunque ogni volta che il dubbio lo angoscerà con il particolare, gli insegnerà che sofre troppo o che è messo alla prova al di là delle sue forze, ebbene, allora egli dimenticherà il finito nell’infinito d’aver sempre 70
torto . Ecco qua la distinzione fra la finitezza degli rapporti umani e l’infinitezza del rapporto tra l’uomo e Dio, e questa distinzione prende il suo senso dal fatto che negli rapporti verso Dio l’altro dell’Io è un altro assolutamente diverso rispetto l’uomo, come si può leggere in un tratto dove il teologo danese scrive sul cristianesimo: “C’è infatti una differenza abissale infinita fra Dio e l’uomo”71. Quindi si conclude che in questo senso religioso il rapporto fra l’uomo e Dio non può esser giudicato che come un paradosso. Una altra ed importante conclusione è che in questo senso la domanda con cui Anti-­‐Climacus (l’autore pseudonimo di La Malattia Mortale) inizia il suo testo deve ricevere una risposta: in quanto un rapporto che si rapporta a sé stesso, l’Io è prima di tutto posto da un altro, senza che in questo caso si possa dire che il sé si riduca soltanto a un mezzo o ad una immagine fantasmagorica, giacché pure il sé partecipa insieme all’altro nel porre sé stesso come un Io nella esistenza72. In questo senso troviamo la condizione che Coda73 define come relazionale, cioè, que l’uomo sia un “sé che è insieme”. Quindi nel religioso l’Io è dapprima posto da un altro e dunque, per 70
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 271. KIERKEGAARD, Søren. Esercizio del cristianesimo (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 1925. 72
Nel senso religioso questa affermazione appunta verso la conversione, propriamente nel senso teologico-­‐cristiano, cioè nel senso del ‘diventare una nuova creatura’. Ma anche nel senso sociale, in cui l’altro non è un Assoluto divino ma è una altra persona, la affermazione appunta verso il fatto che è soltanto quando l’altro ha, nel rapporto con il sé, valore di per se, il sé riesce a capire il suo proprio valore. Questo è il senso vero della interiorizzazione, concetto centrale della filosofia kierkegaardiana della soggettività, secondo la analisi di Cornelio Fabro, e centrale pure come il senso profondo della nozione di rapportarsi nel saggio sulla Malattia Mortale (KIERKEGAARD, Søren. La malattia mortale -­‐ Le Grandi Opere. Milano: Bompiani, 2013, p. 1665). 73
CODA, Piero. “Antropologia della relazione e Trinità”. In: ROCCA, Ettore (Ed.) Søren Kierkegaard – L’essere umano come rapporto. Brescia: Mocelliana, 2008, p. 100. 71
67 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard dire così, l’altro non è, per la prima volta rispetto agli altri stadi, un mezzo, un intermedio rispetto al godere di sé o rispetto all’attuare del sé verso sé stesso. L’altro diventa – non contro ma insieme al proprio sé – una realtà ontologicamente relevante perché independente. Soltanto come esigenza dello spirito, che abbraccia il corpo ma che necessariamente nasce dello spirit74, l’essere umano, com la sua tipica e inestinguibile ambivalenza constitutiva75 può esser definito come dialettico. Ed è così che Fabro – ma prima di lui il teologo danese – cerca un’altra volta di fondare l’umano sul principio della sua eterogenità ontologica (invece di una omogeneità materialistica) che pertanto è la condizione e esigenza per la sua integrità esistenziale. In questo senso è che nel religioso – ancora più dell’etico – il lavoro di sé é fondamentale per la costituzione dell’umano, posto che è nel religioso che si mette in giocco com la massima evidenza l’eterogeneità dell’umano nell’esistenza. Appartiene a noi adesso discutire la possibilità o le condizone per cui il lavoro – come rapporto fra gli uomini – sia analizzato anche dalla prospettiva fondatta dallo stadio religioso. Di quale nozione possiamo cominciare per aggiungere alle relazioni di lavoro quella prospettiva trascendente del religioso kierkegaardiano che della affermazione del valore assoluto dell’altro dinanzi il sé stesso! Quindi è possibile pensare nel lavoro – che è una delle forme di rapporto tra gli uomini – sotto la prospettiva del religioso? La risposta sarà affermativa nel caso in cui anche la nozione di umano sia pensatta e acceta nell’ambito di una vocazione divina e universale come possibilità, cioè che ogni uomo (come una persona singolare, il Singolo) abbia come meta il divino, principio per cui ovviamente si è stabilita la sacralità della vita umana. È proprio questo il significato della vita umana e la vocazione dell’uomo nel religioso kierkegaardiano. 74
FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 21. Ossia la condizione dell’uomo come sintesi di corpo e anima, finitudine ed infinitezza, tempo ed eternità e, come ne abbiamo visto poco fa, pure la condizione dell’Io come un sé-­‐insieme all’altro. 75
68 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard La chiave di analisi si trova nel rapporto tra gli uomini sotto la determinazione della loro somiglianza ossia quello che Kierkegaard chiamerà di un altro come il prossimo. La lezione del teologo danese è che quando l’uomo si volta all’altro riconoscendo in lui lo stesso valore che trova in sé stesso – cioè un altro dell’Io con valore in sé, con realtà independente – allora potrà trovare a Dio stesso nel rapporto con l’altro. È propriamente questa idea che Coda76 afferma: “se la relazione interumana è immagine di Dio, e ciò luogo in cui Dio si dà a conoscere come Dio, allora la relazione interumana è lo spazio entro il quale si fa esperienza progressiva di Dio perché Dio in essa si rivela”. Questo principio è il fondamento profondo della reciprocità tra gli uomini che ovviamente si può trovare soltanto nelle relazioni umane quando quei che si relazionano sono veramente liberi ed independenti fra di loro. E lo stesso accade nella direzione inversa, cioè quando l’uomo si volta a Dio trova perciò il suo prossimo. Questi sono i punti centrali del testo sugli Atti dell’Amore che Kierkegaard scrive appoggiato nel testo vangelico: Amerai ... il tuo prossimo come te stesso! Secondo scrive Cornelio Fabro nella introduzione degli Atti dell’Amore, la strutura del religioso kierkegaardiano è basata sulla interpretazione del comandamento di amare il prossimo come una impossibilità all’uomo naturale, lasciato a sé stesso. Solo la grazia divina può portarlo alla condizione di poter amare – quello che ne abbiamo già visto nel testo delle Briciole di Filosofia. E questo si fa possibile quando il proprio Dio si fa il mezzo tra l’uomo ed i suoi prossimi, ossia quando l’uomo vive in modo a rapportarsi a Dio in primo piano mentre si rapporta agli altri: “Il rapporto a Dio che ogni singolo individuo ha e deve aver nel suo rapporto al prossimo”77. E Fabro segue riferindo il testo kierkegaardiano: “Iddio deve entrare in ogni pensiero, anche il più nascosto, in ogni sentimento anche il più segreto, in ogni 76
CODA, Piero. “Antropologia della relazione e Trinità”. In: ROCCA, Ettore (Ed.) Søren Kierkegaard – L’essere umano come rapporto. Brescia: Mocelliana, 2008, p. 90. 77
FABRO, Cornelio. “Saggio Introduttivo”. In: KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, p. 105. 69 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard movimento anche il più intimo”. Cioè, nel rapporto con sé stesso e con l’altro l’Io deve rapportarsi infatti con Dio, lo stesso Dio che gli comanda ad amare il prossimo, quindi a relazionarsi amorosamente con le altre persone che diventano così i suoi somiglianti. Fabro prosegue la sua analisi del punto centrale del pensiero religioso di Kierkegaard: “Il rapporto al prossimo, non diverso dal rapporto a Dio ch’esso deve includere, è un rapporto d’interiorizzazione (‘Inderliggorelse’), e solo a questo modo la libertà diventa realtà: l’amore del prossimo così s’impone verso tutti gli uomini senza eccezione”78. Eccolo qua il doppio senso del rapporto umano nel senso religioso, secondo Kierkegaard, perchè mentre l’uomo deve rapportarsi a Dio quando si rapporta all’altro, propriamente per questo deve rapportarsi all’altro come il suo prossimo, cioè come persona con lo stesso valore (pure ontologico) di sé stesso. E conseguentemente il suo rapporto all’altro come prossimo sarà anche rapporto a Dio: “nell’amare il prossimo tu ti unisci con Dio”79. Ovviamente che se l’uomo è un rapportarsi allora la natura del suo rapporto all’altro avrà impatto sul sé stesso ed è per questo che Fabro define come interiorizzazione il rapporto sulla base della nozione di prossimo. La natura del rapporto sotto le condizione del religioso ci porta ad alcune conclusioni: L’amore del prossimo in concreto comporta tre aspetti che s’integrano e si richiamano l’un l’altro: (...). Anzi tutto, l’uomo obbedisce al precetto di amare il prossimo quando è lui stesso che diventa il prossimo per l’altro uomo, come ha fatto il ‘buon Samaritano’ della parabola lucana: a questo compimento non è suficiente l’impulso o la simpatia imediata delle reazioni spontanee, ma ocorre elevarsi al ‘tu devi’ divino. Pertanto, anche se l’uomo (...) vivesse in un’isola deserta’, egli dovrebbe rinnegare il suo egoísmo per portarsi con l’animo a tutti gli uomini senza eccezione. Poi, (...) ognuno deve approfondire la sua riflessione etica pensando che in ogni uomo Dio ha posto un principio eterno. Quindi ogni uomo assume una rilevanza e un valore eterni; ed è ciò che Kierkegaard qui chiama ‘l’uguaglianza dell’eternità’, per la quale ogni uomo può ugualmente avere acesso a Dio, e quindi ‘soltanto nell’amore del prossimo l’Io che ama è determinato puramente come spirito ed il prossio è una determinazione puramente spirituale’. Perciò (...) l’altro diventa oggetto d’amore, non perché è un ‘altro Io’, ma perchè è il prossimo, ed è il prossimo perché è considerato ‘davanti a 78
FABRO, Cornelio. “Saggio Introduttivo”. In: KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, p. 108. 79
KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, p. 295. 70 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Dio’. Per questo – (...) – il vero amore, del prossimo comporta ‘l’aiutare il proprio simile a diventare un Io spirituale aiutandolo ad amare Dio’. Di qui la formula: ‘Amare Dio è in verità amare se stesso; aiutare un altro uomo ad amare Dio è amare un altro uomo; essere aiutati da un altro uomo amare 80
Dio è essere amati” . In questo lungo brano penso trovare il migliore sommario della questione sul rapporto tra l’Io e le altre persone nella prospettiva dello stadio religioso e anche per che si capisca il mio argomento, cioè l’importanza del religioso kierkegaardiano come possibilità di una diversa natura del rapporto umano nel contesto di lavoro. Fabro ci fa ricordiare la natura del religioso kierkegaardiano come la condizione esistenziale che mette l’uomo verso il divino, il divino nel senso del paradosso cristiano del Dio-­‐uomo. Quindi il dovere di amare il prossimo non può esser compiuto dall’uomo senza che gliene conceda quel maestro divino di chi scrive il teologo danese nelle Briciole di Filosofia. Almeno in senso mondano si può concludere che quella del pensiero kierkegaardiano, quando lo prendiamo come riferimento per discutere il mondo sociale ed il lavoro, è una profonda e seria sfida allo standard comune, basato sui valori cui fondamenti sono soltanto l’interesse per sé stesso e la spinta per ottenere vantaggio personale in ogni tipo di rapporto. Ma è prima di tutto una sfida alla credenza nella possibilità di cambiare questi valori senza il profondo cambiamento della soggettività umana in primo piano – cioè una sfida alle soluzioni che confutanno il principio della libertà umana e la sua importanza per spiegare la vita in società. Poi Fabro ci conduce ad un punto centrale del religioso kierkegaardiano. Ciò che define l’importanza dell’altro nello stadio religioso – oltre Iddio come l’Altro per eccellenza – è il fatto teologico, per così dire, della uguaglianza di tutti gli uomini davanti Dio, sia come peccatori (perché “di fronte a Te abbiamo sempre torto”, come scrive Kierkegaard81) che come creatura e quindi come uno in cui Dio ha posto un 80
FABRO, Cornelio. “Saggio Introduttivo”. In: KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, pp. 108-­‐109. 81
KIERKEGAARD, Søren. Enten-­‐Eller (Tomo Quinto). 3 edizione. Milano: Adelphi, 2009, p. 271. 71 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard principio eterno: la possibilità di realtà82. Perciò Kierkegaard concludirà: “Il prossimo è l’uguale. (...) col prossimo tu hai la somiglianza dell’uomo davanti a Dio”83. Per dire un’altra volta: l’uguaglianza dell’eternità ci fa vedere – al di là dello abisso tra l’uomo e Dio, un abisso di realtà – anche un principio divino generale e che così ci determina verso l’altro umano mentre ci determina all’Altro divino. Per questo si deve amare il prossimo (l’imperativo del religioso in Kierkegaard): perché l’altro, così come l’Io, sono entrambi uguali nella loro carenza di realtà (cioè di Dio) e nella loro possibilità di eternità (cioè di realtà). Concludiamo pertanto con le parole di Fabro, ripetute qua: “l‘altro diventa oggetto d’amore, non perché è un ‘altro io’ ma perchè è il prossimo (è il mio simile) ed è il prossimo perchè è considerato davanti a Dio”84. Insomma, nel religioso kierkegaardiano la nozione di un altro determinante dal rapporto costitutivo del sé corrisponde in primo piano al proprio Dio. Però questo Dio si fa trovare nel rapporto tra gli uomini soltanto quando il principio di questo rapporto è l’amore, cioè quando l’Io si rapporta a un altro que è tanto distinto del’Io, come persona, quanto uguale all’Io come carenza e possibilità di eternità (ossia realtà essenziale). Io discuto gli implicazioni di queste nozioni per la questione del lavoro nella breve conclusione di questo testo. Conclusione Nello stadio religioso kierkegaardiano, discusso da me in questo testo soltanto con l’enfasi messa sugli Atti dell’Amore, l’altro prende valore in sé innanzi all’Io, l’Io che nel pensiero di Kierkegaard è la traduzione concettuale per l’uomo come spirito e come soggetto singolare. Nel religioso l’altro é tanto quel maestro divino che porta l’Io 82
Come criatura l’uomo è posto da un’Altro e se quest’Altro è l’Assoluto dunque questo porre l’uomo nell’esistenza non può che esser fatto nell’ambito di un rapporto assoluto invece del rapporto relativo che l’uomo ha con le altre creature. Come concluderà Cornelio Fabro quando esamina il principio di rassegnamento in Kierkegaard, “con l’Assoluto non si può entrare altro che in un rapporto assoluto” (FABRO, Cornelio. Tra Kierkegaard e Marx. Segni: EDIVI, 2010, p. 109). 83
KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, p. 283. 84
FABRO, Cornelio. “Saggio Introduttivo”. In: KIERKEGAARD, Søren. Atti Dell’Amore. Milano: Bompiani, 2003, p. 109. 72 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard al di là di sé stesso quanto gli altri uomini che devono esser amati dall’Io perché è questo il comandamento divino e perché loro sono ontologicamente uguali. L’altro diventa così un prossimo dell’Io e pure l’Io diventa un prossimo delle altre persone, sulla base del comandamento dell’amore come un dovere e sul fondamento della loro uguaglianza ontologica. Perciò nel religioso il lavoro può esser spiegato come un attuarsi del sé verso una possibilità che si trova oltre sé stesso, una possibilità che lo stesso Kierkegaard designa come coscienza eterna, beatitudine eterna85 e che si può spiegare anche come l’eternità o la realtà nel suo significato essenziale. L’uomo diventa sé stesso, nel religioso, insieme all’altro e questo può esser un importante principio per una filosofia sociale kierkegaardiana, sulla base della nozione di dono, dono di sé al’altro, il prossimo, e dono che l’altro fa all’Io (giacché l’Io è anche un prossimo) perché questo diventi l’uomo in sua più nobile possibilità: l’uomo con una vocazione eterna. Dunque il lavoro prende un senso più vicino al processo dell’attuarsi della soggettività umana; diventa sfera anche per la manifestazione dello umano come coscienza e libertà, più che soltanto uno sforzo per soddisfare le necessità materiale dell’uomo come individuo di una spezie animale. E ciò è fatto senza rifiutare una determinazione sociale della persona – anzi affermandola – scritta tuttavia non soltanto nel suo patrimonio corporale ma prima nel suo spirito, per cui si può mettere sotto sospeta la tradizione che interpreta il pensiero di Kierkegaard come pensiero dell’individualismo cioè dell’individuo isolato come fatto originario e fondativo del mondo. Quella che si vede qua è una prospettiva assai ricca ma per che sia sviluppata ci serve portarci, in quello che tocca alla ricerca della opera kierkegaardiana e al senso generale, oltre i punti di vista volgari e pure superficiali rispetto allo stadio religioso e alle religiosità. 85
KIERKEGAARD, Søren. Briciole di filosofia (Le Grandi Opere). Milano: Bompiani, 2013, p. 591. 73 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X Crubellate, João M. Il concetto di lavoro e la possibilità di una filosofia sociale in Søren Kierkegaard Doutorando em Filosofia (PUCPR) Professor de Filosofia na UEM E-­‐mail: [email protected] 74 | Pensando – Revista de Filosofia Vol. 5, Nº 9, 2014 ISSN 2178-­‐843X