POSTFAZIONE di Nicola Lecca

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POSTFAZIONE di Nicola Lecca
POSTFAZIONE
di
Nicola Lecca
“Tu pensi che l’imperatore del Giappone sia davvero un
imperatore?” In questa domanda che il cantante d’opera Garðar Hólm rivolge al piccolo Alfgrímur è nascosta
la ragione di un romanzo intero: la possibilità di raccontare il mondo per mille e mille volte: affidandolo a
occhi sempre diversi, capaci di coglierne il significato in
una maniera personale e unica.
Chi è realmente l’imperatore del Giappone?
Beh, si fa fatica a crederlo: ma quest’uomo in apparenza così potente, in verità, è soltanto un poveraccio qualunque: condannato a essere ciò che gli altri pensano che sia.
Quale è la realtà? Quale è la verità se non quella
puramente soggettiva che esiste in miliardi di maniere,
sempre diversa per ognuno di noi?
Per rendersene conto, basta guardare il panorama
da una qualsiasi finestra: ciò che si vede non esiste di
per sé ma soltanto attraverso i nostri occhi. Tanto che,
alla fine, tre diverse persone avranno altrettante esperienze da raccontare su quel medesimo paesaggio.
Ecco: dobbiamo soffermarci su questo dettaglio
molto importante della poetica di Laxness. Dobbiamo
renderci conto che, per lui, la realtà non esiste intesa in
senso assoluto, ma che, invece, di realtà ne esistono
moltissime: una per ognuno di noi.
Quella che Laxness sceglie di presentarci ne Il concerto dei pesci è la realtà di Alfgrímur: un bambino
non voluto, nato in un mondo in cui i figli sono più
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necessari ai genitori di quanto i genitori non lo siano ai
figli. Trascorrerà la sua infanzia a Brekkukot, uno degli
ultimi alloggi gratuiti al mondo: un luogo surreale, contro le regole di ogni convenienza e di ogni consuetudine. Un mondo a sé: un utero gigantesco in cui poter crescere protagonisti, senza troppe influenze, sviluppando
un carattere forte e orgoglioso della propria unicità.
Siamo in Islanda: in un’Islanda fiabesca in cui la primavera esiste soltanto nella mente di Dio, e in cui la ricchezza delle persone si misura in base al numero di mucche che possiedono – e la povertà, al contrario, in base al
numero dei loro figli. Ci troviamo in una terra quasi
completamente desolata in cui gli abbecedari non sono
necessari e le lettere vengono mostrate ai bambini, per la
prima volta, scritte sul ghiaccio. Siamo su un’isola estrema in cui il mondo accade in maniera diversa e in cui,
paradossalmente, il filo spinato è diventato uno degli articoli di lusso più richiesti insieme alla grappa e al cemento. Una terra aspra, permeata da tradizioni secolari, tramandate goccia a goccia in una società paesana, capace
di far diventare una questione di stato il nuovo progetto
di legge sui barbieri.
In questa magione protetta da un’immensa muraglia
cinese immaginaria, il piccolo Alfgrímur sogna. Lo fa
spesso: anche ad occhi aperti. Come i daini, sempre e
perennemente all’erta, ascolta tutto: immagina la pendola
parlare, osserva le impercettibilità più piccole, i fili d’erba
e se ne incanta. I suoi occhi sono speciali e riescono ad
accorgersi di tutto ciò che, davanti agli altri, sfila quotidianamente inosservato, nascosto da semplici e piccoli rituali
individuali: segni evidenti di una libertà personale, ma
anche di una sottile schiavitù chiamata abitudine.
Attraverso gli occhi, il mondo raggiunge la mente di
Alfgrímur e viene rielaborato come in una fiaba che,
però, sembra esistere davvero.
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Come può accadere tutto questo?
Il piccolo Alfgrímur è cresciuto protetto dal mondo
e, tra le solide mura di Brekkukot, ha seguito il proprio
istinto. Nessuno ha potuto plasmare la sua personalissima percezione dell’esistenza: l’esperienza degli altri non
ha intaccato la sua vita (se non minimamente): ma egli
stesso ne ha fatto esperienza in un modo proprio, incontaminato.
Perfino davanti alla morte il suo atteggiamento è
del tutto originale. Egli non la teme e, anzi, ne è attratto. Frequenta il cimitero e trova che i funerali gli si
addicano. Per lui, la fine della vita è serena come un
tramonto.
Soltanto poche e bizzarre regole mettono freno al
dirompente sviluppo della sua enorme personalità.
Sono regole di Brekkukot, e non importa che siano
condivisibili o meno: vanno osservate per rispetto e
riconoscenza. Ad esempio: non si devono mai usare
parole banali come “felicità”, o “amore”, bisogna sforzarsi di parafrasare, di definire gli stati d’animo in
maniera personale: fino a dire che un moribondo sul
letto di morte è un uomo “che sta facendo fagotto”.
Insomma, ognuno dev’essere pienamente se stesso. Non
deve mai cercare di compiacere il prossimo adeguandosi ai convenevoli comuni. Tranne l’eccezione della
buona educazione, naturalmente. A Brekkukot, infatti,
fra i divieti più assoluti, c’è quello di ammazzare
mosche in casa d’altri o, altra regola dell’ospite modello, bisogna sempre mostrarsi modesti e scegliere quanto
di meno appariscente ci viene offerto.
Alfgrímur non capisce bene il motivo di queste
regole: perché loro si basano sull’opinione degli altri, e
da questo traggono riscontro. Le accetta per rispetto: ma
non le condivide. È polemico e, nonostante la sua giovane età, non ha paura di dire la sua. È libero, e non
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gli interessa ciò che gli altri pensano di lui. È unico,
non ha gregge: e quando si accorge che l’anima delle
persone può avere una fragranza che sa di fragole, non
gli importa che qualcun’altro condivida con lui quell’intuizione. Basta che sia così per lui. Ecco perché nella
sua testa tutto ciò che accade viene interpretato in
maniera originalissima, e i suoi piccoli sogni sono, in
genere, incompresi e scherniti dagli altri.
Alfgrímur condivide Brekkukot con una carrellata
felliniana di personaggi surreali, abilmente creati da
Laxness per adattarsi alla sua mente, sempre e continuamente in bilico tra fiaba e realtà. Ecco il capitano
Hogensen, i cui argomenti di conversazione sono sempre ben al di sopra della quotidianità; ecco il soprintendente: un uomo talmente pulito e lustrato che splende,
proprio come un argento ben lucidato. Ecco, ancora,
Cloe, una donna sofferente che si trova sull’orlo della
reincarnazione e, ancora, una vecchia che si presenterà
a Brekkukot per domandare un letto dove poter morire
tra estranei: come se la morte potesse essere meno reale
se vissuta lontano dalla propria consuetudine.
Gente che va e viene, come in un albergo. E tutti
lasciano poche tracce.
Sullo sfondo, come un mistero (un’incompletezza),
il mito di un’Europa lontana permea quasi ogni pagina:
lo si percepisce ovunque, come un complesso d’inferiorità: perfino nel rispetto con cui si considerano le pagine
raggrinzite del “Times” giunte a bordo dei bastimenti,
accartocciate attorno agli oggetti che imballavano.
Fino al momento decisivo, nel romanzo: quello in
cui appare il cantante d’opera Garðar Hólm: famoso in
tutto il mondo e capace, con la sua voce, di rendere
onore all’Islanda. La sua notorietà verrà continuamente
rimarcata da un epiteto che ne sottolinea la forza, ma
anche la debolezza. Eppure non si riesce mai a inqua352
drarlo bene: è sempre in fuga, anche da se stesso. E
quando Alfgrímur si interessa a lui (e non alla sua voce) nasce un’amicizia inusuale.
Garðar Hólm, in realtà, non è mai percepito come
una persona. Nessuno si cura veramente di lui. Egli, in
realtà, è uno schermo bianco contro il quale ognuno
non resiste alla tentazione di proiettare se stesso: il desiderio di affermazione, di notorietà, di fama, di riscatto
dalla norma. Ci si identifica in lui: si è avidi dei suoi
successi poiché, misteriosamente, nella mente delle persone essi divengono successi di proprietà pubblica.
Proprio come l’imperatore del Giappone, anche a
Garðar Hólm è spettato l’arduo compito di essere un
poveraccio qualunque, trasformato in un feticcio da
tutti coloro che hanno bisogno di un punto di riferimento di un palo saldo, irremovibile, enorme e ben
piantato nel terreno.
Ma perché?
Nell’attesa di un suo concerto che non avverrà mai,
e che tutti attendono con spasmodica ammirazione, le
pagine del romanzo continuano a scorrere lente, dondolate dalle parole di Alfgrímur: sempre ironiche, sempre
a fondo dentro la realtà. Una realtà fatta di paste con la
panna, di timidezze, di persone da osservare: di vita, di
morte e di inverni da imparare ad apprezzare.
Ma anche di sogni, e di ambizione.
Si rimane confusi, alla fine.
Si chiude il libro e si rivedono sfilare con gli occhi
della memoria tutti i volti e tutte le storie. Sono tante.
E sono vere.
Poi, i giorni passano. Ma quei volti rimangono dentro di noi.
Alfgrímur ce li ha saputi raccontare così bene che
non saremo mai capaci di mandarli via.
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