Note sul debito pubblico nello Stato Pontificio (secoli XVI

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Note sul debito pubblico nello Stato Pontificio (secoli XVI
Note sul debito pubblico nello Stato Pontificio
(secoli XVI - XVIII)
di
FAUSTO PIOLA CASELLI
Intervengo come studioso di storia economica dell’età moderna, perché
credo di poter rappresentare in questi incontri il gruppo dei modernisti, che
alcuni anni or sono hanno cominciato a confrontarsi proprio in questa sede universitaria di Cassino mettendo a fuoco i secoli XV-XVIII; incontri che in seguito, con indubbio profitto, sono proseguiti secondo un orizzonte tematico e cronologico che si è andato progressivamente ampliando.
Mi inserisco nel solco dell’intervento iniziale di Francesco Colzi, con qualche osservazione su quanto detto e anche con qualche suggerimento, in vista di
un futuro possibile itinerario di ricerca. So bene che alcune osservazioni possono risultare un po’ marginali rispetto ai grandi temi che sono stati trattati questa sera e mi limito quindi a poche battute.
Desidero ritornare nuovamente sul grande tema del debito pubblico pontificio. La storia del debito pubblico dello stato della Chiesa, a mio avviso, può
essere considerata come esemplare nella galassia dei debiti pubblici degli stati
italiani di età moderna per una molteplicità di aspetti. Non si tratta tanto delle
dimensioni del debito, come si potrebbe pensare: si tratta piuttosto della struttura moderna e precisa della contabilità adottata nella Camera Apostolica, della
capacità amministrativa mostrata dagli uffici preposti ad un tempo sia al centro
che in periferia, della sostanziale continuità delle procedure applicate e – non
ultimo – della ricchezza dei documenti che ci sono rimasti.
Vediamo anzitutto l’aspetto quantitativo. A questo proposito approfitto di
questa occasione per cercare di rettificare un’opinione corrente, che si fonda su
alcuni studi ormai piuttosto datati, ma che tramanda puntualmente di anno in
anno e di saggio in saggio. Secondo alcuni studiosi, si veda ad esempio i noti
lavori di P. Partner, il debito pubblico pontificio dei secoli XVI-XVIII è cresciuto a dismisura, ingoiando nella sua mostruosa enormità, in termini di interessi passivi pagati dalla Camera, buona parte delle risorse disponibili nei bilan133
ci annuali pontifici; fino a tutto il 1700, inoltre, la crescita si è sviluppata con
ritmi inesorabili e senza soste.
Bisogna anzitutto ricordare che i bilanci annuali dello Stato pontificio dell’età moderna – soprattutto nei secoli XVI e XVII – possono essere considerati al massimo come un semplice pro-memoria delle somme disponibili per la
Camera centrale, redatto quasi sempre in occasione della morte di un Papa e
dell’incoronazione di quello successivo. La quantità delle magistrature periferiche e di conseguenza degli introiti e degli esiti già definiti in sede locale rende
impossibile una panoramica completa dei movimenti contabili. Ma anche
facendo riferimento alla serie dei bilanci annuali disponibili, in mancanza di un
impossibile conto consolidato dell’amministrazione centrale e periferica della
Chiesa, il fenomeno del debito pubblico deve essere riportato, nella sua estensione temporale, su binari più equilibrati.
In primo luogo, la massa degli interessi passivi complessivi annuali pagati
dalla Camera, in termini percentuali, non va calcolata sulle entrate, ma sulle
uscite. Con questa precisazione, non è difficile constatare dalla successione dei
bilanci attualmente disponibili che il tetto massimo degli interessi passivi pagati annualmente viene raggiunto ben presto e si mantiene piuttosto costante nel
tempo. Già nel 1525, agli albori del sistema, gli interessi passivi toccano il 50%
delle spese complessive camerali: e su questi stessi livelli restano fino all’età
napoleonica, con fluttuazioni non particolarmente significative. Se nel 1589, nel
pieno del dinamicissimo pontificato di Sisto V, viene raggiunto un picco del
60%, ben presto l’insieme degli interessi passivi rientra verso il tetto più usuale del 50%.
Inoltre, strano a dirsi, sembra che pochi autori abbiano tenuto conto di
alcune elementari considerazioni che sarebbero invece d’obbligo quando si
lavora sul lungo periodo. I dati registrati in termini complessivi dicono poco,
ovviamente, e bisogna tenere piuttosto presenti i dati pro capite. O forse si dà
per scontato che in epoca preindustriale la variazione della popolazione sia del
tutto ininfluente.
Nello stato pontificio, tuttavia, l’acquisizione del territorio di Ferrara negli
anni Novanta del Cinquecento e quella del ducato di Castro a metà Seicento
cambiano le cose, e di molto. Un leggera tendenza all’incremento demografico,
come ci insegna Beloch, fa crescere ulteriormente la popolazione complessiva
nell’intero territorio dello stato nell’arco dei tre secoli. Incrociamo infine il dato
demografico con quello che si riferisce alla svalutazione del fino nelle monete
d’argento – diciamo pure un modesto 25-30%: senza ricorrere all’esposizione
di cifre che sarebbero poco utili in questa sede – ci accorgeremo che il debito
pubblico pontificio non ha mai raggiunto vette di particolare altezza.
In sostanza, in termini reali e in termini pro-capite il debito ha toccato un
culmine nel 1657, dopo la guerra di Castro e le note epidemie di peste; ma negli
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anni successivi il peso del debito ha cominciato a divenire più lieve, risentendo
del resto della progressiva riduzione dei saggi di interesse, fino alla fine del Settecento. In questo gioco di alti e di bassi, o meglio di mantenimento di una
linea del debito misurata accortamente sulle esigenze dello stato, la Camera
apostolica ha sempre dimostrato una capacità di controllo unica ed una sapienza antichissima, che fa storia a sé rispetto alle rovinose manovre sul debito degli
altri stati italiani ed europei di età moderna.
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