11/G Sezione Giovani ARINGHE A COLAZIONE

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11/G Sezione Giovani ARINGHE A COLAZIONE
11/G
Sezione Giovani
ARINGHE A COLAZIONE
Mi sarebbe piaciuta la Finlandia. O almeno la Norvegia. Se avessi potuto scegliere il
posto in cui nascere avrei puntato al profondo nord. Non per una questione geografica o
di confini. Per una questione di uomini. Di maschi intendo. A casa mia infatti i tipi latini
non sono mai andati di moda. Mia zia è stata fidanzata con uno svedese, mia madre,
prima di capitolare di fronte all’irresistibile fascino bruno di mio padre, è stata legata a
un bell’esemplare di Copenaghen, e il primo ragazzo di mia sorella Vale era di
Amsterdam. Tradizione di famiglia dunque. O semplicemente il fatto che di tipi latini ne
abbiamo visti troppi, da sempre. Io stessa sono una bruna con gli occhi scuri, come tutta
la mia stirpe molisana. Così mi piacciono i biondi, anzi i biondissimi dagli occhi azzurri
alti almeno un metro e novanta, insomma i pescatori di salmone, come li ha definiti
lucidamente Vale al ritorno da una vacanza studio in Svezia, ovvero i vichinghi, quelli
che bevono birra, spalmano grosse fette di pane nero con dosi generose di burro salato
emettendo suoni tali da far dubitare Platone dell’effettiva uscita dell’uomo dalla
caverna. Insomma, i discendenti dei cacciatori di mammut, pragmatici e impavidi,
passati con disinvoltura dalla caccia alla pesca, quelli che sotto una cascata di capelli
biondo miele brandiscono un paio di occhi sfuggenti, con lo sguardo che punta lontano,
forse nello sforzo di individuare l’iceberg più vicino o di intercettare con il pensiero
l’esatta posizione del loro salmone preferito durante il percorso migratorio dal fiume al
mare. Quelli che nel tempo libero costruiscono un igloo, perché non si può mai sapere.
Insomma, i maschi che il sabato mattina ti portano un’aringa a letto per colazione
grugnendo questa è per te, cara, che dosano bene le frasi (non come i mei connazionali
logorroici), che ascoltano in silenzio muovendo impercettibilmente il capo a fine
discorso in segno d’assenso.
Io tendo a nord. Forse perché anche il Molise a suo modo è il nord del sud o forse
perché uno dei miei avi molisani emigrati nel mondo ha trovato il suo approdo in una
caletta scandinava. Io anelo al settentrione, agli uomini d’azione dai convenevoli scarsi,
e per questo affidabili, a quelli che hanno una sola parola, che dicono ti amo una volta e
non hanno bisogno di ripeterlo perché è sicuro che non hanno cambiato idea.
Però studiavo a Pavia, dove gli svedesi e i norvegesi erano sì e no un paio l’anno e
l’adescamento non era semplice. Non conoscevano una parola d’italiano, uscivano
esclusivamente con i loro corregionali scandinavi e il sabato sera erano sbronzi persi.
Decisi così di cercare un surrogato del mio pescatore di salmoni tra i compagni di
università, perchè, secondo Vale, in mancanza d’altro si potevano annoverare tra i
“quasi nordici” – purchè rigorosamente alti, biondi e con lo sguardo a metà tra assente e
concentrato non si sa su cosa– anche gli abitanti di Como, Varese, Sondrio e Milano
(per la vicinanza con la Svizzera), di Torino e di Cuneo (per la prossimità con la
Francia) e gli svizzeri veri e propri, soprattutto Ticinesi. Di materiale umano su cui
lavorare (seppure di ripiego rispetto al Modello) ne avevo così in abbondanza, e i primi
anni a Pavia da studentessa universitaria mi avevano visto dedicarmi alacremente, tra un
esame di greco e uno di latino, all’opera di approfondimento dell’altro sesso,
esclusivamente nordico s’intende. I miei esperimenti erano partiti con un milanese al
terzo anno di medicina, erano proseguiti con un compagno di facoltà dell’Oltrepò
pavese e si erano presto esauriti con un esemplare della Valtellina. Tutti i miei tentativi
erano però falliti, per motivi che andavano dal “a quest’età non si può andare in una sola
direzione, bisogna provare un po’ di tutto” al “stasera usciamo, andiamo a casa mia ma
domani amici come prima, senza rancore, eh”. A dispetto dei costumi che cambiavano,
continuavo a essere una di quelle che quando stava con un ragazzo riempiva la
smemoranda di poesie, dediche e descrizioni dettagliatissime dei momenti trascorsi
insieme, che regalava CD con le canzoni amorose dell’ultimo ventennio, che non
vedeva l’ora di presentare lu fidanzato (così lo chiamavo io) a mamma, a papà, ai nonni
e agli zii. Disgustosa, lo so. Vetero-meridionale. Roba da Concilio di Trento. Credo che
dire che con me uno dovesse impegnarsi sarebbe usare un eufemismo.
Nel frattempo da matricola ero diventata laureanda, e avevo anche cambiato collegio,
passando da uno femminile a uno misto per una faccenda di graduatorie. Il primo
rientrava nella categoria Suore & Zitelle – alle 11 tutte a dormire, non si fuma, non si
beve, non si scopa, bambine – il secondo nella categoria Casino a tutte le ore – fai ciò
che vuoi, o studente, fa’ venire chi ti pare, ma ricordati di presentarti in facoltà, ogni
tanto, per assecondare quella ridicola abitudine dell’economato che pretende perfino
che tu faccia gli esami.
Il mio incontro con Mathias risale proprio a uno dei primi giorni nel nuovo collegio,
quando veleggiavo tra lo speranzoso – in questa bolgia troverò il mio pescatore di
salmoni? - e lo scandalizzato – in questa bolgia riuscirò a laurearmi? Mathias era bello,
anzi notevole. Ti colpivano senza scampo il suo viso, dai lineamenti dolci, smussati,
perfetti, oltre che il fisico slanciato verso l’infinito. Il tipo vichingo: capelli biondi
schiariti dal sole (quale?), un pezzetto di cielo azzurro intarsiato negli occhi, mani
grandi come una pala e un irresistibile accento settentrionale, una cadenza suadente che
faceva sussultare il cuore appena diceva Wat leuk, ovvero che bello in olandese. Si
trattava però di autentico homo grigionensis, homo svizzerus di Coira, nel Canton
Grigioni, che, si sarebbe appurato poi, di olandese conosceva solo due parole, Wat e
leuk appunto. Ma l’aggettivo elvetico, era così che Mathias si era presentato - sono
elvetico aveva detto -, era stato sufficiente a proiettare la mia fantasia, in barba alla
geografia, su una banchina di Capo nord, davanti agli archi rossi, verdi e azzurri
disegnati dall’aurora, come una lillipuziana stretta nell’abbraccio caldo di un ciclope dai
capelli color dell’oro.
Dire che Mathias mi attraeva sarebbe riduttivo. Di fronte a lui non mi orientavo più,
nord, sud, nessuna bussola, solo la forza ancestrale dell’incanto che si può provare per
un altro essere che mi chiamava a sè. Mi guardava e non ero più padrona della mia
pelle, il corpo scosso da brividi dispersi a macchia d’olio, le mani tremanti; Mathias mi
parlava e l’intero sistema vocalico italiano prendeva forma attraverso i miei sospiri.
La sua era indubbiamente una perfetta, ineccepibile, bellezza nordica con tutti i crismi.
Mancavano lo sguardo puntato sull’iceberg e il background di salmoni e aringhe
(d’altronde veniva dalla Svizzera), ma questi, all’improvviso, erano diventati un
dettaglio irrilevante. La cosa rilevante era che Mathias voleva fidanzarsi con me. Che,
ovviamente, ero d’accordo.
L’elvetico non voleva semplicemente impegnarsi, voleva incollarsi come una figurina
sull’album. Era membro onorario del club “Maschi Z” (zecca), uno di quelli che dopo
due serate insieme ti dicono sei la mia vita, dopo due settimane ti presentano ai genitori,
un mese più tardi ti infilano la fedina al dito e al terzo “mesiversario” parlano dei nomi
dei figli che verranno. A dispetto della sua nordicità parlava, blaterava, apriva la bocca
senza moderazione e io ascoltavo, ascoltavo, muovendo impercettibilmente il capo (lui
infatti non percepiva). Lui progettava per due (potremmo andare a vivere dai miei,
perchè hanno una bella casa grande) e io soffocavo, mentre il tratto suggestivo
dell’arco aurorale che probabilmente lui non aveva mai visto si tramutava in quello di
un cappio, stretto per bene intorno al mio collo. Diceva di amarmi e mi fagocitava nel
suo mondo. Voleva seguirmi ovunque, fare il mio stesso lavoro, vivere e condividere
ogni mio respiro. Voleva passare da Scienze politiche a Lettere classiche, per stare con
me anche a lezione. C’era sempre. Ovunque. Alla cena di classe con i compagni del
liceo a Campobasso, a Natale dai miei, alla festa di compleano di mia sorella che
studiava a Ferrara, persino alla Comunione di mia cugina Gaia.
Mi trovavo in biblioteca, dove mi ero appena rifugiata per godermi un po’ di solitudine,
quando all’improvviso, aprendo il primo quotidiano a tiro, capii.
Il giornale locale dedicava un pagina a statistiche e record mondiali strampalati: si
andava dal consumo medio di piadine pro-capite sulla riviera romagnola al numero di
chilometri in treno percorsi in un anno da uno svizzero.
Si parlava anche dei norvegesi: secondo le statistiche il norvegese è l’uomo più veloce a
chiudere un rapporto sentimentale. Indipendentemente dal numero di anni trascorsi
insieme, dalle implicazioni pratiche (matrimonio, figli, casa in comune), e dalla
possibilità teorica di discussioni e liti al riguardo, il nordico scandinavo, anche il più
loquace, se la caverebbere con due frasi: Non ti amo più. Ho cambiato idea. Si dirige in
camera, fa le valigie e si richiude la porta alle spalle. Dunque - concludeva
scherzosamente il giornalista - non fidatevi di chi vi dice mille volte al giorno vi seguirò
ovunque, soprattutto se viene da nord.
Non so bene cosa mi sia successo. Non ho mai dato tanta attenzione alle statistiche e
sono sempre stata convinta che i voltagabbana, i latin lover, i Casanova e le banderuole
dimorassero dall’inizio dei tempi nel sud del mondo. Ma all’improvviso mi è venuto un
gran freddo e contemporaneamente una gran voglia di casa, di suoni rassicuranti, di
accenti caldi e cadenzati, di guagliù, magna’, penza’ . Ho avvertito il desiderio di
capelli corvini da accarezzare, setosi, spessi, lucidi come l’ebano, mi è venuta voglia di
trota, di occhi scuri che guardano lontano, fissando i cavatelli o i caciocavalli sul ripiano
della cucina.