Frutto del diavolo:BdG
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Frutto del diavolo:BdG
leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 3 Frutto del diavolo Un thriller culinario TOM HILLENBRAND traduzione di Giovanna Targia e Marina Pugliano Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 4 Titolo dell’opera originale TEUFELSFRUCHT. EIN KULINARISCHER KRIMI Originally published as “Teufelsfrucht. Ein kulinarischer Krimi” by Tom Hillenbrand © 2011, Verlag Kiepenheuer & Witsch GmbH & Co. KG, Cologne / Germany Traduzione dal tedesco di Giovanna Targia e Marina Pugliano © Atmosphere libri Via Seneca 66 00136 Roma www.atmospherelibri.it [email protected] Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it) I edizione nella collana Biblioteca del giallo dicembre 2013 ISBN 978-88-6564-071-5 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 5 A Cornelia Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 7 Prologo Aaron Keitel osservava la sua mano sinistra tirare indietro il carrello della semiautomatica per poi lasciarlo scattare di nuovo in avanti. Sollevò l’arma sopra la testa e mirò in un punto imprecisato tra il fogliame della giungla in cui sospettava si trovasse uno di quei dannati uccelli. Gridavano gli uccelli, gridavano da ore, non la finivano più di strepitare rabbiosi contro la truppa di stranieri che aveva osato invadere il loro territorio sperduto. L’americano premette il dito sul grilletto e immaginò di esplodere il caricatore della Walther P99 su uno di quegli alberi, quindici colpi in tutto. Si figurò rami, foglie e piume insanguinate volare in ogni direzione. E perché no? Ci sarebbe stato un rumore assordante, certo, ma poi gli uccelli avrebbero forse smesso di gridare. Keitel abbassò l’arma. Doveva stringere i denti. Sapeva fin dall’inizio che quella spedizione nella pianura di Aramia, una zona assai remota della Papua Nuova Guinea, l’avrebbe stremato fisicamente e psicologicamente. Ma erano solo due giorni che camminavano a fatica in mezzo alla giungla umida con quel caldo asfissiante ed era un po’ troppo presto per perdere il senno. Più tardi, magari. Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 8 Mise la sicura alla Walther e l’infilò di nuovo nella fondina del cinturone. Soltanto allora si accorse dell’insetto grosso come un pugno che si era già inerpicato sulla tibia e, dopo una breve ricognizione, si accingeva a procedere nell’arrampicata. Keitel scosse la gamba. Ci fu un rumore stridulo quando schiacciò il parassita sotto la suola dell’anfibio. Keitel si fermò per guardarsi intorno. Fin dove arrivava lo sguardo, non vedeva che alberi ricoperti di fitte piante rampicanti e una boscaglia impenetrabile ad altezza d’uomo. Nella provincia meridionale, strade e centri abitati erano pressoché inesistenti. In compenso era un paese in cui abbondavano insetti velenosi e paludi disseminate di insidie. Non per niente la regione circostante il fiume Aramia era nota come l’angolo più inospitale della Papua Nuova Guinea. Riprendendo il cammino affondando con i piedi nel terreno, Aaron Keitel si asciugò le mani sudate sul giubbotto mimetico kaki e non poté trattenere un sogghigno. In Papua Nuova Guinea non c’era, presumibilmente, un solo angolo che non fosse inospitale, con l’eccezione forse del Crowne Plaza a Port Moresby, la capitale. Tutta quella maledetta isola era una caverna infernale di aria calda e umida. A un certo punto, Keitel si fermò e fece cenno alla guida locale di aspettare. Svitò il tappo della bottiglia d’acqua, bevve un lungo sorso e si versò il resto sui capelli biondi, impastati di polvere e sudore. Poi calpestò uno scarafaggio piuttosto bizzarro, grosso quanto un porcellino d’India. Gli insetti non gli facevano né caldo né freddo, ci aveva fatto l’abitudine. Le sue spedizioni lo avevano portato, fra l’altro, a Giava, in Indocina, e nella foresta pluviale brasiliana. Negli anni si era assuefatto a insetti di ogni specie e dimensione. La Papua Nuova Guinea sfidava però anche i globetrotter più esperti. Di giorno l’aria era calda e umida, di notte faceva un freddo polare. Di dormire in quelle zone selvagge non se ne parlava: 8 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 9 sia per il clima, sia per gli insetti che tentavano in continuazione di intrufolarsi in tutti gli orifizi. Con un cenno Keitel chiamò la sua guida: «Sekou, quanto manca ancora?» A differenza di Keitel, che era equipaggiato con il più moderno abbigliamento da escursionista, lo smilzo guineano indossava soltanto pantaloni corti e una maglietta scolorita del Manchester United. Non sudava, né pareva spossato. «Non lontano adesso, sir. Tulai avere accampamento lassù», disse facendo un cenno vago con la mano in direzione della parete di foglie, rami e liane che si ergeva di fronte a loro. Keitel annuì, gettò nei cespugli la bottiglia di plastica e riprese a marciare. I Tulai erano una tribù che viveva nelle remote pianure dell’Oriomo, la zona sudoccidentale di quell’isola del Pacifico. Per stabilire un contatto con Ratu Koca, il capo dei Tulai, Keitel aveva trascorso quasi due mesi nella capitale e in un buco di provincia chiamato Daru. Di solito la tribù non riceveva visite da parte di uomini d’affari americani, né di chicchessia. Giusto ogni paio d’anni si trovava a vagare nella zona qualche etnologo o linguista che studiava la vita schiva di quei cacciatori e raccoglitori, o il loro strano dialetto. Quegli indigeni, con i loro simboli marziali dipinti sul viso e i loro strambi copricapo, non interessavano quasi a nessuno. A ciò si aggiungeva il fatto che i Tulai avevano banchettato divorando quattro sacerdoti metodisti in missione non più tardi del 1952, vale a dire in un’epoca in cui quasi tutte le tribù della Papua Nuova Guinea avevano abbandonato il cannibalismo già da un pezzo. Non si sapeva con precisione se i Tulai si attenessero ancora a tradizioni gastronomiche di quel genere. Per cui anche questa circostanza contribuiva a trattenere perfino i più incalliti turisti della giungla dall’addentrarsi nel territorio dei Tulai senza essere invitati. Fino all’aprile di quell’anno, Keitel non aveva provato il benché minimo interesse per i Tulai. Più precisamente, non aveva 9 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 10 mai sentito parlare di loro finché non gli capitò di leggere notizie sulla tribù in un libro dell’etnologo britannico Leicester Morris. Negli anni Settanta, lo scienziato aveva trascorso presso i Tulai diverse settimane studiandone usi e costumi. Keitel leggeva regolarmente resoconti di viaggi e avventure da cui potesse apprendere nozioni sulla flora e la fauna meno note di regioni lontane: faceva parte del suo mestiere. Sulle prime, la monografia di Morris sui Tulai era stata una lettura di una noia mortale e Keitel si era dovuto forzare per non metterla da parte già dopo il primo capitolo; per i metodi di caccia e la struttura familiare degli odierni indigeni, Keitel nutriva all’incirca la stessa curiosità che per i risultati del cricket papuasico. Ben presto, però, si era imbattuto in un passaggio del resoconto di Morris che lo aveva elettrizzato: «I Tulai si nutrono soprattutto di focacce preparate con il midollo della palma da sago. Anche serpenti ed esemplari del cusco grigio (Phalanger orientalis) fanno parte della loro dieta. In occasioni festive servono inoltre un frutto simile alla melanzana, chiamato chatwa. Mi è stato offerto in occasione delle nozze di uno dei figli del capo e fa parte senza dubbio dei cibi più saporiti che abbia assaggiato durante tutti i miei viaggi. Oserei addirittura affermare che la chatwa è il cibo più squisito che io abbia mai avuto modo di gustare in tutta la mia vita». Keitel era un carpologo di formazione, un botanico specializzato nei frutti e nei semi delle piante. Un frutto di nome chatwa, però, non l’aveva mai sentito nominare. Senza indugio aveva contattato l’autore del libro. Il professor Morris era già emerito, ma conservava ancora un ricordo vivido del sapore e dell’aspetto del misterioso frutto che, al telefono, descrisse a Keitel come «straordinariamente aromatico e di una squisitezza indescrivibile». Il carpologo, di conseguenza, aveva interrogato tutte le banche dati che gli erano accessibili, ma senza risultati. Il frutto che aveva entusiasmato a tal punto Morris era completamente 10 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 11 ignoto alla ricerca botanica. Questa scoperta aveva scatenato in Keitel quell’euforia febbrile di cui era vittima ogni volta che capitava sulle tracce di nuovi frutti, bulbi o radici. Stavolta, però, la curiosità era più forte che mai. Scovare frutti o bacche sconosciuti ai botanici era come cercare un ago in un pagliaio. Scoprirne di nuovi e per di più commestibili, poi, era pressoché impossibile e per il suo lavoro riuscirci costituiva di per sé il massimo premio. Se poi quei frutti rientravano nella categoria “dal sapore straordinario”, a quel punto era tombola. Keitel pescò una Marlboro dalla tasca dei pantaloni. Di quel successo lui avrebbe saputo fare buon uso. Da quando tre anni prima aveva scoperto nelle Ande un frutto di nome Paro, una specie di noce che negli Stati Uniti e in Europa consideravano ormai una bomba vitaminica e un miracoloso anti-aging, aveva trovato soltanto minutaglia: un crescione d’acqua della Cambogia, utilizzabile come condimento per le insalate; una castagna bluastra della Cina che, cosa inconsueta, conteneva dosi altissime di calcio. Per gli chef dei ristoranti di Tokio, Parigi o Los Angeles, sempre avidi di ingredienti originali, quelle novità erano state accolte con entusiasmo. Nulla, però, che promettesse quattrini a valanghe. Sekou, che lo precedeva, gridò qualcosa in una lingua che Keitel non aveva mai sentito. Sollevò lo sguardo e vide tre uomini spuntare dal folto dei cespugli e dirigersi verso di loro. Dovevano essere guerrieri Tulai. I corpi nudi erano spalmati di una melma nera e decorati con linee bianche a V, che a Keitel ricordavano il pied-de-poule delle giacche inglesi di tweed. Solo i genitali erano nascosti da tubi di legno. Ciascuno teneva in mano un mazzo di piccoli giavellotti. Dopo una breve conversazione con la guida di Keitel, i tre Tulai fecero dietro front invitando lo straniero a seguirli. «Cos’hanno detto, Sekou?» gridò Keitel. «Loro portare noi da capo. Loro dire Ratu Koca contento di visita». 11 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 12 «Ovvio che è contento» borbottò Keitel. «Con tutto quello che portiamo fa l’affare della sua vita». La regione dei Tulai era così isolata che raggiungerla era impossibile, non ci arrivavano neppure gli onnipresenti taxi degli aeroporti della Papua Nuova Guinea. Parte dell’accordo stipulato dall’americano in via preventiva trattando con il capo per tramite di alcuni mediatori, prevedeva un’ampia fornitura di merci: per trasportarle Keitel era stato costretto ad arruolare non meno di otto portatori. Quegli uomini stavano attraversando la giungla con la schiena carica di preziosi oggetti provenienti dal lontano mondo civilizzato: pentole, coltelli, ami, ma anche radio portatili che funzionavano senza batterie e, in più, una cassa di Cherry-Cola. Per quella cassa Ratu Koca aveva espressamente insistito. «Gli hai chiesto della chatwa? Ne hanno raccolto un numero sufficiente di esemplari? E anche una pianta con tutte le radici, come d’accordo?» Sekou non rispose, limitandosi ad annuire. Nonostante l’afa, Keitel fu assalito dai brividi. In quella spedizione aveva investito la bellezza di cinquanta o sessantamila dollari, e la parte del leone era toccata alle sue riserve personali. Se le cose andavano storte, si poteva presumere che la sua promettente carriera di foodscout sarebbe giunta al termine. Dopo un’altra mezz’ora di marcia il gruppo raggiunse una piccola radura. A sinistra si ergevano tre capanne di legno costruite su pali. A destra, sulla terra battuta, c’era un bivacco rivestito di stuoie di rafia. Vi sedevano circa quindici Tulai che scrutavano i visitatori con un misto di curiosità e reverenza. «Quello è il capo?» chiese Keitel volgendo lo sguardo in direzione di un uomo anziano con la barba bianca che sedeva al centro. Sulla testa poggiava un alto cappello di paglia fitto di piume variopinte, le braccia muscolose e il torace erano dipinti di giallo. «Sì, capo è lui» rispose Sekou. Keitel sorrise, avanzò qualche passo verso Ratu Koca e si inchinò. «Saluto l’onorevole capo e mi rallegro di poter con12 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 13 cludere affari con lui». Mentre Sekou traduceva quei convenevoli, Keitel si guardava intorno furtivo. Metà nascosto dalla boscaglia, scoprì ciò che aveva sperato: in una sorta di madia di legno si trovavano dozzine di frutti lucidi dai riflessi azzurri. Avevano una forma simile alle melanzane, solo molto più grandi, lunghi quanto un avambraccio. Le chatwa. Esattamente come le aveva descritte il professor Morris. La voce di Sekou strappò Keitel ai suoi pensieri. «Capo prega di sedere vicino lui». L’americano prese posto accanto al capo sorridente e con grandi gesti esortò i portatori ad aprire gli zaini. Quindi mostrò a Ratu Koca la merce di scambio. Dopo averla esaminata, il capo ordinò a uno dei sudditi di porgergli una Cherry-Cola. Ratu Koca aprì la lattina e bevve un sorso. Prima di mandar giù la brodaglia, se la passò da una guancia all’altra. Aveva lo sguardo critico del sommelier che voglia assicurarsi della qualità di un bordeaux particolarmente costoso. Ratu Koca sorrise: l’aroma artificiale di ciliegie sembrò convincere il suo palato. Quando il capo ebbe finita la sua degustazione, Keitel ruppe il silenzio. «Sekou, digli che sono un po’ affamato per il lungo viaggio e assaggerei volentieri una chatwa». A sentire la parola chatwa, il capo impartì un ordine a una donna seduta dietro di lui. Poco dopo la donna distendeva una grande foglia davanti a Keitel. Sul vassoio improvvisato si trovavano quattro chatwa, tagliate a metà nel senso della lunghezza. Con ogni evidenza i frutti erano stati arrostiti sulla fiamma. Keitel ne prese uno e l’addentò. Dovette fare uno sforzo per non sputare immediatamente il boccone. La polpa tenera del frutto aveva la consistenza di un avocado troppo maturo e un sapore amaro e oleoso. Keitel fece una smorfia, al che Ratu Koca e i suoi sudditi si scambiarono sguardi eloquenti e iniziarono a ridacchiare. Il capo si rivolse brevemente a Sekou. Questi tradusse per Keitel: «Mister USA troppo impaziente, dire Ratu Koca. Lui 13 Frutto del diavolo:BdG 21-11-2013 7:51 Pagina 14 dire chatwa non si mangia così». In quel momento un’altra donna portò una scodella che conteneva una pasta fumante e giallastra. Gesticolando, il capo afferrò una metà del frutto. Prese un pezzettino di corteccia che si trovava accanto alla ciotola e lo usò per spalmare sulla chatwa un po’’ di quella sostanza giallastra. Quindi offrì a Keitel il frutto così preparato. E Keitel lo prese e l’assaggiò. Solo quando Sekou lo scosse per le spalle Keitel si accorse delle lacrime che gli scivolavano sulle guance. Il frutto nelle sue mani era per metà scomparso. «Tutto bene, sir?» «Tutto bene, Sekou». Keitel affondò ancora un morso nella chatwa. «Sto benissimo». L’ultima frase si perse nei singhiozzi. 14