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RIMMEL
narrativa italiana
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direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione e comunicazione:
Gabriele Dadati
grafica e interni:
Daniele Ceccherini
utili consigli:
Giulio Mozzi
La lettera a pagina 69 è di Michele Vaccaro, la poesia a pagina 89 di Alberto
Pellegatta e quella a pagina 163 di Mauro A. L’autore e l’editore ringraziano
per la concessione di questi testi.
ISBN 978-88-96999-33-2
Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l.
Copyright © 2012 Novecento media s.r.l.
via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano
www.laurana.it - [email protected]
Fatto ogni possibile tentativo per rintracciare il titolare dei diritti dell’immagine in copertina,
l’editore resta a disposizione di chi, in futuro, potesse rivendicarli a norma di legge.
Paolo Grugni
la geografia delle piogge
A Ciccina.
Perché se è esistito amore, è esistito per te.
Tutte le cose diritte mentono, la verità è ricurva.
Friedrich Nietzsche
la geografia delle piogge
INTRO
Mia madre è deceduta all’età di settant’anni, quattro mesi,
sei giorni, cinque ore. Nata sotto il segno dei gemelli, morta
sotto quello della bilancia. Sedeva sulla poltrona in velluto
logoro del salotto tra luci annottate, ghepardi e levrieri in
ceramica alti mezzo metro, editti napoleonici in cornici
d’argento e quadri tipo natura morta con calamaio, mentre
composizioni di fiori secchi in anfore di terracotta pendevano dal soffitto rosa antico. In silenzio fissava per ore
qualcosa davanti a sé. Cosa vedesse non so. Se rompevo
l’involucro del suo straniamento e le chiedevo qual era la
più grande isola italiana, mi rispondeva l’Isola di Pasqua.
Se le chiedevo dove si trovasse Torino, mi rispondeva in
Austria. Se le chiedevo quale scrittore preferisse, mi
rispondeva Pinocchio. E se era costretta a pronunciare più
di tre parole di seguito, le scandiva come non ci fosse alcuna relazione tra loro. Il processo di degenerazione maculare le faceva vedere moschini ovunque, gli occhiali come
riquadri di fumetti, l’apparato scheletrico in fase di compressione volumetrica, le mani come valve, i piedi con le
dita accavallate come rampicanti, piazzata davanti alla tv si
trasformava nella replica del programma in onda. Ho sempre pensato fosse diventata progressivamente deficiente
dopo essersi separata da mio padre, che il dolore le avesse
spolpato i neuroni, solo ora mi rendo conto che non era
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ottusità tetragona, ma che aveva capito il viaggio antiorario
della vita, che sapeva come funziona la propagazione molecolare del sé, che rovistava nel suo deposito d’immagini,
che stava scrivendo la sua autobiografia interiore. Ma quello che di lei mi porterò per sempre dietro è la sua incapacità di comunicare, la sua lingua spezzata, la sua grammatica
sconnessa, il suo lessico logoro, le sue acrobazie congiuntive, i suoi crampi espressivi, i suoi verbi disabili, il suo
parlare per estratti di insenso. Tutto il resto è già preda dell’agonia della memoria.
Mia madre, oltre a qualche tara mai pesata, mi ha lasciato
in eredità tre cose: un biglietto d’addio su carta riciclata
(nel senso che aveva usato il retro della fattura per la sostituzione di un termosifone) in cui diceva che per lei avrei
potuto fare di più e meglio, ma che non portava rancore, un
servizio di posate in oro i cui manici imitavano canne di
bambù, un pitbull malato di dissenteria di nome Elvis.
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FUNERALE
8 ottobre, lunedì
Cimitero di Lambrate, cielo basso, pioggia fine, aria tiepida come fiato animale. Rivedo mio padre il giorno del
funerale, mia madre era morta in poche ore d’ospedale e
lui, a Sanremo per qualche giorno da pensionato fuori stagione, non aveva fatto in tempo ad arrivare. Non ci sentivamo da un paio d’anni, un eccesso di dissapori avevano definitivamente allargato quella frattura che si era formata
dopo che se n’era andato da casa. Ora le foglie gli cadono
in testa e lui non fa nulla per togliersele. Ci abbracciamo
guancia contro spalla e ci avviamo lungo viali di ghiaia
rosa, gente che arriva, gente che non torna, i cestini traboccano di fiori che agonizzano, un nastro in raso augura pace
in terra agli uomini di buona volontà, la mia è più che
buona eppure è da quando sono nato che sto in guerra con
il mondo.
Papà come stai, Bene e tu, Bene anch’io, Mi fa piacere,
Quanto tempo, Troppo, Sì troppo.
Non era vero, non stava per un cazzo bene. Si ritrovava
una voce da catechista, una pelle da tricheco e delle ghiandole linfatiche grosse come pinoli.
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Che dicono i medici, Nulla che vuoi che dicano, Già,
Dimmi piuttosto della mamma, Non ci voleva lasciare, ha
tenuto duro fin quando ha potuto, in ospedale gli ultimi
istanti diceva di vedere le lucciole, Povera donna, Chissà
cosa vedrò io quando sarà il mio turno.
Penso a che giorno sarà quando il mondo si sveglierà
senza di me. Nevicherà o ci sarà il sole, avranno trovato
una cura contro il cancro o contro la speranza, al mondo ci
saranno più esibizionisti o più voyeur? Mi fermo a guardare un paio di donne che piangono. Forse lo dovrei fare
anch’io, ma è un pensiero che mi attraversa per un crisantesimo di secondo.
Ce ne andiamo a bere qualcosa in un bar di via Feltre. I
camerieri urlano ordinazioni di panini e birre, i clienti si
spalmano le arterie di grassi, rumore di fondo dove tutto si
confonde e nulla si distrugge, è il battito morente dell’illusione borghese. Davanti a un bicchiere di bianco mio padre
mi prende la mano e me la stringe forte. Non accadeva da
quando ero ragazzo e il déjà vu fa tutta la strada dell’andata e ritorno per poi otturare lo scarico dei ricordi. I suoi
occhi si fanno umidi e se li asciuga con il polsino della
camicia cerchiato di nero.
Papà, spiace anche a me per la mamma, le volevo bene,
Lo so, le volevo bene pure io anche se tutto è finito a rotoli, È andata così, inutile farsi venire i rimorsi adesso.
Si strizza le dita fino a farle diventare viola, io sto zitto
fin quando non riprende a parlare.
E il tuo lavoro, Può andare avanti senza di me, Fai ancora il giornalista, è un po’ che non vedo tuoi articoli, Ho
smesso un paio d’anni fa, più o meno da quando non ci sentiamo, Ma eri uno molto noto, perché l’hai fatto, Mi ero
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rotto i coglioni di scrivere cazzate stando solo attento a non
irritare la suscettibilità dei politici, E ora come ti mantieni.
Non ho voglia di rispondergli, so che finiremmo nelle
solite polemiche, ci separano una ciotolina di noccioline
cui il sale è cresciuto come muffa e ogni tipo di visione
finalistica sulla vita, mi alzo e vado al cesso, ad altezza
occhi mi ritrovo la scritta mi nutro di sborra, contento tu.
Torno deciso a dirgli come stanno le cose e a non arrabbiarmi se comincia a usare un tono da commento ai vangeli.
Così gli spiego che ho aperto una libreria online su eBay
dove vendo libri usati che mi procuro cercando occasioni
sulle bancarelle, ma per lo più li ottengo dal direttore della
biblioteca comunale di viale Monza che non sa cosa farsene delle centinaia di libri che la gente pur di disfarsene
abbandona ogni mese davanti alla porta del suo ufficio.
Mio padre mi guarda come se vedesse l’uomo caduto sulla
terra e non capisce se lo sto prendendo in giro o sto dicendo sul serio. Aggiungo che il direttore non solo è contento
di liberarsi di roba vecchia, doppioni, romanzi che nessuno
chiederebbe mai in prestito, ma che gli giro la metà del
guadagno.
Il televisore davanti a noi è acceso e dentro c’è un muratore accusato di aver ucciso una ragazzina, di averla stuprata
dopo morta e di averla gettata in un pozzo e per giustificarsi dice non so cosa ha successo. Poi dicono che non è stato
lui, che è stata la figlia, ma non me ne frega un cazzo di chi
è stato, quella è morta e insieme a lei la lingua italiana, per
cui se lo assolvono per omicidio gli diano almeno l’ergastolo per non conoscere il verbo essere. Mio padre finisce il
vino e mi chiede se finalmente mi sono trovato una brava
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ragazza. È un po’ andato, sto con una donna ben da prima
che smettessimo di sentirci. Lo abbraccio e sento che ormai
è un mucchietto di ossa friabili.
Papà, per oggi basta, il resto te lo racconto la prossima
volta, tutto insieme non lo puoi reggere, Se lo dici tu, allora sarà così.
Lo dice mentre stringe e rilascia le spalle a fisarmonica,
io afferro Elvis, gli tolgo dalla bocca una pallina rubata a
un bambino seduto al tavolino accanto e andiamo in pace
alla cremazione.
ZIO
Alla cerimonia c’è anche lo zio Nino, il fratello di mio
padre. Ci guardiamo ristretti dal cordoglio e dal magone.
Di Nino Casagrande ho poche immagini nella cineteca
della memoria. Di lui ricordo il perenne giubbotto di renna,
i capelli bianchi come una calotta di ghiaccio, il sorriso
maculato da denti macchiati di caffè e il naso come una
carota infilata in un pupazzo di neve. Ricordo che mi metteva a cavalcioni sulle spalle e da lassù mi mostrava e mi
spiegava il tramestare del mondo, infine faceva finta di
farmi cadere e mi prendeva all’ultimo momento, prima che
toccassi terra. Poi una volta ci sbattei il culo e quella fu
l’ultima volta che mi fece salire. Ricordo che brucava sigarette una dietro l’altra, ricordo che quando tossiva nei suoi
polmoni si sentivano arrivare affluenti di catarro, ricordo
che aveva occhi verdi come erba e ora sembrano un prato
arso dal sole.
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INFERNO
Il prete tira via la messa, poi la mamma arde all’inferno
anche se le hanno appena detto che andrà in paradiso. Fuori
dal cimitero accompagno mio padre e zio Nino all’auto,
tornano a Paderno Dugnano, prometto loro che passerò a
prendere le ceneri e che gliele porterò, non aggiungo che
potrei fumarmele come fece Keith Richards con quelle del
padre. Poi li saluto e li abbraccio.
Ciao papà, Ciao Mauro, e finiamola con questa storia di
non sentirci, Non ti preoccupare, ora andate.
Lo zio mi incita a stare su di morale, io prometto che lo
farò. Se ne vanno, ma dove io non lo so, tutte le strade portano alla tomba, il sedimentarsi dell’età alla lunga è un peso
non più sostenibile. Li odio questi vecchi di merda perché
un giorno erano uomini, perché un giorno erano donne, ora
sono solo macerie e chi ha meno anni non è altro che il loro
specchio in ritardo, ma almeno so che non condivideremo
lo stesso destino, il suicidio me lo impedirà. Padre nostro,
se mai un giorno tu dovessi esistere, non perdere tempo a
pregare per noi nell’ora della nostra morte, ma prega per
noi nell’ora della nostra nascita e non farmi finire con la
braccia intrecciate dietro la schiena davanti alle osterie o a
guardare i cantieri della metropolitana.
ME
Da quando ho compiuto quarant’anni sono diventato più
brutto, più cattivo e odio il mio prossimo come me stesso.
Con l’età ho imparato a non inseguire più donne solite abitare altri letti oltre al mio, a controllare le mie reazioni
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nevropatiche, a pensare e parlare allo stesso tempo. Ho
imparato che avrei dovuto imparare tutto prima, ma questo
non ha fatto di me un disilluso, non mi sono mai illuso
nemmeno una volta. E questo non ha fatto di me un fallito,
avevo già fallito in tutto. Considero la vita un castrato di
speranze, un reuma in eterno vagare, il sabotaggio della
materia, ma in fondo sono contento di vivere, non ho nient’altro da fare.
FEDERICA
Devo partire per Fiesole, Federica è tornata a casa, anche
sua madre non sta messa bene e le ho promesso l’avrei raggiunta subito dopo i funerali. Sto con Federica da sei anni,
quando l’ho conosciuta aveva i capelli corti e mossi, ora se
li è fatti crescere e sono onde di petrolio, al tempo scopava
con uno sposato di Torino, solo perché era in crisi mi ha
detto, mai visto nessuno fare sesso solo per noia, però sono
stato zitto. E quando si è trasferita da me, quello è stato il
giorno in cui ho sentito per la prima volta che c’è della felicità dentro la fine di un’età.
Federica lavora come avvocato in uno dei più grossi studi
penalisti della città, per anni mi ha passato in anteprima gli
sviluppi di decine di casi di cronaca, anche se poi il suo
apporto finiva lì, il segreto professionale non le consentiva
di dirmi altro, al massimo, quando le faceva gioco, mi confermava o mi smentiva qualche indiscrezione. Me ne sono
innamorato per il suo aver capito che dietro l’apparenza
delle cose non c’è altro, per sapere che l’essere e l’avere
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sono la stessa cosa, per quel suo stare sempre in bilico tra
la vita professionale e la morte dell’amore.
CANTINE
Mi aspetta anche il direttore della biblioteca, dobbiamo
liberare un paio di cantine piene di libri muffi sperando ci
sia qualcosa di buono da rivendere e ritirare la collezione di
un professore di lettere che è morto, i figli mi hanno chiamato perché devono fare spazio al televisore al plasma tremila pollici, gli ignoranti servono a questo, altrimenti non
saprei come rifornirmi. Quando lo chiamo sta introducendo
dei nuovi titoli nella nostra libreria online, dei thriller per
menti semplici.
Ciao Stefano, Ciao Mauro, guarda che ti ho trovato delle
vere chicche, Mandamene una per sms, Ok, stai tornando,
Non ancora, Guarda che abbiamo da fare, Lo so, ma ora mi
prendo qualche giorno di stacco, raggiungo Federica a
Fiesole, la morte della mamma mi fa ancora male, Capisco,
Grazie.
Chiudo la telefonata promettendogli che in tre o quattro
giorni sarò di ritorno a Milano.
Mi sono messo in testa di raccogliere e un giorno pubblicare le dediche che trovo sui frontespizi, le poesie e le lettere
d’amore lasciate tra le pagine dei libri. Bave di calore, stati
d’attrazione, strappi di vita, lasciti di illusioni, strascichi di
speranze, offerte di immortalità, frasi che dovevano lasciare il segno e l’unico segno che hanno lasciato è quello di un
tratto di penna. Frasi perse, dimenticate, abbandonate per19
ché ormai prive di senso per chi le ha ricevute, se mai al
tempo ne avevano avuto. Storie di persone rilegate due a
due da un libro per un giorno, parole saldate per sempre ad
altre finite nei remainders delle occasioni perdute e a cui io
darò nuova vita.
12 settembre 2008
Lucia,
questo non è un regalo di compleanno. Non ne volevi.
È un regalo e basta. Per festeggiare un giorno in cui,
per la prima volta, ci sono. Anche se non è detto ci
sarò il prossimo. Mi hai tenuto per troppo tempo a
distanza per non sentirmi un precario dell’amore, per
non vedere in noi una coppia a progetto. Sei stata per
me religione, per cui ho vissuto nella certezza di cose
sperate. E ora che dovrei sentirmi felice perché sono
entrato nel Regno dei Cieli, è il momento in cui capisco che Dio non esiste.
Antonio
FIESOLE
Mi presento nell’unico albergo di Fiesole che mi posso permettere, alla reception non c’è nessuno. Nella hall due con
la pancia in esposizione parlano di affari, sputano noccioli
d’oliva e si cacciano in bocca manate di salatini. Poi arriva
il figlio del titolare, è talmente scemo che non capisco
come mai non faccia almeno l’assessore in una giunta di
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centroqualcosa, visto che un scranno in Parlamento gli
spetterebbe di diritto.
Buonasera dottor Casagrande, bentornato, Grazie, buonasera, Ecco la sua chiave, solita stanza, Grazie.
Poi vede Elvis e fa una faccia strana.
Guardi che qui il cane non può entrare, Quale cane.
L’ascensore trasmette musica da discoteca e puzza di
donna troppo profumata. Delle chiavi hanno inciso cuori,
cazzi e date.
Firenze vista dall’alto al tramonto è il ricordo di una cartolina, chiudo la finestra e raggiungo sul letto Elvis che guaisce e si lecca una zampa. Rombo di caccia che spostano il
profilo agli alberi. Mezzora dopo arriva Federica, è vento
che ti sorprende dietro un angolo, mi bacia e la sua lingua
è un punteruolo nella mia bocca.
E lui chi è, Elvis, te lo avevo detto che da oggi sarebbe
entrato a far parte della famiglia.
Lo accarezza e gli dà un bacio sulla testa. Poi si spoglia
come se fosse al mare in una cabina sottomessa al sole
d’estate, appendendo i vestiti o ripiegandoli, e si infila sotto
le coperte. Facciamo sesso, ansimi e aspettative, pensieri che
non sono quelli del presente, nella testa immagini di cose già
viste o già vissute, l’orgasmo che solidifica il sangue.
CASO
Ceniamo in un posto con luci stanche, il cibo è cultura di
massa, con il cucchiaio ingoio tutta la tristezza che c’è dentro una minestra.
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Come sta tua mamma, Così così, ma non è ancora giunto il suo momento, Pensi di rimanere qui ancora per quanto, Devo rientrare domani il prima possibile, è successo un
casino, Che casino, Mi hanno chiamato dallo studio, mi
vogliono assegnare il caso di una tizia che ha ammazzato il
figlio idrocefalo nato da poche ore, Cazzo, pesante, È tornata a casa dall’ospedale e l’ha soffocato mettendogli un
asciugamano sulla bocca, questo a sentire il suo resoconto,
Fatto a chi, Alla polizia, l’ha chiamata lei dopo aver commesso l’omicidio, E come è riuscita ad arrivare fino a voi,
Sua sorella è amica di una nostra praticante.
Bevo l’ultimo sorso di vino, pago il conto, usciamo. In
giro poca gente, sono passate da poco le nove, in tutta
Italia è scoccata l’ora del gioco a premi. Questo nuovo
secolo è vecchio come il precedente, è appena iniziato ed
è già finito.
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