QUANDO IL MONDO ERA GIOVANE I Era un uomo

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QUANDO IL MONDO ERA GIOVANE I Era un uomo
QUANDO IL MONDO ERA GIOVANE
I
Era un uomo molto calmo, molto padrone di sé.
Arrampicatosi in cima al muro di cinta, si fermò. Tese
l’orecchio, nella nebbiosa oscurità, per cogliere eventuali rumori sospetti che denunciassero la presenza di
pericoli nascosti nella notte. Ma non udí altro che i lamenti del vento fra i rami di invisibili alberi e il lugubre
stormire del fogliame. La nebbia che il vento faceva
fluttuare era fitta e, benché l’uomo non potesse discernerla nel buio ancor piú denso, ne sentiva le umide zaffate sulla faccia. E il muro su cui stava cavalcioni era
bagnato.
In silenzio l’aveva scalato, in silenzio si calò dall’altra parte. Saltò a terra. Tirò fuori di tasca una torcia elettrica, ma non l’accese. Benché fosse buio pesto, non gli
andava di farsi luce. Con la pila spenta in mano, un dito
sul pulsante, s’avventurò nell’oscurità. Il terreno era cedevole, sotto i suoi piedi, ricoperto com’era da uno
spesso tappeto di foglie marce, aghi di pino e terriccio,
detriti accumulatisi forse per anni, indisturbati. Scricchiolavano i rami e frusciavano le foglie al suo passaggio ma, nel buio, non poteva evitare questi ostacoli. Procedeva tentoni, con un braccio teso davanti a sé, e ogni
tanto andava a sbattere contro un tronco. Sapeva di
esser circondato da grosse piante; ne sentiva l’incombente presenza tutt’intorno; e si sentiva stranamente mi-
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nuscolo, fra quelle enormi sagome che sembravano inclinarsi per schiacciarlo. Oltre il bosco – lo sapeva –
c’era la casa. E s’aspettava di trovar qualche sentiero
che lo conducesse fino a essa.
A un tratto si sentí come in trappola. Da ogni parte,
tastando, non incontrava che tronchi o fitti cespugli,
tanto che pareva non esserci alcuna via d’uscita. Allora
fece luce e, circospetto, diresse il raggio della torcia intorno. Pian piano il chiarore lattescente gli rivelò gli
ostacoli da cui era bloccato. Vide un varco fra la vegetazione e vi si infilò dopo aver spento la luce. Il terreno
era asciutto sotto i piedi e il fogliame proteggeva dallo
stillicidio della nebbia. Avendo un buon senso dell’orientamento, era certo di procedere in direzione della
casa.
Poi accadde la cosa imprevista, la cosa inconcepibile. A un certo punto posò il piede su un nonsoché di
morbido, di vivo: udí sbuffare, udí qualcosa sollevarsi.
Allora fece un balzo indietro, si raccolse, pronto a compiere un altro scatto, coi nervi tesi, vigile, sotto la minaccia dell’ignoto. Attese un momento. Si chiese che
razza di animale fosse quello contro cui aveva inciampato, destandolo, e che adesso stava là, immoto e silenzioso al pari di lui, altrettanto teso e vigile. La tensione
divenne insopportabile. Puntò la torcia, premette il bottone, vide, gettò un urlo di terrore. Era preparato a tutto
– fosse un cerbiatto spaventato o fosse un leone bellicoso – ma non era preparato a ciò che vide. Il tenue raggio
della torcia, infatti, gli aveva rivelato qualcosa che, se
fosse anche vissuto mille anni, non avrebbe mai dimenticato: un uomo, grande e grosso, dai capelli e la barba
biondastri, nudo, tranne per una pelle d’animale che gli
copriva i lombi, e per un paio di mocassini. Braccia e
gambe aveva nude, nude le spalle, il petto. La pelle era
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liscia e glabra, ma brunita dal sole e dal vento, e sotto di
essa turgevano muscoli possenti.
Ma per quanto inaspettata, la comparsa di una simile figura non avrebbe terrorizzato l’uomo a tal punto, se
non fosse stata l’indicibile ferocia di quel volto, lo sguardo da animale selvaggio in quegli occhi azzurri, che lo
fissarono quasi per nulla abbagliati dalla torcia. Aveva
aghi di pino infilati nella barba e fra i capelli. Il corpo
formidabile si era raccolto per saltargli addosso. E difatti non si era ancora spento il grido di terrore quando
si avventò. L’uomo gli scagliò contro la sua torcia, poi
si buttò a terra. Sentí i piedi e gli stinchi percuotergli le
costole, si rialzò allontanandosi carponi, mentre l’altro,
dopo aver inciampato, ruzzolava fra i cespugli del sottobosco.
Quando il rumore della caduta cessò, l’uomo s’arrestò, sempre carponi, e attese. Udí lo strano essere aggirarsi, cercarlo, ed ebbe paura di rivelare la propria posizione tentando un’altra fuga. Avrebbe infatti provocato
schianti nel sottobosco, e quello l’avrebbe inseguito. Tirò
fuori la sua rivoltella, poi però cambiò idea. Aveva ritrovato il proprio sangue freddo e sperava di potersi allontanare in silenzio. A piú riprese sentí l’essere mostruoso battere i cespugli alla sua ricerca, poi v’erano
momenti in cui anch’esso restava immobile, ascoltando.
L’uomo ebbe allora un’idea. La sua destra posava su un
pezzo di legno marcio. Pian piano, dopo aver controllato nel buio che il braccio avesse gioco, sollevò il ceppo
e lo scagliò. Non era tanto grosso e riuscí quindi a lanciarlo lontano; cadde rumorosamente in un cespuglio.
Udí l’altro avventarsi da quella parte, allora si allontanò
nella direzione opposta, a quattro zampe, per un buon
tratto. Si soffermò, tese le orecchie, non udí altro che
gemere il vento e la nebbia stillare dalle foglie. Cau-
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tamente si rialzò in piedi e raggiunse il muro di cinta, lo
scavalcò, si lasciò cadere dall’altra parte.
Sul ciglio della strada cercò tentoni la sua bicicletta,
la tirò fuori dalla fratta, si accinse a inforcarla. Stava appunto per salire in sella quando udí il tonfo di un pesante corpo che atterrava agilmente poco lontano. Allora si mise a correre, tenendo la bici per il manubrio,
quindi vi saltò su di volata e si diede a pedalare a tutta
forza. Alle sue spalle udiva il passo veloce dell’inseguitore tonfare sulla polvere della strada, ma ben presto
riuscí a distanziarlo.
Purtroppo aveva preso la direzione opposta a quella
della città e si stava quindi dirigendo verso le colline
dell’interno. Sapeva che quella strada non aveva traverse. Di tornare indietro non se la sentiva proprio. In capo
a mezz’ora, fattasi la salita sempre piú ripida, scese di
sella. Per maggior sicurezza, lasciata la bici sul ciglio
della strada, scavalcò uno steccato e si sedette sull’erba
di un prato dopo aver allargato un giornale per terra.
“Mamma mia!” esclamò ad alta voce, detergendosi il
sudore e la nebbia dal volto.
Poi ripeté ancora “Mamma mia!” mentre s’arrotolava una sigaretta. Intanto pensava a come tornare in città.
Ma preferí non tentare. Non gli andava di affrontare
di nuovo quella strada al buio. Si mise a sonnecchiare,
con la testa sulle ginocchia, in attesa del mattino.
Dopo un po’ – quanto, non avrebbe saputo dirlo – fu
svegliato dai latrati di un coyote. Volse intorno lo sguardo e riuscí a vederlo, sul ciglio del colle alle sue spalle.
Si accorse allora che l’aspetto della notte era mutato.
Svanita la nebbia, brillavano la luna e le stelle, e anche
il vento era cessato. Era insomma diventata la classica
notte estiva della California. Tentò di riappisolarsi, ma
l’abbaiare del coyote lo disturbava. Nel dormiveglia, poi,
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udí una strana, selvaggia cantilena. Si guardò intorno.
Vide il coyote che adesso scappava lungo il ciglio della
collina, inseguito dall’uomo ignudo incontrato nel giardino, il quale aveva smesso la sua cantilena e correva
velocissimo. Tanto che aveva già quasi raggiunto il coyote quando insieme scomparvero alla vista di là dal
crinale. Tutto tremante, l’uomo si tirò su in piedi, riscavalcò lo steccato, saltò sulla bici. Adesso poteva tornare indietro. Il terrore non si trovava piú fra lui e Mill
Valley.
Si buttò a rompicollo giú per la discesa, ma giunto ai
piedi di essa incontrò una buca, in curva, nella densa penombra, e finí a terra.
“Maledizione, non è proprio la mia notte!” borbottò,
constatando che la forcella della bici si era schiantata.
Messosi in spalla l’inutile velocipede, proseguí a
piedi. Quando arrivò al muro di cinta, quasi incredulo di
quello che aveva visto coi suoi occhi, cercò le tracce
sulla strada e le trovò: orme di mocassini, molto grosse,
ben impresse nella polvere. Stava chino su esse, esaminandole, quando udí di nuovo la bizzarra cantilena.
Aveva assistito all’inseguimento del coyote, quindi sapeva di non aver alcuna speranza, nella fuga. Non la
tentò neppure. Si nascose in una fratta, sull’orlo della
strada.
E di nuovo vide quell’essere simile a un uomo, nudo,
arrivare di corsa, agile e leggero, cantando mentre
correva. Poco lontano da lui si fermò. Il cuore dell’uomo smise di battere. Ma la selvaggia creatura, anziché
dirigersi verso il suo nascondiglio, compí un salto in
aria, si afferrò al ramo di un albero e, con agilità scimmiesca, si arrampicò in cima a esso. Poi da quello saltò
su un altro albero, di là dal muro di cinta, quindi si calò
a terra, scomparendo alla vista. L’uomo attese, sbigottito, alcuni minuti, poi si avviò.
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II
Dave Slotter si sporse bellicoso sulla scrivania che
sbarrava la strada all’ufficio privato di James Ward,
condirettore della Ditta Ward & Knowles. Era arrabbiato, Slotter. Da quando era entrato non facevano che
guardarlo sospettosi, e ora l’uomo che gli stava di
fronte lo guardava con sospetto addirittura eccessivo.
“Dica a Mister Ward che si tratta di una cosa importante, e basta,” insistette.
“Le ripeto che sta dettando e non può esser disturbato,” fu la risposta. “Torni domani.”
“Domani sarà troppo tardi. Ma insomma! Vada a dire
a Mister Ward che è questione di vita o di morte.”
Il segretario esitò ancora.
Dave Slotter tornò alla carica. “Gli dica che la scorsa notte mi trovavo di là dalla baia, in Mill Valley, e
che... che devo avvertirlo di qualcosa.”
“Il suo nome?”
“Non importa. Tanto non mi conosce.”
Quando Slotter fu ammesso nell’ufficio privato era
ancora di umore bellicoso; ma, non appena ebbe scorto
l’uomo grosso e biondo che, tralasciando di dettare a
una stenografa, si girò verso di lui, il suo atteggiamento
mutò di punto in bianco. Non capí perché mutasse e, lí
per lí, si stizzí intimamente con se stesso.
“È lei Mister Ward?” domandò con una fatuità che
l’irritò maggiormente. Non era quello il tono che avrebbe voluto usare.
“Sí,” fu la risposta. “E lei chi è?”
“Harry Bancroft, mi chiamo,” mentí Dave Slotter.
“Ma non mi conosce e il nome non importa.”
“Si trovava a Mill Valley, la notte scorsa?”
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“È dove abita lei, no?” chiese a sua volta Slotter
guardando in tralice la stenografa.
“Sí. Perché ha voluto vedermi? Si sbrighi, ho molto
da fare.”
“Vorrei parlarle a quattr’occhi, signore.”
Ward gli lanciò una rapida, penetrante occhiata, esitò,
poi, rivolto alla stenografa: “Basta cosí, per ora, Miss Potter.”
La ragazza si alzò, raccolse i taccuini e uscí. Dave
Slotter seguitava a guardare stupito James Ward finché
questi non interruppe il corso dei suoi incoerenti pensieri, chiedendogli: “Ebbene?”
“Ero a Mill Valley ieri sera...” cominciò Dave, confuso.
“Me l’ha già detto. Cosa vuole?”
Benché sempre piú convinto di non apparire credibile, Dave seguitò: “Ero a casa sua... nel giardino, intendo dire.”
“E che ci faceva?”
“Intendevo entrarvi di nascosto,” rispose Dave con
assoluta franchezza. “So che lei abita solo, con un servo
cinese e basta, e mi sembrava un buon colpo. Solo che
non vi entrai affatto. Qualcosa me lo impedí. È per questo che sono qua. Per avvertirla. Ho trovato un uomo nel
suo giardino... un demonio vero e proprio. Capace di fare a pezzi uno come me. Mi ha inseguito e l’ho scampata per un pelo. Non ha abiti addosso, si arrampica
sugli alberi come una scimmia e corre come un cervo.
L’ho visto inseguire un coyote e, le giuro, stava per raggiungerlo quando li ho persi di vista.”
Slotter fece una pausa per osservare l’effetto delle
sue parole. Invece, niente. James Ward si mostrava incuriosito, ma affatto turbato.
“Molto, molto singolare,” mormorò. “Un uomo selvatico, eh? Perché è venuto a riferirmelo?”
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