l`umanesimo latino in polonia humanizm lacinski w polsce

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l`umanesimo latino in polonia humanizm lacinski w polsce
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
e-mail: [email protected]
L’UMANESIMO LATINO IN POLONIA / HUMANIZM LACINSKI W POLSCE
FONDAZIONE CASSAMARCA
Conferenza Internazionale
Naukowa Konferencja
L’UMANESIMO LATINO
IN POLONIA
HUMANIZM LACINSKI
W POLSCE
Cracovia, Collegium Maius - 20 settembre 2003
Kraków, Collegium Maius - 20 wrzeênia 2003
Conferenza Internazionale
Naukowa Konferencia
L’UMANESIMO LATINO
IN POLONIA
HUMANIZM LACINSKI
W POLSCE
Cracovia, Collegium Maius - 20 settembre 2003
Kraków, Collegium Maius - 20 wrzeênia 2003
La Conferenza Internazionale è stata realizzata
con la collaborazione di:
Konferencja została organizowana przy wspułprace:
Fondazione Cassamarca, Treviso
Fundacai Cassamarca, Treviso
EFASCE, Ente Friulano Assistenza Sociale e
Culturale Emigrati, Pordenone
EFASCE, Organizacja z Fryuli Asystencji Socialnej i
Kulturowej dla emigrantuw, Pordenone
UTRIM, Unione Triveneti nel Mondo
UTRIM, Zwjązek Triwenetuw w Swecie
ULM, Unione Latini nel Mondo
ULM, Zwjązek Latynuw w Swecie
Istituto Italiano di Cultura a Cracovia
Włoski Instytut Kultury w Krakowie
Dipartimento di Studi Polacchi all’Università Jagellonica
di Cracovia
Instytut polonistyki Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
Indice / Spis treści
Saluti / Przywitania
Pag.
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AVV. ON. DINO DE POLI
Presidente della Fondazione Cassamarca di Treviso
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9
Pag.
11
AVV. ON. DINO DE POLI
Prezes Fundacji Cassamarca, Treviso
DOTT. GIOVANNI SCIOLA
Direttore Istituto Italiano di Cultura, Cracovia
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13
DR. GIOVANNI SCIOLA
Dyrektor Włoskiego Instytutu Kultury w Krakowie
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15
DR. GIORGIO ANDRIAN
Dipartimento di Geografia, Università di Padova
Pag.
17
DR. GIORGIO ANDRIAN
Uniwersytet w Padwie, Instytut Geografii
Relazioni / Referaty
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19
L’architettura tra gotico e il rinascimento
LUIGI LUCHINI
Presidente EFASCE, Pordenone
Pag.
29
Architektura między stylem gotyckim a renesansowym
LUIGI LUCHINI
Prezes EFASCE, Pordenone
Pag.
39
L’Umanesimo italiano in Polonia:
aspetti generali della ricezione
DOTT.SA CATERINA SQUILLACE
Dipartimento di Filologia Romanza,
Università Jagellonica di Cracovia
Pag.
43
Humanizm łaciński w Polsce: jego odbiór w ogólnym ujęciu
DR. CATERINA SQUILLACE
Instytut Filologii Romańskiej, Uniwersytetu
Jagiellońskiego, Kraków
Pag.
47
Umanesimo e Rinascimento dalla prospettiva polacca
PROF. ANDRZEJ BOROWSKY
Titolare Cattedra di Letteratura Polacca delle Origini e
dell’Illuminismo, Dip. di Studi Polacchi,
Università Jagellonica di Cracovia
Pag.
55
Renesans i Humanizm z polskiej perspektywy
PROF. ANDRZEJ BOROWSKY
Kierownik Katedry literatury staropolskiej i oświeceniowej
Instytutu polonistyki, Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
5
Pag.
63
Relazioni artistiche tra Italia e Polonia nell’età
del Rinascimento nella luce delle ultime ricerche
PROF. JERZY MIZIOŁEK
Direttore Sezione di Tradizione dell’Antichità nelle Arti Visive,
Dipartimento di Archeologia, Università di Varsavia
Pag.
81
Najnowsze badania nad kontaktami artystycznymi
włoskopolskimi w dobie Renesansu
PROF. JERZY MIZIOŁEK
Kierownik zakładu tradykcji antyku w sztukach wizualnych
Instytutu archeologii, Universytetu Warszawskiego
Pag.
95
Il Trattato di Leonard Cox De erudienda iuventute
sullo sfondo delle ricerche linguistiche dell’epoca
DOTT.SA HANNA SZBELSKA
Dipartimento di Studi Polacchi,
Università Jagellonica di Cracovia
Pag. 111
Traktat Leonarda Coxa De erudienda iuventute
na tle lingwistycznych poszukiwań epoki
DR. HANNA SZBELSKA
Instytut polonistyki Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
Pag. 127
Le elegie d’amore di Jan Kochanowski sullo sfondo
della teoria e della pratica europea
DOTT.SA GRAŻYNA URBAN-GODZIEK
Sezione di Bibliografia Polacca,
Università Jagellonica di Cracovia
Pag. 139
Elegie miłosne Jana Kochanowskiego
na tle teorii i praktyki europejskiej
DR. GRAŻYNA URBAN-GODZIEK
Zakład bibliografii polskiej,
Uniwersytetu Jagellonskiego, Kraków
Pag. 149
Il Canto oraziano in latino nella Polonia rinascimentale
DOTT.SA ELWIRA BUSZEWICZ
Cattedra di Letteratura Polacca delle Origini e
dell’Illuminismo, Dip. di Studi Polacchi,
Università Jagellonica di Cracovia
Pag. 161
Łacińska pieśń horacjańska w renesansowej polsce
DR. ELWIRA BUSZEWICZ
Katedra literatury staropolskiej i oświeceniowej
Instytutu polonistyki, Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
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DINO DE POLI
Presidente Fondazione Cassamarca
Treviso
Sono molto onorato e grato
verso quanti hanno lavorato per
preparare questa conferenza, che
non poteva essere collocata in un
ambiente più suggestivo. C’è una
massima scientifica che dice “i
pozzi profondi sono tutti intercomunicanti”. Venendo a Cracovia
abbiamo colto una vena di questi
pozzi profondi. Siamo qui a questo
convegno, ma altri lo hanno preceduto nell’Europa dell’Est; in
Romania, per esempio, ne abbiamo fatto addirittura quattro,
tanta è voglia di riprendere i contatti con il resto dell’Europa.
Vi è un’incredibile voglia di rafforzare i rapporti con l’Europa
occidentale. Noi abbiamo esteso questi rapporti arrivando anche in Africa. Saremo a Macao a gennaio e febbraio dell’anno
prossimo. Il 1° maggio 2000 abbiamo tenuto a New York un’importante conferenza internazionale, dal titolo “Globalizzazione e
Umanesimo Latino” alla quale erano presenti 160 professori in
rappresentanza di università di tutto il mondo e un centinaio di
studenti universitari.
Per cercare l’identità di ciascun popolo si deve scavare
in profondità nella storia; infatti, se si vuole saltare più in alto,
bisogna prendere la rincorsa più in lungo e analogamente bisogna prendere la rincorsa nella storia per guardare al futuro.
Il nostro punto di vista è quello dell’Umanesimo Latino, quello
di tutti questi popoli che hanno avuto legami con la storia latina. Venendo qui sentiamo che si riapre il vecchio dialogo tra
l’Impero Romano d’Occidente e l’Impero Romano d’Oriente.
È quest’umanità più vasta che occorre per portare alla nostra
attenzione, soprattutto qui in Polonia alla vigilia del suo ingresso nell’Europa unita. Bisogna andare a ritrovare la base culturale dell’Europa unita, che non è l’Euro, non è l’economia né
la politica a respiro corto. Respiro lungo ce l’hanno la cultura
e le grandi forze religiose. Nella nascitura costituzione europea
erano stati messi tra le basi gli ideali dell’illuminismo francese,
ma non le radici cristiane; è un errore, perché le radici cristiane
continuano a produrre frutti, mentre dell’umanesimo francese
non si trova traccia.
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Da parte nostra, e anche liberamente da parte dell’Italia,
non abbiamo alcuna veste ufficiale tradizionale; noi riproponiamo la capacità di dialogo e mediazione che è propria degli
italiani. L’Italia ha avuto trascorso storici molto disparati e quindi abbiamo una capacità di capire le cose più sviluppata. La
Fondazione che presiedo ha dato incarico ad una commissione
scientifica di scrivere un’opera dal titolo “Rinascimento italiano
in Europa e nel mondo”. L’idea nasce dal fatto che, girando
il mondo, avevo notato che quando si parla di Rinascimento
italiano si pensa solo al Rinascimento toscano. Mentre il Rinascimento italiano ha radici lontane nell’Impero Romano e la sua
forza culturale poggia sui Comuni e le Signorie per esprimere
molte voci, molte sfaccettature della cultura latina. Siamo qui
anche per affermare come l’Umanesimo Latino possa incontrarsi con quello che fu l’Umanesimo Bizantino, che rappresentò nel mondo slavo una componente altrettanto importante
per lo sviluppo culturale. Sentiamo di avere una funzione importante, dal momento che anche gli Stati Uniti d’America si
riconoscono nelle radice da cui sono nati; è l’Europa che ha
fondato gli Stati Uniti d’America. La diffidenza che ora nutrono
verso l’Europa è dovuta al fatto che sono coscienti di essere
debitori verso il vecchio continente. Noi dobbiamo riprendere
questo discorso per riaprire un dialogo e superare la diffidenza.
Infatti, se gli Stati Uniti commettono un errore, ne paghiamo le
conseguenze tutti; quindi occorre essere capaci di aiutare, di
avere una visione più ampia del mondo.
Una della cose che mi sono più care è un omaggio che
mi hanno fatto a Leopoli: un vocabolario ucraino-latino, una
cosa straordinaria che testimonia dell’esistenza di rapporti tra
le due nazioni. Ma noi siamo qui anche per valorizzare quelle
caratteristiche dell’Umanesimo Latino che lo differenziano dal
nostro, ma lo fanno coincidere con le radici più ampie mediterranee, che hanno generato tante cose del mondo moderno.
Ecco perché oggi parleremo di Umanesimo Latino e anche del
vostro importantissimo Umanesimo. L’Europa unita è vicina,
ma noi non dobbiamo creare un’Europa dissacrata, disincantata e prigioniera del consumismo e dell’economia; bensì siamo chiamati a far sì che l’Europa sia ricca dei valori umani e
venendo a Cracovia siamo venuti in un centro importantissimo
della cultura europea.
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DINO DE POLI
Prezes Fundacji Cassamarca
Treviso
Jestem bardzo zaszczycony i wdzięczny tym wszystkim,
którzy przyczynili się do zorganizowania tej konferencji, która
nie mogła odbyć się w bardziej urzekającym miejscu. Jest taka
maksyma naukowa, że “wszystkie głębokie studnie łączą się
ze sobą”: w Krakowie znaleźliśmy całą sieć głębokich studni.
Teraz jesteśmy tutaj, a wcześniejsze konferencje odbyły się w
innych krajach Europy Wschodniej: przykładowo w Rumunii
odbyły się aż cztery takie spotkania, tak wielka jest chęć odnowienia kontaktów z resztą Europy. Jedna z konferencji miała
miejsce we Lwowie, na Ukrainie, a następna jest organizowana w Sankt Petersburgu; zauważalne jest silne dążenie do
zacieśniania więzi z Europą Zachodnią. My nawiązaliśmy kontakty nawet w Afryce: będziemy w Makao w styczniu i lutym
przyszłego roku. 1 maja r. 2000 odbyliśmy w Nowym Yorku
ważną konferencję międzynarodową na temat “Globalizacji i
Humanizmu łacińskiego”; uczestniczyło w niej 160 profesorów
reprezentujących uniwersytety na całym świecie oraz około stu
studentów wyższych uczelni.
Aby odnaleźć tożsamość danego narodu należy zagłębić
się w jego historię. Aby wyżej skoczyć, potrzebny jest dłuższy
rozbieg, analogicznie aby spojrzeć w przyszłość należy wziąć
rozbieg w historii. Naszą perspektywą jest humanizm łaciński w
tych wszystkich narodach, których dzieje łączyły się z historią
Imperium Rzymskiego. Teraz będąc tutaj czujemy, jak na nowo
nawiązuje się niegdysiejszy dialog między Zachodnim a Wschodnim Imperium Rzymskim. Potrzebne jest nam właśnie takie
szersze spojrzenie, zwłaszcza tutaj w Polsce, w przededniu jej
wejścia do Zjednoczonej Europy. Trzeba odnaleźć podstawę
kulturową Zjednoczonej Europy: nie jest nią Euro ani ekonomia,
ani krótkodystansowa polityka. To kultura i duże wspólnoty religijne zapewniają szersze spojrzenie. Przy tworzeniu konstytucji
europejskiej oparto się na ideałach francuskiego Oświecenia, a
nie na przesłankach chrześcijańskich; był to błąd, gdyż religia
chrześcijańska będzie nadal przynosić owoce, podczas gdy po
humaniźmie francuskim nie pozostało śladu.
My i naród włoski jako taki nie stosujemy żadnej oficjalnej,
tradycyjnej formy – my proponujemy na nowo dialog i mediację,
które są wrodzone Włochom. Nasz kraj przeszedł bardzo różne
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okresy w historii, dzięki czemu nabyliśmy większą zdolność
rozumienia rzeczywistości. Fundacja, którą kieruję, zleciła
pewnemu stowarzyszeniu naukowemu napisanie opracowania zatytułowanego “Włoski Renesans w Europie i w świecie”.
Pomysł zrodził się podczas moich podróży po świecie, kiedy
zauważyłem, iż pojęcie “Renesans włoski” kojarzy się wyłącznie
z Renesansem toskańskim. Tymczasem Renesans włoski
wywodzi się z odległego w czasie Imperium Rzymskiego i swoją
siłę kulturalną czerpie z komun miejskich i signorii, wyrażając
bogactwo i różnorodność kultury łacińskiej. My jesteśmy tutaj
również po to, aby zilustrować, jak humanizm łaciński zderzył
się z humanizmem bizantyjskim, który przecież równie mocno
stymulował rozwój kultury w świecie słowiańskim. Czujemy, że
jak ważną rolę odgrywamy, zważywszy na to, że nawet Stany
Zjednoczone utożsamiają się ze swoimi korzeniami; to Europa
zrodziła Stany Zjednoczone Ameryki. Swoisty dystans, z jakim
odnoszą się do Europy wynika ze świadomości, iż są względem
niej dłużnikami; my musimy podjąć ten wątek i odnowić dialog,
aby ta nieufność została przezwyciężona. Jeśli Stany Zjednoczone popełniają błąd, my wszyscy ponosimy tego konsekwencje, a więc musimy być gotowi do pomocy i widzieć świat w
szerszej perspektywie.
Jedną z rzeczy, które są mi szczególnie drogie jest słownik
ukraińsko-łaciński, jaki podarowano mi we Lwowie; jest to
niezwykłe świadectwo kontaktów między tymi dwoma nacjami. Jesteśmy tutaj również po to, aby podkreślić te cechy
humanizmu łacińskiego, które go odróżniają od naszego,
ale które równocześnie łączą go z szerszym podłożem kultury śródziemnomorskiej; jest ona przecież źródłem wielu
zjawisk świata współczesnego – dlatego właśnie będzie dzisiaj
mowa o humaniźmie łacińskim oraz o Waszym, jak ważnym
humaniźmie. Wspólna Europa jest już blisko, ale nie powinniśmy
tworzyć Europy zdesakralizowanej, pozbawionej marzeń, w
niewoli konsumpcjonizmu i ekonomii; naszym zadaniem jest
sprawienie, aby Europa była bogata w wartości humanistyczne. Przyjeżdżając do Krakowa, trafiliśmy do bardzo ważnego
ośrodka kultury europejskiej.
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GIOVANNI SCIOLA
Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura
Cracovia
Presidente De Poli, colleghi, cari amici,
inutile dire che per me personalmente, oltre che per l’Istituto
Italiano di Cultura, è stato un onore poter partecipare all’organizzazione di questa Conferenza ed essere presenti oggi qui. In
particolare, sono lieto di poter ospitare a Cracovia un’iniziativa
della Fondazione Cassamarca, che ha aperto da qualche anno
un proficuo rapporto con il Ministero degli Affari Esteri italiano. Sui temi dell’Umanesimo Latino in Polonia non mi dilungo.
Sono venuto qui per ascoltare le relazioni degli esperti arrivati
dall’Italia e dei loro colleghi che vivono e lavorano a Cracovia su
questi temi da tanti anni.
Anche se penso che una brevissima risposta a quello che
può essere il senso dell’Umanesimo Latino ci sia dato già da
questa fantastica sala dove ci troviamo e dall’affascinante percorso di ordine scientifico, che di solito i turisti fanno passando
per questa sala e proseguendo per tutto il resto del Collegium
Maius.
Voglio aggiungere solo una considerazione che per me
rappresenta un compito per l’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, così come per tutti gli Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Credo che le relazioni culturali tra l’Italia e la Polonia, quel filone
dei pozzi profondi al quale faceva riferimento l’avvocato De Poli
prima, sia estremamente ricco. Se si guardano i paralleli storici
tra i nostri due paesi o, meglio, tra nostre due civiltà, credo che
questi parallelismi siano affascinanti e molteplici.
Non sta certamente a me dilungarmi su questi temi, ma
credo che una considerazione possa essere fatta. Si tratta forse di un aspetto secondario per Italia e Polonia, ma che credo
accomuni molto i due paesi; quello di una comune emigrazione. Ci sono tante “Italie” fuori dall’Italia e ci sono tante “Polonie”
fuori dalla Polonia. Per gli italiani il fatto di avere una storia di
emigrazione lunga decenni, per anni è stato ritenuto un elemento negativo; solo ora viene riscoperto come una grande
ricchezza che ci riguarda tutti. Ma se c’è un tema che accomuna ancora più profondamente i due paesi, tornando a quel
filone dei pozzi profondi di prima, sono le multiformi sfaccettature delle culture stesse. Da questo discende direttamente,
dal mio punto di vista, un compito per il Centro Italiano della
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Cultura; quello di rappresentare queste mille facce, nel mio
caso dell’Italia, e di capire come vengono percepite all’estero.
Se l’occasione di questo convegno oggi mi dà la possibilità di
aprire una collaborazione fattiva con la Fondazione Cassamarca e con i colleghi polacchi dell’Istituto di Polonistica, ne sarò
onorato e sarò particolarmente lieto di poter partecipare a un
progetto di questo genere.
Vi ringrazio e auguro successo ai lavori di oggi, così come
alle ricerche che ognuno nel proprio contesto sta conducendo,
con l’auspicio che, ovviamente separate, differenziate, specifiche, possano confluire in quel grande ambito che una comune
cultura.
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GIOVANNI SCIOLA
Dyrektor Włoskiego Instytutu Kultury w Krakowie
Kraków
P. Prezesie De Poli, p. Profesorze Ulewiczu, p. Profesorze
Borowski, drodzy Koledzy i Przyjaciele,
nie muszę mówić, iż dla mnie osobiście, nie tylko dla
Włoskiego Instytutu Kultury, wielkim zaszczytem jest udział w
organizowaniu tej konferencji jak również obecność tu i teraz.
Szczególnie cieszę się, że Kraków może być odbiorcą inicjatywy
podjętej przez Fundację Cassamarca, która od kilku lat utrzymuje relacje z Ministerstwem Spraw Zagranicznych Włoch.
Absolutnie nie będę teraz rozwodzić się na temat humanizmu łacińskiego w Polsce; przybyłem tu po to, aby wysłuchać
odczytów specjalistów w tej dziedzinie, którzy przyjechali z
Włoch, oraz ich kolegów z Krakowa, zajmujących się tymi tematami od lat.
Myślę, iż natychmiastową odpowiedź na pytanie, czym był
humanizm łaciński znajdziemy właśnie w tej wspaniałej sali, gdzie się teraz znajdujemy, jak i w tych miejscach, które zwiedzają
turyści – przechodzą oni zazwyczaj przez tę właśnie salę aby
udać się do pozostałych pomieszczeń Collegium Maius.
Chciałbym zwrócić uwagę na coś, co w moim przekonaniu jest zadaniem Włoskiego Instytutu Kultury w Krakowie, podobnie jak wszystkich Włoskich Instytutów Kultury za granicą.
Według mnie relacje kulturalne między Italią a Polską, ta sieć
głębokich studni, do których wcześniej nawiązywał avvocato
De Poli, jest bardzo bogata. Jeśli przyjrzymy się paralelizmom
historycznym między naszymi dwoma krajami bądź analogiom między naszymi kulturami, zauważymy, iż są one liczne
i fascynujące.
Nie do mnie należy rozwijanie tych tematów, ale myślę, że
warto podkreślić jedną rzecz. Chodzi o pewne zjawisko być
może drugorzędne dla Włoch i Polski, ale wspólne dla obu
naszych krajów – zjawisko emigracji. Podobnie jak istnieje wiele
małych “Italii” poza obszarem Włoch, wielu Polaków żyje poza
granicami Polski. W przekonaniu Włochów to, iż historia emigracji trwa już dziesiątki lat, przez długi czas było postrzegane
jako coś negatywnego; dopiero niedawno dostrzeżono w tym
głębokie bogactwo, które nas wszystkich dotyczy. Ale jest jeszcze coś, co znacznie bardziej łączy nasze kraje – jest to złożoność
i wielopostaciowość ich kultur. Uważam, iż właśnie z tym
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bezpośrednio wiąże się zadanie, którego powinien się podjąć
Włoski Instytut Kultury: przedstawienie tych różnorodnych form
kultury – w tym przypadku włoskiej – i zbadanie, jak są one
postrzegane za granicą. Jeśli to dzisiejsze spotkanie pozwoli
mi nawiązać rzeczywistą współpracę z fundacją Cassamarca,
jak również z polskimi kolegami z Instytutu Polonistyki, będę
czuł się zaszczycony i szczęśliwy z możliwości uczestniczenia w
podobnym projekcie.
Dziękuję za uwagę i życzę Wam powodzenia w dniu dzisiejszym i w działalności naukowej, którą prowadzicie każdy w
swoim zakresie, w nadziei, że ta praca, oczywiście w swojej
szczególności, specyficzności, złoży się na jedną wielką całość,
jaką jest wspólna kultura. Dziękuję.
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GIORGIO ANDRIAN
Dipartimento di Geografi
Geografia
a
Università di Padova
Onorevole Presidente, Vicepresidente, Direttore, egregi
professori, signore e signori, buon giorno e grazie per essere
intervenuti.
“La forza della cultura potrà evitare lo scontro delle civiltà”.
Cosi comincia la prolusione che Umberto Eco ha fatto l’anno
scorso all’Università di Gerusalemme, quando gli venne consegnata la laurea honoris causa. Continua dicendo che “noi tutti
sappiamo che il sapere non porta, però, automaticamente la
pace e la pietà. Però, in gran percentuale il progresso del sapere può anche produrre anzi deve produrre dei risultati. E per
raggiungere questi obiettivi noi persone di cultura dobbiamo
continuare la nostra missione anche se intorno a noi il mondo
esplode”.
Questa è la prima e forse la più importante delle ragioni
per cui noi con la Fondazione Cassamarca siamo qui oggi in
questo posto per parlare dell’Umanesimo Latino. E il focus di
questa conferenza è proprio radicato, come diceva il Presidente in apertura, nei valori dell’Umanesimo Latino. Perché siamo
convinti che questa sia probabilmente la chiave di lettura più
interessante in questo momento in cui si discute, o si ridiscute,
di Europa in una maniera diversa. Avete visto tutti i nomi che
compaiono nel programma, che è molto ricco, specialmente
nella seconda parte della mattinata; sono sicuro che ci verranno date molte chiavi di lettura per capire questi aspetti. Voglio
solo aggiungere un piccolo aspetto che mi riguarda personalmente, in quanto parte dell’Università di Padova, uno dei più
antichi atenei. Andando a curiosare negli archivi per prepararmi
a questa giornata ho scoperto che moltissime personalità illustri di queste regioni sono venute in Italia per studiare, e spesso
si sono poi fermate per insegnare e hanno anche rivestito dei
ruoli molto importanti.
Un aspetto vorrei portare alla vostra attenzione, perché mi
ha colpito in modo particolare; scrivono gli umanisti ruteni che
vengono a studiare a Padova: “la legge naturale è più alta delle
leggi umane, perché le leggi umane possano essere sempre
cambiate”. Ed è interessante notare come loro già intendessero per legge naturale la libertà di coscienza, di parola e di fede.
E dicevano che questi erano i primi veri segni di riconoscimento
di uno stato civile; siamo nella seconda metà del ’400.
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Con questo messaggio vi lascio alla seconda parte dei lavori che si prevede molto interessante; sono molto curioso di
ascoltare le vostre relazioni. Vi ringrazio ancora e lasciate che
ringrazi la Fondazione una volta in più, nella persona del suo
Presidente; sono poche e molto preziose, infatti, le occasioni
in cui si può contare su un appoggio come quello che ci ha
offerto per affrontare questi temi. Speriamo di poter continuare
a farlo assieme. Grazie.
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GIORGIO ANDRIAN
Uniwersytet w Padwie, Instytut Geografi
Geografiii
Padwa
Szanowny Panie Prezesie, Wiceprezesie, Dyrektorze,
szanowni Profesorowie, Panie i Panowie, witam wszystkich i
dziękuję za wcześniejsze wystąpienia.
“Siła kultury pozwoli uniknąć zderzenia cywilizacji”. Tak w
zeszłym roku rozpoczął swoje wystąpienie na uniwersytecie w
Jerozolimie Umberto Eco, z okazji otrzymania doktoratu honoris
causa. Powiedział wtedy również, że “wszyscy wiemy, iż wiedza nie pociąga za sobą automatycznie pokoju i współczucia.
Jednakże w dużym stopniu postęp wiedzy może, a raczej
powinien przynieść efekty. Aby osiągnąć te cele, my jako ludzie
wykształceni musimy wypełniać swoją misję, nawet jeśli świat
wokół nas eksploduje”.
To jest pierwszy, a może nawet najważniejszy powód, dla
którego zebraliśmy się tutaj dzisiaj razem z fundacją Cassamarca, aby porozmawiać o humaniźmie łacińskim. Tak jak
powiedział pan Prezes we wstępie, motywem przewodnim
tej konferencji są wartości humanizmu łacińskiego, ponieważ
jesteśmy przekonani, iż stanowią one obecnie najbardziej
interesujący klucz do dyskutowania, czy też dyskutowania na
nowo o Europie w odmienny sposób. Zwróciliście uwagę, jak
bogaty jest dzisiejszy program i jak wiele osób zabierze jeszcze
głos, szczególnie w drugiej części spotkania; jestem przekonany, że zostanie nam zaproponowanych wiele sposobów
rozumienia tych zagadnień. Ja chciałbym tylko powiedzieć coś,
co mnie dotyczy osobiście jako pracownika uniwersytetu w
Padwie, jednej z najstarszych uczelni. Przeglądając materiały
w archiwum podczas przygotowywania się do dzisiejszego
spotkania odkryłem, że wiele znanych osobistości z tego regionu jeździło studiować do Italii i niejednokrotnie pozostawali tam,
aby nauczać – niektórzy dochodzili nawet do ważnych funkcji.
Chciałbym zwrócić Waszą uwagę na jedno stwierdzenie, które mnie szczególnie uderzyło – oto, co napisali rosyjscy humaniści, którzy studiowali w Padwie: “prawo naturalne
przewyższa prawa tworzone przez człowieka, gdyż te zawsze
mogą być zmienione”. Interesujące jest to, że już wtedy pojmowano prawo naturalne jako wolność sumienia, słowa i wyznania. W ich ujęciu były to pierwsze prawdziwe symptomy uznania statusu obywatelskiego; mówimy o drugiej połowie XV w.
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Tymi słowami zakończyłbym swoją wypowiedź – druga
część naszego spotkania zapowiada się bardzo ciekawie;
wysłucham z zainteresowaniem Waszych wystąpień. Jeszcze
raz dziękuję, szczególne podziękowania kieruję do Fundacji
Cassamarca w osobie Pana Prezesa; naprawdę rzadko można
liczyć na takie wsparcie, jakiego on nam udzielił, dzięki któremu mogliśmy dzisiaj poruszyć te tematy. Mamy nadzieję, że
będziemy kontynuować naszą współpracę.
Dziękuję.
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LUIGI LUCHINI
Presidente EFASCE
Pordenone
L’architettura
tra gotico e il rinascimento
Sommario:
1.
1.1
2.
2.1
3.
Cracovia nella storia
Monumenti
Il primo linguaggio umanistico
II Rinascimento italiano a Cracovia
L’Illustre figlio di Cracovia, Karol Wojtyła.
Cracovia nella storia
Cracovia (it.), Krakòw (pò.), Krakau (ted.) posta sulle rive
della Vistola è la quarta città della Polonia, con 750.000 abitanti. Fa parte del distretto industriale dell’Alta Slesia con importanti miniere di sale e di piombo. La città è ben servita da
ferrovia, strade e aeroporto. In passato fu una delle più potenti
piazzeforti d’Europa. Il suo periodo storico è legato alle vicende
travagliate della Polonia.
Cracovia appare per la prima volta nel X secolo, intorno al
Mille diventa sede vescovile. Fino al 1200 la Polonia è soggetta
a continue contese tra principi che interessarono anche Cracovia. Nel 1241 la città fu quasi completamente distrutta dai
tartari e passò sotto la colonizzazione tedesca. Si sviluppò nel
’300 per merito di Vladislao Lekietek e di Casimiro il Grande.
Poi, grazie al matrimonio della principessa Edvige con il gran
duca Lituano Jagiello (1385), la Polonia migliorò ulteriormente
la situazione. La borghesia, in gran parte tedesca, si fuse con
la polacca. L’arrivo della regina Bona Sforza, figlia del duca di
Milano, Galeazzo Sforza, moglie di Sigismondo I (1518-1548) e
madre di Sigismondo III segnò l’inizio dell’emigrazione italiana
che scalzò l’influenza tedesca. Arrivarono dall’Italia molti artisti
che assunsero cittadinanza polacca e si distinsero nell’arte e
nel pensiero.
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Cracovia nel ’500 arrivò al massimo livello di cultura con
oltre centomila abitanti e, come capitale della Polonia, riuscì
a rappresentare una felice eccezione nell’Europa delle guerre
di religione, proclamando nel 1573 la tolleranza religiosa. Fu la
Polonia Jagellonica di Cosimiro IV ad accogliere gli ebrei cacciati dalla Spagna che contribuirono fortemente allo sviluppo
del paese.
La seconda metà del XVI secolo, con il trasporto della capitale a Varsavia, segnò l’inizio del rapido declino di Cracovia
che arrivò nel 1800 a soli diecimila abitanti. Solo dopo il 1815
divenne città libera, capoluogo di provincia e riprese rapidamente il posto dovutole.
I secoli XVII e XVIII segnarono un periodo oscuro per la
Polonia a causa della mala amministrazione esercitata da una
classe nobile accentratrice, esclusivista e corrotta.
Nel 1655 essa fu sottomessa (guerra dei trent’anni) da Carlo Gustavo di Svezia che la unì alla Svezia.
La ribellione dei contadini e la difesa del Monastero di
Częstochowa contribuì a sollevare il popolo e il territorio fu liberato dagli invasori. Fu proprio in occasione dell’assedio svedese al Santuario di Jasnagóra che la famosa Madonna Nera assunse importanza centrale nella coscienza nazionale polacca.
II male della Polonia però era la dissoluzione interna della repubblica nobiliare. La Dieta non riusciva a governare per
l’ambizione dei principi e per la debolezza del re. Eccezione fa
re Sobiecki (1674-1696) che, con trecentomila uomini, aiutò
Vienna (1683) assediata dal turco Qara Mustafa e sconfisse le
truppe ottomane. Nel ’700 la Polonia fu uno stato semindipendente, in decadenza culturale e artistica, sempre a causa della
intransigente nobiltà che non volle accettare un governo forte.
La Polonia è anche la patria del mondo slavo. Da qui si
espanse l’etnia e l’idioma slavo. Slavi sono i popoli russi, polacchi, serbocroati, sloveni, ucraini. Furono per la prima volta
assoggettati dai franchi nel VIII secolo ed evangelizzati nel X
secolo da missionari aquileiesi e salisburghesi i polacchi, cechi,
croati e sloveni e da Costantinopoli i russi e i serbi bulgari. Si è
creata così una profonda scissione nel mondo slavo.
Nel 1794 Cracovia fu, per breve tempo, occupata dai prussiani poi passò sotto l’influenza austriaca e fu città libera solo
dopo il trattato di Vienna (1815). Nel 1846 divenne capoluogo
di un piccolo stato, embrione della futura Polonia che si realizzò
dopo la seconda guerra mondiale.
Cracovia fu occupata dai tedeschi il 6 dicembre 1939 e divenne capitale dei territori polacchi occupati. L’occupazione fu
tragica, furono deportati cinquantacinquemila ebrei. La cultura
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polacca con l’Università Jagellonica e l’Accademia delle Scienze
fu decapitata e sostituita dalla cultura tedesca dei territori orientali. Centottantasei docenti universitari furono deportati nei campi di concentramento di Sachsenhausen e di questi 28 persero
la vita. Anche la biblioteca subì numerose perdite, molte opere
d’arte furono portate in Germania, poi a fine guerra furono restituite.
Nel 1950 la Polonia subì forti cambiamenti, vasti territori
furono ceduti all’URSS e il resto passò sotto il controllo russo.
Gomułka fu destituito ed esonerato dalla carica di segretario del partito comunista perché troppo liberal-socialista, troppo moderato. A lui seguì Rokossowskij che portò avanti riforme
nell’industria e negli armamenti.
Furono nazionalizzati gli istituti di assistenza e la “Caritas”.
Gli ordini religiosi furono soggetti a controlli. Nel 1950 un concordato con il Primate Wyszyński conseguì un “modus vivendi”
con il clero e nel 1953 con la morte di Stalin si notò un ammorbidamento nei rapporti stato-chiesa.
Gli scioperi di Poznań (1956), a cui aderirono anche gli intellettuali, aprirono la strada ad altri fermenti, si avanzarono nuove
richieste: di passaggio di proprietà di stato a proprietà sociali,
di partecipazione degli utili nelle fabbriche, ecc.
Al potere fu chiamato nuovamente Wł. Gomułka (con primo
ministro Cyrankiewicz) e l’atmosfera cambiò. Fu data maggior
libertà alla Chiesa, nelle fabbriche si formarono i consigli operai
e si entrò in piena espansione.
Gomułka creò cooperative agricole che si autofinanziavano,
lasciò libertà di pensiero. Iniziò un periodo nuovo per molti giovani scrittori e per le avanguardie nel campo dell’arte.
L’architettura sviluppò il modernismo nazionale, eclettico
e stilizzato. L’industria si sviluppò a grandi passi. Nel 1976 a
Gomułka successe Gierek e nel 1981 il potere passò a un consiglio di stato presieduto dal generale W.Jaruzelski. Nel 1989
si svolsero le prime libere elezioni concordate con il sindacato
“Solidarność” e con esse si avviò un graduale processo di liberalizzazione dell’economia, sulla base del piano preparato dal
ministro delle finanze Leszek Balcerowicz sostenuto dal fondo
internazionale monetario. Iniziò così la rinascita dell’economia
di mercato pur con grandi difficoltà politico-sociali.
Solo nel 1994 si notarono i primi buoni risultati.
Ora il potere legislativo nella nuova Repubblica Polacca è
esercitato da una Dieta e da un Senato rinnovati ogni quattro
anni. Ogni cinque viene eletto il Capo dello Stato, il quale affida
al Primo Ministro l’incarico della formazione del Governo.
21
La popolazione della Polonia ora è di quarantamilioni, di cui
il 60% sono impiegati nell’industria, il 15% nell’agricoltura (piccole unità familiari), l’ll% nell’edilizia e il 14% nel commercio e
nel terziario. La moneta corrente è lo Zloty.
Monumenti
Le costruzioni architettoniche, i monumenti, il castello reale,
le belle chiese rendono la città veramente interessante.
La cattedrale di S. Vinceslao e S. Stanislao (Katedralny) è il
maggiore monumento di Cracovia, è la maggiore chiesa gotica
della Polonia, sede dell’incoronazione di tutti i re polacchi. Nella
cripta si conservano le tombe dei regnanti e dei personaggi più
famosi della nazione. I sepolcri sono veri capolavori di scultura.
La chiesa di S. Maria (Mariacki), imponente basilica gotica,
è del 1355-1408, la torre di sinistra è alta 81 m. L’interno conserva i famosi Crocefissi e il dossale Mariano, uno dei più grandi altari gotici esistenti, scolpiti dal norimberghese Veit Stoss.
Il Castello reale, fatto costruire nel XIV secolo da Casimiro il
Grande è stato rinnovato in stile rinascimentale da Sigismondo
I, trasformato nel 1846 in caserma e poi in ospedale, fu riscattato nel 1906 dalla Dieta e riportato all’antico splendore.
Il mercato centrale (Rynek Glówny), nel cuore della città, si
trova, in una delle piazze medioevali più grandi d’Europa. Gli
edifici che lo circondano hanno rilievo artistico e storico. La
cosiddetta casa Veneziana porta ancora sulla facciata il Leone
di S. Marco e ricorda i commerci della Repubblica Marinara.
Meritano di essere visitate la chiesa dei francescani (Franciszk)
risalente al XIII secolo con vetri dipinti dal celebre Stanislao Wyspianski, quella del Corpus Domini con stalli intarsiati, la chiesa
greco-cattolica, la sinagoga. Famosi sono i giardini “Planty”
collocati sul posto delle demolite mura della fortezza medioevale e la cui lunghezza è di oltre 3 Km. Piazza S. Floreano, Piazza
Matejko, il monumento che ricorda la vittoria dei polacchi presso Grunwald. L’antica Università Jagellonica (Collegius Maius)
in stile gotico, uno dei pochi edifici univeristari rimasti intatti in
Europa. L’Accademia di Scienze e lettere fondata nel 1873.
Vi sono a Cracovia scuole superiori: l’Accademia Mineraria, quella del Commercio e quella di Pedagogia. Primeggia il
Museo Nazionale di arte polacca e il Museo dei Principi Czartoryski, fondato nel ’700 con opere d’arte straniere, tra cui il
ritratto di Cecilia Gallerani (la donna dell’ermellino) attribuito a
Leonardo Da Vinci e un ritratto di giovane, attribuito a Raffaello
o ad un suo discepolo.
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Il primo linguaggio umanistico
Casimiro III, detto il Grande (1333-1370), fondò l’Università
di Cracovia nel 1364.
Di lui si disse che trovò la Polonia in legno é la lasciò in
muratura. Volle che l’Università di Cracovia diventasse il centro di cultura polacca, strutturata su modello di quelle italiane
divenne la seconda dell’Europa centrale. Vi studiò Copernico,
insegnò l’umanista Celtis Konrad e molti altri.
L’Università rimase sempre fedele al cattolicesimo e avversò la riforma. Il contatto con la chiesa di Roma, favorì il movimento delle idee e i rapporti culturali con le varie Università italiane. Il ruolo del cattolicesimo fu grandissimo in tutta la cultura
polacca. Basta ricordare la funzione del latino, lingua ufficiale
della chiesa, che fu l’unica lingua ad essere insegnata fino alla
metà del XVIII secolo in tutte le scuole polacche dalle elementari all’università. I polacchi colti erano immersi nell’atmosfera
spirituale della letteratura latina.
Filippo Buonacorsi fu uno dei maggiori “magister scolae”
del suo tempo. Nato a S. Giminiano nel 1437 da nobile famiglia,
fu tra i fondatori dell’Accademia Romana assieme a Pomponio
Leto prendendo il nome di Gallimaco.
A seguito di una congiura contro Papa Paolo II si rifugiò in
Polonia, ove protetto da Gregorio Sanoki, arcivescovo di Leopoli, fu nominato precettore dei figli di Casimiro IV e poi divenne
segretario e ascoltato consigliere del re. Fu delegato a Costantinopoli (1475), a Roma, a Venezia, tenne i contatti e amichevoli
relazioni per conto del re con tutte le case regnanti. Morì nel
1496 e fu sepolto nella chiesa della SS. Trinità dei Domenicani
di Cracovia.
Il suo monumento sepolcrale fu modellato da Stoss e fuso
da Pietro Visscher. Lasciò diverse opere storiche, epistole, poesie che dimostrano l’alto ingegno e la fine cultura umanistica.
Stoss Veit (Stwosz Wit) scultore, pittore e incisore, nato a
Norimberga nel 1447 e morto nel 1533. Lavorò, con brevi interruzioni, dal 1477 al 1496 a scolpire l’altare maggiore in legno
di tiglio della Chiesa di S. Maria. Forse il secondo altare più
importante esistente al mondo scolpito alla maniera gotica. La
monumentalità plastica delle figure (2.50 m di altezza) danno un
senso d’imponenza e maestosità.
Nìcolò Copernico astronomo polacco nacque a Toruń (Pomerania) nel 1473 e morì nel 1543. Il padre era nativo di Cracovia e la madre di Toruń. Orfano a 12 anni completò i suoi studi a
Cracovia sotto la tutela dello zio Vescovo di Varmia.
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Perfezionò gli studi a Bologna, Roma, Padova, Ferrara e rimase in Italia otto anni grazie alla rendita conferitagli dallo zio con
il canonicato di Frauenburg. Conseguì a Ferrara la laurea in giurisprudenza, poi studiò medicina, matematica, lettere e nel 1504
rientrò in Polonia per non muoversi più dal Frauenburg. Scrisse
“De Revolutionibus” osservazioni sulle posizioni degli astri, “De
hipothesibus motuum coelestium a se constitutis commentariolus” (1507), stampato poi a Norimberga nel 1543 con la collaborazione del suo discepolo Giorgio Gioachino Retico.
Celtis Conrad (Conrad Pickel) umanista tedesco, poeta latino, (n. 1459, m. 1508), studiò a Colonia, nel 1486 a Roma
presso l’accademia Romana fondata da Pomponio Leto e incoronato poeta a Norimbergo nel 1487. A Cracovia fondò la
“Sodalitas litteraria Vistulana” e poi si ritirò a Vienna dedicandosi all’insegnamento. Divenne uno degli interpreti dello spirito di quei tempi e migliorò i metodi di studio nelle Università
tedesche.
Il Rinascimento italiano a Cracovia
Il rinascimento italiano arrivò in Polonia all’inizio del ’500
con l’architetto fiorentino Francesco Lori (morto nel 1516) che
abbellì il cortile del castello reale sul Wawel.
Bartolomeo Berrecci architetto scultore, nato presso Vallombrosa in Val di Sieve, chiamato in Polonia da Sigismondo I
dopo la morte dell’architetto Lori per costruire nella cattedrale
di Cracovia la cappella di S. Sigismondo, completata nel 1530,
ornata da intagli in pietra dal Senese Giovanni Cini e considerata uno dei capolavori della rinascenza fiorentina all’estero. Nell’interno della cupola è scritto “Bartholomeo Fiorentino opifìce”.
Tra il 1522 e il 1537 completò il palazzo reale, poi ripristinato
dopo un violento incendio. Dal 1524 al 1530 lavorò anche nella
cappella sepolcrale del Vescovo Tomicki. Nella cattedrale gli si
attribuiscono l’oratorio di S. Maria, la tomba di Barbara Tarnowka (1521).
Bartolomeo si sposò due volte a Cracovia, ebbe figli, morì
nel 1537 ucciso da un connazionale e fu sepolto a Kazimirz.
Giovanni Cini scultore senese attivo a Cracovia nel XVI secolo, ove morì nel 1565. Chiamato da Sigismondo a lavorare a
fianco di Francesco Lori.
L’opera sua principale è la decorazione della cappella di re
Sigismondo. A lui sono state assegnate le statue dei SS. Pietro,
Sigismondo, Matteo, Giovanni Battista, Venceslao e i medaglioni con la Madonna, il Bambino, busti di re, profeti, ecc.,
nonché diversi monumenti sepolcrari in altre chiese polacche.
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Gian Maria Mosca da Padova scultore, medaglista ornò gli
attici dei palazzi, diverse chiese e il palazzo dei Drappieri.
Gian Maria Bernardoni, architetto, gesuita, nato a Corno
morì nel 1605 a Cracovia, costruì la bella chiesa dei SS. Pietro
e Paolo pregevole monumento barocco ispirato alla chiesa del
Gesù (Roma) del Vignola.
Sul finire del secolo XVI si notano Girolamo Canavesi da
Lugano, Sante Gucci da Siena, Jacomo Caraglio da Verona,
incisore, artista di gemme, cammei e medaglie.
All’inzio del XVII in pieno periodo barocco continuano ad
essere richieste maestranze italiane: Andrea Pezza, lo stuccatore Bartolomeo Ridolfi da Verona, gli scultori e costruttori Aretelli (o Aretino) luganesi, Andrea e Antonio Castelli luganesi.
Chiese barocche furono costruite da Francesco Solari e
decorate da Francesco Baldassare Fontana.
Il pittore veneziano Tommaso Dolabella (1598-1650) assieme ai sopradescritti architetti determinarono l’evoluzione del
gusto durante tutto il XVI e XVII secolo.
L’Illustre figlio di Cracovia Karol Wojtyła
Karol Jósef Wojtyla nacque il 18.05.1920 a Wadowice, figlio di un ufficiale polacco rimase orfano di madre a 9 anni.
Completato il ginnasio, si iscrisse nel 1938 alla facoltà di filologia, presso l’Università Jagellonica di Cracovia. L’invasione
tedesca del 1939, seguita all’influenza sovietica, ritardarono la
ricerca della propria identità. I sentimenti patriottici sono stati
sempre profondi nel giovane Karol, era sempre pronto a difendere le tradizioni e tutte le forme di cultura polacca, prima
contro i nazisti e poi contro i comunisti, era sensibile alla libertà
religiosa e ai rapporti tra politica e morale.
Nel 1940 Karol trova lavoro come operaio, nel 1941 gli muore il padre e nel 1942 entra nel seminario di Cracovia. Nel 1946
è ordinato sacerdote e passa a Roma nell’Augelicum Pontificio
Collegio Belga. Nel 1947 è in Francia, si confronta con i testi di
J. Maritain e di E. Mounier sui rapporti tra individuo e morale,
sulla libertà di agire, sulla consapevolezza dei propri limiti, sull’aspirazione a raggiungere la verità. A Parigi consegue il dottorato sulla dottrina di S. Giovanni della Croce. Nel 1948 ritorna in
Polonia e si laurea in teologia svolgendo contemporaneamente
le funzioni di viceparroco a Niegowiè e poi a Cracovia.
Sono gli anni duri del regime stalinista (1948-1950), vengono arrestati il cardinale primate S. Wyszynski e l’arcivescovo di
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Cracovia E. Bazia e l’Università Jagellonica viene chiusa. Dopo
il ’50 i rapporti con la chiesa si ammorbidiranno, per migliorare
nel 1953 con la morte di Stalin.
Wojtyła nel 1958 viene nominato da Pio XII Vescovo ausiliare di Cracovia e nel 1962 partecipa al concilio Vaticano II come
rappresentante della Chiesa Polacca. Nel 1963 è nominato arcivescovo di Cracovia e nel 1967 Cardinale.
Nel conclave del 16 ottobre 1978 dopo l’ottava votazione
viene nominato Papa con i voti dei cardinali tedeschi su proposta del cardinale di Vienna F. Konig. Assunse il nome di Giovanni Paolo II.
Il 15 marzo 1979 la prima enciclica “Redemptor hominus”,
con essa espone il suo programma, le sue riflessioni, richiama
tutti all’esempio di Cristo e su l’universalismo della chiesa. Invita tutti al rispetto dei diritti umani, alla libertà di religione, predica la distensione verso l’Unione Sovietica, la comunicazione ed
il dialogo con il mondo intero. Infine appoggia tutti i movimenti
che si battono per la libertà e per i diritti umani.
Per la Polonia lavorò molto nel cercare una situazione di democrazia, di convivenza civile, di vedere ripristinati i diritti della
chiesa. Diede sostegno a Solidarność (confederazione dei sindacati), appoggia la rivendicazione operaia e nel 1980 inviò una
lettera a Brežnev in difesa della sovranità polacca, minacciata
dalle truppe del Patto di Varsavia, ricordando che un atto simile era paragonabile all’invasione nazista del 1939. Nel maggio
1981 l’attentato a Roma in piazza S. Pietro.
Il Pontificato di Giovanni Paolo II è caratterizzato dalla devozione per la Madonna. L’enciclica “Redemptoris Mater” è del
1887. La Vergine per Giovanni Paolo II è il primo discepolo di
Cristo perché accettò il messaggio dell’Arcangelo Gabriele.
Ergo la chiesa Mariana precede la chiesa Petrina “Maria è madre della chiesa”.
Con la lettera “Tertio millennio adveniente” (1994) ha indicato la volontà della sua chiesa che è quella di confrontarsi con
il mondo contemporaneo, lanciando il messaggio di pace e di
perdono del Vangelo. Lui auspica una chiesa universale con il
ruolo centrale nella morale e nella fede del popolo, superare le
divisioni, riconoscere gli errori commessi dalla chiesa contro gli
ebrei. È contro le deviazioni del Vangelo, contro l’intolleranza,
contro i dissidi e con i diritti dei popoli.
Richiama tutti al rispetto delle culture e delle altre religioni.
Carità, umanità e universalismo, “non si può escludere Cristo
dalla storia dell’uomo in tutto il mondo” sono i suoi temi preferiti
e ripetuti in continuazione.
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Significativo è il suo impegno con le chiese protestanti, gli
accordi firmati nel 1999 con la chiesa anglicana, il confronto
con la chiesa ortodossa segnano un grande passo.
Un grande impegno di Giovanni Paolo II è quello di contrapporsi alla giusta guerra, è contrario anche al fine di realizzare la giustizia. La via da seguire è l’arbitrato e la mediazione
politica.
Si è fatto difensore dei poveri di fronte ai governanti, facendo presente la necessità di aiutare i più deboli mediante
la cancellazione del debito dei paesi più poveri. Ha denunciato l’egoismo e la sopraffazione, tra i pericoli di un capitalismo
senza regole e quella del socialismo reale, entrambi i sistemi
attentano alla dignità dell’uomo.
L’imprenditore deve creare maggiore occupazione e uno
sviluppo meno diseguale. È drammatico il difetto del mondo
occidentale ove di fronte a grandi ricchezze di pochi, sono
grandi masse di indigenti. Nel lavoro deve essere posto anche
per i più deboli, i memo dotati e gli importatori di handicap.
Giovanni Paolo II si è opposto al comunismo per la limitazione alla libertà determinando oppressione e miseria. Il fallimento
del comunismo non autorizza il capitalismo ad imporre modelli
senza regole che aiutino i deboli. Il libero mercato senza regole
non genera crescita e non crea sviluppo democratico.
Bibliografia
K. Bakowski, Dzieje Krakowa (Storia di Cracovia), Cracovia 1911.
Krakow, Jego kultura sztuka (Cracovia, Cultura e arte, 1904).
S. Ciampi, Notizie di medici, pittori italiani in Polonia, Lucca 1930.
Thieme-Becker, Knstler-Lexikon, III, Lipsia 1909.
Enciclopedia italiana Treccani, Vol. II, p. 770, Vol. 6, p. 692, Vol. II, p. 720,
Vol. III, p. 447, Vol. IV, p. l7, Vol. VI, p. 434.
D. Tosi e V. Vitello, Vecchia e nuova pianificazione in Polonia, Milano 1952.
B. Malisz, Problematica della pianificazione di un territorio nazionale, Firenze
1978.
D. Dominotto e G. Salvini, La Polonia del socialismo al regime democratico
di mercato, Milano 1995.
Enciclopedia dei Papi, Treccani, Roma 2000, p. 681 e seguenti. Insegnamenti di Giovanni.
Paolo II (omelie, discorsi, lettere ecc), sito della Sante Sede www.vatican.va.
27
LUIGI LUCHINI
Prezes EFASCE
Pordenone
Architektura między stylem
gotyckim a renesansowym
Spis treści:
1.
1.1
2.
2.1
3.
Kraków w historii
Zabytki
Pierwszy język humanistyczny
Włoski Renesans w Krakowie
Sławny syn Krakowa, Karol Wojtyła.
Kraków w historii
Cracovia (wł.), Kraków (pol.), Krakau (niem.) położony
na brzegach rzeki Wisły to czwarte miasto Polski z 750.000
miszkańców. Jest częścią okręgu przemysłowego na Śląsku,
gdzie znajdują się ważne kopalnie soli i ołowiu. Z miastem jest
dobre połączenie koleją, rozbudowanymi drogami a także lotniskiem. W przeszłości miasto było jedną z najważniejszych
twierdz w Europie. Historia miasta jest związana wydarzeniami
dotyczącymi Polski.
Pierwsze wzmienki o Krakowie pochodzą z X wieku, ok.
1000 roku stał się siedzibą biskupią. Do 1200 r. Polska była
bezustannie obiektem sporów między różnymi książętami
i dotyczyło to również Krakowa. W r. 1241 miasto zostało
prawie całkiem zniszczone przez Tatarów a następnie stało się
kolonią niemiecką. Władysław Łokietek i Kazimierz Wielki sprzyjali rozwojowi miasta. W r. 1300 dzięki zaślubinom księżniczki
Jadwigi z wielkim księciem litewskim Jagiełłom (1385) Polska
polepszzła swoją pozycję. Mieszczaństwo, przede wszystkim
niemieckie, mieszało się z polskim. Przyjazd królowej Bony,
córki księcia z Mediolanu, żony Zygmunta I (1518-1548) i matki
Zygmunta III był początkiem emigracji włoskiej, która w krótce
przewyższała wplyw niemiecki. Z Włoch przybyło wielu artystów, którzy przyjeli polskie obywatelstwo i wyróżnili się w sztuce i ogólnie w działalności intelektualnej.
29
W XVI wieku Kraków osiągnął szczyt w kultury, miał ponad sto tysięcy mieszkańców i jako stolica Polski, był jedynym
wyjątkiem w Europie podczas wojen religijnych, deklarując
tolerancję religijną w roku 1573. Polska Jagiellońska Kazimierza IV przyjeła wygnanych z Hiszpanii Żydów, którzy przyczynili
się do rozwoju kraju.
W drugiej połowie XVI w. po przeniesieniu stolicy do Warszawy, Kraków zaczął szybko podupadać. W r. 1800 liczył
tylko 10.000 mieszkańców. Dopiero w 1815 roku stał się wolnym miastem, głównym miastem okręgu, szybko odzyskując
zasłużone miejsce.
W XVII i XVIII w. Polska przechodziła ciężki okres z powodu źle prowadzonej administracji przez elitarną, przekupioną i
trzymającą władzę szlachtę.
W 1655 roku Polska została zdobyta (wojna 30-letnia) przez
Karola Gustawa Szweda, który dołączył ją do Szwecji.
Bunt chłopów i obrona Klasztoru w Częstochowie, przynili
się do powstania narodu, który doprowadził do oswobodzenia
Kraju. Po najeździe szwedzkim na Klasztor Jasnogórski, Czarna
Madonna stała się ważnym elementem w polskiej świadomości
narodowej.
Prawdziwym złem dla Polski był wewnętrzny rozpad szalcheckiej republiki. Sejm nie był w stanie rządzić z powodu ambicji książąt i słabości króla. Wyjątkiem był król Sobieski (16741696), który przy pomocy 300.000 ludzi odparł pod Wiedniem
(1683) atak turecki Qara Mustafa i zwyciężył oddziały tureckie.
W ’700 Polska była państwem prawie wolnym, przeżzwający
artystyczny i kulturalny schyłek, ciągle z powodu skłuconej szlachty, która nie chciała przyjąć silniejszego rządu.
Polska to także ojczyzna słowiańskiego świata. Stąd
rozpowrzechniła się grupa etniczna i język słowiański. Słowianie
to naród rosyjski, polski, serbski, chorwacki, słoweński i ukraiński.
Pierwszymi którzy zdobyli panowanie nad p. Słowianami byli w
VIII wieku Frankowie. W X w. narody polski, czeski, chorwacki,
słoweński zostaly nawrócone przez misjonarzy z Akwilei i z Salisburga a narody rosjyski, serbski i bułgarski przez misjonarzy z Konstantynopola. W ten sposób doszło do poddzału w
słowiańskim świecie.
W 1794 r. Kraków przez krótki okres był pod
zabskłuconejorem pruskim a następnie pod austriackim a
po Traktacie Wiedeńskim (1815) stał się wolnym miastem. W
1846 r. został głównym miastem małego państwa: embrionem
przyszłej Polski, która powstała po drugej wojnie światowej.
Kraków został zejęty przez Niemców 6 grudnia 1939 r.
30
i stał się stolicą ziem polskich pod zaborem. Okupacja miała
tragiczne skutki, wywieziono 55 tysięcy Żydów. Polska kultura
wraz z Uniwersytetem Jagiellońskim i Akademią Nauk została
zastąpiona wschodnią kulturą niemiecką. 186 nauczycieli uniwersyteckich zostało wywiezionych do obozów koncentracyjnych w Sachsenhausen, 28 z nich straciło życie. Także
biblioteka poniosła duże straty, wiele dzieł sztuki wywieziono do
Niemiec, po zakończeniu wojny wrociły spowrotem do kraju.
W 1950 r. Polska przeszła wielkie zmiany, obszerne terytoria
zostały oddane ZSRR e reszta przeszła pod nadzór rosyjski.
Gomułka został usunięty ze stanowiska Sekretarza Partii
Komunistycznej, oskarżony o pogłóndy liberalno-socjalistyczne
i o realizację zbyt umiarkowanej polityki. Po nim nastąpił Rokossowski, który prowadził dalsze reformy w zakresje przemysłu i
zbrojeń.
Instytuty socjalnej pomocy i instytucja „Caritas” zostały
uspołecznione. Zakon został poddany kontroli. W 1950 r. układ
Prymasa Wyszyńskiego pozwolił na „modus vivendi” zakonu
a w 1953 r. po śmierci Stalina związki między Kościołem a
państwem znacznie się poprawiły.
Strajki w Poznaniu (1956), w których brali udział
intelektualiści, otworzyły drogę przyszłym buntom, formulując
coraz to nowe żądania: zamiany własności państwowych na
prywatne, udziału w zyskach fabrycznych, itp.
Wł. Gomułka został znów powołany do rządu ( z Cyrankiewiczem jako pierwszym ministrem) i nastrój znacznie się zmienił.
Kościół otrzymał więcej wolności, w fabrykach zebrały się rady
robotnicze i rozpoczęły się całkowite zmiany.
Gomułka zorganizował samofinansowe spółdzielnie rolnicze, tolerując wolność myśli. Rozpoczął się nowy okres dla
młodych pisarzy oraz dla awangardy artystycznej.
Architektura rozwineła narodowy modernizm stylistyczny i
ekletyczny. Przemysł rozwijał się wielkimi krokami. W 1976 r.
Gierek zastąpił Gomułkę a 1981 r. władza przeszła w ręce rady,
prowadzonej przez generała Jaruzelskiego. W 1989 r. odbyły
się pierwsze wolne wybory ustalone ze związkiem „Solidarność”
i tak rozpoczął się stopniowy proces liberalizacji ekonomicznej
na podstawie planu przygotowanego przez ministra finansów
Leszka Balcerowicza, podtrzymywany przez międzynardowe
fundusze. Choć z dużymi trudnościami polityczno- ekonomicznymi zaczęło się odrodzenie ekonomiczne.
Dopiero w 1994 r. można było dostrzec pierwsze pozytywne efekty.
Teraz władza ustawodawcza nowej Republiki Polskiej jest
31
powierzona organom Sejmu i Senatu, odnawianych co cztery
lata. Co pięć lat natomiast zostaje wybierany Prezydent, który
powierza Pierwszemu Ministrowi formację rządu.
Polska ma ok. czterdzieści milionów mieszkańców, z których
60% jest zatrudniona w przemyśle, 15% w rolnictwie, (małe jednostki rodzinne), 11% w budownictwie a 14% w handlu i sektorze usługowym. Polską walutą jest złotówka.
Zabytki
Konstrukcje architektoniczne, pominiki, zamek królewski,
piękne Kościoły czynią Kraków interesującym miastem.
Katedra Św. Stanisława to największy budynek w Krakowie,
największy Kościół gotycki w Polsce, mięsce koronacji wszystkich polskich królów. W krypcie przechowywane są groby
królewskie i ważnych dla państwa osobistości. Groby są
prawdziwymi rzeźbiarskimi dziełami.
Kościół Mariacki to okazała bazylika w stylu gotyckim wybudowana w latach 1355-1408, lewa wieża ma 81 m wysokości.
Wewnątrz znajdują się słynne Krzyże i Ołtarz Mariacki, jeden z
największych isteniejących oltarzy gotyckich, wyrzeźbiony przez norymberskiego rzeźbiarza Wita Stwosza.
Zamek Królewski, wybudowany w XIV w. na zlecenie Kaziemierza Wielkiego został odnowiony w stylu renesansowym na
zlecenie Zygmunta I, w 1846 został przystosowany do użytku
wojskowego a także i szpitalnego, w 1906 odkupiony, został
przywrócony do pierwotnej piękności.
Rynek Główny, znajduję się w centrum miasta. Położony
jest na jednym z największych średniowiecznych placów w
Europie. Budynki, które go otaczają mają znaczenie artystyczno-historyczną. Na fasadzie tak zwanego Domu Weneckiego,
Lew Św. Marka przypomina czasy handlu z Republiką Morską.
Na wizytę zasługują także Kościół Franciszkański z XII w. z oknami malowanymi przez Stanisława Wyspiańskiego, Kościół
Bożego Ciała, Kościół grecko-katolicki, synagoga. Sławne też
są ogrody „Planty”, położone na miejscu zburzonych wałów
średniowiecznej twierdzy, które osiągały trzy kilometry długości,
Plac Św. Floriana, Plac Matejki, pomnik na cześć zwycięstwa
polskiego pod Grunwaldem. Stary gmach Uniwersytetu
Jagielońskiego (Collegius Maius) w gotyckim stylu, jest jednym
z nielicznych zachowanych w załości budynków uniwersyteckich w Europie. Akademia Nauk została założona w 1873 r.
W Krakowie znajdują się wyższe szkoły: Akademie Górniczo-Hutnicza, Handlowa, Pedagogiczna. Należy również
nadmienić o istniącym Muzeum Narodowym. i Muzeum książąt
32
Czartoryskich, utworzonym w 1700 r. W jego zbiorach znajdują
się również dzieła stuki pochodzące z zagranicy, między innymi portret Cecylii Gallerani (dama z gronostajem) przypisywany
Leonardowi Da Vinci oraz portret młodzieńca przypisywany
Raffaellowi lub jego uczniowi.
Pierwszy język humanistyczny
Kazimierz III, zwany Wielkim (1333-1370) założył Akademiją
Krakowską w 1364 r.
Mówi się o nim, iż zastał Polskę drewnianą a zostawił
murowaną. Pragnął aby Akademia Krakowska została centrum kultury polskiej. Zorganizowany na wzór włoskich uczelni
stała się drugą pod względem znaczenia w Europie Środkowej.
Studiował tam Kopernik, nauczał humanista Konrad Celtis i
wielu innyvh uczonych.
Uniwersytet zawsze pozostał wierny katolicyzmowi, idąc
wbrew reformie, dbając o relacje z kościołem rzymskim sprzyjał
wymianie myśli i stosunków kulturalnych z uniwerstytetami
włoskimi. Katolicyzm odegrał w Polsce bardzo ważną rolę. Wystarczy przypomnieć, że Kościół używał łaciny, jedynego języka
nauczanego do połowy XVIII w. we wszystkich szkołach polskich, od uczelni po szkoły średnie. Polscy uczeni byli otoczeni
duchową atmosferą łacińskiej literatury.
Filippo Buonaccorsi był jednym z największych „magister
scolae”. urodził się on w San Gimignano, w Toskanii, w 1437
r. w rodzinie szlacheckiej. Był jednym z założycieli Akademii
Rzymskiej wraz z Pomponiem Leto.
Na skutek spisku przeciwko papieżowi Pawłowi II, schronił się
w Polsce, gdzie był goszczony przez Grzegorza, lwowskiego arcybiskupa. Został nominowany wychowawcą dzieci Kazimierza
IV z czasem został sekretarzem i doradcą króla. Został wysłany
do Konstantynopola (1475), Rzymu oraz Wenecji, utrzymywał
w imieniu króla związki i kontakty z wszystkimi panującymi.
Zmarł w 1496 r., został pochowany wdomenikańskim Kościele
Św. Trójcy w Krakowie.
Jego nagrobek został zaprojektowany przez Stwosza a
odlany przez Piotra Visschera. Wiele pozostawionych dzieł historycznych, listów i poezji świadczą o jego zdolnościach i kulturze humanistycznej.
Wit Stwosz rzeźbiarz, malarz, rytownik, urodzony w Norymberdze w 1477 r. zmarł w 1533 r. Od 1477 r. do 1496 r. rzeźbił
z krótkim przerwami, główny ołtarz z lipowego drewna w
33
Kościele Mariackim. Prawdopodobnie jest to drugi ze względu
na znaczenie ołtarz w Europie w stylu gotyckim. Plastyczna
monumentalność postaci (2.50 m) nadaje całości imponującą
majestatyczność.
Mikołaj Kopernik, polski astronom, urodził się w Toruniu
w 1473 r. i zmarł 1543 r. Ojciec pochodził z Krakowa a matka z Torunia. Został sierotą w wieku 12 lat i skończył naukę w
Krakowie pod opieką wujka, Biskupa warmieńskiego.
Doskonalił swoją wiedzę w Bolonii, Padwie i w Ferrarze.
Pozostał we Włoszech osiem lat dzięki finansowej pomocy
wujka. Skończył studia prawne w Ferrarze, studiował także
medycynę, matematykę, literaturę i w 1504 roku wrócił do
Polski pozostając na zawsze w Frauenburgu. Napisał „De Revolunionibus” badania na temat położenia ciał niebieskich, „De
hipothesibus motuum coelestium e se constitutis commentariolus” (1507), wydrukowany w Norymberdze w 1543 r. dzięki
współpracy swojego ucznia Giorgia Gioacchina Retico.
Conrad Celtis (Conrad Pickel), niemiecki humanista, poeta łaciński ( ur. 1459 r. zm. 1508 r. ) studiował w Kolonii a w
1486 r w Rzymie w Akademii Rzymskiej założonej przez Pomponia Leto, mianowany poetą w Norymberdze w 1487 r. W
Krakowie założył „Sodalitas litteraria Vistulana”, w późniejszych
czasach powrócił do Wiednia, gdzie poświęcił się nauczaniu.
Odzwierciedlał ducha tamtych czasów i udoskonalał metody
nauczania w niemieckich uczelniach.
Włoski renesans w Krakowie
Włoski renesans przybył do Polski na początku XVI wieku
wraz z florenckim architektem Francesco Lorim (zm. 1516 r.),
który udekorował dziedziniec Zamku Królewskiego na Wawelu.
Bartolomeo Berrecci architekt, rzeźbiarz, urodził się koło
Vallombrosy w Val di Sieve. Po śmierci Lorego, został wezwany
do Polski przez Zygmunta I, aby zbudować w krakowskiej
Kkatedrze kaplicę Św. Zygmunta, która została ukończona w
1530 r. i udokerowana kamiennymi intagliami przez seneskiego Giovanniego Ciniego, jest to dzieło florenckiej architektury
renesansowej powstałej poza Włochami. Wewnątrz kopuły jest
napis „Bartholomeo Fiorentino opifice”. Między 1524 r. a 1530
r. ukończył Zamek Królewski odbudowany po ciężkim pożarze.
Od 1524 r. do 1530 r. pracował także przy kaplicy nagrobowej
Biskupa Tomickiego. Także autorstwo znajdujących się w Katedrze oratorium Św. Maryji oraz grób Barbary Tarnówkiej (1521)
są mu przypisywane.
Bartolomeo ożenił się dwukrotnie w Krakowie, miał potom34
stwo, zginął zamordowany w 1537 r. przez swojego rodaka w
Krakowie. Został pochowany na krakowskim Kazimierzu.
Giovanni Cini, seneski rzeźbiarz, pracujący w Krakowie w
XVI w., gdzie zmarł w 1565 r. Został wezwany przez Zygmunta
do pracy u boku Francesco Lorego.
Jego głównym dziełem jest dekoracja kaplicy króla Zygmunta. Jemu zostały przypisane również postacie Św. Piotra,
Zygmunta, Mateusza, Jana Chrzciciela, Wiesława oraz medaliony z Matką Boską i Dzieciątkiem, popiersia króli, proroków,
itp., a także różne nagrobki w innych Kościołach polskich.
Gian Maria Mosca z Padwy, rzeźbiarz, medalier ozdobił aktyki wielu palaców i kościołów.
Gian Maria Bernardoni, architekt, jezuita, urodził się w Corno i zmarł w 1605 r. w Krakowie. Wybudował piękny Kościół
Św. Piotra i Pawła, piękny budynek w stylu barokowym na wzór
włoskiego Kościoła Chrystusa projektu architekta Vignoli w
Rzymie.
Pod koniec XVI w. zwracają na siebie uwagę Girolamo Canavesi z Lugano, Sante Gucci ze Sieny, Jacomo Caraglio z Werony, rytownik, modelator kamei, kamieni oraz medalionów.
Na początku XVII w. w pełnym rozkwicie baroku włoscy
artyści poszukiwani są bezustannie: Andrea Pezza, sztukator
Bartolomeo Ridolfi z Werony, rzeźbiarze i konsruktorzy Aretelli i
Andrea z Antonio Catelli z Lugano.
Kościoły barokowe zostały wybudowane przez Francesca
Solariego i udekorowane przez Francesca Baldassara Fontanego.
Wenecki malarz Tommaso Dolabell (1598-1650) wraz z
wyżej wymienionymi architektami przyczynili się do ewolucji gustu podczas XVI i XVII w.
Sławny syn Krakowa, Karol Wojtyła
Karol Józef Wojtyła urodził się 15.05.1920 w Wadowicach,
syn wojskowego urzędnika, osierocony przez matkę w wieku
9 lat. Po ukończeniu gimnazjum, rozpoczął w 1938 r. studia
na Wydziale Filologicznym Uniwersytetu Jagielońskiego w
Krakowie. Po inwazji niemieckiej w 1939 r., nazizm i komunizm
sowiecki opóźniły odkrycie jego osobowości. Od młodych lat
mocno odczuwał sentyment patriotyczny, był zawsze gotów
bronić tradycji i polskiej kultury przed nazistami i komunistami, był wrażliwy na wolność religijną i na związek polityki z
moralnością.
W 1940 r. zatrudnionego jako robotnika. W 1941 r. zmarł mu
35
ojciec a 1942 r. wstąpił do seminarium krakowskiego. W 1946
r. został wyświęcony na księdza i wyjechał do Rzymu do Angelicum Pontificio Collegio Belga. W 1947 r. we Francji zapoznał się
z tekstami J.Maritain’a i E. Mounier’a na temat związków między
jednostką a morałem, wolności czynu, świadomości własnych
granic, aspiracji odkrycia prawdy. W Paryżu zakończył studia
doktoranckie, a 1948 r. w Polsce uzyskał stopień doktorski w
teologii i w tym samym czasie prowadził parafię w Niegowici a
póżniej w Krakowie.
Są to najcięższe lata stalińskiego reżimu komunistycznego
(1948-1950). Aresztowano Prymasa S. Wyszynskiego i arcybiskupa E. Baziaka. Uniwersytet Jagielloński został zmknięty.
Pod koniec lat ’50-ych związki Państwa z Kościołem poprawiły
się a po 1953 r., po śmierci Stalina, całkowicie się polepszyły.
W 1958 r. Wojtyła został mianowany przez Piusa XII biskupem pomocniczym w Krakowie a w 1962 r. uczestniczył w Soborze Watykańskim II jako przedstawiciel Polskiego Kościoła.
W 1963 r. został mianowany arcybiskupem w Krakowie, a w
1967 r. kardynałem.
Na konklawie 16 października 1979 r. po ósmym głosowaniu
został wybrany na papieża, dzięki głosom niemieckich
kardynałów po propozycji wiedeńskiego kardynała F.Koniga.
Przybrał imię Jan Pawl II 15 marca 1979 r. ukazała się pierwsza encyklika „Redemptor hominus”, w niej opisuje swój program, swoje myśli, wzywał wszystkich do naśladowania Chrystusa, a także stwierdził uniwersalność Kościoła. Zapraszał
wszystkich do przestrzegania praw ludzkich i do wolności religijnej. Wzywał do dialogu ze Związkiem Radzieckim i całym
światem. Popierał wszystkie ruchy działające w kierunku
wolności i praw ludzkich.
Dużo zrobił dla Polski, aby stworzyć demokrację. Starał
się o zgodę w stosunkach międzyludzkich i o odnowienie
praw Kościoła. Popierał Solidarność i postulaty związków
zawodowych. W 1980 r. wysłał list do Breżneva w obronie
suwerenności polskiej, zagrożonej przez ddziały Układu Warszawskiego, porównując istniejącą sytuację do inwazji nazistów
z r. 1939. W maju 1981 r. Mał miejsce zamach w Rzymie na
placu Św. Piotra.
Pontyfikat Jana Pawła II charakteryzuje się szczególnym
uwielbieniem do Matki Boskiej. Encyklika „Redemptoris Mater”
jest z 1887 r. Dla Jana Pawła II Matka Boska jest pierwszym
ucznjen Jezusa ponieważ przyjeła wiadomość od Archanioła
Gabriela. A więc Kościół Maryi poprzedza Kościół Piotra
„Maryja jest matką Kościoła”.
36
W trzecim liście „Tertio millennio adveniente” (1994)
wyraził wolę swojego Kościoła, który ma kontrastować ze
współczesnym światem, apelując o pokój i przekazując innym
przesłanie zawarte w Ewangelii o przebaczeniu. Życzył sobie
uniwersalnego Kościołu mający jako główny cel moraność i
wiare w naród, przezwyciężenie podziałów, przyznanie się do
błedów Kościoła popełnionych w stosunku do Żydów. Jest przeciwko oddalaniu się od Pisma Świętego, nietolerancji, konfliktam i za prawa człowieka.
Wzywa wszystkich do szacunku dla innych kultur i religii.
Miłosierdzie, ludzkość i uniwersalizm, „nie można odłączać
Chrystusa od historii człowieka na całym świecie” to jego ulubione, zawsze powtarzane, tematy.
Znaczące są układy z Kościołami protestanckimi podpisane w 1999 z Kościołem anglikańskim, dialog z Kościołem
prawosławnym stanowi wielki krok do przodu we wspólnzch
stosunkach z Prawosławiem.
Wielkie starania Jana Pawła II szły w kierunku przeciwkostwienia sie wojnie oraz realizacji sprawiedliwości. Droga po
której należy zmierzać w przypadku sporuw to sąd polubowny
i mediacja polityczna.
Bronił biednych przed rządzącymi, podkreślając potrzebę
skreślenia długu biednych krajów. Uznał egoizm i gnębienie
słabszych jako niebezpieczeństwa kapitalizmu bez reguł i
prawdziwego socjalizmu, obydwa systemy są zagrożeniem dla
godności istoty ludzkiej.
Przedsiębiorca ma obowiązek tworzyć miejsca pracy i
prowadzić rozwój bardziej zrównoważony. Dramatyczną wadą
świata zachodniego jest dramatyczny, bogactwo zgromadzone
w niewielu rękach w porównaniu do masy biednych. W świecie
pracy musi być miejsce także dla słabszych, mniej uzdolnionych
i niepełnosprawnych.
Jan Paweł II przeciwstawił się komuniźmu w sprawie ograniczenia wolności, opresji i biedy. Upadek komunizmu nie oznacza jednak, że kapitalizm może narzucać model świata bez
reguł i pomocy biednym. Wolny rynek bez reguł nie przyczynia
się ani do wzrostu produkcji ani do rozwoju demokracji.
37
Bibliografia
K. Bakowski, Dzieje Krakowa (Storia di Cracovia), Cracovia 1911.
Krakow, Jego kultura sztuka (Cracovia, Cultura e arte, 1904).
S. Ciampi, Notizie di medici, pittori italiani in Polonia, Lucca 1930.
Thieme-Becker, Knstler-Lexikon, III, Lipsia 1909.
Enciclopedia italiana Treccani, Vol. II, s. 770, Vol. 6, s. 692, Vol. II, s. 720, Vol.
III, s. 447, Vol. IV, s. l7, Vol. VI, s. 434.
D. Tosi e V. Vitello, Vecchia e nuova pianificazione in Polonia, Milano 1952.
B. Malisz, Problematica della pianificazione di un territorio nazionale, Firenze
1978.
D. Dominotto e G. Salvini, La Polonia del socialismo al regime democratico
di mercato, Milano 1995.
Enciclopedia dei Papi, Treccani, Roma 2000, s. 681 e seguenti. Insegnamenti di Giovanni.
Paolo II (omelie, discorsi, lettere ecc.), sito della Sante Sede www.vatican.va.
38
CATERINA SQUILLACE
Dipartimento di Filologia Romanza
Università Jagellonica di Cracovia
L’Umanesimo italiano in Polonia:
aspetti generali della ricezione
Chiunque in Italia compia studi nell’ambito della slavistica ha
modo di leggere o ascoltare dai docenti che la Polonia è l’unico
paese slavo ad aver sviluppato la cultura dell’Umanesimo e,
più in generale, del Rinascimento nel vero e proprio senso della
parola. Occorre sottolineare tale fatto, giacché il termine rinascimento negli studi slavistici viene a volte associato a diversi
movimenti culturali sviluppatisi nei vari paesi dell’area slava. In
quest’ultimo caso sarebbe maggiormente corretto parlare di
rinascita delle lettere e della cultura in generale, visto che il termine rinascimento, nella lingua italiana e non soltanto in essa,
è ormai associata a quell’orientamento nello stile e nel pensiero
che dominarono in un ben preciso lasso di tempo in Italia e
successivamente in forme simili in altri paesi d’oltralpe. La definizione della voce “Rinascimento” offerta dal Vocabolario della
Lingua Italiana di Nicola Zingarelli (undicesima edizione) è infatti
la seguente: “Movimento culturale sorto in Italia alla fine del XIV
sec. e diffusosi in tutta Europa fino al XVI sec., caratterizzato
dall’uso rinnovato della lingua e letteratura latina classica, dal
libero fiorire delle arti, degli studi, della politica, dei costumi,
nello spirito e nelle forme dell’antichità classica”.
In ambito europeo, la Polonia vide gli albori del Rinascimento in campo artistico e dell’Umanesimo in campo letterario fra
la fine del XIV e gli inizi del XVI sec. Fu quello un momento in
cui si ebbe un’intensificazione dei viaggi e dei contatti culturali
da parte degli intellettuali italiani e d’oltralpe, spinti a girovagare
per l’Europa alla ricerca, fra l’altro, di testi antichi o più semplicemente di fortuna.
Meta dei pellegrinaggi degli uomini di cultura europei era
soprattutto l’Italia, considerata culla della latinità. Allo stesso
tempo molti esponenti dell’arte e della letteratura italiana venivano invogliati a recarsi all’estero per lavoro presso corti o
istituzioni, quali, ad esempio, le scuole o le università.
Fra questi emigranti-intellettuali va ricordato innanzitutto Filippo Buonaccorsi (1437-1496), più noto con lo pseudonimo
di Callimaco, il quale fornì un contributo notevolissimo allo svi39
luppo dell’Umanesimo in Polonia. In fuga per motivi politici (era
stato fra l’altro accusato di aver complottato contro il papa),
egli arrivò in territorio polacco intorno al 1470 e trovò riparo
prima nel sud-est della Polonia per poi trasferirsi a Cracovia.
I suoi versi, di vario argomento, fecero furore e gli consentirono di entrare nelle grazie del monarca polacco Casimiro IV,
prima in qualità di precettore dei suoi figli e poi come diplomatico.
Callimaco, membro dell’Accademia Romana di Pomponio
Leto, contribuì alla creazione e all’incremento della fama della
Sodalitas Litteraria Vistulana, ideata dal poeta e teorico della
versificazione, il tedesco Konrad Celtis. Alla Sodalitas aderivano molti dei docenti e dei giovani che studiavano presso l’Accademia di Cracovia. Essi, spesso specialisti o specializzandi
in altre discipline, erano uniti dall’interesse per la poesia e la
letteratura antiche. La presenza di Callimaco a Cracovia fu uno
dei motivi che fecero diventare questa città culla delle lettere
umanistiche in Polonia.
Ma, ancora prima di Callimaco, nel 1424, aveva ivi soggiornato uno dei massimi esponenti dell’umanesimo italiano,
Francesco Filelfo, traduttore fra l’altro dal greco, uno dei maestri di E.S. Piccolomini nonché amico e maestro di Biondo Flavio, altro esimio umanista. Filelfo a Cracovia aveva declamato
un’orazione in occasione della cerimonia d’incoronazione della
regina Sofia, quarta moglie di Vladislao Jagiełło.
Altri umanisti italiani ebbero modo di visitare o vivere per
qualche tempo in quella che era a quei tempi la capitale polacca (ad es. Jacopo Publicio da Firenze, Giulio Pomponio da
Roma).
Questi intellettuali venivano attirati soprattutto dalla fama
dell’Accademia di Cracovia, che vantava nel corpo docenti molti studiosi e scienziati. Alcuni importanti esponenti dell’Umanesimo italiano, pur non essendo presenti personalmente in Polonia, allacciarono rapporti epistolari con rappresentanti
dell’ambiente culturale polacco. È il caso di Enea Silvio Piccolomini, il quale attorno alla metà del XV sec. intrattenne una
corrispondenza con Zbigniew Oleśnicki, vescovo di Cracovia,
responsabile dell’Accademia e connesso con la cancelleria di
Vladislao Jagiełło. Tali epistole hanno una notevole importanza
in quanto in esse vengono affrontate tematiche relative, fra l’altro, al ruolo del poeta, alla supremazia del latino, ecc.
La presenza della cultura umanistica italiana si intensificò
anche attraverso viaggi di studenti e giovani studiosi, per lo più
provenienti dall’Accademia di Cracovia, che si recavano in Italia
40
per completare il loro curriculum studiorum, per perfezionare la
conoscenza del latino e dedicarsi alla ricerca ed allo studio dei
testi antichi.
Questi giovani polacchi si trattenevano per lo più nei centri
universitari del nord-est italiano (in particolare a Padova), a Bologna e anche a Roma. In tali prestigiose sedi essi entravano in
contatto non solo con la cultura umanistica ma anche con loro
importanti rappresentanti.
Alcuni studiosi polacchi, inoltre, si recavano in Italia non per
studiare, bensì per insegnare discipline nelle quali l’Accademia
di Cracovia primeggiava e cioè la matematica e l’astronomia (si
pensi, ad esempio, a Bologna dove visse e lavorò per un certo
periodo Niccolò Copernico).
Un’altra categoria di polacchi che ebbe modo di frequentare il mondo culturale italiano del tempo è rappresentata da
alcuni diplomatici, fra i quali spesso viene ricordato Mikołaj
Lasocki, rappresentante della Polonia al concilio di Costanza
ed emissario di Vladislao Jagiełło, che a sua volta lo inviò in
missione a Roma e a Basilea, in occasione del famoso concilio.
Lasocki conobbe molti dei massimi esponenti dell’Umanesimo,
come Guarino da Verona, il su citato E.S. Piccolomini e Poggio
Bracciolini.
Molti dei polacchi che avevano soggiornato in Italia, ritornando in patria, portarono con sé un notevole bagaglio culturale, arricchito dalla conoscenza diretta con poeti e studiosi
nonché dalla lettura di testi teorici, in particolare nell’ambito
della poetica e della retorica. Oltre a ciò essi portarono metodi
di studio nell’ambito filologico, nuove tendenze nell’ambito del
pensiero, ecc. Tutto questo patrimonio acquisito in Italia venne
poi trapiantato in territorio polacco, consentendo così lo sviluppo dell’Umanesimo nel suddetto paese. Notiamo, infatti, la
presenza del culto per la letteratura antica, l’imitazione o ripresa dei classici, il didatticismo, la celebrazione dell’humanitas, la
ricorrenza di tematiche amorose e così via.
I motivi e i temi dell’umanesimo italiano non vennero, tuttavia, pedissequamente imitati, ma furono arricchiti dalla sensibilità e da elementi intrinseci della cultura locale. Tutto ciò,
arrivato a piena maturazione, darà frutti originali, conferendo in
tal modo un carattere specifico all’umanesimo polacco.
Un altro elemento da tener presente è, inoltre, il fatto che
una larga parte della cultura umanistica italiana sia arrivata in
Polonia non direttamente dall’Italia, bensì con il tramite di altri
paesi centro-europei, come l’Ungheria e la Germania. Alcuni
esponenti di questi Umanesimi extra-italici si trovarono a sog41
giornare, secondo modalità e in tempi diversi, in Polonia e in
particolare a Cracovia. In tal modo molti testi, versi, trattati divennero popolari nel suddetto paese filtrati, per così dire, da
altre culture, in particolare da quella germanica.
Ciò a volte impedì la diffusione di certe opere dell’Umanesimo che non erano uscite dal suolo italico, ma, d’altra parte,
arricchì l’Umanesimo polacco di nuovi elementi culturali.
Prima di concludere tale sintetico quadro relativo alle modalità grazie alle quali l’enorme patrimonio dell’umanesimo italiano arrivò in territorio polacco, occorre sottolineare il ruolo
fondamentale svolto dalla Polonia nel trasmettere a sua volta
tale bagaglio culturale ai limitrofi paesi dell’area slavo-orientale.
Grazie alla situazione politica venutasi a creare, una larga parte
dei territori della suddetta area si trovarono sotto la sfera di
influenza della Polonia.
La cultura polacca, arricchita nelle forme e nei contenuti
da quella umanistica occidentale, riuscì a stimolare a sua volta
la cultura dei territori ruteni, portando a conoscenza degli intellettuali di tale area un mondo che fino ad allora era rimasto
pressoché sconosciuto.
L’antica Rus’, rimasta ancorata alla sua cultura plurisecolare, ma ormai stagnante, ricevette l’impulso necessario per
cambiare, aggiungere nuovi temi, trattare argomenti finora non
appropriati per la letteratura, applicare nuovi criteri e metodologie nella prassi letteraria e linguistica e nell’arte in genere.
Così, come in passato erano stati i polacchi ad allontanarsi
dalla patria per completare e perfezionare i propri studi, intorno
al XVII sec. si ebbe un notevole flusso di studenti e intellettuali
che si fermavano in Polonia, per lo più a Cracovia, per acquisire
nuove conoscenze.
Ciò portò, fra l’altro, all’uso del latino come lingua della trattatistica e all’introduzione di nuove forme d’espressione artistica come la poesia.
In definitiva, dunque, l’Umanesimo polacco non solo recepì
molto dall’Umanesimo italiano, ma lo integrò con elementi provenienti da altre culture umanistiche, aggiungendo a tutto ciò
elementi specifici del proprio paese.
Inoltre, oltre al ruolo di ricettore, svolse anche quello di filtro
e di “esportatore” di quell’enorme patrimonio, rendendone partecipe un’importante area del continente europeo.
42
CATERINA SQUILLACE
Instytut Filologii Romańskiej Uniwersytetu
Jagiellońskiego, Kraków
Humanizm łaciński w Polsce:
Zarys ogólny recepji
Wszyscy, którzy ukończyli studia slawistyczne we Włoszech
mieli okazję przeczytać lub usłyszeć od wykładowców, że Polska jest jedynym krajem słowiańskim, w którym rozwinął się
humanizm, czy też – mówiąc bardziej ogólnie – Renesans w
prawdziwym tego słowa znaczeniu. Jest to fakt, który należy
podkreślić, jako że w ujęciu slawistycznym termin „renesans” bywa niekiedy kojarzony z różnymi prądami w kulturze,
rozwijającymi się w krajach słowiańskich. W tym przypadku
właściwsze byłoby określenie „odrodzenie literatury i ogólnie
kultury”, zważywszy, że termin „renesans”, w języku włoskim
i nie tylko, jest rozumiany jako kierunek w sztuce i w rozwoju
myśli ludzkiej, zamykający się w dokładnych ramach czasowych, najpierw w Italii, a następnie w innych krajach Europy.
Słownik języka włoskiego Nicola Zingarelli (wydanie jedenaste)
podaje następującą definicję terminu „Renesans”: „prąd kulturalny powstały w Italii po koniec XIV w., który rozprzestrzeniał
się w Europie aż do XVI w., charakteryzujący się powrotem
do języka i literatury łacińskiej klasycznej oraz swobodnym
rozkwitem sztuki, nauki, polityki, obyczajów, w duchu i w formach typowych dla okresu klasycznego w starożytności”.
W kontekście europejskim, w Polsce początki Renesansu w
sztuce i humanizmu w literaturze sięgają końca XIV i pierwszych
lat XVI w. Wtedy właśnie nastąpiła intensyfikacja wyjazdów i
kontaktów kulturalnych ze strony włoskich i europejskich intelektualistów, którzy jeździli po Europie w poszukiwaniu, m.in.,
tekstów starożytnych lub po prostu szczęścia.
Celem podróży wykształconych Europejczyków była głównie
Italia, uważana za kolebkę łacińskości. Równocześnie wielu przedstawicieli sztuki i literatury włoskiej było zachęcanych do podejmowania pracy za granicą, na dworach lub w instytucjach
takich jak szkoły czy uniwersytety.
Spośród tych emigrantów-intelektualistów warto wspomnieć
przede wszystkim Filippo Buonaccorsi (1437-1496), najbardziej
znanego jako Kalimach, który w ogromnym stopniu przyczynił
43
się do rozwoju Humanizmu w Polsce. Uciekając z kraju z
powodów politycznych (był m.in. oskarżony o spisek przeciw
papieżowi) przyjechał do Polski ok. 1470r. i znalazł schronienie
początkowo w południowo-wschodniej części Polski, a później
przeniósł się do Krakowa.
Jego wiersze bardzo się spodobały i zaskarbiły mu
przychylność polskiego monarchy Kazimierza IV, dzięki czemu został najpierw nauczycielem jego synów, a później
dyplomatą.
Kalimach, członek Akademii Rzymskiej Pomponio Leto,
przyczynił się do powstania i wzrostu popularności Sodalitas Litteraria Vistulana, wymyślonej przez poetę i teoretyka
poezji, Niemca Konrada Celtisa. Do Sodalitas przystało wielu wykładowców i młodych ludzi studiujących w krakowskiej
Akademii. Osoby te, często specjalizujące się w innych dziedzinach, łączyło zainteresowanie poezją i literatura starożytną.
Obecność Kalimacha w Krakowie było jednym z czynników,
które spowodowały, iż miasto to stało się kolebką literatury humanistycznej w Polsce.
Ale jeszcze przed Kalimachem, w r. 1424, przebywał tu
jeden z największych przedstawicieli humanizmu włoskiego,
Francesco Filelfo, tłumacz m.in. greki, jeden z mistrzów
E.S.Piccolominiego, jak również przyjaciel i mistrz Biondo Flavio, innego wybitnego humanisty. Filelfo w Krakowie wygłosił
mowę podczas ceremonii koronacji królowej Zofii, czwartej
żony Władysława Jagiełły.
Także inni humaniści włoscy (tacy jak Jacopo Publicio
da Firenze, Giulio Pomponio da Roma) mieli okazję zwiedzić
ówczesną stolicę Polski, czy też mieszkać w niej przez jakiś czas.
Uczonych tych przyciągała przede wszystkim słynna Akademia
Krakowska, zatrudniająca wielu naukowców. Niektórzy ważni
przedstawiciele humanizmu łacińskiego, choć nie byli osobiście
w Polsce, nawiązali korespondencję ze środowiskiem polskiej
kultury. Tak było w przypadku Eneasza Sylwiusza Piccolominiego, który około połowy XVw. korespondował ze Zbigniewem
Oleśnickim, biskupem krakowskim, głową Akademii, związanym
z kancelarią Władysława Jagiełły. Listy te mają wielką wartość,
gdyż są w nich poruszane takie tematy jak rola poety, wyższość
łaciny i inne.
Włoska kultura humanistyczna nabierała coraz większego
zasięgu również dzięki wyjazdom studentów i młodych badaczy
do Italii, których celem było uzupełnienie curriculum studiorum,
udoskonalenie znajomości łaciny i wreszcie poświęcenie się
badaniom tekstów starożytnych.
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Ci młodzi Polacy zatrzymywali się w ośrodkach uniwersyteckich północno-wschodniej Italii (szczególnie w Padwie), w
Bolonii, a także w Rzymie. Na tak prestiżowych uczelniach poznawali nie tylko kulturę humanistyczną, ale również jej ważnych
przedstawicieli.
Niektórzy polscy naukowcy wyjeżdżali do Italii nie tylko by
studiować, ale aby wykładać przedmioty, w których Akademia Krakowska przodowała, a więc matematykę i astronomię
(na przykład Mikołaj Kopernik przez pewien czas mieszkał i
pracował w Bolonii).
Inną grupą Polaków, którzy mieli okazję obracać się w
środowisku ówczesnej kultury włoskiej byli dyplomaci, spośród
których często wymieniany jest Mikołaj Lasocki, reprezentujący
Polskę na soborze w Costanzy, wysłannik Władysława Jagiełły,
z ramienia którego pojechał do Rzymu i do Bazylei z okazji
słynnego soboru. Lasocki poznał wielu z największych przedstawicieli Humanizmu, takich jak Guarino da Verona, wspomniany już E.S. Piccolomini i Poggio Bracciolini.
Wielu z Polaków wracając z Italii do ojczyzny, zabierali ze
sobą olbrzymi bagaż kultury, wzbogacony osobistą znajomością
z poetami i uczonymi, a także poznaniem tekstów z zakresu teorii poezji i retoryki w szczególności. Poza tym przywozili do Polski metody badań filologicznych, jak również nowe tendencje
w rozwoju myśli ludzkiej. Całe to bogactwo wiedzy nabywanej
w Italii było później przenoszone na polski grunt, umożliwiając
rozwój Humanizmu w Polsce. Zwróćmy uwagę na swoisty kult
literatury starożytnej, powrót do klasyków, czy też ich imitowanie, dydaktyzm, sławienie humanitas, częste sięganie do tematyki miłosnej, itd.
Motywy i tematy włoskiego Humanizmu nie były jednakże
ślepo imitowane, ale wzbogacane wrażliwością i elementami właściwymi dla miejscowej kultury. Wszystko to razem,
osiągnąwszy pełną dojrzałość, przyniesie oryginalne efekty,
nadając niepowtarzalny charakter Humanizmowi polskiemu.
Nie należy również zapominać, że spora część włoskiej
kultury humanistycznej napłynęła do Polski nie bezpośrednio
z Italii, a poprzez inne kraje Europy Środkowej, takie jak Węgry
czy Niemcy. Niektórzy przedstawiciele tego Humanizmu niewłoskiego, w różnych okolicznościach i w różnym czasie trafili
do Polski, a szczególnie do Krakowa. W ten sposób wiele tekstów, wierszy, traktatów stało się znanych w tym kraju, przefiltrowanych, by tak powiedzieć, przez inne kultury, zwłaszcza
kulturę germańską. Czasami nie pozwoliło to na popularyzację
niektórych dzieł humanistycznych, które nie wyszły poza obręb
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Italii, ale z drugiej strony dzięki temu zjawisku polski Humanizm
został wzbogacony o nowe elementy kultury.
Przed zakończeniem tych ogólnych rozważań na temat
sposobów, w jakich włoski Humanizm dotarł do Polski, należy
podkreślić zasadniczy udział Polski w przekazywaniu tegoż
bagażu kultury pobliskim krajom wschodnio-słowiańskim. W
związku z zaistniałą sytuacją polityczną, duża część tych obszarów znalazła się w strefie wpływów Polski.
I tak kultura polska, wzbogacona o treści zachodniej kultury
humanistycznej, stymulowała z kolei rozwój kultury na obszarze Rusi, odsłaniając przed tamtejszą inteligencją świat, którego
wcześniej prawie zupełnie nie znali.
Stara Ruś, zanurzona w swojej wielowiekowej, ale będącej
już w fazie stagnacji kulturze, otrzymała impuls, który był potrzebny do rozwoju, wprowadzania nowych tematów, poruszania
zagadnień, które do tej pory były uważane za niestosowne w
literaturze, stosowania nowych kryteriów i metod w twórczości
literackiej, lingwistyce i generalnie w sztuce.
Tak jak w przeszłości Polacy wyjeżdżali z kraju, aby uzupełnić
studia i poszerzyć wiadomości, około XVIIw. miał miejsce
napływ sporej ilości studentów i uczonych, którzy zatrzymywali
się w Polsce, a zwłaszcza w Krakowie, aby zdobywać wiedzę.
Spowodowało to, między innymi, pisanie traktatów po
łacinie oraz wprowadzenie nowych form artystycznego wyrazu,
jak na przykład poezja.
Ostatecznie Humanizm polski nie tylko przyswoił treści Humanizmu włoskiego, ale dołożył pewne elementy pochodzące z
innych kultur humanistycznych, wzbogacając to wszystko elementami właściwymi dla kultury rodzimej.
Będąc odbiorcą, Polska przefiltrowała i przekazała dalej to
ogromne dziedzictwo, które w ten sposób stało się udziałem
dużej części kontynentu europejskiego.
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ANDRZEJ BOROWSKI
Titolare Cattedra di Letteratura Polacca delle
Origini e dell’Illuminismo, Dip. di Studi Polacchi
Università Jagellonica di Cracovia
Umanesimo e Rinascimento
dalla prospettiva polacca
1. F.I. Niethammer, (1808): G. Voigt, Die Wiederbelebung
des classischen Alterhums, oder das erste Jahrhundert des
Humanismus, 1859 (terza ed., 1893).
2. HUMANITAS – „paideia“/“philantropia“ (Angelo Poliziano
1454-1494; epistola ad Hermolaum Barbarum)
3. AUCTORITAS ANTIQUORUM – HUMANITAS LATINA:
a. Umanesimo Latino di epoca medievale: Cronica Polonorum del maestro Wincenty detto Kadłubek (+1223). Al XIII secolo risale il canto latino, noto fino ad oggi, in onore di S. Stanislao Gaude Mater Polonia del domenicano Wincenty. Massima
opera della letteratura polacca medievale e testimonianza dedell’influsso esercitato dalla tradizione antica sono gli Annales
seu chronicae inclyti regni Poloniae di Jan Długosz (+1480).
b. Umanesimo Latino di epoca rinascimentale: dalla metà
del XV secolo fino al XVI nell’ambiente della cancelleria reale e
di quella vescovile, nonché nella rinnovata Accademia di Cracovia diviene visibile l’influsso dell’Umanesimo italiano, con la
valorizzazione dei modelli letterari antichi (ciceronismo e orazianismo) tipico di tale corrente. Risultato di tale influenza è il bilinguismo della cultura letteraria polacca del Rinascimento e del
Barocco. Fra le persone che parteciparono a tali contatti con
piena coscienza del loro significato si annoverano, ad esempio,
Mikołaj Lasocki (ok. 1382-1455), inviato del re Vladislao Jagiełło
negli anni 1434-1437 al concilio di Basilea e dal papa Nicola V
(1448), e ancora il Card. Zbigniew Oleśnicki (1382-1455), il
quale nella sua corrispondenza con l’umanista italiano Enea Silvio Piccolomini, più tardi papa con il nome di Pio II, riuscì a
formulare delle giuste osservazioni circa il nuovo stile. Con
Oleśnicki era strettamente legato il massimo scrittore polacco
del XV w. Jan Długosz (1415-1480), autore dal modo di pensare ancora medievale, ma conoscitore della cultura letteraria
italiana. Tale conoscenza si trova riflessa nelle sue numerose
opere, in particolare negli Annales seu chronicae inclyti Regni
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Poloniae. Diplomatico istruito alla maniera umanistica era Jan
Ostroróg (ca. 1423-1501), vojevoda di Poznań, autore della famosa (in quanto abbastanza anacronistica) lode della Polonia
declamata davanti al papa Paolo II. Dagli studi a Bologna (1459)
portò in patria la conoscenza dello stile di Cicerone, il che è
palese nella dissertazione Monumentum pro [...] Reipublicae
ordinatione congestum. L’influsso del nuovo stile nell’ambiente
dell’Accademia di Cracovia, rinnovata nel 1400 è testimoniato
dall’opera oratoria di Jan z Ludziska (ca. 1400 - prima del 1460)
e dall’attività di Grzegorz z Sanoka (ca. 1407-1477), il quale
portò dall’Italia a Cracovia il manoscritto del trattato sulla mitologia di G. Boccaccio Geneologia deorum e nell’anno 1439
tenne delle lezioni all’Accademia di Cracovia sulle Bucoliche di
Virgilio. In qualità di arcivescovo di Leopoli nel 1470 accolse
presso di sé un fuggitivo proveniente da Roma, Filippo Buonaccorsi Callimaco (1437-1496). Il suddetto, umanista di professione, accusato di aver partecipato ad una congiura contro
il papa Paolo II si trovò poi a Cracovia al servizio di Casimiro
Jagellonide (come istitutore dei suoi figli) e Jan Olbracht e lì
morì. La sua memoria fu onorata con un bel epitaffio del laboratorio di Wit Stwosz posto nella chiesa dei Padri Domenicani
situata nel centro della città. Nel 1489 si iscrisse all’Accademia
di Cracovia l’insigne umanista e poeta tedesco Konrad Pickel
Celtis (1459-1508), che tentò di organizzare un ambiente intellettuale locale all’interno dell’associazione „Solidalitas Vistulana”. Apparteneva a tale circolo Jan Beer Beer Ursinus (ok.
1457-ok 1503), autore del manuale umanistico di epistolografia
Modus epistolandi, nonché Wawrzyniec Raabe Corvinus
(Korwin, ca. 1462-1527), proveniente dalla Slesia e autore di
una poetica e di una retorica umanistiche. Ursinus e Korwin
insegnavano humaniora presso l’Accademia di Cracovia, dove
tuttavia il nuovo movimento di pensiero non aveva molti sostenitori. Uno di loro era Sacranus z Oswięcimia (ca. 1443-1527),
professore di teologia, diplomatico e retore, commentatore degli scritti di Cicerone, Aristotele e Prudenzio. Il periodo di passaggio, in cui la cultura medievale, ormai giunta a maturazione,
si mescolava con l’influsso dell’Umanesimo, coincide con gli
anni del regno di Casimiro Jagellonide, (1447-1492), Jan Olbracht (1492-1501) e Alessandro (1501-1506). Uno sviluppo
dinamico della cultura letteraria polacca si ebbe sotto il regno
di Sigismondo I (1506-1548). Oltre all’ambiente della cancelleria reale, cominciarono a svolgere un ruolo importante nuove
istituzioni: i ginnasi umanistici (il primo fu creato nel 1519 dal
vescovo Jan Lubrański e rimase aperto fino al 1535, altri ginna48
si, che facevano riferimento ad altre confessioni religiose operarono a Ełbląg dal 1535, a Danzica dal 1558, a Toruń dal 1568)
e le prime tipografie: a Cracovia c’erano quelle di Kasper Straub
(1473/74-1477), Szwajpolt Fiol (1494), Kasper Hochfeder
(1503-1505), Jan Haller (1505-1525), Florian Ungler (15101516; 1520-1536), Hieronim Wietor (ca. 1518-1546), Marek i
Maciej Szaffenberger (ca. 1517-1557), a Breslavia (Kasper Elyan, ca. 1475-1482), a Danzica (Konrad Baumgarten, 14981499) e a Vilnius (Franciszek Skoryna, od 1525). Le edizioni
critiche degli autori classici contribuirono a dare maggiore importanza alla filologia e invogliavano a imitare i modelli antichi
(Imitatio antiquorum), dapprima in latino e in greco e in seguito
nelle lingue nazionali. L’inizio di questo periodo coincide con la
generazione di autori che scrivevano solo in latino: Paulus Ruthenus (Procler), cioè Paweł z Krosna (ca. 1470-1517), Mikolaj
Hussovianus cioé Hussowczyk (ca. 1480-dopo il 1533), il vescovo Andrzej Krzycki (1482-1537), il vescovo originario di
Danzica Joannes Dantiscus cioé Dantyszek (1485-1548) e Jan
z Wiślicy (ca. 1485-ca. 1520). Più giovane, ma più maturo di
loro di una generazione, fu il poeta in lingua latina Klemens Janicjusz (1516-1543), imitatore creativo delle elegie di Ovidio.
Janicjusz aveva effettuato studi umanistici a Padova, dove aveva ottenuto il titolo di poeta laureatus. Nell’opera di tutti questi
poeti prevalgono i temi dettati da varie circostanze: si vedano
gli epitalami di Paweł z Krosna, Krzycki e Dantyszek in onore di
Sigismondo I e Barbara Zapolya (1512) e quelle successive per
lo stesso Sigismondo I e Bona Sforza (1518), i panegirici in
onore dei santi di Paweł z Krosna (1509), nonché gli epinici di
Krzycki (1515, 1518) e Dantyszek (1514, 1515, 1516, 1531),
dedicati alle vittorie di Sigismondo I. Si hanno esempi anche di
poesia esortativa (cfr. Paweł z Krosna: Exhortatio ad laetitiam et
plausum 1515, Dantyszek: De virtutis et fortunae differentia
somnium 1510), di argomento personale (epigrammi e elegie di
Hussowczyk, Krzycki, Dantyszek e Janicjusz) e religioso (cfr.
Dantyszek: Hymni aliquot ecclesiastici, 1548). Compare anche
il poema epico: si tratta del Bellum Pruthenum di Jan z Wiślicy
(1516) del Carmen de statura, feritate ac venatione bisontis di
Mikołaj z Hussowa e ancora del De vita et gestis divi Hiacynthi
(1525) dello stesso autore. A questa generazione appartiene
anche Niccolò Copernico (1473-1543), autore di trattati scritti
in ottima prosa, quali il Monetae cudendae ratio (1526-1528) e
il rivoluzionario De revolutionibus orbium coelestium libri VI
(1543). Copernico fu anche traduttore delle lettere in greco di
Teofilatto di Samocatta Epistolae morales, rurales et amatoriae
49
(1509). Lo stile dell’epistolografia e della prosa scientifica in latino di questo periodo si basa in linea di principio sul modello
ciceroniano. Dantyszek ha lasciato una ricca corrispondenza,
intrattenuta con i più insigni intellettuali europei, fra l’altro con
Erasmo da Rotterdam, il quale nell’ambiente intellettuale di
Cracovia aveva un circolo di ammiratori, noti con il nome di
“erazmiańczyki”. A tale circolo, oltre a Dantyszek, Krzycki e il
vescovo di Cracovia Piotr Tomicki (1464-1535), iniziatore della
riforma della cattedra di retorica all’Accademia di Cracovia nello spirito dell’Umanesimo (1531), appartenevano i rappresentanti della successiva generazione di intellettuali: il riformatore
religioso Jan Łaski il Giovane. (1499-1560), lo scrittore politico
Andrzej Frycz Modrzewski (ca. 15023-1572) e il Card. Stanisław
Hozjusz (1504-1579). L’influsso di Erasmo sulla loro opera,
come anche sugli autori che scrivevano in polacco (fra l’altro,
su M. Bielski e M. Rej e successivamente su J. Kochanowski e
S.F. Klonowicz), consisteva piuttosto nella ricezione di alcuni
temi o idee che nell’imitazione dello stile della prosa di Erasmo,
fortemente indipendente e critico nei confronti della tradizione
ciceroniana. Un importante filone della prosa polacca del periodo rinascimentale era rappresentato dalla storiografia. Il Tractatus de duabus sarmatiis, Asiana et Europiana (1517) di Maciej
Miechowita (1457-1523), nonché la Chronica Polonorum
(1521) in linea di principio corressero le conoscenze sulla Polonia („Sarmacja”) e sulla sua posizione in Europa, mentre l’opera
del vescovo Marcin Kromer (1512-1589), il De origine et rebus
gestis Polonorum (1555) continuò ad essere considerata all’estero addirittura fino al XVIII sec. la migliore storia del paese.
L’idea di „rinascita” del singolo individuo e della società attraverso la riforma delle maggiori istituzioni sociali si trova riflessa
nella prosa filosofica di A. Frycz Modrzewski, fra gli altri, nel
trattato sulla pena da comminare in caso di omicidio, Lascius
sive de poena homicidii (1543), e nella dissertazione Commentariorum de republica emendanda libri quinque. I primi tre libri
(sui costumi, i diritti, la guerra) apparvero a Cracovia nell’anno
1551, mentre i due libri successivi (sulla Chiesa e sulla scuola)
furono bloccati dalla censura e uscirono a Basilea nel 1554.
Temi politici attuali (sistema statale, minaccia per l’Europa da
parte dei Turchi) e religiosi (critica del celibato, polemica con la
riforma) vengono trattati nei cosiddetti “turcyki”, scritti in latino
e in polacco da colui che fu prima amico, più giovane d’età, e
in seguito antagonista di Frycz Modrzewski: Stanisław Orzechoski (1513-1566). Si tratta di discorsi intitolati De bello adversu Turcas suscipiendo (1543) e Ad Sigismundum Poloniae re50
gem Turcica secunda (1544), della dissertazione Fidelis subditus
(1543), del dialogo Rozmowa albo dialog około egzekucji Polskiej Korony (1563) e del Quincunx (1564), nonché del discorso
funebre in memoria di Sigismondo I (1548). Le opere di questa
generazione erano scritte in latino o in polacco. Infatti, la più
avanzata cultura letteraria in lingua latina fece sviluppare la prosa in lingua nazionale, così come appare evidente negli scritti di
Mikołaj Rej (1505-1569), autore della traduzione in polacco della parafrasi latina del Salterio (1546) e di alcune opere a carattere teologico-filosofico, quali Postylli (1557), Apocalypsis
(1565), nonché di un’opera parenetica, Zwierczadło (1568) assieme al famoso Żywot człowieka poczciwego. Scrisse in polacco la Kronika wszytkiego świata (1551) un altro famoso autore di questa generazione: Marcin Bielski (ca. 1495-1575),
che tradusse anche dal ceco –Żywoty filozofów (1535). Alla
prima metà del XVI sec. appartengono anche molti testi di prosa popolare, che si rifaceva a opere di epoca medievale, come
gli Apokryfy (quali Rozmyślanie przemyskie e Żywot Pana Jezu
Krysta di Baltazar Opec del 1522), i “romanzi” (narrazioni) di
tipo storico: Historia Aleksandra Wielkiego (1510), Historia o
żywocie [...] Aleksandra Wielkiego (1550), Historia [...] o zburzeniu a zniszczeniu miasta i państwa Trojańskiego (1563) o i
testi giullareschi: Rozmowy, które miał król Salomon z
Marchołtem grubym a sprośnym (1521) nella traduzione di Jan
z Koszyczek e l’anonimo Sowiźrzal krotofilny a śmieszny (ca.
1540). La versificazione polacca nella prima metà del XVI sec.
assunse una coerente forma sillabica, fra l’altro, nell’opera di
Biernat z Lublina (ca. 1465 - dopo il 1529), autore di uno dei più
antichi libri pubblicati in polacco, il Raj duszny (1513) e di una
specie di biografia giullaresca in Ezop con 210 favole (1522) e
anche nella poesia panegirico-epitalamica di Stanisław Gąsiorek
„Kleryki” di Bochnia (ca. 1493-1562). Tali cambiamenti sono
ravvisabili anche nei versi di Mikołaj Rej: nella satira dialogata
(fra l’altro. Krótka rozprawa między trzema osobami, 1543), nel
dramma (Żywot Józefa, 1545 e Kupiec, 1549), nei poemi (Wizerunek własny żywota człowieka poczciwego 1558; Zwierzyniec, 1562) e nelle facezie in (Figliki, 1574). L’apice dello sviluppo della cultura letteraria rinascimentale in Polonia si ebbe nella
seconda metà del XVI secolo e all’inizio del XVII. Il suo paradigma estetico fu messo in evidenza dall’opera della generazione
di Jan Kochanowski (1530-1584), Łukasz Górnicki (1527-1603)
e di Piotr Skarga SJ (1536-1612), mentre la generazione successiva, cui appartennero, fra gli altri, Sebastian Grabowiecki
(ca. 1543-1607), Sebastian F. Klonowicz (ca.1545-1602),
51
Mikołaj Sępa Szarzyński (1550-1581), Szymon Szymanowicz
(1558-1629) e Piotr Kochanowski (1566-1620) diffuse e trasformò in maniera creativa tale patrimonio nella cultura letteraria pre-barocca (non decadente!). A Cracovia allora funzionavano già 12 tipografie, fra le altre quelle della famiglia
Siebeneicher (1557-1623), di Łazarz Andrysowic (1550-1578)
e di suo figlio Jana Janyszowski (1578-1613), di Maciej
Wirzbięty (1557-1605) e di Andrzeja Piotrkowczyka (15741672); inoltre scritti polacchi venivano stampati anche in altre
città (Breslavia, Danzica, Królewiec, Poznań, Vilnius, Raków,
Lublino – in quest’ultima era concentrato il maggior numero di
stampe in ebraico). Alla diffusione della cultura letteraria, anche
in latino, contribuì anche l’incrementato numero di scuole superiori: si ricordano, fra l’altro, la cosiddetta Colonia dell’Accademia di Cracovia (od r. 1588 do w. XVIII ), circa 30 collegi gesuiti (dal r. 1564 al 1772 a Korona e in Lituania ce n’erano 56,
oltre a 2 accademie: quella di Vilnius, dal 1579 e quella di Leopoli a partire dal 1661) e ancora ginnasi cittadini, anche di altre
confessioni. Nell’anno 1594 fu fondata l’Accademia umanistica
di Zamość (funzionante fino al 1784). Per compiere gli studi si
andava anche all’estero (Padova, Bologna, Królewiec, Wittemberg, in seguito anche Parigi, Orlean, Lovanio, Lejda). Tutto ciò
veniva sostenuto dal mecenatismo umanistico (si ricorda, fra le
altre, la figura di Jan Zamojski). Il postulato classico di imitazione dei modelli antichi ispirò gli uomini di lettere a raggiungere
autonomamente il livello dei suddetti modelli (emulazione, concettismo), preparando il terreno per l’estetica barocca che dominò nel secolo successivo. Jan Kochanowski, che scrisse in
latino anche elegie, odi ed epigrammi, arricchì la poesia polacca con nuovi generi lirici modellati su quelli latini: l’inno (Czego
chcesz od nas panie), il carme (wzorowana na carminach Horacego), la bucolica (Pieśń świętojańska o Sobótce), la poesia
giocosa detta “fraszka”, la parafrasi lirica del salmo (Psałterz
Dawidów, 1579), il canto funebre detto “treno” (Treny, 1580), il
sonetto (2 sonetti sono presenti in Fraszki). Il poeta non mancò
di comporre anche poemi epici (Zuzanna, ca. 1562; Szachy,
ca. 1562; Zgoda, 1562; Satyr, ca. 1562, Proporzec albo hołd
pruski, 1569, la traduzione del III libro dell’Iliade - Monomachia
Parysowa z Menelausem, ca. 1577?) e della prima tragedia in
polacco (Odprawa posłów greckich, 1579) modellata in maniera creativa sul dramma greco (Euripide) e latino (Seneca). La
drammaturgia polacca del XVI sec. era costituita da generi tradizionali, tardomedievali come il ”misterium” (cfr. Mikołaj z
Wilkowiecka: Historia o chwalebnym zmartchwstaniu Pańskim,
52
ca. 1580) la moralità (per esempio, cfr. Mikolaj Rej: Kupiec,
1549 o Marcin Bielski: Komedia Justyna i Konstancyej,1557),
ma anche i generi del teatro classico latino, ispirato alla tradizione di Plauto e Terenzio: si vedano, a tal proposito le commedie Potrójny z Plauta (1597) di Piotr Cieklinski, Komedia o
Lizydzie (1597) di Adam Paxillus e la tragedia Troas (1589) di
Łukasz Górnicki (parafrasi di un’opera di Seneca). Fece la sua
apparizione anche il dramma biblico umanistico: Jan Zawicki
rielaborò l’opera di G. Buchanan Jeftes (1587), Szymon Szymonowic scrisse in Castus Joseph (1587, traduzione polacca
del 1597) e declamò ancora un’altra tragedia latina, Pentesilea
(1618). Il crescente interesse per la tradizione epica latina è
testimoniato, fra l’altro, da Andrzej Kochanowski (fratello di
Jan), che tradusse l’Eneide (1590) e da S.F. Klonowicz, autore
di Flis (1590) e del satirico Worek Judaszów (1600), nonché dei
poemi in latino Roxolania (1584) e Victoria deorum (15871600). In questo periodo raggiunse la piena maturità artistica
anche la prosa polacca, in quanto strumento di propaganda e
di polemica confessionale, del discorso filosofico e della didattica umanistica. A tale maturità si associava la riflessione sulla
lingua nazionale, espressa, fra l’altro, in numerose premesse
editoriali e soprattutto nella traduzione de Il Corteggiano di B.
Castiglione, cioè il Dworzaninie polskim (1566) di Ł. Górnicki,
che tradusse anche una dissertazione di Seneca, che in polacco si intitolò Rzecz o dobrodziejstwach (1593). L’arte della prosa (retorica) venne diffusa dalla scuola superiore e anche la
prassi nella camera nazionale e locale. Alla diffusione della prosanella cultura dell’aristocrazia contribuirono anche l’epistolografia e l’abitudine di scrivere diari e memorie. La filologia rinascimentale ispirò gli studi sulla lingua (Grzegorz Knapski:
Thesaurus polono-latino-graecus, 1621). Il livello raggiunto della prosa polacca in epoca rinascimentale è attestato dalle traduzioni della Bibbia: si vedano la Biblia cattolica di Jan Leopolit
(1561), la Biblia pińczowska, calvinista (nota anche come brzeska oppure radziwiłłowska, 1563), la Biblia nieświeska (1572),
ariana, e infine la Biblia to jest księgi Starego i Nowego Testamentu (1599) nella traduzione di Jakuba Wujka SJ (1541-1597).
Maestro della prosa letteraria fu P. Skarga, autore, fra l’altro,
delle prediche Kazania na niedziele i święta całego roku (1595)
e del trattato politico sotto forma di prediche Kazania sejmowe
(1597), nonché del libro polacco più letto fino al XIX secolo, il
Zywoty świętych (1579; fino alla fine del XIX secolo più di 30
edizioni!). L’Umanesimo europeo, soprattutto quello italiano,
influendo sulla cultura polacca dalla metà del XV all’inizio del
53
XVII secolo, non contribuì tanto alla rinascita quanto alla nascita della cultura letteraria polacca moderna con tutti quei motivi,
forme e temi finora esistenti.
Fino alla metà del XVI secolo prevale la produzione in latino
(si ricordino, fra gli altri, Grzegorz z Sanoka, Pawel z Krosna,
Jan z Wiślicy, Mikołaj Hussovianus, Mikołaj Kopernik, Joannes
Dantiscus, Klemens Janicius, Maciej Miechowita, Marcin Kromer, Andrzej Frycz Modrzewski, Stanisław Orzechowski). Nelle
successive generazioni tutti i più insigni autori polacchi (fra gli
altri Jan Kochanowski, Mikołaj Sęp Szarzyński, Sebastian Fabian Klonowic, Szymon Szymonowicz) furono bilingui; la massima fama in Europa raggiunta da un autore polacco prima di Mickiewicz è da attribuire all’”Horatius Sarmaticus”, cioé a Maciej
Kazimierz Sarbiewski SJ (+1640), che scrisse esclusivamente
in latino. Quest’ultima era anche la lingua degli innumerevoli
contatti internazionali (epistolografia) e della prosa scientifica
(storiografia, filosofia, medicina, diritto, teologia) dei Polacchi
fino a tutto il secolo XVIII. Alla diffusione dell’Umanesimo Latino
nella cultura polacca post-medievale contribuì la filologia praticata nella facoltà di artes liberales dell’Accademia di Cracovia
a partire dalla metà del XVI sec. Tuttavia, tale merito è da ascrivere soprattutto alla scuola umanistica (ginnasi accademici) e
in particolare alle decine di collegi gesuiti operanti fino al 1773.
Il modello di formazione per l’intellettuale, definito dalla
scuola neoumanistica del XIX secolo, si fondava in linea di massima sulla conoscenza della tradizione antica (greco, latino, mitologia, storia antica, elementi di storia dell’arte). Tale modello
d’istruzione creò un particolare codice culturale, del quale l’intelligencja polacca si servì fino alla metà del XX secolo, cioè fino
ai tempi in cui si diradò la conoscenza elementare del latino e si
mise in atto un programma per eliminare gli elementi della tradizione antica dall’istruzione scolastica. Attualmente è evidente
un ritorno d’interesse per la cultura antica e il suo influsso sulla
cultura nazionale, il che riflette la costruzione di legami con la
comunità europea e la cultura universale.
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ANDRZEJ BOROWSKI
Kierownik Katedry Literatury Staropolskiej i
Oświeceniowej Instytutu Polonistyki
Uniwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
Renesans i Humanizm
z polskiej perspektywy
1. F.I. Niethammer, (1808): G. Voigt, Die Wiederbelebung
des classischen Alterhums, oder das erste Jahrhundert des
Humanismus, 1859 (terza ed., 1893).
2. HUMANITAS - „paideia“/“philantropia“ (Angelo Poliziano
1454-1494; epistola ad Hermolaum Barbarum)
3. AUCTORITAS ANTIQUORUM - HUMANITAS LATINA:
a. Humanizm łaciński średniowieczny: Cronica Polonorum
mistrza Wincentego zw. Kadłubkiem (+1223). Z XIII w. pochodzi również śpiewana do dzisiaj łacińska pieśń ku czci św
Stanisława Gaude Mater Polonia dominikanina Wincentego.
Najważniejszym dziełem polskiej literatury średniowiecznej i
świadectwem oddziaływania tradycji antycznej są Annales seu
chronicae inclyti regni Poloniae Jana Długosza (+1480).
b. Łaciński humanizm renesansowy: od poł. w. XV po w. XVI
w środowisku kancelarii królewskiej i kancelarii biskupich, a
także odnowionej Akademii Krakowskiej widać wpływ humanizmu łacińskiego włoskiego, z właściwym temu prądowi
dowartościowaniem wzorców literackiech antycznych (cyceronianizm, horacjanizm). Rezultatem tego oddziaływania jest
dwujęzyczność polskiej kultury Renesansu i Baroku. Do kręgu
osób, które świadomie uczestniczyły w tych kontaktach należał
np. Mikołaj Lasocki (ok. 1382-1455), w latach 1434-1437 poseł
króla Władysława Jagiełły na sobór bazylejski oraz do Rzymu
do papieża Mikołaja V (1448), a także kard. Zbigniew Oleśnicki
(1382-1455), który w korespondecji z humanistą wł. Eneaszem
Sylwiuszem Piccolominim, późniejszym papieżem Piusem II,
potrafił wyrazić trafne uwagi na temat nowego stylu. Z
Oleśnickim ściśle był powiązany najwybitniejszy pisarz polski
XV w. Jan Długosz (1415-1480), autor o umysłowości
średniowiecznej, lecz zaznajomiony z renesansową włoską
kulturą literacką. Oczytanie w historiografii humanistycznej
odzwierciedlają jego liczne dzieła, zwłaszcza Annales seu chronicae inclyti Regni Poloniae. Wykształconym humanistycznie
dyplomatą był Jan Ostroróg (ok. 1423-1501), wojewoda
55
poznański, autor słynnej (bo dość anachronicznej) pochwały
Polski wygłoszonej przed papieżem Pawłem II. Ze studiów w
Bolonii (1459) wyniósł znajomość stylu Cycerona, co widać w
rozprawie Monumentum pro [...] Reipublicae ordinatione congestum. O oddziaływaniu nowego stylu w środowisku odnowionej w r. 1400 Akademii Krakowskiej świadczy twórczość
oratorska Jana z Ludziska (ok. 1400-przed 1460) i w działalność
Grzegorza z Sanoka (ok. 1407-1477) który z Włoch przywiózł
do Krakowa rękopis traktatu o mitologii G. Boccaccio Geneologia deorum i w r. 1439 wykładał w Akademii Krakowskiej o
Bukolikach Wergiliusza. Jako arcybiskup lwowski w r. 1470
przyjąl na swym dworze w Dunajowie uciekiniera z Rzymu Filipa
Bonaccorsiego Kallimacha (1437-1496). Ów zawodowy humanista oskarzony o udział w spisku przeciw papieżowi Pawłowi II
znalazł sie później w Krakowie w służbie Kazimierza
Jagiellończyka (jako wychowawca jego synów) i Jana Olbrachta i tutaj zmarł uczczony pięknym epitafium z pracowni Wita
Stwosza w kościele oo. Dominikanow. W r. 1489 zapisał się na
Akademię Krakowską wybitny humanista i poeta niemiecki
Konrad Pickel Celtis (1459-1508), który próbował tu
zorganizować lokalne środowisko umysłowe w stowarzyszeniu
humanistycznym „Solidalitas Vistulana”. Nalezał do tego kręgu
m. in. Jan Beer Beer Ursinus (ok. 1457-ok 1503), autor humanistycznego podręcznika epistolografii Modus epistolandi oraz
Ślązak Wawrzyniec Raabe Corvinus (Korwin, ok. 1462-1527),
autor humanistycznej poetyki e retoryki. Ursinus i Korwin
wykładali humaniora w Akademii Krakowskeij, gdzie jednak
nowy prąd umyslowy nie miały wielu zwolenników, jednym z
nielicznych był Sacranus z Oswięcimia (ok. 1443-1527), profesor teologii, dyplomata i retor, komentator pism Cycerona, Arystotelesa i Prudencjusza. Okres przejściowy, w którym kultura
dojrzałego Średniowiecza przenikała się z oddziaływaniem humanizmu renesansowego, przypadał na lata panowania Kazimierza Jagiellończyka (1447-1492), Jana Olbrachta (14921501) oraz Aleksandra (1501-1506). Dynamiczny rozwój
polskiej kultury literackiej nastąpił za panowania Zygmunta I
(1506-1548). Oprócz środowiska kancelarii krolewskiej ważną
rolę odegrały teraz nowe instytucje: gimnazjum humanistyczne
(pierwsze zalożył w Poznaniu w r. 1519 bp Jan Lubrański, czynne do 1535, a także innowierce m.in. w Ełblągu od r. 1535, w
Gdańsku 1558, Toruniu 1568) oraz pierwsze drukarnie czynne
m.in. w Krakowie: Kaspra Straubego (1473/74-1477),
Szwajpolta Fiola (1494), Kaspra Hochfedera (1503-1505), Jana
Hallera (1505-1525), Floriana Unglera (1510-1516; 152056
1536), Hieronima Wietora (ok. 1518-1546), Marka i Macieja
Szaffenbergerów (ok. 1517-1557), we Wrocławiu (Kaspra Elyana, ok. 1475-1482), w Gdańsku (Konrada Baumgartena,
1498-1499) i w Wilnie (Franciszka Skoryny, od 1525). Krytyczne edycje autorów klasycznych podnosiły znaczenie filologii i
zachęcały do naśladowania wzorców antycznych (łac. imitatio
antiquorum) najpierw po łacinie i po grecku, następnie w
językach narodowych. Początek tego okresu wyznacza pokolenie autorów, którzy pisali tylko po łacinie: Paulus Ruthenus
(Procler) czyli Paweł z Krosna (ok. 1470-1517), Mikolaj Hussovianus czyli Hussowczyk (ok. 1480-po 1533), bp Andrzej Krzycki (1482-1537), gdańszczanin bp Joannes Dantiscus czyli
Dantyszek (1485-1548) i Jan z Wiślicy (ok. 1485-ok. 1520).
Młodszym i dojrzalszym od nich o pokolenie poetą łacińskim był
Klemens Janicjusz (1516-1543) twórczy naśladowca elegii
Owidiusza, wykształcony humanistycznie w Padwie, gdzie
otrzymał tytuł poeta laureatus. W twórczości tych poetów
przeważa tematyka okolicznościowa: epitalamia Pawła z Krosna, Krzyckiego i Dantyszka na cześć Zygmunta I i Barbary Zapolyj (1512) oraz Zygmunta I i Bony (1518), panegiryki ku czci
świętych Pawła z Krosna (1509) oraz epinicja Krzyckiego (1515,
1518) i Dantyszka (1514, 1515, 1516, 1531) poświęcone
zwyciestwom Zygmunta I. Występuje również poezja ekshortacyjna (Pawła z Krosna Exhortatio ad laetitiam et plausum
1515, Dantyszka De virtutis et fortunae differentia somnium
1510), osobista (epigramaty i elegie Hussowczyka, Krzyckiego,
Dantyszka i Janicjusza) religijna (Dantyszka Hymni aliquot ecclesiastici 1548), pojawił się też poemat epicki: Bellum Pruthenum Jana z Wiślicy (1516) oraz Carmen de statura, feritate ac
venatione bisontis Mikołaja z Hussowa i tegoż De vita et gestis
divi Hiacynthi (1525). Do tego pokolenia należy również Mikołaj
Kopernik (1473-1543), autor świetną prozą pisanych traktatów
jak m. in. Monetae cudendae ratio (1526-1528) oraz
przełomowych De revolutionibus orbium coelestium libri VI
(1543), a także przekładu greckich listów Teofilakta Symokatty
Epistolae morales, rurales et amatoriae (1509). Stył łacinskiej
epistolografii i prozy naukowej autorów polskich tego okresu
kształtował zasadniczo wzorzec cyceroniański. Dantyszek
pozostawił po sobie bogatą korespondencję z najwybitniejszymi intelektualistami europejskimi, m. in. z Erazmem z Rotterdamu, który miał w krakowskim środowisku umysłowym grono
wielbicieli tzw. erazmiańczyków. Do grona tego, oprócz Dantyszka, Krzyckiego i bpa krakowskiego Piotra Tomickiego
(1464-1535), inicjatora reformy katedry retoryki w Akademii
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Krakowskiej w duchu humanistycznym (1531), należeli przedstawiciele następnego już pokolenia intelektualistów: reformator religijny Jan Łaski Mł. (1499-1560), pisarz polityczny Andrzej
Frycz Modrzewski (ok. 15023-1572) i kard. Stanisław Hozjusz
(1504-1579). Oddziaływanie Rotterdamczyka na ich twórczość,
jak rownież na autorów piszących po polsku (m. in. M. Bielskiego, M. Reja, później też J. Kochanowskiego i S.F. Klonowicza)
polegało raczej na przyjmowaniu niektórych tematów i myśli
aniżeli na naśladowaniu stylu prozy Erazma, wobec tradycji
cyceroniańskiej wysoce niezależnego i krytycznego. Ważnym
nurtem renesansowej prozy polskiej tego okresu była historiografia. Macieja Miechowity (1457-1523) Tractatus de duabus
sarmatiis, Asiana et Europiana (1517) oraz bardziej popularna
Chronica Polonorum (1521) zasadniczo skorygowały wiedzę o
Polsce („Sarmacji”) i o jej położeniu w Europie, zaś dzieło bpa
Marcina Kromera (1512-1589) De origine et rebus gestis Polonorum (1555) było najpoczytniejsza za granicą aż po w. XVIII
historia naszego kraju. Idea „odrodzenia” jednostki i
społeczeństwa obywatelskiego poprzez reformę najwazniejszych instytucji państwa odzwierciedliła się w prozie filozoficznej A.Frycza Modrzewskiego, m. in. w traktacie o karze za
zabójstwo Lascius sive de poena homicidii (1543) i w rozprawie
Commentariorum de republica emendanda libri quinque. Pierwsze trzy księgi ( o obyczajach, o prawach, o wojnie) ukazały
się w Krakowie w r. 1551, całość powiększona o dwie następne
( o Kościele, o szkole) zatrzymane przez censurę wyszła w
Bazylei w r. 1554. Aktualnych tematów politycznych (ustrój
państwa, zagrożenie Europy przez Turcję) a także religijnych
(krytyka celibatu, polemika z reformacją) dotyczyły pisane po
łacinie i po polsku przez młodszego od Frycza Modrzewskiego
jego dawnego przyjaciela, później antagonistę Stanislawa Orzechoskiego (1513-1566) „turcyki” czyli mowy De bello adversu
Turcas suscipiendo (1543) oraz Ad Sigismundum Poloniae regem Turcica secunda (1544), rozprawy Fidelis subditus (1543),
Rozmowa albo dialog około egzekucji Polskiej Korony (1563) i
Quincunx (1564) a także mowa pogrzebowa na cześć Zygmunta I (1548). Twórczość tego pokolenia była dwujęzyczna: bardziej zaawansowana łacińska kultura literacka pobudzała rozwój
prozy w j. polskim, przede wszystkim w pismach Mikołaja Reja
(1505-1569), autora przekładu na polski łacinskiej parafrazy
Psałterza (1546) i kilku dzieł teologiczno-filozoficznych m. in.
Postylli (1557), Apocalypsis (1565) oraz dzieła parenetycznego
Zwierczadło (1568) z najbardziej znanym Żywotem człowieka
poczciwego. Po polsku napisał swą Kronikę wszytkiego swiata
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(1551) Marcin Bielski (ok. 1495-1575), który też przełożył z czeskiego Zywoty filozofów (1535). Z pierwszej poł. XVI w. pochodzi sporo tekstów prozy popularnej opartej na tekstach
średniowecznych, m. in. Apokryfy (jak Rozmyślanie przemyskie
oraz Żywot Pana Jezu Krysta Baltazara Opeca z r. 1522),
„powieści” (czyli narracje) niby-historyczne: Historia Aleksandra
Wielkiego (1510), Historia o żywocie [...] Aleksandra Wielkiego
(1550), Historia [...] o zburzeniu a zniszczeniu miasta i państwa
Trojańskiego (1563) czy beletrystyka błazeńska: Rozmowy,
które miał król Salomon z Marchołtem grubym a sprośnym
(1521) w przekładzie Jana z Koszyczek czy bezimienny Sowiźrzal
krotofilny a śmieszny (ok. 1540). Wiersz polski w pierwszej poł.
XVI w. przybrał konsekwentną formę sylabiczną m. in. w
twórczości Biernata z Lublina (ok. 1465 - po 1529), autora jednej z najwcześniej wydanych po polsku książek Raj duszny
(1513) oraz wierszowanej niby-biografii błazeńskiej Ezop wraz z
210 bajkami (1522), a także w panegirycznej epitalamijnej poezji Stanislawa Gąsiorka „Kleryki” z Bochni (ok. 1493-1562).
Widać te przemiane również w wierszach Mikołaja Reja: w satyrze dialogowanej (m. in. Krótka rozprawa między trzema osobami, 1543), w dramacie (Żywot Józefa, 1545 i Kupiec, 1549),
w poematach (Wizerunek własny żywota człowieka poczciwego 1558; Zwierzyniec, 1562) oraz w wierszowanej facecji (Figliki, 1574). Pełnia rozkwitu renesansowej kultury literackiej w
Polsce przypada na drugą polowę XVI wieku i na początek w.
XVII. Jej paradygmat estetyczny określiła twórczość pokolenia
Jana Kochanowskiego (1530-1584), Łukasza Górnickiego
(1527-1603) i ks. Piotra Skargi SJ (1536-1612), następna zaś
generacja m.in. Sebastiana Grabowieckiego (ok. 1543-1607),
Sebastiana F. Klonowicza (ok.1545-1602), Mikołaja Sępa
Szarzyńskiego (1550-1581), Szymona Szymanowicza (15581629) i Piotra Kochanowskiego (1566-1620) upowszechniła i
przekształciła twórczo ten dorobek w przedbarokową (nie
schylkową!) kulturę literacką. W Krakowie działało w tym czasie
już 12 drukarń, m. in. Rodziny Siebeneicherów (1557-1623),
Łazarza Andrysowica (1550-1578) i jego syna Jana Janyszowskiego (1578-1613), Macieja Wirzbięty (1557-1605) oraz
Andrzeja Piotrkowczyka (1574-1672), ponadto druki polskie
tłoczono i w innych miastach (Wrocław, Gdańsk, Królewiec,
Poznań, Wilno, Raków, Lublin – tu główny ośrodek druków hebrajskich). Do upowszechnienia kultury literackiej, także
łacińskeij przyczynił się nadto wzrost liczby szkół średnich: m.
in. tzw. Kolonii Akademii Krakowskiej (od r. 1588 do w. XVIII),
ok. 30 kolegiów jezuickich (od r. 1564 do 1772 w Koronie i Li59
twie było ich 56 oraz 2 akademie – wileńska, od r. 1579 i
lwowska od r. 1661), a także gimnazjów miejskich, również innowierczych. W r. 1594 powstała humanistyczna Akademia
Zamojska (czynna do r. 1784). Wyjeżdżano na studia zagraniczne (Padwa, Bolonia, Królewiec, Wittemberga, potem Paryż,
Orlean, Lovanium, Lejda). Działania te wspierał mecenat humanistyczny (m. in. Jana Zamojskiego). Klasyczny postulat
naśladowania wzorców antycznych (imitacja) inspirował pisarzy
do samodzielnego im dorównywania (emulacja, konceptyzm),
przygotując grunt dla estetyki barokowej panującej w następnym
stuleciu. Jan Kochanowski, który także pisał łacińskie elegie,
ody i epigramaty, wzbogacił poezję polską o nowe gatunki liryczne wzorowane na łacińskich: hymn (Czego chcesz od nas
panie), pieśń (wzorowana na carminach Horacego), bukolikę
(Pieśń świętojańska o Sobótce), „fraszkę” liryczną, parafrazę
psalmu (Psałterz Dawidów, 1579), tren (Treny, 1580), a także
sonet (2 sonety we Fraszkach). W dorobku poety nie brak też
poematu epickiego (Zuzanna, ok. 1562; Szachy, ok. 1562;
Zgoda, powst. 1562; Satyr, powst. ok. 1562, Proporzec albo
hołd pruski, powst. 1569, przekl. III ks. Iliady – Monomachia
Parysowa z Menelausem, powst. ok. 1577?) oraz pierwszej
polskeij tragedii (Odprawa posłów greckich, 1579) wzorowanej
twórczo na dramacie greckim (Eurypides) i rzymskim (Seneka).
Polską kulturę dramatyczną XVI w. wspołtworzyły gatunki tradycyjne, późnośredniowieczne jak misterium (Mikołaja z
Wilkowiecka Historia o chwalebnym zmartchwstaniu Pańskim,
ok. 1580) i moralitet, np. Mikołaja Reja Kupiec (1549) czy Marcina Bielskiego Komedia Justyna i Konstancyej (1557), ale też
gatunki klasycznego dramatu rzymskiego: np. inspirowana tradycja Terencjusza i Plauta komedia – Potrójny z Plauta (1597)
Piotra Cieklinskiego czy Komedia o Lizydzie (1597) Adama Paxillusa oraz tragedia Troas (1589) Łukasza Górnickiego (parafraza dzieła Seneki). Pojawił się też humanistyczny dramat biblijny: Jana Zawickiego przeróbka dzieła G. Buchanana Jeftes
(1587) i napisany po łacinie Castus Joseph (1587) Szymona
Szymonowicza (przekl. polski 1597), który oglosił inną jeszcze
tragedię łacińską Pentesilea (1618). O wrzastającym zainteresowaniu łacińska tradycją epicką swiadczą m. in. Andrzeja Kochanowskiego (brata Jana) przekład Eneidy (1590) czy S.F.
Klonowicza Flis (1590) i satyryczny Worek Judaszów (1600)
oraz jego łacińskie poematy Roxolania (1584) oraz Victoria deorum (1587-1600). Pełną dojrzałość artystyczną osiągneła w
tym czasie również proza polska jako funkcjonalne narzędzie
propagandy i polemiki wyznaniowej, dyskursu filozoficznego i
60
humanistycznej dydaktyki. Dojrzałości tej towarzyszyła refleksja
nad językiem narodowym wyrażona m.in. w licznych przedmowach wydawniczych i przede wszystkim w przekładzie B.
Castiglione’a Il Corteggiano czyli Dworzaninie polskim (1566) Ł.
Górnickiego, który poza tym przełozył jeszcze rozprawę Seneki
Rzecz o dobrodziejstwach (1593). Sztukę prozy (retorykę)
upowszechniała szkoła średnia. A także praktyka sejmowa i sejmikowa. W popularnej kulturze szlacheckiej przyczyniała się też
do jej rozwoju epistolografia i zwyczaj spisywania diariuszów i
wspomnień. Renesansowa filologia inspirowała do studiów nad
językiem (Grzegorz Knapski, Thesaurus polono-latino-graecus,
1621). O poziomie renesansowej prozy polskiej swiadczą
przekłady Biblii: katolicka Biblia Jana Leopolity (1561), kalwińska
Biblia pińczowska (znana też jako brzeska lub radziwiłłowska,
1563) ariańska Biblia nieświeska (1572) i wreszcie w przekładzie
ks. Jakuba Wujka SJ (1541-1597) Biblia to jest księgi Starego i
Nowego Testamentu (1599). Mistrzem prozy literackiej był ks.
P. Skarga, autor m.in. Kazań na niedziele i święta całego roku
(1595) i traktatu politycznego w formie Kazań sejmowych
(1597), a także najbardziej poczytnej do XIX w. popularnej
książki polskiej czyli Zywotów świętych (1579; do końca w. XIX
ponad trzydzieści wydań!). Europejski, zwłaszcza włoski humanizm renesansowy oddziałując na kulturę polską pomiędzy poł.
w. XV a początkiem w XVII przyczynił się nie tyle do „odrodzenia” co raczej do narodzin nowoczesnej polskiej kultury literackiej z jej wieloma do dzisiaj żywymi formami, motywami i tematami.
Do pol. w. XVI przeważa twórczość łacińska (m. in. Grzegorz z Sanoka, Pawel z Krosna, Jan z Wiślicy, Mikołaj Hussovianus, Mikołaj Kopernik, Joannes Dantiscus, Klemens Janicius,
Maciej Michowita, Marcin Kromer, Andrzej Frycz Modrzewski,
Stanisław Orzechowski). W następnych pokoleniach wszyscy
wybitni pisarze polscy (m. in. Jan Kochanowski, Mikołaj Sęp
Szarzyński, Sebastian Fabian Klonowic, Szymon Szymonowic)
byli tworcami dwujęzycznymi, zaś największa sława w Europie
przed Mickiewiczem cieszył się „Horatius Sarmaticus” czyli ks.
Maciej Kazimierz Sarbiewski SJ (+1640) piszący wyłącznie po
łacinie. Łacina była również językiem wszechstronnych kontaktów międzynarodowych (epistolografia) oraz twórczości
naukowej (historiografia, filozofia, medycyna, prawo, teologia)
Polaków aż po w. XVIII. Do upowszechnienia się humanizmu
łacińskiego w kulturze staropolskiej przyczyniła się renesansowa filologia uprawiana w wydziale „sztuk wyzwolonych”
Akademii Krakowskiej od poł. XVI w., przede wszystkim jed61
nak szkoła humanistyczna (gimnazjum akademickie), zwłaszcza
kilkadziesiąt czynnych do r. 1773 kolegiów jezuickich. Określony
przez dziewiętnastowieczną neohumanistyczną szkołę średnią
model wykształcenia polskiego inteligenta polegał w zasadniczym stopniu na znajomości tradycji antycznej (greka, łacina,
mitologia, historia starożytna, elementy historii sztuki). Edukacja
ta wytworzyła swoisty kod kulturowy, którym inteligencja polska
posługiwała się aż do połowy XX w. tj. do czasów załamania się
elementarnej znajomości łaciny oraz programowego usuwania elementów tradycji antycznej z edukacji szkolnej. Obecnie
widoczny nawrót zainteresowań tradycją antyczną i jej oddzialywaniem na kulturę narodową i powszechną odzwierciedla
obudowywanie się więzi ze wspólnotą europejską i z kulturą
uniwersalną.
62
JERZY MIZIOŁEK
Direttore Sezione di Tradizione dell’Antichità nelle
Arti Visive, Dipartimento di Archeologia
Università di Varsavia
Relazioni artistiche tra Italia e Polonia
nell’età del Rinascimento
nella luce delle ultime ricerche
Nel 1915, Mary Logan Berenson pubblicò nel primo fascicolo della rivista «Rassegna d’arte» le sue osservazioni fatte
durante il viaggio attraverso l’Europa, dove scrisse: «Allorché
passai alcuni giorni a Cracovia [...] trovai alcune pitture italiane bellissime e parecchie assai interessanti nella deliziosa città
ove l’architettura e i monumenti mi diedero una viva sensazione
di un’Italia in partibus»1. E ben certo che la Berenson ebbe in
mente prima di tutto le opere dell’età del Rinascimento, che
anche oggi fanno pensare a Cracovia in modo simile a quello
della studiosa italo/americana. Grazie all’attività di numerosi architetti e scultori italiani come Francesco Fiorentino, Bartolommeo Berecci, Giovanni Cini, Gianmaria Mosca detto Padovano
e Santi Gucci e i loro seguaci polacchi come Jan Michałowicz
z Urzędów nel ’500, la capitale della Polonia, e in seguito altre
numerose città e più piccole località del paese, cambiarono il
loro carattere da medievale a rinascimentale2. Le forme, i temi
e i motivi all’antica invasero l’arte delle terre, che non avevano
mai avuto fortuna di trovarsi nel limes romanus, confermando
l’ammirazione dei polacchi per la civiltà mediterranea, specialmente quella italiana.
Le ricerche sulle relazioni artistiche tra i due paesi hanno
una lunga storia, che incomincia con un ben noto studio di
Sebastiano Ciampi, professore dell’Università di Varsavia, che
risale agli anni Venti dell’800, intitolato «Notizie di medici, maestri di musica e cantori, pittori, architetti, scultori e altri artisti
italiani in Polonia e polacchi in Italia» (Lucca 1830). Nell’arco di
ben 170 anni di studi sono stati pubblicati molti libri e articoli
sull’argomento non solo in Polonia e Italia ma anche in altri
paesi.3 Nella presente relazione cercherò di presentare le ricerche su alcuni aspetti delle relazioni artistiche pubblicate nell’ultimo decennio tra l’altro da Anna Boczkowska, Anne Merkham
Schulz, Stanisław Mossakowski e da me. Ci concentreremo
prima di tutto sugli studi dedicati alla famosa cappella del re
63
Sigismondo I detto il Vecchio, sulle opere commissionate dal
vescovo Pietro Tomicki a Giovanmaria Mosca, e sull’influsso
dell’ermetismo collegato con il lungo soggiorno a Cracovia di
Annibale Rosselli. Dobbiamo incominciare dal periodo del cosiddetto Protorinascimento.
I. Il periodo del Protorinascimento
Nel XV secolo i legami fra Italia e Polonia non erano un nuovo
fenomeno, però partendo proprio da questo periodo l’influsso
dell’arte italiana cominciò ad avere l’importanza fondamentale.
Fin dalla prima metà del ’400 molti polacchi studiavano all’Università di Bologna, Padova e Ferrara4. Altri importanti luoghi
dove si allacciavano i rapporti con umanisti italiani erano i concilii. Tornando in Polonia sia i laureati che i vescovi portavano
spesso preziosi codici. Per esempio Gregorio di Sanok, che più
tardi divenne protettore di Filippo Buonacorsi detto Callimaco,
ritornato dalla corte di papa Eugenio IV, portò a Cracovia diversi manoscritti, tra cui un codice miniato che conteneva le
Genealogie deorum gentilium di Boccaccio. Fin dal primo ’400
si nota in Polonia una concreta influenza ideologica del Petrarca. In questo periodo all’Universita’ di Cracovia erano tenute le
lezioni sugli autori classici, ad esempio su Virgilio, che divenne
uno dei più conosciuti e più amati scrittori classici in Polonia
anche nei successivi secoli.
Per quanto riguarda le arti visive un’opera quasi emblematica è la tomba del re Vladislao Jagellone nella cattedrale di
Wawel. Eseguito in due periodi, il monumento racchiude in sé
un secolo di rapporti artistici fra Italia e Polonia dal Protorinascimento al Rinascimento maturo. Alla prima fase risalgono la
tomba in marmo ungherese rosso con la figura del re, i bassorilievi ai lati e le colonne. L’opera fu eseguita verso il 1420 oppure
due decenni più tardi. Il baldacchino con le arcate semicircolari
e con capitelli, venne realizzato nel 1520 circa. Come ha dimostrato già mezzo secolo fa il prof. Karol Estreicher, il sarcofago
del re in un certo modo attinge alla prima fase del Rinascimento
fiorentino. Secondo Estreicher l’autore del sarcofago sarebbe
stato un italiano dell’ambito della scuola di Ghiberti, attivo anche a Cracovia5. Nell’ultimo decennio il tema è stato ripreso tra
l’altro da Anna Boczkowska, secondo la quale fu un allievo di
Donatello a eseguire il monumento. Anche se la paternità della
tomba richiede ancora di essere studiata è fuori dubbio che
l’opera costituisce un annuncio del nuovo stile6.
64
Il vero sviluppo del pensiero umanistico a Cracovia ebbe
luogo durante il soggiornò in città di Filippo Buonaccorsi detto
Callimaco, che durò più di 25 anni (1470-1496)7. Vivendo in
Polonia Callimaco aveva contatti epistolari con Marsilio Ficino,
Pico della Mirandola e Angelo Poliziano che, a loro volta, gli
mandavano le loro opere. Man mano si creò a Cracovia un
importante centro di studi classici rinforzato dalla presenza di
Corrado Celtis e dalla crescente importanza dell’Università di
Cracovia. Callimaco divenne ambasciatore e segretario del re
Casimiro nonché tutore dei suoi figli Giovanni Alberto e Sigismondo I – futuri re di Polonia, grandi ammiratori e propagatori dell’arte rinascimentale. A Cracovia arrivarono artisti italiani
dall’Ungheria (dove già nel secondo XV avevano operato numerose maestranze italiane) e da Firenze. Prima di discutere le
opere fatte per i re vale la pena di menzionare il sepolcro commissionato da Buonaccorsi nel 1493 al suo amico, il vescovo
Pietro di Bnin nella cattedrale a Włocławek8. La tomba scolpita
da Vito Stoss è senza dubbio meno gotica rispetto ad altre
opere dell’artista. L’epigrafe, sulla quale leggiamo che il sepolcro fu effetuato “procuratione Callimachi experientis amici concordissimi”, è umanistica per il contenuto e protorinascimentale per la forma. Per la prima volta lo Stoss finì’ decisamente con
l’epigrafia gotica a favore dell’umanistica in lettere maiuscole
che ricordano ancora la forma della ‘capitalis rustica’. Va osservato che i due diaconi che sostengono la lapide sul frontale
della tomba sono modellati sui geni dei sarcofagi antichi e delle
opere rinascimentali come il sarcofago di Erasmo Gattamellata
nella basilica del Santo a Padova scolpita da Gregorio d’Allegretto. Come ha osservato il prof. Jerzy Kowalczyk anche la
forma del sarcofago a muro, con la lastra disposta a pulpito,
era una soluzione innovativa, non medievale, assai popolare
nell’Italia settentrionale, come si evince ad esempio la tomba
del cardinale Branda nella chiesa a Castiglione d’Olona.
Anche la lastra in bronzo per il sepolcro di Callimaco stesso
eseguita nel 1500 ca. su commissione della corte reale, collocata in origine nel pavimento della chiesa dei domenicani e ora
murata nella parete del presbiterio della stessa chiesa, merita
attenzione per la sua concezione umanistica che pone in rilievo
memorabili gesta del Buonaccorsi (Fig. 1). Egli è rappresentato
in uno studio, arredato con libri ed altri oggetti usati dagli scrittori. Malgrado la sua prospettiva gotica la lastra richiama alcuni
dipinti fiorentini del secondo ’400 come quello del Ghirlandario
nella chiesa di Ognissanti raffigurante San Girolamo e anche
qualche rilievo antico. Del tutto rinascimentale è l’epigrafe che
65
Figura 1. Veit Stoss, Epitafio di Filippo Buonaccorsi detto Callimaco presso la
chiesa dei domenicani a Cracovia, disegno di N. Danielski eseguito
nel 1829
per forma si avvicina all’elegante ‘capitalis quadrata’. Essa rappresenta la prima vera e propria epigrafe classica in Polonia9.
Vale la pena ricordare a questo punto un disegno poco
noto nell’incunabulo della Biblioteca Jagellonica con il testo
di Johannes Duns Scotus sprovvisto di qualità artistica ma interessantissimo dal punto di vista iconografico. Si tratta della
66
raffigurazione di Ercole in bivio eseguita nel penultimo decennio
del ’400 forse da un professore dell’Accademia di Cracovia. Il
tema, noto tra l’altro da Senofonte, è raffigurato ancora in veste
medievale10. Sotto lo sguardo di Santa Trinità due figure femminili, che incarnano il Vizio e la Virtù, cercano di convincere il giovane Ercole di seguirle. Anche se la Virtù è raffigurata piuttosto
come la Giustizia con un copricapo simile al vescovile, il Vizio,
molto più piccola, si presenta come fosse la Venere pudica.
Quindi, per quanto riguarda lo stile, siamo ancora piuttosto nel
medioevo ma il tema che all’alba del Rinascimento fu richiamato dal Petrarca è del tutto umanistico e può darsi rifletta le
discussioni della cerchia di Callimaco. Anche nell’arte del ’500
alcuni soggetti classici erano ancora metà medievali e metà
rinascimentali. Qualche anno dopo lo sposalizio di Bona Sforza
con il re Sigismondo I nelle stanze di Wawel fu rappresentata un’opera teatrale intitolata Iudicium Paridis. L’avvenimento
ebbe luogo nel febbraio del 1522, ma già un mese prima uscì
l’intero testo latino dell’opera con l’incisione sul frontespizio raffigurante la versione del giudizio come visione nel sonno e non
come avvenimento reale, quindi secondo la concezione medievale tratta da Darete e Guido delle Colonne11. Anche il titolo
non lascia dubbi che il messaggio dello spettacolo e dell’incisione che ornava la pubblicazione ebbe la sua fonte nel testo
di Fulgenzio che scrisse: Iudicium Paridis de pomo aureo inter
tres deas, Palladem, Iunonem, Venerem, de triplici hominum
vita contemplativa, activa ac voluptaria.
II. Il mecenatismo di re Sigismondo I
I primi monumenti rinascimentali in Polonia sorsero ai tempi
di Sigismondo I che divenne re nel 1507. Oltre alla sua cappella funeraria il sovrano commissionò, ancora come principe, la
tomba del fratello Giovanni Alberto (1492-1501) e il già menzionato baldacchino della tomba di suo nonno Ladislao Jagiello.
Tutti e tre i monumenti furono eseguiti nella cattedrale di Cracovia da artisti italiani della Toscana o dell’Ungheria. Sigismondo,
ancora principe, soggiornò tre anni a Buda (1498-1501) alla
corte del fratello Ladislao – re d’Ungheria e Boemia – dove il
suo gusto si era formato nello spirito dell’arte italiana. Un anno
dopo il suo ritorno in Polonia il re acquistò da un italiano, forse
da Francesco Fiorentino, picture edificiorum cioè le illustrazioni
di carattere architettonico o un trattato illustrato12. Fu proprio
Francesco Fiorentino ad eseguire tra 1502 e 1505 la prima
opera rinascimentale in Polonia – il suddetto sepolcro del re
67
Giovanni Alberto. L’artista fiorentino creò la cornice architettonica per il sarcofago gotico-rinascimentale scolpito da Stoss e
Jorg Huber. Il monumento è del tipo ‘porta triumfalis’ decorato
da festoni e lupiniere, con coppie di pilastri ornate da panoplie
e candelabri. L’iscrizione sulla tomba, che è conosciuta solo
tramite una fonte del ’600, era la seguente: Divo Principi Ioanni
Alberto, Poloniae etc. Regi Sapientissimo e Optimo13.
Questo riferimento all’antico è ancora più marcato nella
decorazione del già menzionato baldacchino del re Ladislao, il
cui controsofitto è decorato con una serie di dieci lacunari raffigurati in due file, che oltre stemmi e motivi a cartoccio rappresentano i mostri marittimi e due scene di trionfo par excellence
all’antica. Tutte e due le scene sono molto simili – vi osserviamo un imperatore seduto su un carro con un vexillum ovvero
uno standardo militare nella mano destra, accompagnato da
un gruppo di soldati. Curiosamente il currus del vincitore viene
tirato non da cavalli ma da due leoni (Fig. 2). L’iscrizione che
Figura 2. Il Trionfo di un imperatore, rilievo sul controsofitto del baldachino della
tomba del re Ladislao Jagellone nella cattedrale di Cracovia
68
Figura 3.
La Cappella del re Sigismondo I presso la cattedrale di Cracovia,
disegno
in origine decorava il baldacchino, nominava Ladislao – REX
VICTORIOSISSIMUS. È un’opera di Giovanni Cini e di Bartolomeo Berecci.
Berecci, formatosi nella bottega di Giuliano da Sangallo,
venne chiamato a Cracovia nel 1516, dopo la morte di Francesco, per costruire la cappella funeraria del re Sigismondo
e per continuare i lavori presso il Castello reale di Wawel. Il
modello ligneo della cappella fu presentato al re già nel 1517,
ma la consacrazione del monumento, sormontato dal tamburo
ottagonale e coronato da una cupola con lanterna, ebbe luogo
solo nel 1533. Essa fu edificata e adornata con statue a tutto tondo e moltissimi rilievi che coprono le pareti dell’interno,
tra gli anni 1519-1529 (Fig. 3). Come ha dimostrato Stanisław
Mossakowski, la ricca decorazione scultorea dell’interno con
69
la sua marcata erudizione archeologica, è basata in parte sui
disegni simili a quelli del Codex Escurialensis e ai modelli rintracciabili sia a Roma che a Firenze14.
La composizione di tutte e quattro le pareti dell’interno si
basa sullo schema dell’arco trionfale unito al di sopra al motivo della finestra termale ‘cieca’. Questa composizione trova in
Toscana analogie nelle opere di Andrea Sansovino e di Andrea
Ferrucci. Già la decorazione esterna del portale della cappella
ci dimostra diversi motivi ripresi dagli archi di trionfo antichi15. Si
tratta tra l’altro delle figure dei genii femminili con le torce nelle
mani (modellati sulle Vittorie dell’Arco di Costantino o di Settimo Severo), delle panoplie sui pilastri e degli angeli reggiscudi
sulle loro basi. Inoltre sul pilastro di destra troviamo uno scudo
o clipeus con la scena del trionfo elevato da un putto. Questa
volta, diversamente dalla stessa scena sul controsofitto del baldacchino di Ladislao, il currus del trionfatore è tirato da cavalli
e non da leoni. È del tutto verosimile che il trionfatore a guisa di
un imperatore raffiguri il Sigismundo dato il fatto che in Polonia
all’epoca il re era considerato “l’imperatore nel suo regno”.
Altre interessanti citazioni dell’arte di Roma si trovano sui
capitelli. Ad esempio su uno con un efebo nudo che sembra
essere ispirato al famoso capitello delle Terme di Caracalla. Anche i capitelli decorati di aquile grifomorfiche e ornati di teste
di ariete, con ghirlande tra le corna, trovano più analogie alle
opere dell’antichità e non rinascimentali16. Il riflesso dell’antica
scultura romana è rintracciabile nel rilievo della finestra termale
cieca, sopra la parete del trono in cui subito notiamo il motivo
decorativo vegetale della Ara Pacis, come anche sulla parete
sopra l’altare. D’origine antica è anche il motivo di delfino con
la testa vista dal di sopra. Il Berecci si servì sicuramente di una
ricca collezione di disegni e di stampe riguardanti i dettagli delle
opere sia contemporanee che antiche.
Un’attenzione speciale meritano i rilievi con le scene mitologiche che si trovano fra i pennacchi e le finestre termali
‘cieche’. Una di esse rappresenta il gruppo del Tritone che abbraccia la Nereide. Probabilmente abbiamo a che fare con una
specie di unione di due modelli, antico – proveniente di un sarcofago romano conosciuto attraverso disegni, e rinascimentale
di origine raffaellesca (il famoso affresco della Farnesina). Nella
scena della lotta tra il Tritone e la Nereide troviamo somiglianze
a un’altra opera di Raffaello e cioè a un finto bassorilievo raffigurato nell’affresco della Scuola di Atene17.
Come però si può spiegare l’abbondanza dei riferimenti
all’antico e ai trionfi dell’antichità’ nell’arte dell’epoca di Sigi70
smondo I. In parte la risposta potrebbe essere trovata nell’ambiente delle ambizioni dinastiche. Il re, da parte della madre
era nipote del re di Roma Alberto d’Austria e il pronipote di
Sigismondo di Lussemburgo; proprio da lui Sigismondo I ereditò il nome. Questi legami con l’antico e le ambizioni dinastiche
trovano la loro conferma in un ciclo dei busti dei cesari e delle
imperattrici modellati sulle incisioni del noto libro di Andrea Fulvio «Illustrium imagines» (1517), che nell’epoca di Sigismondo
adornavano le pareti del secondo piano del cortile del palazzo
reale18. Di queste immagini, eseguite tra 1517 e 1536 ca. se ne
sono conservate fino ad oggi solo sedici, che tra l’altro raffigurano Teodosio il Grande, Carlomagno e Ottone III.
III. Le commissioni del vescovo-umanista
Pietro Tomicki
Nel 1530 apparve a Cracovia un artista italiano di rilievo:
Giovan Maria Mosca detto il Padovano19. Fra il 1533 e il 1354
egli fece due tabernacoli eucaristici: uno per la Cattedrale, un
altro per la chiesa di Santa Maria. Il primo ti essi fu commissionato dal vescovo di Cracovia Pietro Tomicki. È stato il Padovano a eseguire anche la tomba di Tomicki20.
Pietro Tomicki è tra i personaggi più noti del Rinascimento
polacco. Nato nel 1465, da una famiglia nobile, studiò a lungo
in vari, importanti centri accademici dell’Europa di allora e prima di tutto a Bologna, dove conseguì il titolo di dottore in legge nel 1500. Nello stesso anno santo, fece tirocinio presso la
curia romana e continuò a raccogliere ingenti quantità di libri, il
primo nucleo della sua futura, imponente biblioteca. Il rapporto
del Tomicki con l’Italia è puntualmente tratteggiato da un suo
allievo, il futuro cardinale Stanislao Hozjusz: “I suoi occhi erano
di continuo rivolti all’Italia; notte e giorno il suo pensiero andava
sol¬tanto all’Italia; provava dell’Italia la più intensa nostalgia.
Sapeva che s’erano spostate là le scienze della Grecia, che
quella era la sede di ogni studio”21. Al ritorno in Polonia, mentre
la foggia dei suoi abiti, le sue abitudini e le sue suppellettili gli
procuravano il soprannome di “Italus”, fu segretario del principe polacco e cardinale di Federico Jagellone, quindi segretario
del re Sigismondo I, infine vice cancelliere. Detenne alcuni importanti vescovadi prima di assumere, nel 1524, l’ordinariato di
Cracovia, conservato fino alla morte, nel 1535. Per tutta la vita
Tomicki continuò a ordinare dall’Italia oggetti liturgici, vestiario
e libri.
71
Gli artisti italiani gli edificarono una cappella funeraria a
pianta centrale, sormontata da cupola e, in essa, un bellissimo
sepolcro. In ossequio a una moda fiorentina, si fece eseguire
immagini votive di cera, che fece sistemare nella cattedrale di
Cracovia e in altre chiese. Come sovente avveniva a Firenze,
sopra all’altare della sua cappella funeraria si trova raffigurata
l’Adorazione dei Magi. Anche se la tela fu dipinta da un pittore
tedesco, con ogni probabilità da Hans Duerer, fratello del famoso Albrecht, l’idea di adornare la cappella funeraria con la
scena dei Magi che guardano la Stella, è sicuramente italiana
(Fig. 4)22. Il Tomicki poteva vedere tali cappelle sia a Bologna,
come la cappella Bolognini presso San Petronio, che a Firenze
dove come esempi si possono indicare le cappelle dei Strozzi
presso Santa Trinità, di Guaspare dal Lama già nella chiesa di
Santa Maria Novella e dei Medici nel Palazzo Medici.
Figura 4. Altare della cappella funeraria del vescovo Pietro Tomicki presso la
cattedrale di Cracovia
72
Sopra l’altare della cappella del Tomicki, ora in parte rinascimentale e in parte barocco si trova un rilievo della SS.
Trinità di assai alta qualità artistica. Questo rilievo, incorniciato
da stucchi del XVII o XVIII secolo, è in aperta contraddizione
con l’insieme. Esso riproduce il busto di un Dio Padre barbuto su nuvola, con le braccia levate come il sacerdote durante
l’epiclesi consacratoria. Sotto, la colomba dello Spirito Santo
emanante gli stessi raggi dell’effigie del Padre, e, ancora più in
basso, la croce processionale. Secondo la mia ipotesi il rilievo
faceva in origine parte del tabernacolo eucaristico che su ordine del vescovo eseguì in cornu Evangelii della Cattedrale Giovanmaria Mosca. Alla luce delle lunghe ricerche si sono potute
ritrovare altre parti di questo scrigno, smembrato nei primi del
’600 che sono conservati nella chiesa di Modlnica, nelle vicinanze di Cracovia, dove si trova un bellissimo mezzo-tempietto
e due angeli custoditi nel Museo Nazionale della città. Dalle fonti d’archivio si sa che il tempietto avrebbe dovuto avere forma
d’armadio. Quindi si può supporre che constasse di tre sezioni
fondamentali, comprendenti rispettivamente: la mensa dell’altare, il tempietto, gli angeli adoranti e, nel coronamento, il rilievo
della SS. Trinità (Fig. 5). Il tabernacolo che il Mosca eseguì per
Figura 5. Ricostruzione del Tabernacolo del Padovano nel cattedrale di
Cracovia, disegno/ricostruzione di J. Kowalczyk su indicazione
dell’autore
73
la cattedrale di Cracovia, probabilmente con l’apporto di altri
artisti italiani tra i quali Giovanni Cini da Siena o Bernardino
de Gianotis detto Romanus, concepito poco dopo l’arrivo in
Polonia del maestro, si dimostra un’opera peculiare, senza un
preciso archetipo. Siamo in grado di indicare vari esempi di
arte rinascimentale italiana serviti da modello o ispirazione per
le sue singole parti. Le similitudini fin qui enumerate andranno
integrate, a questo punto, da alcune osservazioni sugli angeli
adoranti e sullo stesso ciborio-tempietto. Gli angeli, riproposta
figurativa della Vittoria alata dell’arte classica, nel Rinascimento
accompagnano vari tipi di custodia per ostie, e sono uno degli
elementi più ricorrenti nell’arte del Quattrocento e della prima
metà del Cinquecento. È giusto menzionare i modelli veneziani
come il tabernacolo del 1518 di Lorenzo Bregno in San Marco,
con una coppia d’angeli ai lati dello sportello sormontato da un
rilievo raffigurante Dio con una lunga barba e le braccia sollevate che ci fa subito pensare al Dio Padre posto a coronamento
del tabernacolo di Wawel. In Italia si possono inoltre incontrare
non solo i cibori-tempietti a sè stanti ma anche quelli a forma
di mezzo tempietto, fra gli altri quello in Santa Croce in Gerusalemme a Roma, di interesse specifico, per i suoi ulteriori tratti
comuni (tra l’altro le colonne toscane a sezione circolare) con il
ciborio della cattedrale di Cracovia.
Vale la pena soffermarsi un po’ sul problema del secondo
tabernacolo eseguito subito dopo 1550 da Padovano per la
chiesa di Santa Maria. Anche in questo caso la parte centrale
dello scrigno è costituita da un bellissimo tempietto con colonnine toscane, sormontato da una cupola23. Come nel caso
del ciborio precedente anche qui ai lati ci sono due angeli in
adorazione, a mani giunte o con le braccia conserte. È interessante osservare – la cosa finora non notata – che la cupola
del tabernacolo fu senza dubbio modellata traendo ispirazione
dal cupolone della cattedrale di Firenze. Al primo sguardo si
vede che non solo i costoloni, gli oculi e la galleria al di sopra
del tamburo (che, nel caso di Santa Maria del Fiore, dopo la
critica di Michelangelo non venne ultimata), ma prima di tutto la
lanterna con i contrafforti, le volute, le lunghe finestre ripetono
la geniale creazione del Brunelleschi e, parzialmente, quella di
Baccio d’Agnolo. Con ogni probabilità la bellissima e così impressionante cupola brunelleschiana rappresentò per il committente un caro ricordo del suo soggiorno italiano.
74
La cappella funeraria del primate Uchanius,
gli obelischi a Cracovia e l’ermetismo italiano in Polonia
Sulle iscrizioni che troviamo nella cappella funeraria del primate Uchański a Łowicz (Lovitium in latino, la città che fu la
residenza dei Primati di Polonia) costruita da Jan Michałowicz
da Urzędów – uno degli allievi polacchi del Padovano si legge:
DESINE MIRARI PARII MOLIMINA SAXI VULT DEUS EXTREMUM NOS MEMINISSE DIEM UCHANIUS PIETATIS
AMANS PATRIAEQUE COLUMNA HAC QUOQUE STRUCTURA STRAVIT IN ASTRA VIAM ANNO DOMINI 1580.
La seconda iscrizione ornava una volta l’epitaffio dell’artista
che, dopo la sua morte a Lovitium nel 1583, venne con ogni
probabilità seppellito nella cappella del primate. L’iscrizione è
la seguente:
DEO PATRI TER MAXIMO / BEATORUMQUE COE TUI /
IOANNIS AD BUSTA SACRAM / ARAM LOCARUNT POSTERI
/ UT SEMPITERNA PHIDIAE / EXTARET ARTIS GLORIA, / QUA
PROMPTUS ANTECELLUTT / PRAXITELES POLONICUS,
/ URENDO VI EDUCATUS / HUIUS SACELLI CON DITOR /
QUID INDIGET PRAECONIO? / OPUS LAUDAT ARTIFICEM.
In questa iscrizione ha importanza particolare la definizione
rarissima nella Polonia del tempo; del Dio cristiano come “Ter
maximus” e cioè Tre Volte Magno. Credo che essa possa essere collegata con l’influsso dell’ermetismo che venne propagato
tra l’altro da Annibale Rosselli (1525-1595), un teologo italiano
che passò in Polonia gli ultimi quindici anni della sua vita e dal
1581 fu professore di teologia a Cracovia24. Bisogna dire che i
testi ermetici erano conosciuti in Polonia fin dal ’400 ma solo la
pubblicazione negli anni Ottanta del ’500 a Cracovia Pymander
Mercurì Tinsmegisti con il commento di Rosselli aveva aperto le
possibilità di studiare questo enigmatico insegnamento. Il quarto volume intitolato De coelo di quest’enorme opera in più di
dieci volumi, pubblicato come il primo nel 1584, si collega non
solo al successore di Uchanius, il primate Karnkowski, al quale
il De Coelo fu dedicato ma anche, in un certo senso, al Lovitium stesso. Karnkowski non solo ha finanziato la pubblicazione
del De Coelo ma proprio a Lovitium ne scrisse l’introduzione
con la data: 19 dicembre 1583. In essa potremmo trovare una
specie di riassunto del De Coelo, Karnkowski disse fra l’altro
che era felice di rendere possibile la pubblicazione di un’opera che trattava dello zodiaco, delle stelle, della luna, del sole,
della Resurrezione etc. Anche in quest’opera Dio è chiamato
“Ter maximus” e il primate collega il soprannome Trismegistos
75
al fatto che proprio egli, per primo, avrebbe annunciato il mistero della Trinità: «Nam de abscondito SS. Trìnitatis mysterio, quod est praecipuum religionis nostrae caput, ante omnes
Philosophorum scholas diuini spiritus afflatu edidit oraculum,
asserens in Trinitate vnam esse diuinitatem, indeq; Trismeissos (sic) i. Ter Maximus est appellatus»25. Lasciando ad un’altra
occasione una più estesa discussione sulla simbologia solare
rintracciabile in questa cappella dobbiamo alla fine menzionare
il problema di una forma simbolica collegata con l’ermetismo e
la simbologia della luce che si trova su molti frontespizi dei libri
pubblicati a Cracovia nella seconda metà del ’500.
Questa forma simbolica, che nel secondo ’500 invase l’arte
europea, è ovviamente l’obelisco. In molti libri stampati nella
seconda metà del ’500 a Cracovia, si trovano incisioni che
rappresentano l’obelisco eretto nel 1554 a Cracovia da Georg
J. Rheticus, l’unico alunno di Copernico. Questo matematico,
astronomo e medico, che dal 1562 fu anche il medico di re
Sigismondo Augusto, si trasferì a Cracovia dopo il suo soggiorno in Italia e diffuse la teoria eliocentrica del suo maestro.
L’obelisco di Rheticus, alto più di 16 m. e coronato da una
palla o sfera dorata, apparve come marchio tipografico nel
1557 sul frontespizio dell’introduzione di Rheticus all’opera di
Johann Werner De trìangulis sphoericis (Fig. 6) e poi anche sul
Figura 6. Frontespizio dell’Introduzione di Rheticus
al « De triangulis sphoericis », 1557
76
frontespizio di Pymander con commento di Rosseli. Con parole
piene di esaltazione Rheticus loda diverse qualità dell’obelisco.
Citando Plinio il Vecchio e aggiungendo parole proprie egli dice
che l’obelisco è consacrato al Sole, il quale è re del cielo e
oculus mundi che illumina tutte le cose etc. Come per Plinio,
anche per Rheticus l’obelisco non è un’invenzione dell’uomo
ma proviene da Dio.
Nel 1557, quindi nell’anno della pubblicazione del testo di
Rheticus, un artista fiorentino, Santi Gucci, eresse nel chiostro
della chiesa dei domenicani a Cracovia la tomba al suo compatriota morto prematuramente, Galeazzo Guicciardini (Fig. 7)26.
Figura 7. La tomba di Galeazzo Guicciardini di Santi Gucci, Cracovia,
chiostro della chiesa dei domenicani
77
La parte centrale della tomba è composta da un sarcofago con
un obelisco simile a quelli delle tombe dei Chigi a Santa Maria
del Popolo. Nel coronamento dell’obelisco vediamo, come nel
caso dell’obelisco di Rheticus, una sfera. Ai lati della tomba ci
sono le torce, simbolo della Resurrezione diffusamente presente nell’arte rinascimentale. Simili monumenti vennero costruiti in
seguito anche in altre chiese in Polonia. La tomba di Guicciardini potrebbe essere ispirata sia alla famosa tomba di Agostino
Chigi nella chiesa Santa Maria del Popolo a Roma, progettata
da Raffaello, sia all’obelisco di Rheticus che ne spiega la simbologia. Dopo poco con le idee tratte da Ermete Trismegisto, a
Roma e in altre città europee vennero alzati numerosi obelischi
che significano Cristo come la vera luce e Sol justitiae.
Conclusione
Al posto di una conclusione vera e propria di queste osservazioni su alcuni aspetti della cultura artistica polacca dell’età
del Rinascimento vorrei tornare brevemente all’argomento delle iscrizioni latine. Abbiamo già notato la loro abbondanza su
diversi monumenti. Qui vogliamo ricordare il revival delle litterae
antique nel Castello di Wawel e nelle sue vicinanze. Ecco qualche esempio dal Castello: TENDIT IN ARDUA VIRTUS (Ovid,
Pont., II, 2. 113, Fig. 8); EXITUS ACTA PROBAT (Ovid, Heroides, 2, 85); MODERATA DURANT (Seneca, Troas II, 257); NO
Figura 8. Uno dei portali del Castello Reale di Cracovia, disegno
78
SCE TE IPSUM (Tempio di Apollo a Delfi)27. E infine il portale del
cosiddetto palazzetto del Capitolo nella Kanonicza costruito dal
già menzionato Santi Gucci nel 1582, dove troviamo una nota
iscrizione proveniente dal Cortile del Belvedere dei Vaticano:
PROCUL ESTE PROFANI. E ben certo che essa costituisca il
ricordo di un soggiorno romano di un prelato o canonico28.
Note
(1) M. Logan Berenson, Dipinti italiani a Cracovia, «Rassegna d’Arte», 2,
1915, pp. 1-4 e 25-29 in particolare p. 1.
(2) A questo proposito si veda, tra l’altro, J. Białostocki, Rinascimento polacco e Rinascimento europeo, in: Polonia-Italia. Relazioni artistiche dal medioevo al
XVIII secolo. (Atti del convegno tenutosi a Roma 21-22 maggio 1975), Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro di Studi a Roma, Conferenze 77,
Wrocław 1979, pp. 21-58 ; T. Da Costa Kaufmann, Court, Cloister and City. The
Art and Culture of Central Europe 1450-1800, London 1995, pp. 51sgg.
(3) Si veda J. Miziołek, L’ideale classico nelle raffigurazioni dei re di Polonia
come capitani (secoli XVI-XVII), in: Il „perfetto capitano” immagini e realta (secoli
XV-XVII). Atti dei seminari di studi Georgetown University a Villa „Le Balze” Istituto
di Studi Rinascimentali di Ferrara 1995-1997, a cura di Marcello Fantoni, Roma
2001, pp. 401-447 con bibliografia nelle note.
(4) T. Ulewicz, Polish Humanism and its Italian Sources: Beginning and Historical Development, in: The Polish Renaissance and its European Context, ed. by
S. Fiszman, Bloomington and Indianapolis 1988, pp. 215-235.
(5) K. Estreicher (Grobowiec Wladyslawa Jagielly (La tomba di Ladislao Jagiello [Il sepolcro di Ladislao Jagiello]), “Rocznik Krakowski”, XXXIII, 1953, pp.
1-45) la tomba poteva essera eseguita da un sconoscito italiano in cui si trovano le traccie dello stile di Ghiberti. Si veda anche Kowalczyk, L’arte del primo
Umanesimo in Polonia e i suoi legami con l’Italia (1420-1500), “Arte Lombarda”,
44/45, 1976, pp. 217-224.
(6) A. Boczkowska, Herkules i Dawid z rodu Jagiellonów (The Hercules and
David of the Jagiellonian Dynasty), Warszawa 1993.
(7) Callimaco esperiente: poeta e politico del ’400. Convegno Internazionale
di Studi, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1987. Si veda anche H.B. Segel,
Renaissance Culture in Poland. The Rise of Humanism 1470-1543, Ithaca and
London 1989, pp. 36-82.
(8) J. Kowalczyk, Filippo Buonaccorsi e Vito Stoss, in: Italia, Venezia e Polonia, 1980, pp. 247-269.
(9) Kowalczyk, L’arte del primo Umanesimo, op. cit., pp. 222-223. Si vedano
inoltre le osservazioni di J. Bialostocki, The Art of the Renaissance in Eastern
Europe. Hungary, Bohemia, Poland, Oxford 1976, pp. 47-48 e figg. 133-137.
(10) Si veda Z. Ameisenowa, Rekopisy i pierwodruki illuminowane Bibloteki
Jagiellonskiej, Breslavia-Cracovia 1958, no. 139, p. 122.
79
(11) J. Miziołek, Miti, leggende, exempla. La pittura profana del Rinascimento
italiano della collezione del conte Karol Lanckoroński presso il Castello Reale di
Cracovia, Warszawa 2003, pp. 113-115 e 480, fig. 77.
(12) Sul re Sigismondo e il suo mecenatismo si veda S. Mossakowski, Bartolomeo Berecci a Cracovie: la chapelle Sigismond, “Revue de l’art”, 101, 1993,
pp. 67-85. Si veda anche F. Quinterio, Il ‘Rinascimento scarlato’ da Esztergom a
Cracovia: I maestri fiorentini alla corte degli Jagelloni, «Quasar», 8/9, 1992-1993,
pp. 19-37.
(13) Miziołek, Ideale classico, op. cit.
(14) Mossakowski, Bartolomeo Berecci, op. cit.
(15) S. Mossakowski, Antique and Renaissance Models of the porta triumphalis in the King Sigismund Chapel in Cracow, “Polish Art Studies”, XII, 1991,
pp. 27-36.
(16) Idem, pp. 72-73, figg. 17-20.
(17) Idem, pp. 75-77, figg. 45-48.
(18) Il più importante studio di questi busti è quello di B. Frey-Stecowa, Znaczenie wzorow graficznych dla identyfikacji wizeronkow na fryzie w kruzgankach
Zamku Wawelskiego (The Importance of Graphic Patterns to the Identification of
the Portraits on the Frieze in the Arcaded Galleries of the Wawel Castle), “Foliae
Historiae Artium”, IV, 1995, pp. 47-70.
(19) A.M. Schulz, Giammaria Mosca called Padovano: a Renaissance Sculptor in Italy and Poland, University Park 1998, vol. 1, pp. 85-96 e passim.
(20) J. Miziołek, Il tabernacolo eucaristico di Giovanmaria Mosca detto il Padovano per la cattedrale di Cracovia, „Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XXXVII, 2/3, 1993, pp. 303-336.
(21) Per questa citazione ed altri particolari riguardanti il vescovo si veda
Miziołek, Il tabernacolo eucaristico, op. cit.
(22) J. Miziołek, The Bishop Piotr Tomicki Chapel in the Cracow Cathedral,
and Its Altarpiece Depicting „The Adoration of the Magi”, [w:] Die Jagiellonen.
Kunst und Kultur einer europaischen Dynastie an der Wende zur Neuzeit, hrsg.
von D. Popp und R. Suckale, Nurnberg 2002, pp. 385-394.
(23) J. Miziołek, Il tabernacolo eucaristico, op. cit.
(24) Si veda J. Miziolek, Oculus mundi, oculus coeli: osservazioni sul simbolismo della luce nella cappella funeraria del primate Uchanius a Lovitium, “Quasar”,
8/9, 1992/93, pp. 5-18.
(25) Pymander Mercurì Tinsmegisti, vol. IV, De coelo con il commento di
Annibale Rosselli, Cracoviae 1584, parte introduttiva senza paginazione.
(26) J. Miziolek, Oculus mundi, op. cit., pp. 14-15, figg. 17-19.
(27) S. Mossakowski, Ethos of the Royal Palace in Cracow, “Polish Art Studies”, III, 1982, pp. 35-45.
(28) Su questa iscrizione si veda A. Nessellrath, Il Cortile delle Statue: luogo
e storia, in: Il Cortile delle Statue. Der Statuenhof des Belvedere im Vatikan, pp.
1-16, in particolare pp. 17-18.
80
PROF. JERZY MIZIOŁEK
Kierownik Zakładu Tradykcji Antyku w Sztukach
Wizualnych Instytutu Archeologii
Universytetu Warszawskiego
Najnowsze badania
nad kontaktami artystycznymi
włosko-polskimi w dobie Renesansu
W r. 1915 Mary Logan Berenson opublikowała w pierwszym numerze czasopisma “Przegląd artystyczny” swoje
spostrzeżenia z podróży po Europie. Napisała: “spędziłam parę
dni w Krakowie […] i znalazłam tam kilka przepięknych włoskich
obrazów i wiele naprawdę interesujących. Architektura i zabytki
tego zachwycającego miasta żywo przypominały mi Italię in
partibus”1. Pewne jest, że pani Berenson miała na myśli przede
wszystkim dzieła renesansowe, które nawet obecnie sprawiaja,
że odbieramy Kraków podobnie, jak to opisała badaczka o
pochodzeniu włosko-amerykańskim. Dzięki pracy licznych
włoskich architektów i rzeźbiarzy, takich jak Francesco Fiorentino, Bartolomeo Berecci, Giovanni Cini, Gianmaria Mosca zwany
Padovano, Santi Gucci i ich polskich kontynuatorów, takich jak
Jan Michałowicz z Urzędowa tworzący w XVI w., stolica Polski,
a następnie wiele innych miast i miejscowości zaczęło zmieniać
swój charakter ze średniowiecznego na renesansowy2. Formy,
tematy i motywy antyczne wdarły się do sztuki na obszarach,
które nigdy wcześniej nie zaznały limes romanus, na potwierdzenie podziwu Polaków dla kultury śródziemnomorskiej, szczególnie łacińskiej i włoskiej.
Badania nad kontaktami artystycznymi między tymi dwoma
krajami mają swoją długą historię, która zaczyna się od bardzo
znanego studium Sebastiano Ciampi, profesora Uniwersytetu
w Warszawie, z lat dwudziestych XIX w., zatytułowanego “Informacje o medykach, nauczycielach muzyki, śpiewakach, architektach, rzeźbiarzach i innych włoskich artystach w Polsce
i polskich we Włoszech” (Lucca 1830). W przeciągu 170 lat
badań opublikowano wiele książek i artykułów na ten temat nie
tylko w Polsce i we Włoszech, ale także w innych krajach3. W
niniejszej relacji postaram się przedstawić badania nad niektórymi aspektami kontaktów artystycznych, opublikowane w
ostatnich dziesięciu latach m.in. przez Annę Boczkowską, Anne
81
Merkham Schulz, Stanisława Mossakowskiego i przeze mnie.
Zajmiemy się przede wszystkim badaniami nad słynną kaplicą
Zygmunta I Starego, dziełami zleconymi przez biskupa Piotra
Tomickiego i Giovanmaria Mosca oraz wpływem hermetyzmu
związanym z długim pobytem w Krakowie Annibale Rosselli.
Powinniśmy zacząć od okresu zwanego Protorenesansem.
Okres Protorenesansu
W XV w. związki między Italią a Polską nie były nowym
zjawiskiem, jednakże właśnie od tego okresu wpływ kultury
włoskiej zaczął nabierać pierwszorzędnego znaczenia. Od pierwszej połowy XV w. wielu Polaków studiowało na uniwersytetach w Bolonii, Padwie i Ferrarze4. Innym ważnym miejscem,
gdzie nawiązywano kontakty z włoskimi humanistami były sobory. Wracając do Polski, zarówno absolwenci uniwersytetów,
jak i biskupi często przywozili ze sobą cenne rękopisy. Na
przykład Grzegorz z Sanoka, który później został mecenasem
Filippa Buonacorsi zwanego Kallimachem, z pobytu na dworze
papieskim Eugeniusza IV przywiózł różne manuskrypty, m.in.
iluminowany rękopis zawierający Genealogie deorum gentilium
Boccaccia. Od wczesnych lat XV w. zauważalny jest w Polsce
wyraźny wpływ ideologii Petrarki. W tym okresie na Akademii
Krakowskiej były prowadzone wykłady na temat klasyków, na
przykład Wergiliusza, który był jednym z najbardziej znanych
i lubianych autorów starożytnych w Polsce, również w
późniejszych wiekach.
Jeśli chodzi o sztukę wizualną, dziełem prawie emblematycznym jest grobowiec króla Władysława Jagiełły w Katedrze
Wawelskiej. Powstający na przełomie dwóch okresów w sztuce, zabytek ten jest świadectwem trwających cały wiek kontaktów artystycznych między Polską a Italią od Protorenesansu do dojrzałego Renesansu. Z pierwszego okresu pochodzi
nagrobek z czerwonego marmuru węgierskiego z figurą króla,
płaskorzeźby na bokach i kolumny. Dzieło to powstało ok.1420
r. lub też dwadzieścia lat później. Baldachim wraz z półokrągłymi
łukami i kapitelami został wykonany w ok. 1520r. Jak już pół
wieku temu wykazał prof. Karol Estreicher, sarkofag królewski
w pewnym stopniu nawiązuje do pierwszej fazy Renesansu florenckiego. Według Estreichera sarkofag ten został wykonany
przez Włocha ze szkoły Ghibertiego, działającego również w
Krakowie5. W ostatnim dziesięcioleciu temat ten został podjęty
m.in. przez Annę Boczkowską; jej zdaniem wykonawcą był
82
uczeń Donatellego. Pomimo, iż autorstwo tego dzieła nie jest
jeszcze w pełni zbadane, nie ulega wątpliwości, że jest ono
zapowiedzią nowego stylu6.
Prawdziwy rozwój myśli humanistycznej w Krakowie nastąpił
podczas pobytu w tym mieście Filippo Buonaccorsi zwanego
Kallimachem, który przebywał tu ponad 25 lat (1470-1496)7.
Mieszkając w Polsce, Kallimach utrzymywał kontakt listowny z
Marsilio Ficino, Pico della Mirandola i Angelo Poliziano, którzy
przesyłali mu swoje dzieła. Z czasem Kraków stał się ważnym
ośrodkiem studiów klasycznych, co umacniała obecność Corrado Celtis i rosnące znaczenie Akademii Krakowskiej. Kallimach został ambasadorem i sekretarzem króla Kazimierza, jak
również opiekunem jego synów: Jana Olbrachta i Zygmunta I
– późniejszych królów Polski, wielbicieli i propagatorów sztuki
renesansowej. Do Krakowa przyjeżdżali artyści włoscy z Węgier
(gdzie już w drugiej połowie XV wieku działało wiele włoskich
korporacji) i z Florencji.
Zanim przejdziemy do dzieł wykonanych dla króla, warto
wspomnieć o grobowcu, zamówionym przez Buonaccorsiego
w r. 1493 u jego przyjaciela, biskupa Pietro di Bnin w katedrze we Włocławku8. Nagrobek wyrzeźbiony przez Wita Stwosza
jest niewątpliwie mniej gotycki od innych dzieł tego artysty. Napis głoszący, że grobowiec został ufundowany „procuratione
Callimachi experientis amici concordissimi” jest humanistyczny
w treści i protorenesansowy w formie. Po raz pierwszy Stwosz zdecydowanie odszedł od epigrafu gotyckiego w stronę
epigrafu humanistycznego o dużych literach, które kształtem
przypominają jeszcze „capitalis rustica”. Warto zwrócić uwagę,
że dwóch diakonów podtrzymujących płytę nagrobkową z przodu grobu jest wzorowanych na bóstwach ze starożytnych
sarkofagów i zabytków renesansowych, jak na przykład sarkofag Erasma Gattamellata w bazylice tegoż Świętego w Padwie,
rzeźbiony przez Gregorio d’Allegretto. Jak zauważa prof. Jerzy
Kowalczyk, również kształt sarkofagu przy murze, z płytą o charakterystycznym ułożeniu, był rozwiązaniem nowatorskim, już
nie średniowiecznym, dość popularnym w Italii Północnej – wystarczy wspomnieć grobowiec kardynała Branda w kościele w
Castiglione d’Olona.
Również płyta z brązu nagrobka samego Kallimacha wykonana ok. 1500 r. na zlecenie dworu królewskiego, pierwotnie
znajdująca się w posadzce Kościoła Dominikanów, a obecnie
wmurowana w ścianę prezbiterium tegoż kościoła zasługuje
na uwagę w związku z humanistycznym ujęciem pamiętnych
osiągnięć Buonaccorsiego. Jest on przedstawiony w gabine83
cie, wyposażonym w księgi i inne przedmioty będące akcesoriami pisarza. Pomimo gotyckiej perspektywy, płyta ta
nawiązuje do niektórych malowideł florenckich z XV w., takich
jak obraz Świętego Hieronima z Kościoła Wszystkich Świętych,
namalowany przez Ghirlandaio, ale również do niektórych
płaskorzeźb antycznych. W pełni renesansowy jest epigraf,
który formą bliski jest eleganckiemu „capitalis quadrata” – pierwszemu prawdziwemu klasycznemu epigrafowi w Polsce9.
W tym miejscu warto wspomnieć o mało znanym rysunku
z inkunabułu będącego własnością Biblioteki Jagiellońskiej, z
tekstem Johannesa Duns Scotusa, pozbawionym wartości
artystycznej, ale ogromnie ciekawym pod względem ikonograficznym. Chodzi o wyobrażenie Herkulesa na rozdrożu
pochodzące z przedostatniego dziesięciolecia pierwszej
połowy XV w., którego autorem być może był jeden z profesorów Akademii Krakowskiej. Temat pojawiający się chociażby
u Ksenofont jest przedstawiony jeszcze zgodnie z koncepcjami
średniowiecznymi. Przed oczami Świętej Trójcy dwie postacie kobiece uosabiające Cnotę i Występek próbują nakłonić
młodego Herkulesa, aby za nimi podążał10. Choć Cnota przedstawiona jest bardziej jak Sprawiedliwość w nakryciu podobnym
do stroju biskupiego, postać będąca wcieleniem Występku,
dużo mniejsza, przypomina wstydliwą Wenus. Tak więc pod
względem stylu jesteśmy jeszcze raczej w Średniowieczu,
jakkolwiek temat, który u progu Renesansu był podjęty przez
Petrarkę, jest na wskroś humanistyczny i być może przewija się
w dyskusjach w kręgu Kallimacha. Podobnie w sztuce XV w.
niektóre tematy klasyczne były przedstawiane w sposób na poły
średniowieczny, na poły renesansowy. Kilka lat po zaślubinach
Bony Sforzy z królem Zygmuntem I w komnatach wawelskich została wystawiona sztuka teatralna zatytułowana Iudicium
Paridis. Wydarzenie to miało miejsce w lutym 1522r., ale już
miesiąc wcześniej ukazał się pełny tekst łaciński tego dzieła –
na stronie tytułowej była zamieszczona rycina przedstawiająca
ten osąd jako wizję senną, a nie jako rzeczywiste wydarzenie,
a więc zgodnie ze średniowieczną koncepcją zaczerpniętą
z Dantego i Guido delle Colonne11. Sam tytuł nie pozostawia
wątpliwości co do tego, że przesłanie spektaklu i rycina, która
zdobiła tamto wydanie zostały zainspirowane tekstem Fulgenzio, który napisał: Iudicium Paridis de pomo aureo inter tres
deas, Palladem, Iunonem, Venerem, de triplici hominum vita
contemplativa, activa ac voluptaria.
84
Mecenat króla Zygmunta I
Pierwsze zabytki renesansowe powstały w Polsce za czasów
Zygmunta I, który został królem w 1507r. Oprócz własnej kaplicy, król (wtedy jeszcze książę) zlecił wykonanie grobowca brata
Jana Olbrachta (1492-1501) oraz wspomnianego już baldachimu grobowca swojego dziadka Władysława Jagiełły. Wszystkie
trzy zabytki zostały wykonane w katedrze krakowskiej przez
włoskich artystów z Toskanii lub Węgier. Zygmunt, jeszcze jako
książę, przebywał trzy lata w Budzie (1498-1501) na dworze
brata Władysława – króla Czech i Węgier i tam kształtował się
jego gust w klimacie sztuki włoskiej. Rok po powrocie do Polski król kupił od jakiegoś Włocha (być może był to Francesco
Fiorentino) picture edificiorum, tzn. ilustracje o charakterze architektonicznym lub ilustrowany traktat12. To właśnie Francesco Fiorentino w latach 1502-1505 wykonał pierwsze dzieło
renesansowe w Polsce – wspomniany wcześniej grobowiec
króla Jana Olbrachta. Artysta ten stworzył ramy architektoniczne sarkofagu gotycko – renesansowego wyrzeźbionego przez
Stwosza i Jorga Hubera. Monument ten ma charakter „porta
triumfalis”, jest udekorowany girlandami, a ozdobą pilastrów są
panoplie i kandelabry. Napis na grobie, znany tylko dzięki pewnemu źródłu z XVII w. brzmiał następująco: Divo Principi Ioanni
Alberto, Poloniae etc. Regi Sapientissimo e Optimo13.
Nawiązania do antyku są jeszcze wyraźniejsze na baldachimie króla Władysława, o sklepieniu ozdobionym szeregiem
dziesięciu kasetonów w dwóch rzędach, które obok herbów i
kartuszy wyobrażają morskie potwory i dwie sceny tryumfu o
przesłaniu w antycznym stylu. Obie sceny są bardzo podobne
– widzimy tam cesarza siedzącego na wozie, w prawej dłoni
trzymającego vexillum, czyli sztandar wojenny, otoczonego
grupą żołnierzy. Co ciekawe, currus zwycięzcy ciągną nie konie, a dwa lwy. W inskrypcji, która pierwotnie zdobiła baldachim, Władysław był nazwany REX VICTORIOSISSIMUS. Jest
to dzieło Giovanniego Cini i Bartolomea Berecci.
Berecci szkolący się w pracowni Giuliano da Sangallo
został sprowadzony do Krakowa w r. 1516, po śmierci Francesca, w celu postawienia kaplicy - mauzoleum króla Zygmunta
oraz kontynuowania prac na Zamku Królewskim na Wawelu.
Drewniany model kaplicy został zademonstrowany królowi
już w 1517r., ale konsekracja monumentu, zwieńczonego
ośmiokątnym tamburem, kopułą i latarnią, miała miejsce dopiero w 1533r. Kaplica ta, ozdobiona posągami i licznymi reliefami
pokrywającymi ściany od wewnątrz, została wzniesiona w la85
tach 1519-1529. Jak wykazał Stanisław Mossakowski, bogate
zdobienia rzeźbiarskie wewnątrz kaplicy o silnej wymowie archeologicznej, tworzą częściowo rysunki zbliżone do rysunków
z Codex Escurialensis oraz wzorców znajdujących się zarówno
w Rzymie jak i we Florencji14.
Układ wszystkich czterech ścian wewnątrz opiera się na
schemacie łuku tryumfalnego połączonego u góry z motywem
ślepego okna. Taki układ znajduje swoją analogię w Toskanii w dziełach Andrei Sansovino i Andrei Ferrucci. Sama
zewnętrzna dekoracja portalu kaplicy wykorzystuje liczne
motywy zaczerpnięte z antycznych łuków tryumfalnych15. Są to
m.in. postaci bóstw kobiecych z pochodniami w rękach (wzorowane na Wiktoriach z Łuku Konstantyna i Settimo Severo),
panoplie na pilastrach i anioły przytrzymujące tarcze u dołu.
Ponadto na prawym pilastrze widzimy amorka podnoszącego
tarczę (clipeus) ze sceną tryumfu. Tym razem, inaczej niż w
przypadku sceny wyobrażonej na sklepieniu baldachimu króla
Władysława, currus tryumfatora ciągną konie, a nie lwy. Jest
całkiem prawdopodobne, że tryumfator jako cesarz symbolizuje Zygmunta, zważywszy, że w ówczesnej Polsce król był
uważany za „cesarza w swoim królestwie”.
Inne interesujące nawiązania do sztuki rzymskiej znajdujemy
na kapitelach. Na przykład na jednym z nich jest przedstawiony
nagi efeb – jak się wydaje, wzorcem był słynny kapitel z Term
Caracalla. Również kapitele ozdobione orłami gryfomorficznymi oraz głowami baranów z girlandami między rogami znajdują
swoje analogie bardziej w sztuce starożytnej niż renesansowej.16 Wpływ starożytnej rzeźby rzymskiej można znaleźć
w reliefie ślepego okna, powyżej ściany tronowej, gdzie natychmiast zauważamy roślinny motyw dekoracyjny Ara Pacis, podobnie jak na ścianie powyżej ołtarza. Ze starożytności
wywodzi się również motyw delfina z głową widzianą z góry.
Berecci z pewnością sięgał do bogatej kolekcji rysunków i reprodukcji przedstawiających w szczegółach zarówno dzieła
jemu współczesne, jak i starożytne.
Na szczególną uwagę zasługują reliefy wyobrażające
sceny mitologiczne, znajdujące się między łukami sklepienia a
„ślepymi” oknami. Na jednym z nich jest przedstawiona grupa Trytona, który obejmuje Nereide. Prawdopodobnie mamy
do czynienia ze swoistym połączeniem dwóch modeli: antycznego, pochodzącego z rzymskiego sarkofagu znanego z
rysunków oraz renesansowego, rafaelowskiego (słynny fresk
Farnesina). Natomiast w scenie walki między Trytonem a Nereide znajdujemy podobieństwa do innego dzieła Raffaella, a mia86
nowicie imitacji płaskorzeźby przedstawionej na fresku Scuola
di Atene17.
Jak natomiast można wyjaśnić wielość nawiązań do antyku
oraz do scen tryumfów ze starożytności w sztuce epoki Zygmunta I? Częściowo odpowiedzi można szukać w ambicjach
dynastycznych. Zygmunt I był od strony matki wnukiem króla
Alberta Austriackiego i prawnukiem Zygmunta Luksemburskiego; po nim właśnie Zygmunt I odziedziczył imię. Te powiązania
z antykiem i ambicje dynastyczne znajdują swoje potwierdzenie w szeregu popiersi cesarzy i cesarzowych wzorowanych
na rycinach słynnej księgi Andrei Fulvio „Illustrium imagines”
(1517), które w czasach Zygmunta I zdobiły ściany drugiego piętra dziedzińca zamku królewskiego18. Z tych podobizn,
wykonanych w latach 1517-1536 ok., zachowało się dotychczas tylko szesnaście, m.in. Teodora Wielkiego, Karola Wielkiego
i Ottona III.
Dzieła zlecone przez biskupa – humanistę
Piotra Tomickiego
W r. 1530 pojawił się w Krakowie ważny włoski artysta:
Giovan Maria Mosca zwany Padovano. W latach 1533-1534
wykonał on dwa tabernakula: jedno z przeznaczeniem dla Katedry, a drugie dla Kościoła Mariackiego. To pierwsze powstało
na zlecenie biskupa krakowskiego Piotra Tomickiego. Tenże
Padovano wykonał również nagrobek biskupa19.
Piotr Tomicki był jednym z najbardziej znanych postaci polskiego Renesansu20. Urodził się w 1465 r. w rodzinie szlacheckiej,
długo studiował w różnych ważnych ośrodkach akademickich
działających wtedy w Europie, przede wszystkim w Bolonii, gdzie uzyskał tytuł doktora prawa w r. 1500. W tym samym roku
odbył praktykę w kurii rzymskiej. Zgromadził olbrzymią ilość
ksiąg – były to zaczątki jego ogromnej później biblioteki. Stosunek Tomickiego do Italii dokładnie opisał jego uczeń, późniejszy
kardynał Stanisław Hozjusz: „jego oczy były ciągle zwrócone w
stronę Italii; dzień i noc jego myśli biegły tylko ku Italii; tęsknił za
Italią niezmiernie. Wiedział, że tam została przeniesiona nauka
Grecji, i tam rozwijały się wszelkie nauki”21. Po powrocie do Polski jego sposób ubierania się, zwyczaje i sprzęty przyniosły mu
przydomek „Italicus”. Został on sekretarzem polskiego księcia
i kardynała Fryderyka Jagiellończyka, później sekretarzem króla Zygmunta I, a wreszcie podkanclerzym. Objął kilka ważnych
diecezji, a w 1524r. biskupstwo krakowskie, które utrzymał aż
87
do śmierci w 1535r. Przez całe swoje życie Tomicki sprowadzał
z Italii przedmioty liturgiczne, garderobę i książki.
Artyści włoscy wznieśli mu kaplicę pośmiertną na planie centralnym, zwieńczoną kopułą, z pięknym nagrobkiem wewnątrz.
W hołdzie modzie florenckiej zlecił wykonanie wizerunków
wotywnych z wosku, które kazał umieścić w katedrze krakowskiej
i w innych kościołach. Tak jak często praktykowano we Florencji,
nad ołtarzem jego kaplicy pośmiertnej zawieszono obraz „Hołd
Trzech Króli”. Chociaż obraz jest autorstwa malarza niemieckiego, najprawdopodobniej Hansa Durera, brata słynnego Albrechta, sam pomysł ozdobienia kaplicy pośmiertnej sceną Trzech
Króli wpatrzonych w gwiazdę jest z pewnością włoski22. Tomicki mógł zobaczyć takie kaplice zarówno w Bolonii (n.p. kaplica
Bolognini w San Petronio), jak we Florencji (n.p. kaplica Strozzi
w Santa Trinita’, kaplica Guaspare dal Lama w kościele Santa
Maria Novella i kaplica Medici w Palazzo Medici).
Nad ołtarzem kaplicy Tomickiego, obecnie częściowo renesansowej, częściowo barokowej, znajduje się relief Świętej
Trójcy o wysokiej wartości artystycznej. Ten relief, obramowany
stiukami z XVII lub XVIII w., jest w wyraźnej sprzeczności z
całością. Przedstawia on popiersie brodatego Boga Ojca ponad chmurą, ze wzniesionymi rękami niczym kapłan podczas
przeistoczenia. Poniżej, gołąb symbolizujący Ducha Świętego
wysyła te same promienie, co figura Boga Ojca, a u dołu
widoczny jest krzyż procesyjny. Przypuszczam, że pierwotnie relief ten stanowił część tabernakulum eucharystycznego, wykonanego na zlecenie biskupa in cornu Evangelii przez
Giovanmaria Mosca. Po długich poszukiwaniach odnaleziono
inne fragmenty tego tabernakulum, rozebranego na części w
pierwszych latach XVII w., które zachowały się w kościele w
Modlnicy w okolicach Krakowa, gdzie znajduje się piękne cyborium i dwa anioły przechowywane w Muzeum Narodowym
miasta. Ze źródeł archiwalnych wynika, że cyborium miało mieć
formę szafki, a więc można przypuszczać, że składało się z trzech głównych sekcji, obejmujących: ołtarz, cyborium, anioły w
adoracji, i, u zwieńczenia, relief Świętej Trójcy.
Tabernakulum wykonane przez Mosca dla katedry
krakowskiej, prawdopodobnie z udziałem innych artystów
włoskich, m.in. Giovanniego Cini ze Sieny lub Bernardino
de Gianotis zwanego Romanus, opracowane niedługo po
przyjeździe mistrza do Polski, jest dziełem szczególnym, które
nie powstało w oparciu o jakiś konkretny wzorzec. Możemy
natomiast wskazać przykłady sztuki renesansowej, które były
inspiracją przy powstawaniu jego poszczególnych części. Do
88
opisu podobieństw, przytoczonego powyżej, należałoby dodać
kilka uwag na temat aniołów adorujących i samego cyborium.
Anioły będące powtórzeniem figury skrzydlatej Wiktorii ze sztuki
klasycznej, w okresie Renesansu były umieszczane przy tabernakulach – są one jednym z najczęściej powtarzających
się elementów w sztuce XV w. i pierwszej połowy XVIw. Warto wspomnieć wzorce weneckie, takie jak tabernakulum z San
Marco z 1518r. autorstwa Lorenzo Bregno, obok drzwiczek
którego znajduje się para aniołów adorujących, a same drzwiczki zwieńczone są płaskorzeźbą z wizerunkiem Boga o
długiej brodzie i wzniesionych ramionach, przywodzącą na myśl
figurę Boga Ojca z wawelskiego tabernakulum. We Włoszech
można znaleźć nie tylko cyboria będące świątyniami samymi w
sobie, ale również cyboria w formie pół-świątyni – n.p. cyborium znajdujące się w Santa Croce in Gerusalemme w Rzymie,
a które zasługuje na szczególną uwagę ze względu na wspólne
cechy (m.in. kolumny toskańskie o kolistym przekroju) z cyborium katedry w Krakowie.
Warto zatrzymać się dłużej nad zagadnieniem drugiego tabernakulum wykonanego zaraz po 1550r. przez Padovano dla
Kościoła Mariackiego. Także i tutaj środkowa część szkatuły
składa się z pięknej świątyni z toskańskimi kolumienkami, przykrytej kopułą . Tak jak w przypadku wcześniejszego cyborium,
po bokach widnieją dwa anioły w geście adoracji, ze złożonymi
lub splecionymi dłońmi. Interesujące jest (czego dotychczas
nie zauważono), że kopuła tabernakulum została wykonana na
wzór kopuły katedry florenckiej. Na pierwszy rzut oka widać, że
nie tylko użebrowanie, okienka i galeria nad tamburem (w przypadku Santa Maria del Fiore nie ukończona na skutek krytyki
Michelangelo), ale przede wszystkim latarnia z przyporami,
esownice, długie okna przypominają genialne dzieło Brunelleschiego i – częściowo – dzieło Baccio d’Agnolo. Najprawdopodobniej piękna i wywierajaca silne wrażenie kopuła autorstwa
Brunelleschiego była dla zleceniodawcy drogim wspomnieniem
z jego pobytu we Włoszech.
Kaplica pośmiertna prymasa Uchańskiego,
obeliski w Krakowie i hermetyzm włoski w Polsce
Oto inskrypcja znajdująca się w kaplicy pośmiertnej kaplicy
prymasa Uchańskiego w Łowiczu (miasta będącego siedzibą
prymasów w Polsce) wzniesionej przez Jana Michałowicza z
Urzędowa – jednego z polskich uczniów Padovano:
89
DESINE MIRARI PARII MOLIMINA SAXI VULT DEUS EXTREMUM NOS MEMINISSE DIEM UCHANIUS PIETATIS
AMANS PATRIAEQUE COLUMNA XAC QUOQUE STRUCTURA STRAVIT IN ASTRA VIAM ANNO DOMINI 1580
Druga inskrypcja tworząca niegdyś epitafium artysty,
najprawdopodobniej pogrzebane w kaplicy prymasa po
jego śmierci, która nastąpiła w 1583r. w Łowiczu, brzmiała
następująco:
DEO PATRI TER MAXIMO / BEATORUMQUE COE TUI /
IOANNIS AD BUSTA SACRAM / ARAM LOCARUNT POSTERI
/ UT SEMPITERNA PHIDIAE / EXTARET ARTIS GLORIA, / QUA
PROMPTUS ANTECELLUTT / PRAXITELES POLONICUS,
/ URENDO VI EDUCATUS / HUIUS SACELLI CON DITOR /
QUID INDIGET PRAECONIO? / OPUS LAUDAT ARTIFICEM.
W tej inskrypcji szczególne znaczenie ma bardzo rzadkie
wówczas nazwanie Boga chrześcijańskiego „Ter maximus”
czyli potrójnie wielkim. Sądzę, że mógł się tu zaznaczyć wpływ
hermetyzmu, propagowanego m.in. przez Annibale Rosselli
(1525-1595), włoskiego teologa, który spędził w Polsce ostatnich piętnaście lat swojego życia i od 1581r. był profesorem
teologii w Krakowie24. Teksty hermetyczne były co prawda
znane w Polsce od XV w., ale dopiero ukazanie się w latach
osiemdziesiątych XVI w. w Krakowie Pymander Mercurì Tinsmegisti opatrzonego komentarzem Rosselliego pozwoliło na
studiowanie tej enigmatycznej nauki. Czwarty wolumen tego olbrzymiego dzieła, liczącego ponad dziesięć ksiąg, zatytułowany
De Coelo, opublikowany jako pierwszy w 1584r., łączy się
nie tylko z następcą Uchańskiego, prymasem Karnkowskim,
któremu De Coelo było dedykowane, ale również, w pewnym
sensie, z samym Łowiczem. Karnkowski nie tylko sfinansował
wydanie De Coelo, ale właśnie w Łowiczu, 19 grudnia 1583r.,
napisał wstęp do tegoż dzieła, zawierający swoiste streszczenie
De Coelo. Karnkowski wspomina tam m.in., że jest szczęśliwy
mogąc umożliwić opublikowanie dzieła traktującego o zodiaku,
gwiazdach, księżycu, zmartwychwstaniu, etc. Również i w tym
dziele Bóg jest nazwany „Ter maximus” i prymas wiąże miano Trismegistos z tym, iż to właśnie on, jako pierwszy objawił
tajemnicę Świętej Trójcy: «Nam de abscoiidito SS. Trìnitatis
mysterio, quod est praecipuum religionis nostrae caput, ante
omnes Pbilosopbomm scbolas diurni spiritus afflatu edidit
oraculum, asserens in Trinitate vnam esse diuinitatem, indeq;
Trismeissos (sic) i. Ter Maximus est appellatus»25. Zostawiając
na inną okazję obszerniejszą dyskusję na temat symboliki
słonecznej, którą można znaleźć w tej kaplicy, należy wspomnieć
90
o symbolicznym kształcie związanym z hermetyzmem oraz o
symbolice światła widocznej na wielu stronach tytułowych
ksiąg wydawanych w Krakowie w drugiej połowie XVI w.
Ten symboliczny kształt, który w drugiej połowie XVI w.
wdarł się do sztuki europejskiej to oczywiście obelisk. W wielu
księgach drukowanych w drugiej połowie XVI w. w Krakowie
znajdują się ryciny przedstawiające obelisk wzniesiony w 1554r.
w Krakowie przez Georga J. Rheticus’a, jedynego ucznia Kopernika. Ten matematyk, astronom i lekarz, od. 1562r. lekarz
króla Zygmunta Augusta, przeniósł się do Krakowa po pobycie
w Italii i rozpowszechnił teorię heliocentryczną swojego mistrza. Obelisk Rheticus’a, o wysokości ponad 16 m., zwieńczony
złoconą kulą, pojawił się w r. 1557 jako znak typograficzny na
stronie tytułowej wprowadzenia Rheticus’a do dzieła Johanna
Wernera De trìangulis sphoericis, a później również na stronie
tytułowej Pymander’a opatrzonego komentarzem Rosseli’ego.
W słowach pełnych zachwytu Rheticus wychwala rozliczne
zalety obelisku. Cytując Pliniusza Starszego i dodając własny
komentarz, Rheticus stwierdza, że obelisk ten jest poświęcony
Słońcu, które jest królem nieba i oculus mundi oświecającym
wszystkie rzeczy, etc. Tak jak Pliniusz, również Rheticus uważa,
że obelisk nie jest dziełem człowieka, tylko pochodzi od Boga.
W r. 1557, a więc w roku opublikowania tekstu Rheticus’a, artysta florencki, Santi Gucci, wzniósł w krużganku
kościoła Dominikanów w Krakowie nagrobek dla swojego
zmarłego przedwcześnie rodaka, Galeazzo Guicciardini . W
części środkowej nagrobka mieści się sarkofag z obeliskiem
podobnym do obelisków z grobów Chigi w Santa Maria del
Popolo. W zwieńczeniu obelisku, tak jak i w przypadku obelisku
Rheticus’a, widoczna jest kula. Z boków nagrobka znajdują się
świece, symbol zmartwychwstania, popularny w sztuce epoki Renesansu. Podobne zabytki powstały również w innych
kościołach w Polsce. Przy wykonywaniu nagrobka Guicciardiniego inspiracją mógł być słynny grób Agostino Chigi w kościele
Santa Maria del Popolo w Rzymie, zaprojektowany przez Rafaela, lub obelisk Rheticus’a, który wyjaśnia jego symbolikę.
Niedługo później, w ślad za rozprzestrzenianiem się ideologii
Ermete Trismegisto, w Rzymie i w innych miastach europejskich wzniesiono liczne obeliski, które symbolizują Chrystusa jako
prawdziwe światło i Sol justitiae.
91
Podsumowanie
W miejsce właściwego podsumowania powyższych
rozważań na temat wybranych przejawów polskiej kultury artystycznej epoki Renesansu, chciałbym powrócić do tematu inskrypcji łacińskich. Już zwróciliśmy uwagę, jak wiele ich
jest na różnych monumentach. W tym miejscu chcielibyśmy
przypomnieć revival litterae antique na Zamku Wawelskim i
jego okolicach. Oto kilka przykładów z Zamku: TENDIT IN ARDUA VIRTUS (Owid, Pont., II, 2.113); EXITUS ACTA PROBAT
(Owid, Heroides, 2, 85); MODERATA DURANT (Seneka, Troas
II, 257); NOSCE TE IPSUM (Świątynia Apolla w Delfach) .Wreszcie słynny napis z portalu tzw. Pałacu Kapituły na ul. Kanoniczej, wykonanym przez wspomnianego już Santi Gucci w r.
1582, którego pierwowzór znajduje się na Dziedzińcu Belvedere w Watykanie: PROCUL ESTE PROFANI. Z pewnością
jest on wspomnieniem pobytu w Rzymie jakiegoś prałata lub
kanonika28.
Note
(1) M. Logan Berenson, Dipinti italiani a Cracovia, «Rassegna d’Arte», 2,
1915, pp. 1-4 i 25-29 sząególnie s. 1.
(2) A questo proposito si veda, tra l’altro, J. Białostocki, Rinascimento polacco e Rinascimento europeo, in: Polonia-Italia. Relazioni artistiche dal medioevo al
XVIII secolo. (Atti del convegno tenutosi a Roma 21-22 maggio 1975), Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro di Studi a Roma, Conferenze 77,
Wrocław 1979, s. 21-58 ; T. Da Costa Kaufmann, Court, Cloister and City. The Art
and Culture of Central Europe 1450-1800, London 1995, s. 51 i nast.
(3) Si veda J. Miziołek, L’ideale classico nelle raffigurazioni dei re di Polonia
come capitani (secoli XVI-XVII), in: Il „perfetto capitano” immagini e realta (secoli
XV-XVII). Atti dei seminari di studi Georgetown University a Villa „Le Balze” Istituto
di Studi Rinascimentali di Ferrara 1995-1997, a cura di Marcello Fantoni, Roma
2001, s. 401-447 z bibliografią w przypisach.
(4) T. Ulewicz, Polish Humanism and its Italian Sources: Beginning and Historical Development, in: The Polish Renaissance and its European Context, ed. by
S. Fiszman, Bloomington and Indianapolis 1988, s. 215-235.
(5) K. Estreicher (Grobowiec Wladyslawa Jagielly (La tomba di Ladislao Jagiello [Il sepolcro di Ladislao Jagiello]), “Rocznik Krakowski”, XXXIII, 1953, pp.
92
1-45) grób mogł zostać wykonany przez nieznanego artystę Włoch, którego
można odnaleźć slady stylu Ghiertiego. Por. również Kowalczyk, L’arte del primo
Umanesimo in Polonia e i suoi legami con l’Italia (1420-1500), “Arte Lombarda”,
44/45, 1976, s. 217-224.
(6) A. Boczkowska, Herkules i Dawid z rodu Jagiellonów (The Hercules and
David of the Jagiellonian Dynasty), Warszawa 1993.
(7) Callimaco esperiente: poeta e politico del ’400. Convegno Internazionale di Studi, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1987. Por. również H.B. Segel,
Renaissance Culture in Poland. The Rise of Humanism 1470-1543, Ithaca and
London 1989, s. 36-82.
(8) J. Kowalczyk, Filippo Buonaccorsi e Vito Stoss, w: Italia, Venezia e Polonia, 1980, s. 247-269.
(9) Kowalczyk, L’arte del primo Umanesimo, op. cit., s. 222-223 Por. również
J. Bialostocki, The Art of the Renaissance in Eastern Europe. Hungary, Bohemia,
Poland, Oxford 1976, s. 47-48 e ilustr. 133-137.
(10) Si veda Z. Ameisenowa, Rekopisy i pierwodruki illuminowane Bibloteki
Jagiellonskiej, Breslavia-Cracovia 1958, nr. 139, s. 122.
(11) J. Miziołek, Miti, leggende, exempla. La pittura profana del Rinascimento
italiano della collezione del conte Karol Lanckoroński presso il Castello Reale di
Cracovia, Warszawa 2003, s. 113-115 e 480, ilustr. 77.
(12) Por. S. Mossakowski, Bartolomeo Berecci a Cracovie: la chapelle Sigismond, “Revue de l’art”, 101, 1993, pp. 67-85. Por. również F. Quinterio, Il
‘Rinascimento scarlato’ da Esztergom a Cracovia: I maestri fiorentini alla corte
degli Jagelloni, «Quasar», 8/9, 1992-1993, s. 19-37.
(13) J. Miziołek, Ideale classico, op. cit.
(14) Mossakowski, Bartolomeo Berecci, op. cit.
(15) S. Mossakowski, Antique and Renaissance Models of the porta triumphalis in the King Sigismund Chapel in Cracow, “Polish Art Studies”, XII, 1991,
s. 27-36.
(16) Idem, s. 72-73, ilustr. 17-20.
(17) Idem, s. 75-77, ilustr. 45-48.
(18) Najważniejszą pracą o w/w popiersiach napisała B. Frey-Stecowa, Znaczenie wzorow graficznych dla identyfikacji wizeronkow na fryzie w kruzgankach
Zamku Wawelskiego (The Importance of Graphic Patterns to the Identification of
the Portraits on the Frieze in the Arcaded Galleries of the Wawel Castle), “Foliae
Historiae Artium”, IV, 1995, s. 47-70.
(19) A.M. Schulz, Giammaria Mosca called Padovano: a Renaissance Sculptor in Italy and Poland, University Park 1998, vol. 1, s. 85-96 i nast.
(20) J. Miziołek, Il tabernacolo eucaristico di Giovanmaria Mosca detto il Padovano per la cattedrale di Cracovia, „Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XXXVII, 2/3, 1993, s. 303-336.
(21) Por. J .Miziołek, Il tabernacolo eucaristico, op. cit.
(22) J. Miziołek, The Bishop Piotr Tomicki Chapel in the Cracow Cathedral,
and Its Altarpiece Depicting „The Adoration of the Magi”, [w:] Die Jagiellonen.
Kunst und Kultur einer europaischen Dynastie an der Wende zur Neuzeit, hrsg.
von D. Popp und R. Suckale, Nurnberg 2002, s. 385-394.
(23) J. Miziołek, Il tabernacolo eucaristico, op. cit.
(24) Por. J. Miziolek, Oculus mundi, oculus coeli: osservazioni sul simbolismo
della luce nella cappella funeraria del primate Uchanius a Lovitium, “Quasar”, 8/9,
1992/93, s. 5-18.
(25) Pymander Mercurì Tinsmegisti, vol. IV, De coelo con il commento di
Annibale Rosselli, Cracoviae 1584, część wstępna bez numeraci stron.
(26) J. Miziolek, Oculus mundi, op. cit., s. 14-15, ilustr. 17-19.
(27) S. Mossakowski, Ethos of the Royal Palace in Cracow, “Polish Art Studies”, III, 1982, s. 35-45.
(28) O tym napisie por. A. Nessellrath, Il Cortile delle Statue: luogo e storia,
in: Il Cortile delle Statue. Der Statuenhof des Belvedere im Vatikan, pp. 1-16,
szczególnie s. 17-18.
93
HANNA SZABELSKA
Dipartimento di Studi Polacchi
Università Jagellonica di Cracovia
Il Trattato di Leonard Cox
De erudienda iuventute sullo sfondo delle
ricerche linguistiche dell’epoca
Non meraviglia il fatto che nel trattato dell’umanista inglese
Leonard Cox, intitolato De erudienda iuventute e pubblicato nel
1526, trovino riflesso alcune questioni linguistiche che travagliavano direttamente altri suoi contemporanei, come Erasmo
da Rotterdam e Filip Melanchton, le cui opere aveva reso note
alle sue lezioni. Appropriato, invece, appare il tentativo di stabilire fino a che punto, ispirato dal loro pensiero, Cox elaborò
in maniera creativa una concezione che rientrava nel tessuto
della proprie idee e quale fu il suo ruolo nella diffusione di una
più approfondita riflessione sulla lingua nei programmi d’insegnamento.
Allo scopo di formulare un giudizio equilibrato in materia, risulta essere necessario cercare di ricostruire in maniera precisa
quali fossero i fini che si era prefisso Cox nel trattato analizzato
in questa sede. Ciò permetterà di evitare accuse di “sovrainterpretazione”, consistente nello sporgere all’autore accuse di
mancata presa in considerazione di contenuti che non aveva
avuto l’intenzione di trattare nel suo trattatello per via di alcune
premesse programmatiche.
La disamina delle finalità che Cox si era prefisso nel momento in cui si decise a scrivere un ennesimo trattato (ne erano
già apparsi numerosi altri in precedenza) sul programma d’insegnamento, richiede un certo virtuosismo interpretativo. L’autore, infatti, inserisce la parte programmatica della sua opera
nella poetica della lettera dedicatoria seguendo un topos per
lui caratteristico.
Il trattato che Cox, fedele alla regola dell’umiltà (humilitas),
definisce nel titolo come libellus, conformemente con la tradizione retorica, sia per quanto concerne le dimensioni dell’opera
che per le questioni in essa comprese, è preceduto da un’annotazione tipica per le epistole, in cui precisa chi sia il destinatario del testo: “Ad Reuerendissimum in Christo Patrem, ac
95
Dominum D <ominum> Petrum Tomitium dei gratia Episcopum
Cracouiensem, ac Regni Poloniae Vicecancellarium.”1
A tale annotazione si riconnette l’inizio del libretto De erudienda iuventute, dove Cox si rivolge direttamente al suo potente protettore: „Graue munus, Ornatissime Praesul, atque ut
ille dicit periculosa plenum area, mihi superioribus hisce diebus
iniunxerunt...”2. In tal modo egli si muove nello spazio discorsivo indicato dalla poetica dell’epistola. È evidente che in tale
strategia rientrino per lo meno due filoni della tradizione epistolare umanistica di provenienza antica: la tradizione della discussione sotto forma di lettera, destinata anticipatamente alla
pubblicazione3, e la lettera dedicatoria di carattere panegirico4.
Cox, sottolineando il peso dell’autorità di Tomicki, la cui volontà,
come scrive, anche nelle questioni di infima importanza era per
lui sacra5, costruisce le sue considerazioni teoriche sulla formazione della gioventù basandosi sul suo rapporto personale
con il vescovo di Cracovia, spiritus movens dell’intera iniziativa.
Il sapiente utilizzo della tensione fra l’atmosfera intima della lettera e l’obiettività dell’indagine scientifica non è ovviamente una
scoperta di Cox6. Se si prende in considerazione la passione
degli umanisti per la corrispondenza destinata anche ad estranei, interessati alla discussione, l’epistola di Cox appare essere
una vera figlia della sua epoca. Si butta agli occhi, però, il fatto
che la vicinanza epistolare, che permetteva al lettore ad una più
diretta partecipazione allo scambio d’idee, quasi come ad una
lezione da manuale, (sia pure nel ruolo di testimone non invitato), viene utilizzata da Cox al servizio del panegirico, ottenendo
in tal modo una sintesi di generi, comprendente tipi di discorso
di varia provenienza (trattato, lettera, declamazione). Occorre
qui sottolineare che tale sintesi fu originata dalla contaminazione di elementi eterogenei appartenenti alla tradizione retorica,
non porta i tratti di una creazione artificiale. Al contrario, dà l’impressione di rientrare nella classificazione genologica originale,
sconfessando allo stesso tempo l’artificiosità e la provvisorietà
di tentativi atti a ordinare i testi in siffatta maniera.
L’asse che permette una cristallizzazione suggestiva di questa sintesi è la creazione retorica della persona di Cox stesso in
qualità di interlocutore di Tomicki, il quale grazie agli spazi intimi
della forma epistolare può far sentire la sua presenza discreta
anche sullo sfondo del discorso concreto sul tema dell’educazione. L’autostilizzazione dell’umanista inglese è, ovviamente, in
larga misura convenzionale. Così come avviene in molte lettere
dedicatorie di Cox e di altri umanisti (per esempio, in quelle di
Erasmo, V. Eck e R. Agricola), un ruolo importante in esse viene
96
svolto dal succitato topos humilitatis. Cosciente delle modeste
possibilità del suo talento, l’autore si giustifica al cospetto dei
suoi lettori sostenendo di aver intrapreso un’opera che supera le sue forze solo per venire incontro alle preghiere di amici
e potenti protettori7. Nel trattato De erudienda iuventute tale
motivo viene concepito sotto forma di gradatio, intensificata
ulteriormente dalla convenzione epistolare, cui si è sopra accennato. Le preghiere da parte di gentiluomini, fra i quali Cox
nomina Piotr Wedelicjusz di Obornik, rettore dell’Accademia di
Cracovia e Stanisław Biela, ex rettore della stessa, non sarebbero state in grado di infrangere la sua resistenza e indurlo a
scrivere, se non fosse per il fatto che essi si erano richiamati all’autorità del venerando vescovo di Cracovia, il succitato
Tomicki. Cox, dunque, dedica a lui l’epistola-trattato, rendendolo in tal modo destinatario della stessa, suo primo lettore
e contemporaneamente ultima istanza per valutare in maniera
appropriata i frutti del suo lavoro8. L’autorità di Tomicki ha per
Cox un doppio significato: da una parte gli permette di vincere
gli scrupoli dell’umanista, radicati in questo tipico rituale, il che
sarà, come si potrà notare, essenziale per l’autocreazione di
Cox come debuttante nell’ambito dei trattati sull’educazione.
D’altra parte, sottolineando il peso che aveva ai suoi occhi il
giudizio dell’opera espresso dal vescovo, l’umanista inglese
sviluppa conseguentemente il contesto epistolare, in cui racchiude il suo trattato. Non è privo di significato neanche il senso
soggettivo delle categorie, con le quali Cox interpretava la ricezione virtuale della sua opera: „contentus abunde si labor iste,
qualis qualis est, non displiceat T<uae> R<euerendissimae>
D<ominationi>”9. Il non displiceat fa rivolgere l’attenzione al
gusto, alla sensibilità estetica del destinatario, mentre rientra
nella poetica la gratia, suavitas, che danno fascino al testo, in
conformità con la teoria della letteratura ellenistica e di quella
latina, nel processo della ricezione.
Cerchiamo ora di valutare in che misura l’immagine retorica
di Cox nelle vesti di educatore e insegnante sia stata raggiunta
grazie ad una sottile disposizione degli accenti.
Lo spostamento di Tomicki al centro dell’attenzione permette a Cox di sottolineare abilmente il suo altruismo, che si
evidenzia nella preoccupazione per l’utilità educativa che dovrà
derivare dalla lettura del trattato da parte dei giovani. Di fronte
all’autorità del vescovo di Cracovia, sia la fama nel campo letterario che la ricchezza non sono più agli acchi dell’umanista
inglese degne di cura: „quippe qui non gloriam inanem inde
uenor, non lucrum aliquod capto”10. Tali dichiarazioni rientrano,
97
ovviamente, nella convenzione del topos humilitatis: servono
a scaricare la responsabilità per l’opera ad un protettore più
degno e allo stesso tempo preservano l’autore da giudizi di
irreale desiderio di superare predecessori maggiormente abili
e competenti, fra i quali Cox cita sia autori antichi che moderni:
fra gli altri, Plutarco, Quintiliano, S. Girolamo, Pier Paolo Vergerio, Battista Guarini, Francesco Filelfo, Enea Silvio Piccolomini11. Rivalizzare con loro non ha senso, tanto più per il fatto che
essi avevano svolto i loro compiti con un’accuratezza degna di
ammirazione (fide), con perspicacia (perspicacitate) e ancora
con l’ausilio di un metodo adeguato (recto consilio).
La modestia di Cox rivela tuttavia, in una più approfondita
analisi, dei tratti in un certo senso bifronti: la presentazione della propria formazione (doctrina) e delle proprie esperienze pedagogiche (rerum usus) all’ombra di famosi autori, gli permettono in conformità con la logica tipica delle lettere dedicatorie
di mettere in evidenza la propria laboriosità (diligentia)12. Egli
ascrive tale caratteristica anche ai suoi noti predecessori13, ma
sottolineando di aver studiato scrupolosamente (diligenter)14 i
loro testi, non teme evidentemente giudizi di ardita rivalità con
teorici dell’educazione, migliori di lui per quanto riguarda lo zelo
nel lavoro, in quanto autori di lucubrationes (opere composte
alla luce della lampada di notte a spese di un sonno ristoratore)15. Si giunge in tal modo alla seguente conclusione: prendendo in considerazione che la strategia seguita dall’autore nel
mettere in evidenza il suo zelo sullo sfondo dei difetti del proprio
talento o anche la sua sapienza era prassi abbastanza diffusa, Cox non esce dalla convenzione che da sotto la aemulatio,
consistente in una gara con i suoi predecessori, escludeva la
cura nella ricerca e rendeva la prima qualità principale in quanto dava all’autore la possibilità di unire a sé i favori di un potente
protettore. L’immagine convenzionale di Cox di studioso, che
si caratterizzava per la sua laboriosità e che per il bene della
gioventù di Cracovia mise la sua penna al servizio di un dignitario, è tuttavia fonte di indicazioni effettive per quanto concerne la collocazione della sua concezione del programma d’insegnamento sullo sfondo della visione dei suoi predecessori.
Giungiamo ora a un punto cruciale del nostro ragionamento:
le dichiarazioni programmatiche di Cox, le cui finalità all’interno
del trattato vengono definite in connessione con la concezione
di Plutarco (per meglio dire di Pseudo-Plutarco)16, Quintiliano
ed Erasmo sono immerse nella retorica dell’humilitas. Caratteristico è il fatto che eventuali differenze dalle opere che riteneva
di particolare rilevanza per una corretta concezione vengono
98
motivate da Cox con ragioni metodologiche in larga misura di
natura meccanica: mentre gli autori citati avevano trattato la
materia della lezione come uno schizzo in cui mettere in evidenza solo le idee principali, l’inglese si era posto come fine
l’indicazione al piccolo Julo di elementi più dettagliati in grado
di condurlo passo dopo passo attraverso le varie tappe della
formazione personale, necessaria per continuare gli studi sull’eloquium Romanorum ad un livello maggiormente avanzato.
Non suscita alcun dubbio l’affermazione che finalità così caratterizzate rientrano benissimo nel topos dell’humilitas: Cox si
era posto l’umile obiettivo di colmare quei vuoti che si erano
venuti a creare a causa della mancata trattazione di alcuni essenziali dettagli da parte dei predecessori. La sua strategia può
tuttavia essere paragonata a quella di Quintiliano che per fini
pedagogici aveva ampliato una descrizione delle doti del buon
oratore troppo generica rispetto alle sue necessità, trasmessa nelle lettere retoriche di Cicerone. Risulta evidente il fatto
che l’arricchimento delle opere dei predecessori con dettagli
essenziali per un dato ambiente o un’epoca17 fosse non solo
qualcosa di naturale, dettato dalle esigenze del momento, ma
anche una pratica derivante da una ricercata tradizione di provenienza antica che attraverso la sottolineatura dell’elemento
della continuità culturale dava un maggiore significato ad un
siffatto lavoro certosino.
Dal nostro punto di vista, comunque il fattore di maggiore
importanza risulta essere la non esclusione da parte di Cox
dall’ambito dei suoi interessi (perlomeno expressis verbis) della
concezione della lingua, che stavano alla base del programma
per l’insegnamento del latino e del greco, delineato dai suoi
predecessori. Il suo rapporto con loro sembra essere, almeno
ad un primo colpo d’occhio, abbastanza complicato: esso mette in risalto innanzitutto il peso dei valori morali dell’insegnante,
la cui santità nella condotta di vita è, a suo giudizio, molto più
importante del fatto di essere uno studioso. Come ha giustamente notato J. Glomski, la posizione di Cox si differenzia in ciò
dal concetto di Erasmo, esposto nel De ratione studii18. Tale
osservazione appare essere molto corretta anche in relazione
al trattato De pueris instituendis, che probabilmente venne a
conoscere in forma manoscritta19. Nella pratica l’umanista inglese supera dunque le sue dichiarazioni programmatiche, che
portavano a differenziazioni nell’interpretazioni all’intenzione di
una presentazione maggiormente particolareggiata del tema
rispetto ai predecessori.
Giacché lo spostamento di accenti agli aspetti morali dell’in99
segnamento, come abbiamo già rilevato, viene passato sotto
silenzio da Cox, si pone la domanda se tale fatto possa essere
considerato come volontario, cioè se sia stato dettato dalla logica interna dell’autocreazione retorica dell’umanista inglese.
È indubbio che la polemica di Erasmo su questioni tanto fondamentali come l’etica avrebbe superato i limiti ristretti definiti
dal decorum del topos dell’humilitas. Prendendo in considerazione il fatto che Cox talvolta segue pedissequamente il testo di
Erasmo20, si potrebbe interpretare la suddetta polemica come
una sorta di Hybris filologica. In realtà appare improbabile che
Cox, assumendo una posa di studiata umiltà, desiderasse nella
dichiarazione programmatica spostare l’attenzione dall’incoerenza del suo concetto, che comunque era ben evidente.
Al fine di sciogliere ogni dubbio a tal proposito prendiamo
in considerazione il De ratione studii. I trattato si apre con una
famosa constatazione che ingloba la sostanza della concezione
erasmiana della lingua:
“Principio duplex omnino videtur cognitio rerum ac verborum. Verborum prior, rerum potior. Sed nonnulli dum a Oni/ptoij,
ut aiunt, posi/n ad res discendas festinant, sermonis curam negligunt, et male affectato compendio in maxima inciduunt dispendia”21.
Tutto ciò che sappiamo del mondo, anche nell’ambito dell’etica, non può venire conquistata o utilizzata in altra maniera
che attraverso le parole, giacché esse fanno da intermediarie
per i contenuti accessibili alla conoscenza. Il concentrarsi su
questioni di stile e in maniera più ampia sul tirocinio filologico appare essere una conseguenza naturale di siffatto stato di
cose: ad esempio, sarebbe impossibile giudicare i valori morali dell’insegnante in maniera separata dalla lingua dell’etica.
La cura per lo stile, infatti, costituisce una componente integrale della dimensione assiologica. Tale concezione richiede
ovviamente un’adeguata giustificazione ontologica, che nel
caso di Erasmo può essere rinvenuta con un paziente lavoro
di ricostruzione. Non abbiamo in tale sede lo spazio necessario
per sviluppare questo tema, molto complicato, ma le caratteristiche della posizione di Erasmo, che abbiamo tracciato in
precedenza, ci permettono di mettere in luce il tipo di difetti,
tipici per il modo di ragionare di Cox. Sebbene si sia posto
l’obiettivo di creare un programma d’insegnamento del latino
e del greco con lineamenti di stilistica, accentuando la dimensione morale messa a contrasto artificiosamente con l’oggetto d’insegnamento, suo malgrado va contro le sue intenzioni.
Non c’è dubbio che egli semplicemente non riesca a vedere
100
il carattere linguistico della problematica etica, il che meraviglia in un allievo di Erasmo e Melanchton, umanisti per i quali
il raggiungimento di un alto grado di sinteticità nell’unione di
varie discipline dell’attività intellettuale rappresentava un metodo d’interpretazione alquanto prezioso, ricostruito, nota bene,
grazie alla lettura del De oratore di Cicerone delle Institutiones
oratoriae di Quintiliano (dottrina orbis litterarum). Si tratta di una
particolare sterilizzazione del lavoro intellettuale dei suoi maestri, che mascherano in Cox il punto di vista sul bene morale
per la gioventù. Ciò probabilmente deriva dalla mancanza di
cura analitica da parte dell’umanista inglese e dalla tendenza a
considerare le singole discipline soprattutto attraverso il prisma
di etichette classificatorie. Quest’ultima modalità illustra bene la
domanda retorica, che attesta il meccanismo accettato da Cox
come fatto certo che i confini far le scienze (compresa l’etica)
fossero rigidi e definiti con precisione:
“Quid enim proderit etiam si Platonem, aut Aristotelem in
philosophia aequemus, in eloquentia simus demosthenes aut
cicerones, si caruerit haec scientia condignis sua virtute moribus?”22.
Se considera la precisa ricostruzione dei pensieri degli autori, richiamati in questo brano (forse ad eccezione di Aristotele), la formulazione della domanda nella forma in cui la rivolge Cox, dovrebbe suonare come assurda. Basti richiamare in
mente se non altro la dottrina platonica dell’esotericità della
scienza delle idee, che doveva essere accessibile solo ai saggi
aventi sin dalla nascita predisposizioni per poterle individualmente scoprire. Una certa luce su tale modo di ragionare viene
gettata dall’analisi dei rapporti di Cox con le fonti antiche e in
particolare con il De oratore di Cicerone e le Institutiones oratoriae di Quintiliano, che furono, come abbiamo già avuto modo
di sottolineare, una fonte d’ispirazione anche per i suoi maestri:
Erasmo e Melanchton. Frammenti di tali opere23 vengono infatti
citati da Cox a sostegno della sua tesi sulla superiorità della
moralità nell’educazione:
“Preclare M<arcus> T<ullius> malle se dicit indisertam prudentiam, quam stultam loquacitatem. Rectissime Fabius, ‘Potior mihi’, inquit, ‘ratio uiuendi honeste quam uel optime dicendi
uidetur’”24.
Entrambi le citazioni, collocate sullo sfondo del contesto
da cui furono strappate, assumono un colore assolutamente
diverso, vicino all’interpretazione di Erasmo o di Melanchton25.
Importante è anche il fatto che essi rappresentino motivi collaterali di un ragionamento dei succitati autori26, il che sottolinea
101
ancora una volta il condizionale dell’affermazione. Alla luce di
quanto detto sinora, l’esibizione erudita di Cox sembra ricordare più il metodo medievale di appoggiarsi alle auctoritates
nelle dispute che la pratica realizzazione dell’ambiziosa parola
d’ordine ad fontes. Difatti egli deformò in larga misura le intenzioni dei maestri antichi. È significativo il fatto che le deformazioni cui furono soggette le idee di Cicerone e Quintiliano nel
trattato di Cox sono identiche alle differenze della sua interpretazione in relazione alla concezione sintetica di Erasmo e
di Melanchton. L’unidirezionalità di tali deformazioni ha inoltre
un carattere astorico, in quanto si trasferiscono alla frammentazione sul piano teorico e nella pratica del discorso retorico
delle tendenze sintetizzanti, presenti nelle interpretazioni degli
autori in precedenza citati. Un’eventuale prova di chiarimento delle incongruenze interpretative di Cox con l’inclusione di
quest’ultimo all’interno della tradizione antiretorica platonica,
caratterizzata, ad un primo esame, dalla tendenza, simile al suo
modo di ragionare, a separare la retorica dalla filosofia, è in
anticipo destinata al fallimento. Dalla filosofia, infatti, egli ricava
una sorta di imitatio pratica dei costumi, che mette a contrasto
con la teoria, accessibile a sua volta, fra l’altro, tramite esempi
letterari opportunamente interpretati (contrasto modelli letterari
- vita reale)27. Indubbiamente le idee di Cox (è difficile in questo
caso parlare di concezioni) trasferite sul terreno della riflessione
platonica avrebbero avuto su di essa un influsso più che altro distruttivo. È anche difficile non avere l’impressione che dal
punto di vista di Crasso del dialogo ciceroniano del De oratore, Cox, nonostante gli intensi sforzi, per realizzare l’ambizioso
compito di divulgare le idee delle grandi menti del suo tempo,
si sarebbe trovato nel campo opposto e cioè fra i cittadini che
“omnium […] bonarum artium, denique virtutum ipsarum societatem cognationemque non norunt”28. La sua interpretazione,
che era sfuggita al controllo dell’autore, tende a rompere il legame (societas) delle virtù morali e delle arti, con la retorica in
primis, mostra i segni dello stile di pensiero da loro combattuto,
anche se essa era stata concepita come indiretta continuazione delle idee di Cicerone e di Quintiliano.
Tale tendenza diviene particolarmente evidente sullo sfondo delle prove di assimilazione degli elementi di filosofia dell’educazione di Erasmo e Melanchton, connessi con la teoria
della lingua. Ovviamente sarebbe difficile aspettarsi che Cox
potesse ingrandire o ricostruire nel suo breve trattato la complicata teoria di sviluppo dell’intelletto, coerente con lo sviluppo
emotivo, così come fu presentato da Erasmo nel trattato De
102
pueris instituendis. Sarebbe stato un compito irrealizzabile se
non altro per il fatto che la metodologia adottata, ai confini con
la psicologia (o meglio con le sue ramificazioni rinascimentali,
comprese in una forma attuale anche nella contemporaneità)29
e la filosofia30 non era adeguata ai suoi modesti propositi. Il
problema tuttavia consiste nell’intreccio da parte di Cox delle constatazioni, frutto delle conclusioni innovative di Erasmo
e Melanchton, sotto forma di argomentazione giustificatrice e
in un certo senso di sentenze. Il peggio è che egli sottomette
tutto ciò al corso dei propri pensieri. A mo’ di esempio possono servire le caratteristiche del buon maestro, la cui istruzione
allevia l’eccessiva severità, rafforzata dalla brutale forza fisica,
così indesiderata dal punto di vista erasmiano:
Ar magnam huius sollicitudinis partem nobis auferet moderator iuuentutis eruditus, nemque qui rem probe callens, non
induxerit animum ut more aliorum temere saeuiat. Solent enim
plerique omnes cum literis humanioribus mores etiam humaniores colere, quemadmodum e contrario indocti non possunt
nonn duriores (id quod radium est) sese sempre erga suos
exhibere. Curandum ideo mihi videtur ut probum iuxta ac doctum infantile nostrae praeficiamus. Efficiet integritas, ne natura
puerorum in malum procliuis facile corrumpatur, ac si quid peccatum fuerit, ut corrigatur ocissime. Efficiet doctrina, ne quidpiam tradat quod non fuerit e re studiosorum, ac ne doceatur
adolescentia, quae mox dediscere compellatur31.
Essendo convinto che la litterae humaniores abbiano influsso sui mores e che le persone incolte non siano in grado di venire incontro alle esigenze dell’Humanitas nel campo dell’etica,
risuonano le reminiscenze della massima ovidiana preferita di
Melanchton: studia abeunt in mores. Quest’ultima spesso si
ritrova nei suoi scritti: le declamazioni32 o i Philosophiae moralis epitomes libri duo33. Essa inoltre trasmette anche lo spirito
delle idee di Erasmo da Rotterdam sui concetti linguistici, dato
che si serve di topos simili. Il substrato teorico di questo locus
communis poetico si ritrova inflazionato in Cox e il meccanismo
che dà adito a ciò ricorda a grandi linee le difficoltà causate
dalla sua ricostruzione nelle analisi contemporanee34. La loro
causa principale sembra consistere nell’influsso nascosto del
kantismo nella metodologia, il che si rileva nella tendenza ad
una interpretazione costruttivistica del concetto di lingua nelle
teorie umanistiche. Secondo tale posizione la realtà nella teoria
di Erasmo era in qualche modo dipendente dalle proprietà costruttive della lingua, mentre rimaneva irrisolto il problema della
possibilità ammessa dagli umanisti con certezza di indagare nel
103
campo dell’etica, il che testimonia l’insufficienza di tale tipo di
approccio. La separazione fra lingua e etica in verità ha luogo
in Cox in seguito ad incapacità pratica, che non ha niente in
comune con l’assommarsi di tradizioni filosofiche eterogenee.
Essa d’altronde permette di ipotizzare un possibile influsso di
tale tipo di concetti semplificati sulla falsa interpretazione concernente l’interezza della riflessione rinascimentale sulla lingua
nelle ricerche contemporanee. Ad alimentare ciò potrebbero
concorrere anche le superficiali analogie fra la versione “pseudoanalitica”, ad esempio, di Cox, con le tendenze nascoste
derivanti dalle caratteristiche peculiari del moderno apparato
di ricerca. La verifica di quest’ultima ipotesi richiede una serie
più ampia di ricerche apposite, che supererebbero i confini del
presente articolo. Si può tuttavia sottolineare il fatto che rimane
un problema in attesa di soluzione.
Seguiamo, comunque, il modo in cui il modello dell’insegnante ideale subisce in Cox una serie di fenditure, che sul piano di un siffatto genere di psicologia della personalità risponde
alla frammentazione dei concetti, così come si era evidenziato
a proposito delle citazioni da Quintiliano e Cicerone.
Innanzitutto rimane indebolito il legame causale fra istruzione e costumi. Un’attenzione specifica merita soprattutto il
quantificatore plerique omnes, che costituisce una via d’uscita,
la quale permette in pratica la loro separazione. Cox se ne serve con sollecitudine nella parte successiva della sua conclusione, quando ascrive due valori alla personalità dell’insegnante:
integritas e doctrina, separate, sebbene risultino essere funzioni complementari nel processo educativo. L’integritas deve
servire da esempio atto a salvaguardare gli allievi dalle debolezze, cui potrebbero soccombere. La dottrina, invece, è atta a
garantire un’adeguata qualità ai contenuti dell’insegnamento. Il
parallelismo sintattico, consistente nella ripetizione della forma
del tempo futuro del verbo effimere all’inizio delle frasi in cui
si definiscono integritas e doctrina, sembra in verità indicare
un proposito nascosto dell’autore, che potrebbe derivare dalla
separazione dei buoni costumi dall’essere dotto. Tale ipotesi
tuttavia non riesce a stare in piedi se si confronta con la frammentazione dell’humanitas in brevissimo passo che rimanda
all’autorità di Cicerone e Quintiliano. La causa principale della
sua debolezza sta nelle contraddizioni, in cui si dibatte Cox.
Esse possono essere rilevate sotto la vernice superficiale dell’eleganza stilistica soltanto tramite un’analisi più attenta. Si
presti attenzione al primo frammento in cui Cox a spese dell’essere dotto mette in risalto l’importanza dei buoni costumi
104
come modello della gioventù: “(…) moderatoores pueritiae omneis uelim in primis uitae santimonia quidam, nedum eruditione
probari. […] Sit ergo haec prima 8ut dixi) cura, quod inueniatur
is adolescentiae informator, cuius uita discipulis quasi morum
quorum amussis sit”35.
È evidente che tale idea viene dall’autore formulata in maniera non del tutto precisa, anche perché nelle successive argomentazioni egli dimostra la convinzione di inaccessibilità dei
mores humaniores per le persone prive di rudes. Entrambi i
passi del trattato – lettera dedicatoria sono legati fra loro dal
modo meccanico, sebbene di effetto, di richiamarsi alle fonti, il
che causa la collocazione su poli contrastanti autori che in fondo nel campo trattato da Cox, hanno idee simili. Ma le cause
più profonde della mancanza di coerenza del trattato De erudienda iuventute stanno nell’assimilazione solo frammentaria
della teoria della gratia, diffusa nelle più disparate varianti nella
res publica litterarum di Erasmo.
Vale la pena spendere qualche parola per indicarne alcune
caratteristiche per mostrare fino a che punto Cox, suo malgrado, si allontani dal suo modello estetico. Nella dimensione
metafisica la gratia si richiama all’istanza superiore dell’ingenium divinum, in quanto essa svolge una funzione essenziale
nella trasmissione del messaggio divino. L’ispirazione di tale
concetto è rappresentata dall’opera di S. Agostino De doctrina
christiana.
Nella dimensione psicologica, funzionante in maniera analoga a quella metafisica, la gratia serve come portatrice dei
contenuti dell’insegnamento, integrati con le esigenze etiche
attraverso il riferimento al divino decorum, una specie di incarnazione metafisica della celebre regola oraziana. A tale
concetto dedicò molto spazio Erasmo nel trattato De pueris
intituendis.
Il terzo livello, quello retorico, e più propriamente linguistico, condiziona gli altri nel riferimento al processo di percezione
(ad esclusione, tuttavia, del De doctrina christiana, soltanto per
quanto concerne la teoria degli umanisti, per ricordare il succitato passo del De ratione studii riguardante la primarietà delle
parole). La gratia in questo ambito può essere in verità ritenuta
una categoria squisitamente estetica, indipendente dal punto
di riferimento etico; tuttavia, nella concezione degli umanisti
presi in considerazione in questa sede, un tale tipo di alienazione ne deforma il senso e in conseguenza di ciò viene a crearsi
una forma degenere di dulcedo.
Cox ovviamente si trova davanti al concetto di dulcedo, vo105
luptas, come testimoniano le prove rinvenibili nel trattato De
erudienda iuventute. Infatti egli inserisce nella struttura della
sua argomentazione una citazione letterale dal De ratione studii
di Erasmo, in cui si parla appunto di voluptas e utilitas come
delle categorie di testo e di ricezione per le quali si rendono
necessarie spiegazioni:
“Tum illa quae iubet in institutione sua Erasmus. Nempe ut
primo loco ad conciliandos auditores laudes eius, quem praelegendum sumunt, paucis rxplicent. Deinde argumenti iucunditatem utilitatemque ostendant. (…) Dein quam in se habet uel
utilitatis uel uoluptatis haec lectio”36.
Comunque, lo sviluppo della teoria della gratia si ritrova in
Cox in forma frammentaria, il che non è dovuto alla brevità della
sua rappresentazione, bensì alle lacune nello scheletro concettuale. L’aspetto più importante è costituito dalla mancanza
del punto di riferimento “metafisico”, che avrebbe permesso la
distinzione fra gratia falsa e vera. A causa di ciò quest’ultima
viene compresa come una sorta di contaminazione con l’utilitas. Tale interpretazione è in effetti più vicina ai modelli antichi,
ma elimina il medium della filosofia della retorica di S. Agostino.
Di conseguenza la dulcedo si rivela essere solamente un biscottino oraziano, un crustulum, con cui vanno sapientemente
addolciti gli insegnamenti eticamente validi. Allo stesso tempo
il suo ruolo nel processo di formazione dei mores, che nella
terminologia contemporanea corrisponderebbero al concetto
di personalità, si rivela puramente meccanico. Nella suddetta concezione lo sforzo di Erasmo volto a integrare l’ingenium
suave con la dulcedo, cioè con la dolcezza dell’imitazione che
costituisce un modello per la figura dell’insegnante, viene in
pratica perduto. Conseguenza indiretta di tale stato di cose risulta essere la cancellazione dell’interpretazione di Cox dall’appartenenza al paradigma di relazione fra intelletto ed emozione,
che si evince dalla ricostruzione operata sulla base dei testi dei
suoi maestri. Uno dei sintomi della rottura del collegamento
con il modello concernente il pensare e il sentire, libero dalla ratio “cartesiana”, è costituito dall’appiattimento della riflessione
di Cox sulla lingua. Ad esempio i portenta rappresentano per
lui solo forme grammaticali errate o incompatibili con lo spirito
della lingua, mentre quest’ultima smette di servire da strumento per la formazione del carattere, attraverso la cristallizzazione
del pensiero, così come avviene in Melanchton. Dal punto di vista di Cox, inoltre, un testo planus, facile da comprendere, può
essere imbevuto del veleno della falsa dulcedo37, quando invece per i suoi maestri si sarebbe trattata di chiarezza apparente,
106
le cui mancanze, in considerazione del ruolo assunto da questo
criterio nella determinazione della veridicità dei giudizi, dovrebbero essere messe in luce da una più approfondita analisi.
In base a quanto detto finora è difficile meravigliarsi del fatto che l’asse della definizione di dulcedo nel trattato di Cox
sia costituito dal motivo delle Sirene, il cui dolce canto doveva condurre gli imprudenti alla perdizione, cioè all’infedeltà ai
buoni costumi in favore di un piacere estetico38. Ciò appare
ovviamente spesso anche negli scritti dei maestri dell’umanista
inglese, ma nelle loro concezioni non occupa un posto così in
vista. Viene piuttosto interpretato come una sorta di deformazione, originata dalla rottura dei legami fra la lingua e il divino
ingenium suave, che indica le sue funzioni e allo stesso tempo
risulta essere garante della possibilità della sua pienezza.
Note
(1) L. Cox, De erudienda iuventute w: Humanistica Lovaniensia, Vol. XL 1991, p. 124.
(2) Ibidem, p. 124.
(3) Cox si riferisce alle lettere di San Girolamo sull’educazione: Ad Gaudentium e Ad Laetam. cfr. ibidem, p. 126.
(4) Por. J. Glomski, Careerism at Cracow: The Dedicatory Letters Of Rudolf
Agricola Junior, Valentin Eck And Leonard Cox in: Self-Presentation And Social
Identification. The Rhetoric And Pragmatics Of Letter Writing In Early Modern
Times, Supplementa Humanistica Lovaniensia XVIII, Leuven 2002, pp. 165-182.
(5) L. Cox, op. cit., p. 126.
(6) Cfr. C. Guillen, “Notes toward the Study of the Renaissance Letter”, in:
Renaissance Genres, ed. by B. Kiefer Lewalski, Cambridge, Massachusetts and
London 1986.
(7) J. Glomski, Careerism at Cracow, p. 170 e succ.
(8) L. Cox, op. cit., p. 128.
(9) Ibidem, p. 128.
(10) Ibidem, p. 128.
(11) Ibidem, pp. 124-126.
(12) Cfr. J. Glomski, Careerism at Cracow, pp. 172, 175.
(13) Cfr L. Cox, op. cit, p.124: “[viri] qui recta instituendae pubis ratione
summa diligentia scripserunt”.
107
(14) Ibidem, p. 126.
(15) Il termine lucubratio viene utilizzato dagli umanisti come sinonimo di
trattato o di una più ampia opera letteraria così spesso che le sue connotazioni
originali connesse con il topos della modestia andarono perse.
(16) L. Cox, op. cit., p. 126.
(17) J. Glomski, ”Introduction to L. Cox, De erudienda iuventute”, in: Humanistica Lovaniensis, Vol. XL-1991, p. 117 e ancora Id., “Italian Influences on Early
Humanist Educational Theory at Cracow” in: Acta conventus neo-latini Bariensis,
ed. R. Schnur, Tempe, Arizona, 1998, pp. 290-291.
(18) Nel succitato trattato Erasmo si concentra soprattutto su concetti filologici e sulle qualifiche dell’insegnante e non sul suo valore come modello morale.
Cfr. J. Glomski, “Introduction to L. Cox, De erudienda iuventute”, op. cit.,
pp. 119-120.
(19) Ideale erasmiano era, come osserva J.-C. Margolin, la sintesi fra virtù
e bonae litterae.
Cfr. “Itaque tibi in animo esse, puerum tantae spei, simul atque grandiusculus eris cactus, curare bonis literis initiandum, honestissimisque disciplinis
erudiendum, saluberrimis philosophiae praeceptis formandum et instruendum”.
(Erasmo, “De pueris instituendis”, a cura di J.-C. Margolin in: Erasmo, Opera
Omnia, I/2, Amsterdam 1971, p. 25) e “…sed recta institutio longe plus habet
momenti ad sapientam, quam pronuntiatio ad eloquentiam. Fons enim omnis virtutis est diligens ac sancta educatio. Quaemadmodum ad stultitiam ac malitiam
primum, sendum ac tertium est indiligens corruptaque institutio” (ibidem, p. 28).
(20) L. Cox, op. cit., p. 150.
(21) Erasmo, “Ratio stvdii ac legenda interpretandiqve avctores”, a cura di
J.-C. Margolin in: Erasmo, Opera Omnia, I/2, Amsterdam 1971, p. 113.
(22) L. Cox, op. cit., p. 130.
(23) Dialogo di Cicerone con l’intermediazione di Gellio.
(24) L. Cox, op. cit., p. 130.
(25) Cfr. “[142] Nunc sive qui volet, eum philosophum, qui copiam nobis
rerum orationisque tradat, per me appellet oratorem licet; sive hunc oratorem,
quem ego dico sapientiam iunctam habere eloquentiae, philosophum appellare
malet, non impendiam; dum modo hoc constet, neque infantiam eius, qui rem
norit, sed eam esplicare dicendo non queat, nequeinscentiam illius, cui res non
suppetat, verba non desint, esse laudandam; quorum si alterum sit optandum,
malim equidem indisertam prudentiam quam stultitiam loquacem”, (Cicero, De
oratore, III. 142).
“III. Prior causa prorsus gravis: nam si studiis quidam scholas prodesse, moribus autem nocere constaret, potior mihi ratio vivendi honeste quam vel optime
dicendi videretur. Sed mea quidam sententia iuncta ista atque indiscreta sunt:
neue enim esse oratorem nisi bonum virum iudico et fieri, etiam si potest, molo.”
(Quintiliano, Institutio, 1.2.3).
(26) Il breve testo ciceriano d’interesse in questa sede viene pronunciato da
Crasso, uno degli interlocutori.
(27) L. Cox, op. cit., p. 152-154.
(28) Cicerone, De oratore, III. 136.
(29) Interessante risulta essere soprattutto il concetto di imitatio, connesso
con la tradizione arestoteliana: „Illud extra controuersiam est, nullam esse aetatem tam recentem, vt non sit habilis institutioni, praesertim earum rerum ad quas
natura composuit hominem. Nam in hoc ipsum infantile peculiarem quondam, vt
modo dicebam, imitandi libidinem addidit, vt quicquid audierint viderintue, gestiant aemulari, gaudeantque si quid sibi videntur assequuti. Simios quondam
esse dicas. Atque hinc prima ingenii docilitatisque coniectura.” (Erasmo, “De
pueris instituendis”, a cura di J.-C. Margolin in: op. cit., pp. 47-48).
(30) Si tratta della continuazione della versione di S. Agostino della concezione ciceroniana della suavitas.
(31) L. Cox, op. cit., pp.132-134
(32) Ph. Melanchton, “Declamatio de philosophia”, in: Philippi Melanchtonis
108
Opera quae supersunt omnia, Halis Saxonum 1834-1859, Vol. XI, p. 283 e “Oratio de studiis linguae Graecae”, 1549, in: Ph. Melanchton, Werke, t.3, Tübingen,
1961, p. 146, p. 32.
(33) Ph. Melanchton, „Philosophia moralis epitomes libri duo“, in: Idem, Werke, t.3, p. 161, rigo 2.
(34) Cfr. K.O. Apel, Transformation der Philosophie, Frankfurt am Main,
1994, t.1, p. 189: „In der Tat lässt sich das Postulat schlechthin eindeutiger und
allgemeingültigererkenntniss nur af die Identität von ‚praecisum’ et ‚factum’ bzw.
‚verum et factum’ gründen, wie schon Cusanus bzw. Vico es formuliert haben.
Und es bedeutet m. e. Über Kant hinaus einem Fortschritt im methodologischen
Selbstverständnis der Wissenschaft, wenn die Initiatoren des Logischen Positivismus die Begründung der nur postulierbaren schlechthinnigen Allgemeingültigkeit wissenschaftlicher Sätze von dem syntetischen Apriorismus der Kantschen
Erkenntnistheorie lösten und am Prinzip der willkürlichen Konstruktion der Sprache festmachten. Sie haben damit die von Kant syntetisch-spekulativ angesetzte
‚kopernikanische Wendung’ der Wissenschaftsbegründung sozusagen zu einem
Problem operativer Praxis gemacht gemäss dem Satz: um präzise zu ‚verstehen’
d. h. eine intersubjektive Gültigkeit der Wissenschaft sicherzustellen, müssen wir
das Verstehbare, d. h. die Form der Sprache, zuerst selbst machen“.
Tracce dell’influsso di Kant possono essere rilevate nelle interpretazioni,
fra l’altro, di R. Waswo, Language and Meaning in the Renaissance, Princeton,
1987, pp. 213 e succ.
(35) L. Cox, op. cit., pp. 128-130.
(36) L. Cox, op. cit., p. 150.
(37) Cfr. L. Cox, op. cit., p. 140: “Hic illud uolo memoriae infigatur, quo iuncta
sit dulcedini utilitas. Nolo cordi sit quicquam quantumuis planum, quantumuis
argumenti iucunditate gratum, nisi pariter et mores instruat. Nolo lateat sub melle
uenenum”.
(38) Cfr. L. Cox, op. cit., p. 140: “Dulcis est Syrenum cactus, at quicumque
per ignorantiam illis adpropinquabit, seu uocem illarum audiet, iam de illo actum
est, periit funditus”.
109
HANNA SZABELSKA
Instytut Polonistyki Uniwersytetu Jagiellońskiego
Kraków
Traktat Leonarda Coxa
De erudienda iuventute
na tle lingwistycznych poszukiwań epoki
Nie zadziwia fakt, iż w wydanym w 1526 roku w Krakowie
traktacie De erudienda iuventute angielskiego humanisty Leonarda Coxa1 znalazły oddźwięk zagadnienia lingwistyczne,
nurtujące znanych mu osobiście wielkich współczesnych:
Erazma z Rotterdamu i Filipa Melanchtona, których dzieła
propagował w swoich wykładach. Celowe natomiast wydaje
się podjęcie próby udzielenia odpowiedzi na pytanie, w jakim
stopniu zainspirowany ich myślą Cox twórczo przetworzył ją w
tkankę własnych poglądów.
Dla uniknięcia nieporozumień napomknąć przy tym wypada, iż zamierzona interpretacja została pomyślana jedynie jako
szkic, będący wstępem do dalszych badań nad mecenatem
P. Tomickiego (zwłaszcza nad relacjami między nim, a Coxem)
oraz strategią, jaką stosował angielski humanista korzystając
ze źródeł, m. in. listów św. Hieronima, nie rości sobie zatem
pretensji do wyczerpującego przedstawienia tematu, tym bardziej iż wiele pytań, przykładowo dotyczących recepcji traktatu
De erudienda iuventute w programach szkolnych, pozostało z
konieczności bez odpowiedzi.2
Aby sformułować wyważony sąd na temat interesującego
nas zagadnienia, konieczne jest możliwie precyzyjne zrekonstruowanie celów, jakie postawił sobie Cox w będącym przedmiotem analizy traktacie. Pozwoli to bowiem na uniknięcie
ewentualnego posądzenia o nadinterpretację, polegającą na
czynieniu autorowi zarzutów z nieuwzględnienia treści, których
z racji programowo przyjętych założeń nigdy nie zamierzał w
swoim dziełku poruszać.
Charakterystyka celów, jakie postawił sobie Cox, decydując
się na napisanie kolejnego – jeśli uwzględnić stosunkowo licznych poprzedników – traktatu o programie nauczania, wymaga pewnej interpretacyjnej wirtuozerii, autor wpisał bowiem
programową część swego dziełka w poetykę listu dedykacyjnego z charakterystyczną dlań topiką.
111
Traktat, który Cox, wierny zaleceniom topiki skromności
(humilitas) określił w tytule jako libellus, zgodnie z tradycją
retoryczną mając na myśli zarówno rozmiary dziełka, jak i zakres
uwzględnionych w nim zagadnień, poprzedza charakterystyczna dla listów adnotacja, precyzująca adresata:
“Ad Reuerendissimum in Christo Patrem, ac Dominum D
<ominum> Petrum Tomitium dei gratia Episcopum Cracouiensem, ac Regni Poloniae Vicecancellarium.”3
Nawiązaniem do niej jest początek książeczki De erudienda
iuventute, w pierwszej linijce której Cox zwraca się bezpośrednio
do swego możnego protektora: „graue munus, Ornatissime
Praesul, atque ut ille dicit periculosa plenum area, mihi superioribus hisce diebus iniunxerunt...”4, konsekwentnie poruszając
się w przestrzeni dyskursywnej wyznaczonej poetyką listu.
Jak się wydaje, w strategii tej dochodzą do głosu przynajmniej dwa nurty renesansowej tradycji epistolarnej o proweniencji
antycznej: tradycja rozprawy w formie listu, z góry przeznaczonego do publikacji5 i listu dedykacyjnego o wydźwięku panegirycznym.6 Cox, podkreślając wagę autorytetu Tomickiego, którego wola, jak pisze, nawet w sprawach o znikomym znaczeniu
była dlań świętością7, buduje swoje teoretyczne rozważania o
kształceniu młodzieży na fundamencie osobistej relacji z biskupem krakowskim – spiritus movens całego przedsięwzięcia.
Umiejętne wykorzystanie napięcia między intymną atmosferą
listu, a obiektywizmem właściwym dociekaniom naukowym
nie jest oczywiście odkryciem Coxa.8 Jeśli wziąć pod uwagę
renesansowe zamiłowanie do korespondencji przeznaczonej
również dla osób postronnych, zainteresowanych dyskusją
jest on w tym względzie nieodrodnym dzieckiem swojej epoki. Rzuca się jednak w oczy fakt, iż epistolarną zażyłość,
która pozwalała czytelnikowi na bardziej bezpośrednie, aniżeli
podręcznikowy wykład, uczestnictwo w wymianie myśli (co
prawda mimowolnie w roli nieproszonego świadka), wprzągł
Cox w służbę topiki panegirycznej, uzyskując w ten sposób
genologiczną syntezę, będącą stopem odrębnych rodzajów
dyskursu o różnorakiej proweniencji (traktatu, listu, deklamacji).
Należy tu nadmienić, iż synteza ta, powstała w wyniku skontaminowania heterogenicznych elementów tradycji retorycznej, nie nosi znamion tworu sztucznego. Przeciwnie, sprawia
wrażenie pierwotnej w stosunku do prób genologicznej klasyfikacji, dezawuując tym samym sztuczność i prowizoryczność
tego rodzaju porządkujących zakusów.
Osią, dzięki której było możliwe sugestywne wykrystalizowanie tej syntezy, jest retoryczna kreacja osoby samego Coxa jako
112
interlokutora Tomickiego, który dzięki intymnej przestrzeni epistolarnej może dać odczuć swoją dyskretną obecność również
w tle rzeczowego dyskursu na temat wychowania. Autostylizacja angielskiego humanisty jest, co zrozumiałe, w dużej mierze konwencjonalna. Podobnie jak w wielu listach dedykacyjnych
zarówno Coxa, jak i innych humanistów (przykładowo Erazma,
V. Ecka czy R. Agricoli) istotną rolę pełni w niej wspomniany już
topos humilitatis. Świadomy skromnych możliwości swojego
talentu autor usprawiedliwia się wobec czytelników, iż jedynie
ulegając usilnym prośbom przyjaciół lub możnych protektorów
podjął się wykonania zadania ponad swoje siły.9 W traktacie De
erudienda iuventute motyw ten ujęty został w formę gradatio
– stopniowania, dodatkowo zintensyfikowanego dzięki scharakteryzowanej powyżej konwencji listu. Prośby dostojnych osób,
wśród których Cox wymienia m. in.: Piotra Wedelicjusza z
Obornik, rektora Akademii Krakowskiej oraz Stanisława Biela, jej
byłego rektora nie zdołałyby przełamać jego oporów i skłonić do
chwycenia za pióro, gdyby nie odwołały się one do autorytetu
wielebnego biskupa krakowskiego. Cox zadedykował mu zatem
swój list – traktat, uczyniwszy go jego adresatem i zarazem pierwszym czytelnikiem oraz ostateczną instancją, zdolną właściwie
ocenić owoc jego trudów.10 Autorytet Tomickiego ma dla Coxa
znaczenie podwójne: z jednej strony pozwolił on przezwyciężyć
zakorzenione w topicznym rytuale skrupuły humanisty, co
było, jak zobaczymy, istotne dla autokreacji Coxa jako debiutanta w dziedzinie traktatów edukacyjnych, z drugiej strony
– podkreślając wagę, jaką miał w jego oczach osąd dziełka,
wydany przez biskupa, angielski humanista konsekwentnie
rozwija epistolarny kontekst, w którym umieścił swój traktat. Nie
bez znaczenia jest tu również subiektywny wydźwięk kategorii,
w jakich Cox zinterpretował wirtualny odbiór swojego traktatu:
„contentus abunde si labor iste, qualis qualis est, non displiceat
T<uae> R<euerendissimae> D<ominationi>”11. Non displiceat
kieruje uwagę czytelnika na gust, wrażliwość estetyczną dostojnego adresata, mieści się zatem w poetyce gratia, suavitas
– wdzięku tekstu uaktywniającego się – zgodnie z hellenistyczną
i rzymską teorią literatury – w procesie odbioru.
Przyjrzyjmy się bliżej, na ile retoryczny wizerunek Coxa
jako wychowawcy i nauczyciela zyskał dzięki tak subtelnemu
rozłożeniu akcentów.
Przesunięcie osoby Tomickiego w centrum zainteresowania pozwala Coxowi na umiejętne podkreślenie własnej
bezinteresowności, przejawiającej się w trosce o edukacyjne
korzyści, jakie lektura traktatu może przynieść młodzieży. Wo113
bec autorytetu biskupa krakowskiego zarówno sława literacka,
jak i bogactwo nie są w oczach angielskiego humanisty warte
zachodu: „quippe qui non gloriam inanem inde uenor, non lucrum aliquod capto”.12 Wypowiedzi te mieszczą się, rzecz jasna,
w konwencji toposu humilitatis: służą one charakterystycznemu
dla listów dedykacyjnych przerzuceniu odpowiedzialności za
dzieło na barki bardziej godnego protektora, zarazem chronią
one autora przed posądzeniem o nierealistyczne pragnienie
przewyższenia bardziej kompetentnych i zdolniejszych poprzedników, wśród których Cox wymienia zarówno pisarzy
starożytnych, jak i współczesnych: m.in. Plutarcha, Kwintyliana,
św. Hieronima, Piera Paola Vergerio, Battistę Guariniego, Francesca Filelfo, Enneasza Sylwiusza Piccolominiego.13 Rywalizacja
z nimi tym bardziej nie ma sensu, iż swoje zadanie wykonali oni
z godną podziwu rzetelnością (fide) i wnikliwością (perspicacitate) oraz przy pomocy właściwej metody (recto consilio).
Skromność Coxa ujawnia jednak w bardziej dogłębnej analizie cechy w pewnym sensie janusowe: przedstawienie własnego
wykształcenia (doctrina) oraz doświadczenia pedagogicznego
(rerum usus) w cieniu wybitnych pisarzy pozwala mu zgodnie
z topiczną logiką listów dedykacyjnych wyeksponować swoją
pracowitość (diligentia)14. Cechę tę przypisał on co prawda
również swoim wybitnym poprzednikom15, jednak podkreślając,
iż skrupulatnie (diligenter)16 przestudiował ich pisma, nie obawiał
się najwidoczniej posądzenia o chęć zuchwałej rywalizacji na
polu pilności z lepszymi od siebie teoretykami wychowania jako
autorami lucubrationes (prac powstałych przy świetle lampy
kosztem snu)17. Nasuwa się zatem wniosek, iż jeśli wziąć pod
uwagę fakt, że strategia eksponowania przez autora swojej
pracowitości na tle niedostatków własnego talentu, czy nawet
wiedzy była dość powszechna, Cox nie wychodzi tu poza
konwencję, która spod aemulatio – współzawodnictwa z poprzednikami wyłączała badawczą skrzętność, co więcej cechę
tę czyniła główną zaletą, dającą autorowi możliwość zjednania
sobie względów możnego protektora. Konwencjonalny wizerunek Coxa jako odznaczającego się pracowitością badacza, który
kierując się dobrem krakowskiej młodzieży, oddał swe pióro na
rozkazy kościelnego dostojnika, jest jednak źródłem istotnych
wskazówek co do umieszczenia jego koncepcji programu nauczania na tle wizji poprzedników. Dochodzimy tutaj do kluczowego
punktu rozumowania: programowe deklaracje Coxa, który cele
przyświecające swemu traktatowi definiuje w odniesieniu do
koncepcji Plutarcha (a właściwie Pseudo – Plutarcha)18, Kwintyliana i Erazma, są niejako wtopione w retorykę humilitatis.
114
Rzecz charakterystyczna, że ewentualne rozbieżności z
dziełami, które uznał za szczególnie istotne dla własnej koncepcji, sprowadził Cox do różnic metodologicznych w dużej mierze natury mechanicznej: podczas gdy cytowani autorzy potraktowali materię wykładu szkicowo, skupiwszy się na głównych
ideach, Cox postawił sobie za cel udzielenie – jak to określił
– małemu Julusowi bardziej szczegółowych wskazówek, przeprowadzenie go krok po kroku przez poszczególne etapy
kształcenia, niezbędne do kontynuacji studiów nad eloquium
Romanum na bardziej zaawansowanym poziomie. Nie ulega
wątpliwości, iż tak scharakteryzowane cele świetnie przystają
do toposu humilitatis: Cox wyznaczył sobie skromne zadanie
uzupełnienia luk, które powstały wskutek pominięcia istotnych
szczegółów w dziełach poprzedników, można zatem porównać
jego strategię do metody Kwintyliana, który dla celów pedagogicznych rozbudował zbyt ogólny jak na swoje potrzeby opis
umiejętności oratora, przekazany w retorycznych pismach
Cycerona. Jak widać, wzbogacanie dzieł poprzedników o detale istotne w danym środowisku i epoce19 było nie tylko czymś
naturalnym, podyktowanym wymogami chwili, ale również
praktyką obrosłą nobliwą tradycją o proweniencji antycznej,
która przez podkreślenie ciągłości kulturowej dodawała znaczenia tego rodzaju mrówczej pracy.
Z naszego punktu widzenia najistotniejszy jest natomiast
fakt, iż Cox nie wyklucza – przynajmniej expressis verbis – z
obszaru swoich zainteresowań koncepcji języka, leżących u
podstaw programu nauczania łaciny i greki, naszkicowanego
przez poprzedników. Jego stosunek do nich wydaje się przynajmniej na pierwszy rzut oka dość skomplikowany, eksponuje on bowiem przede wszystkim wagę walorów moralnych
nauczyciela, świętość życia którego jest jego zdaniem istotniejsza aniżeli uczoność sama w sobie. Jak słusznie zauważyła
J. Glomski20, stanowisko Coxa różni się pod tym względem od
ujęcia Erazma, przedstawionego w De ratione studii.21 W praktyce walijski humanista wykracza zatem poza swoje deklaracje
programowe, sprowadzające ewentualne różnice w interpretacji do zamiaru bardziej szczegółowego w stosunku do poprzedników przedstawienia tematu.
Ponieważ przemieszczenie akcentów na moralne aspekty wychowania zostało przez Coxa, jak zaznaczyłam powyżej,
przemilczane, powstaje pytanie, czy można uznać owo niedopowiedzenie za celowe, tj. podyktowane wewnętrzną logiką
retorycznej autokreacji angielskiego humanisty.
Nie ulega wątpliwości, iż polemika z Erazmem w kwestii
115
tak fundamentalnej jak etyka wykraczałaby poza wąskie ramy
wyznaczone przez decorum toposu humilitatis. Biorąc pod
uwagę fakt, iż Cox niekiedy wręcz niewolniczo trzyma się tekstu Erazma22, można by ją zinterpretować jako swego rodzaju
filologiczną hybris. W gruncie rzeczy jest jednak mało prawdopodobne, aby Cox przyjmując pozę wystudiowanej pokory,
pragnął w deklaracji programowej odwrócić uwagę od niekonsekwencji swego ujęcia, która i tak musiała rzucać się w oczy.
Aby rozwiać wątpliwości w tym względzie, sięgnijmy do De
ratione studii. Tekst traktatu otwiera znamienna konstatacja,
ujmująca istotę erazmiańskiej koncepcji języka:
„Principio duplex omnino videtur cognitio rerum ac verborum. Verborum prior, rerum potior. Sed nonnulli dum a0ni/ptoij,
ut aiunt, posi/n ad res discendas festinant, sermonis curam
negligunt, et male affectato compendio in maxima incidunt dispendia.”23
Wszelka wiedza o świecie, także z zakresu etyki nie może
zostać zdobyta ani wykorzystana inaczej, aniżeli za pomocą
słów, które zapośredniczają treści dostępne poznaniu. Koncentracja na zagadnieniach stylu, a szerzej na warsztacie filologicznym jawi się jako naturalna konsekwencja tego stanu
rzeczy: przykładowo nie sposób byłoby roztrząsać moralnych
walorów nauczyciela w separacji od języka etyki, dbałość o
styl jest zatem integralną częścią wymiaru aksiologicznego.
Koncepcja ta wymagała oczywiście odpowiedniego ontologicznego uzasadnienia, które w wypadku Erazma można
odtworzyć za pomocą dość żmudnej rekonstrukcji. Nie mamy
tu wprawdzie miejsca na rozwinięcie tej skomplikowanej problematyki, skrótowa charakterystyka stanowiska Erazma, którą
naszkicowałam powyżej, pozwala jednak na wyświetlenie rodzaju mankamentów, typowego dla rozumowania Coxa. Choć
stawia on sobie za cel stworzenie programu nauczania łaciny i
greki wraz z początkami stylistyki, akcentując wymiar moralny
sztucznie skontrastowany z przedmiotem nauczania, mimowolnie zaprzecza swoim zamierzeniom. Nie ulega wątpliwości, iż
po prostu nie potrafi on dostrzec lingwistycznego charakteru problematyki etycznej, co jest dość zadziwiające u ucznia
Erazma i Melanchtona – humanistów, dla których uzyskiwanie
wysokiego stopnia syntetyczności w łączeniu różnych dziedzin
intelektualnej aktywności stanowiło niezwykle cenną metodę
interpretacji, zrekonstruowaną nota bene dzięki lekturze De
oratore Cycerona i Institutiones oratoriae Kwintyliana (doktryna orbis litterarum). To swoiste wyjałowienie dorobku intelektualnego mistrzów, które maskuje u Coxa wzgląd na moralne
116
dobro młodzieży, jest przypuszczalnie wynikiem braku analitycznej wnikliwości angielskiego humanisty oraz tendencji do
postrzegania poszczególnych dyscyplin głównie przez pryzmat
klasyfikujących etykietek. Tę ostatnią manierę świetnie ilustruje
pytanie retoryczne, które świadczy o mechanicznie przyjętym
przez Coxa za pewnik przekonaniu, iż granice między naukami
(także etyką) są sztywne i precyzyjnie określone:
„Quid enim proderit etiam si Platonem, aut Aristotelem in
philosophia aequemus, in eloquentia simus Demosthenes aut
Cicerones, si caruerit haec scientia condignis sua uirtute moribus?”24
Jeśli wziąć pod uwagę precyzyjną rekonstrukcję myśli autorów, przywołanych w tym fragmencie (może z wyjątkiem Arystotelesa), sformułowanie pytania w tej formie, w jakiej uczynił
to Cox, musi wydać się absurdalne. Wystarczy przypomnieć
choćby platońską doktrynę ezoteryczności nauki o ideach, która
miała być dostępna tylko dla mędrców, mających z urodzenia
predyspozycje do jej indywidualnego odkrycia. Światło na ten
sposób rozumowania rzuca analiza stosunku Coxa do źródeł
antycznych, a w szczególności do De oratore Cycerona i Institutiones oratoriae Kwintyliana, które były, jak już wspomniałam
inspiracją również dla jego mistrzów: Erazma i Melanchtona.
Fragmenty tych dzieł25 zacytował bowiem Cox na poparcie
swojej tezy o wyższości moralności w wychowaniu:
„Praeclare M <arcus> T <ullius> malle se dicit indisertam
prudentiam, quam stultam loquacitatem. Rectissime Fabius,
‘Potior mihi’, inquit, ‘ratio uiuendi honeste quam uel optime dicendi uidetur’”.26
Obydwa cytaty, umieszczone na tle kontekstu, z którego
zostały wyrwane, zyskują zupełnie odmienny wydźwięk, bliski
interpretacji erazmiańskiej, czy melanchtoniańskiej.27 Istotny
jest również fakt, iż stanowią one wątki poboczne rozumowania
cytowanych autorów28, co dodatkowo podkreśla warunkowy
tryb wypowiedzi. W tym świetle erudycyjny popis Coxa zdaje
się bardziej przypominać średniowieczną metodę podpierania
się auctoritates w dysputach, aniżeli praktyczną realizację ambitnego hasła ad fontes, w znacznym stopniu zniekształcił on
bowiem intencje antycznych mistrzów. Jest rzeczą znamienną,
iż deformacje, jakim uległa myśl Cycerona i Kwintyliana w traktacie Coxa są identyczne z teoretycznymi rozbieżnościami jego
interpretacji w odniesieniu do syntetycznego ujęcia Erazma i
Melanchtona. Jednokierunkowość tych zniekształceń ma przy
tym charakter ahistoryczny, sprowadzają się one bowiem do
defragmentacji na płaszczyźnie teoretycznej oraz w praktyce
117
retorycznego dyskursu tendencji syntetyzujących, obecnych
w interpretacjach cytowanych autorów. Ewentualna próba wyjaśnienia interpretacyjnych niezręczności Coxa poprzez włączenie go w antyretoryczną tradycję platońską, którą
cechowało zbliżone na pierwszy rzut oka do jego rozumowania
dążenie do separacji retoryki i filozofii, jest z góry skazana na
niepowodzenie, wypreparował on bowiem z tej ostatniej swego rodzaju praktyczną imitatio (naśladownictwo) obyczajów,
przeciwstawiając ją teorii, dostępnej m. in. za pośrednictwem
odpowiednio zinterpretowanych przykładów literackich (kontrast: wzory literackie – życie realne).29 Nie ulegawątpliwości,
iż poglądy Coxa (trudno tu mówić o założeniach) przeniesione
na grunt refleksji platońskiej miałyby na nią wpływ raczej destrukcyjny. Trudno również oprzeć się wrażeniu, iż z punktu
widzenia Crassusa z cycerońskiego dialogu De oratore Cox,
mimo usilnych starań, aby podołać ambitnemu zadaniu popularyzacji myśli głębokich umysłów swego czasu, znalazłby się
w obozie przeciwnym, a mianowicie wśród obywateli, którzy:
„omnium (...) bonarum artium, denique virtutum ipsarum societatem cognationemque non norunt”30. Jego interpretacja,
wymykając się spod kontroli autora, zmierza bowiem do rozerwania związku (societas) cnót moralnych i sztuk, w tym przede wszystkim retoryki, wykazuje przy tym, aczkolwiek została
pomyślana jako pośrednia kontynuacja poglądów Cycerona i
Kwintyliana, cechy zwalczanego przez nich stylu myślenia.
Tendencja ta staje się szczególnie wyrazista na tle prób
asymilacji elementów filozofii wychowania Erazma i Melanchtona, związanych z teorią języka. Trudno co prawda oczekiwać,
aby Cox powielił lub rozbudował w swoim krótkim traktacie
przykładowo skomplikowaną teorię rozwoju umysłu, koherentną
z rozwojem emocjonalnym, którą przedstawił Erazm w traktacie
De pueris instituendis – jeśli przyjmiemy, iż miał okazje zapoznać
się z nim wcześniej. Byłoby to zadanie niewykonalne choćby
ze względu na fakt, iż przyjęta w niej metodologia z pogranicza psychologii (a raczej jej renesansowych zalążków, ujętych
w formie także współcześnie aktualnej)31 oraz filozofii32 nie
przystawała do jego skromnych zamierzeń. Problem jednak w
tym, iż Cox wplata konstatacje, będące owocem nowatorskich
dociekań Erazma i Melanchtona, w postaci wypreparowanej
z uzasadniającej je argumentacji, a zatem w pewnym sensie
sentencjonalnej, a co gorsza mechanicznie podporządkowuje
je tokowi własnych myśli.
Za przykład może posłużyć charakterystyka dobrego
nauczyciela, którego wykształcenie łagodzi tak niepożądaną
118
z erazmiańskiego punktu widzenia nadmierną surowość,
posiłkującą się brutalną siłą fizyczną:
„At magnam huius sollicitudinis partem nobis auferet moderator iuuentutis eruditus, nempe qui rem probe callens, non
induxerit animum ut more aliorum temere saeuiat. Solent enim
plerique omnes cum literis humanioribus mores etiam humaniores colere, quemadmodum e contrario indocti non possunt
non duriores (id quod rudium est) sese semper erga suos exhibere. Curandum ideo mihi uidetur ut probum iuxta ac doctum
infantiae nostrae praeficiamus. Efficiet integritas, ne natura
puerorum in malum procliuis facile corrumpatur, ac si quid peccatum fuerit, ut corrigatur ocissime. Efficiet doctrina, ne quidpiam tradat quod non fuerit e re studiosorum, ac ne doceatur
adolescentia, quae mox dediscere compellatur.”33
W przekonaniu, iż litterae humaniores mają wpływ na obyczaje (mores), a zatem ludzie niewykształceni nie są w stanie
sprostać wymogom humanitas w zakresie etyki, pobrzmiewają
reminiscencje ulubionej owidiańskiej maksymy Melanchtona:
studia abeunt in mores, często przewijającej się w jego pismach: deklamacjach34, czy w Philosophiae moralis epitomes
libri duo35, znakomicie oddaje ona przy tym również ducha
poglądów Erazma z Rotterdamu na zagadnienia lingwistyczne,
posługiwał się on bowiem podobną topiką. Teoretyczny podkład
tego poetyckiego locus communis ulega jednakże u Coxa inflacji, której mechanizm z grubsza przypomina trudności, jakie
sprawia jego rekonstrukcja we współczesnych badaniach.
Główną ich przyczyną jest bowiem, jak się zdaje, ukryty wpływ
kantyzmu w metodologii, przejawiający się w tendencji do konstruktywistycznej interpretacji ujęcia języka w teoriach humanistów.36 W myśl tego stanowiska rzeczywistość w teorii Erazma
była niejako zależna od konstrukcyjnych właściwości języka,
nierozwiązany pozostawał jednak problem przyjętej przez humanistów za pewnik możliwości obiektywistycznych dociekań
na gruncie etyki, co świadczy o niedostatkach tego rodzaju
metodologii. Rozdzielenie języka i etyki nastąpiło co prawda
u Coxa wskutek zwykłej warsztatowej nieudolności, która nie
miała nic wspólnego z nawarstwieniem się heterogenicznych
tradycji filozoficznych, pozwala ono jednak na postawienie
hipotezy o możliwym wpływie tego rodzaju uproszczonych
ujęć na zafałszowaną interpretację całości renesansowej refleksji o języku we współczesnych badaniach, jej pożywką
mogły być bowiem również powierzchowne analogie między
„pseudoanalityczną” wersją przykładowo Coxa, a ukrytymi
tendencjami wynikającymi ze specyfiki nowożytnego aparatu
119
badawczego. Weryfikacja tej hipotezy wymaga wszakże znacznie szerzej zakrojonych badań, które wykraczałyby poza ramy
niniejszego artykułu, pozostaje mi zatem jedynie zaznaczyć, iż
jest to problem czekający na rozwiązanie.
Prześledźmy jednak, w jaki sposób model idealnego
nauczyciela podlega u Coxa wewnętrznemu rozszczepieniu,
które na poziomie tej swego rodzaju psychologii osobowości
odpowiada fragmentacji pojęć, omówionej na przykładzie cytatów z Kwintyliana i Cycerona.
Przede wszystkim osłabiony został związek przyczynowy
między wykształceniem, a obyczajami. Na uwagę zasługuje
zwłaszcza kwantyfikator: plerique omnes, który stanowi furtkę,
umożliwiającą w praktyce ich rozdział. Cox skwapliwie skorzystał
z niej w dalszej części wywodu, przypisując dwóm walorom
osobowości nauczyciela: integritas oraz doctrina, odrębne,
aczkolwiek komplementarne funkcje w procesie wychowania.
Integritas ma służyć za przykład, chroniący podopiecznych
przed uleganiem słabościom, doctrina natomiast gwarantuje
odpowiednią jakość treści nauczania. Paralelizm składniowy,
polegający na powtórzeniu formy czasu przyszłego czasownika
efficere na początku zdań definiujących integritas i doctrina,
zdaje się co prawda wskazywać na ukryty zamysł autora, jaki
mógł nim powodować przy rozdzieleniu dobrych obyczajów i
uczoności. Powyższa hipoteza nie daje się jednak utrzymać,
jeśli skonfrontować ją z defragmentacją humanitas w urywku
odwołującym się do autorytetu Cycerona i Kwintyliana. Główna
przyczyna jej słabości leży w sprzecznościach, w jakie wikła się
Cox. Spod blichtru powierzchownej stylistycznej elegancji może je
wydobyć jednakże dopiero bardziej wnikliwa analiza. Zauważmy,
iż w pierwszym fragmencie Cox eksponuje kosztem uczoności
wagę dobrych obyczajów jako wzorca dla młodzieży:
„...moderatores pueritiae omneis uelim in primis uitae sanctimonia quadam, nedum eruditione probari. (...) Sit ergo haec
prima (ut dixi) cura, quod inueniatur is adolescentiae informator, cuius uita discipulis quasi morum suorum amussis sit.”37
Oczywiste jest, iż myśl tę sformułował on w sposób nie do
końca precyzyjny, tym bardziej że w dalszych wywodach dobitnie wyraził przekonanie o niedostępności mores humaniores
dla ludzi pozbawionych ogłady (rudes). Oba wspomniane fragmenty traktatu – listu dedykacyjnego łączy jednakże maniera
mechanicznego, aczkolwiek efektownego odwoływania się do
źródeł, która powoduje umieszczenie na przeciwnych biegunach w gruncie rzeczy bliskich sobie – w poruszanej przez Coxa
materii – autorów.
120
Głębsze przyczyny opisanych powyżej niekonsekwencji w
traktacie De erudienda iuventute leżą we fragmentarycznej jedynie asymilacji teorii gratia, rozpowszechnionej w różnorakich
wariantach w erazmiańskiej res publica litterarum. Dla mistrzów
walijskiego humansty: Erazma i Melanchtona ta wywodząca się
z teorii antycznej kategoria estetyczna, służąca opisowi estetyki
odbioru stanowiła rodzaj spoiwa, integrującego metafizyczny,
psychologiczny i retoryczny wymiar funkcjonowania umysłu.
Poświęćmy kilka słów jej skrótowej charakterystyce, aby
wykazać, w jakim stopniu Cox mimowolnie oddalił się od
estetycznego pierwowzoru. W wymiarze metafizycznym gratia
odwołuje się do nadrzędnej instancji ingenium divinum, pełni
ona bowiem istotną funkcję w przekazie boskiego posłannictwa.
Inspiracją tego ujęcia było dzieło św. Augustyna De doctrina
christiana.
W wymiarze psychologicznym, funkcjonującym analogicznie do metafizycznego, gratia służy jako nośnik treści nauczania,
zintegrowanych z wymogami etycznymi poprzez odniesienie
do boskiego decorum, swego rodzaju metafizycznej inkarnacji
słynnej zasady horacjańskiej. Zagadnieniu temu poświęcił wiele
miejsca Erazm w traktacie De pueris instituendis.
Trzeci poziom – retoryczny, a właściwie językowy warunkuje
pozostałe w odniesieniu do procesu percepcji (jednakże z
wyłączeniem De doctrina christiana – jedynie w odniesieniu do
teorii humanistów, by przypomnieć zacytowany powyżej fragment z De ratione studii, dotyczący pierwotności słów). Gratia
na tej płaszczyźnie może być co prawda rozpatrywana jako kategoria czysto estetyczna, niezależna od etycznego punktu odniesienia, w ujęciu wziętych przez nas pod uwagę humanistów
tego rodzaju alienacja wypacza jednak jej sens, w wyniku czego
powstaje „zdegenerowana” forma dulcedo.
Cox zetknął się oczywiście z pojęciem dulcedo, voluptas,
czego dowodów nie brak również w traktacie De erudienda
iuventute. Wtopił on bowiem w strukturę swojego wywodu
dosłowny cytat z De ratione studii Erazma, w którym mowa
jest właśnie o voluptas i utilitas jako wymagających wyjaśnienia
kategoriach tekstu oraz odbioru:
„Tum illa quae iubet in institutione sua Erasmus. Nempe ut
primo loco ad conciliandos auditores laudes eius, quem praelegendum sumunt, paucis explicent. Deinde argumenti iucunditatem utilitatemque ostendant. (…) Dein quam in se habet uel
utilitatis uel uoluptatis haec lectio.”38
Rozwinięcie teorii gratia odnajdujemy jednakże u Coxa w
formie szczątkowej, nie tyle chodzi tu przy tym o zwięzłość jej pr121
zedstawienia, ile o luki w szkielecie pojęciowym. Najistotniejszy
jest brak „metafizycznego” punktu odniesienia, który pozwoliłby
na rozróżnienie gratia falsa i vera. Ta ostatnia rozumiana jest
wskutek tego jako swego rodzaju kontaminacja z utilitas, interpretacja ta jest zaś co prawda bliższa antycznym pierwowzorom, eliminuje jednak medium augustyńskiej filozofii retoryki. W
konsekwencji dulcedo okazuje się jedynie horacjańskim ciasteczkiem – crustulum, którym należy umiejętnie osłodzić etycznie
wartościowe nauki, a zatem jego rola w procesie formowania
mores, które we współczesnej terminologii odpowiadałyby
pojęciu osobowości, jest czysto mechaniczna. W ujęciu tym
wysiłek Erazma zmierzający do zintegrowania ingenium suave
z dulcedo – słodyczą naśladownictwa będącej wzorcem osoby
nauczyciela zostaje praktycznie rzecz biorąc zaprzepaszczony. Pośrednią konsekwencją tego stanu rzeczy jest zatarcie przynależności interpretacji Coxa do przedkartezjańskiego
paradygmatu relacji umysłu i emocji, który wyłania się dzięki
rekonstrukcji na podstawie tekstów jego mistrzów. Jednym z
symptomów zerwania łączności z wolnym od „kartezjańskiej”
ratio modelem myślenia i odczuwania jest spłycenie refleksji
Coxa nad językiem. Przykładowo portenta oznaczają dla niego po prostu formy niepoprawne gramatycznie lub niezgodne z duchem języka, język przestaje zatem służyć poprzez
umożliwienie krystalizacji myśli jako narzędzie formowania charakteru, tak jak ma to miejsce u Melanchtona. Z punktu widzenia Coxa również tekst planus – łatwy do zrozumienia może
być przesiąknięty trucizną fałszywej dulcedo39, podczas gdy dla
jego mistrzów byłaby to jasność pozorna, której mankamenty
ze względu na rolę tego kryterium w orzekaniu o prawdziwości
sądów musiałaby ujawnić bardziej dogłębna analiza.
W świetle powyższych rozważań trudno się dziwić, iż osią
definicji dulcedo w traktacie Coxa jest motyw Syren, słodycz
ich śpiewu miała bowiem wieść nieostrożnych ku zgubie,
tj. sprzeniewierzeniu się dobrym obyczajom dla estetycznej
przyjemności.40 Pojawia się on rzecz jasna wielokrotnie również
w pismach mistrzów angielskiego humanisty, nie zajmuje on
jednak w ich koncepcji miejsca równie wyeksponowanego.
Jest raczej interpretowany jako rodzaj deformacji, powstałej
wskutek zerwania więzi między językiem, a boskim ingenium
suave, które wyznacza jego funkcję i zarazem jest gwarantem
możliwości jej pełnienia.
122
Note
(1) Najnowszy stan badań na temat pochodzenia Coxa przedstawił S. Ryle:
S. Ryle, Leonard Cox w: British Rhetoricians and Logicians, 1500-1600, Second
Series, (Dictionary of Literary Biography, Vol. 236), ed. by E.A. Malone, Thompson - Gale Group 2003, s. 58 i nast.
(2) Interesujące wątki, dotyczące między innymi jakości wykładów Coxa na
Akademii Krakowskiej znalazły się we wspomnianym w przyp. 1 artykule S. Ryle’a: „but his performance may not have measured up to the required standard,
since the Liber diligentiarum (Book of Duties), the official record book of the faculty, uses the phrase sed negligenter (but negligently) in its minute on the Cicero
lectures. Fortunately for Cox, several wealthy and influential patrons in Kraków
were by that time prepared to support him.” (S. Ryle, ibidem, s. 63.).
(3) L. Cox, De erudienda iuventute w: Humanistica Lovaniensia, Vol. XL 1991, str. 124.
(4) Ibidem, s. 124.
(5) Cox powołuje się na listy św. Hieronima, poświęcone wychowaniu: Ad
Gaudentium i Ad Laetam. Por. ibidem, s. 126.
(6) Por. J. Glomski, Careerism at Cracow: The Dedicatory Letters Of Rudolf
Agricola Junior, Valentin Eck And Leonard Cox w: Self-Presentation And Social
Identification. The Rhetoric And Pragmatics Of Letter Writing In Early Modern
Times, Supplementa Humanistica Lovaniensia XVIII, Leuven 2002, s. 165-182.
(7) L. Cox, op. cit., s. 126.
(8) Por. C. Guillen, Notes toward the Study of the Renaissance Letter, w:
Renaissance Genres, ed. by B. Kiefer Lewalski, Cambridge, Massachusetts and
London 1986.
(9) J. Glomski, Careerism at Cracow, s. 170 i nast.
(10) L. Cox, op. cit., s. 128.
(11) Ibidem, s. 128.
(12) Ibidem, s. 128.
(13) Ibidem, s. 124-126.
(14) Por. J. Glomski, Careerism at Cracow, s. 172-175.
(15) Por. L. Cox, op. cit., s. 124: “[viri] qui de recta instituendae pubis ratione
summa diligentia scripserunt”.
(16) Ibidem, s. 126.
(17) Termin lucubratio był używany przez humanistów jako synonim traktatu
czy szerzej dzieła literackiego tak często, iż jego pierwotne konotacje z toposem
skromności uległy zatarciu.
(18) L. Cox, op. cit., s. 126.
(19) J. Glomski, Introduction to L. Cox, De erudienda iuventute, w: Humanistica Lovaniensia, Vol. XL - 1991, s. 117 oraz tejże Italian Influences on Early
Humanist Educational Theory at Cracow w: Acta conventus neo-latini Bariensis,
wyd. R. Schnur, Tempe, Arizona 1998, s. 290-291.
(20) We wspomnianym traktacie Erazm skoncentrował się głównie na zagadnieniach filologicznych oraz na kwalifikacjach nauczyciela, nie zaś jego walorach
jako wzorca moralnego.
Por. J. Glomski, Introduction to L. Cox, De erudienda iuventute, s. 119-120.
(21) Obserwacja ta wydaje się przy tym trafna również w odniesieniu do traktatu De pueris instituendis (1529). Nie można bowiem definitywnie wykluczyć, iż
w okresie powstania De erudienda iuventute Cox znał go z rękopisu, jego manuskrypty były jednak rzadkością (podziękowania dla J. Glomski za cenne uwagi).
Ideałem erazmiańskim była, jak zauważył J.-C. Margolin, synteza virtus i bonae litterae.
Por. „Itaque tibi in animo esse, puerum tantae spei, simul atque grandiusculus erit factus, curare bonis literis initiandum, honestissimisque disciplinis
123
erudiendum, saluberrimis philosophiae praeceptis formandum et instruendum.”
(Erasm, De pueris instituendis, oprac. J.-C. Margolin w: Erazm, Opera omnia, i/2,
Amsterdam 1971, s. 25) oraz „...sed recta institutio longe plus habet momenti
ad sapientiam, quam pronunciatio ad eloquentiam. Fons enim omnis virtutis est
diligens ac sancta educatio. Quemadmodum ad stultitiam ac malitiam primum,
secundum ac tertium est indiligens corruptaque institutio.” (ibidem, s. 28).
(22) L. Cox, op. cit., s. 150.
(23) Erasm, Ratio stvdii ac legendi interpretandiqve avctores, oprac. J.-C.
Margolin w: Erazm, Opera omnia, i/2, Amsterdam 1971, s. 113.
(24) L. Cox, op. cit., s. 130.
(25) Dialog Cycerona za pośrednictwem Gelliusza.
(26) L. Cox, op. cit., s. 130.
(27) Por. “[142] Nunc sive qui volet, eum philosophum, qui copiam nobis
rerum orationisque tradat, per me appellet oratorem licet; sive hunc oratorem,
quem ego dico sapientiam iunctam habere eloquentiae, philosophum appellare
malet, non impediam; dum modo hoc constet, neque infantiam eius, qui rem
norit, sed eam explicare dicendo non queat, neque inscientiam illius, cui res non
suppetat, verba non desint, esse laudandam; quorum si alterum sit optandum,
malim equidem indisertam prudentiam quam stultitiam loquacem”; (Cicero, De
oratore, III.142).
“III. Prior causa prorsus gravis: nam si studiis quidem scholas prodesse, moribus autem nocere constaret, potior mihi ratio vivendi honeste quam vel optime
dicendi videretur. Sed mea quidem sententia iuncta ista atque indiscreta sunt:
neque enim esse oratorem nisi bonum virum iudico et fieri, etiam si potest, nolo.”
(Kwintylian, Institutio, 1.2.3).
(28) U Cycerona interesujący nas fragment wygłasza Crassus jako jeden z
interlokutorów.
(29) L. Cox, op. cit., s. 152-154.
(30) Cicero, De oratore, III.136.
(31) Interesujące jest zwłaszcza pojęcie imitatio, nawiązujące do tradycji
arystotelesowskiej: „Illud extra controuersiam est, nullam esse aetatem tam recentem, vt non sit habilis institutioni, praesertim earum rerum ad quas natura
composuit hominem. Nam in hoc ipsum infantiae peculiarem quandam, vt modo
dicebam, imitandi libidinem addidit, vt quicquid audierint viderintue, gestiant aemulari, gaudeantque si quid sibi videntur assequuti. Simios quosdam esse dicas.
Atque hinc prima ingenii docilitatisque coniectura.” (Erasm, De pueris instituendis, oprac. J.-C. Margolin w: Erazm, Opera omnia, s. 47-48)
(32) Była to kontynuacja augustyńskiej wersji cycerońskiej koncepcji suavitas.
(33) L. Cox, op. cit., s. 132-134.
(34) Ph. Melanchthon, Declamatio de philosophia, w: Philippi Melanchthonis
Opera quae supersunt omnia, Halis Saxonum 1834-1859, Vol. XI, s. 283 oraz
Oratio de studiis linguae Graecae 1549 w: Ph. Melanchthon, Werke, t. 3, Tübingen 1961, s. 146, w. 32.
(35) Ph. Melanchthon, Philosophiae moralis epitomes libri duo w: tegoż Werke, t. 3, s. 161, w. 2.
(36) Por. K. O. Apel, Transformation der Philosophie, Frankfurt am Main
1994, t. 1, s. 189: „In der Tat lässt sich das Postulat schlechthin eindeutiger und
allgemeingültiger Erkenntnis nur auf die Identität von ‚praecisum’ et ‚factum’ bzw.
‚verum et factum’ gründen, wie schon Cusanus bzw. Vico es formuliert haben.
Und es bedeutet m. E. über Kant hinaus einen Fortschritt im methodologischen
Selbstverständnis der Wissenschaft, wenn die Initiatoren des Logischen Positivismus die Begründung der nur postulierbaren schlechthinnigen Allgemeingültigkeit wissenschaftlicher Sätze von dem synthetischen Apriorismus der Kantschen Erkenntnistheorie lösten und am Prinzip der willkürlichen Konstruktion der
Sprache festmachten. Sie haben damit die von Kant synthetisch – spekulativ
angesetzte ‚kopernikanische Wendung’ der Wissenschaftsbegründung sozusagen zu einem Problem operativer Praxis gemacht gemäss dem Satz: um präzise
124
zu ‚verstehen’, d. h. eine intersubjektive Gültigkeit der Wissenschaft sicherzustellen, müssen wir das Verstehbare, d. h. die Form der Sprache, zuerst selbst
machen“.
Ślady wpływu Kanta można dostrzec w interpretacjach m. in. R. Waswo:
por. R. Waswo, Language and Meaning In the Renaissance, Princeton 1987,
s. 213 i nast.
(37) L. Cox, op. cit., s. 128-130.
(38) L. Cox, op. cit., s. 150.
(39) Por. L. Cox, op. cit., s. 140: “Hic illud uolo memoriae infigatur, quo iuncta
sit dulcedini utilitas. Nolo cordi sit quicquam quantumuis planum, quantumuis
argumenti iucunditate gratum, nisi pariter et mores instruat. Nolo lateat sub melle
uenenum”.
(40) Por. L. Cox, op. cit., s. 140: “Dulcis est Syrenum cantus, at quicunque
per ignorantiam illis adpropinquabit, seu uocem illarum audiet, iam de illo actum
est, periit funditus”.
125
GRAŻYNA URBAN-GODZIEK
Sezione di Bibliografi
Bibliografia
a Polacca
Università Jagellonica di Cracovia
Le elegie d’amore di Jan Kochanowski
sullo sfondo della teoria e della pratica europea
Nel XVI secolo in Polonia apparvero due importanti cicli
di elegie: Tristia di Klemens Janicius (15420 ed Elegiarum libri
quattuor (1580) di Jan Kochanowski, preceduti dalla versione manoscritta (quella di Elegiarum libri duo è antecedente al
1562).
Il primo dei suddetti volumi appartiene all’ambito d’ispirazione della poesia d’esilio di Ovidio e rientra nel filone caratteristico per l’elegia moderna dell’autobiografia umanistica,
che affrunta i seguenti temi: de se aegrotante, de exilio suo,
ad posteritatem ecc. L’opera di Kochanowski ha invece come
modello le elegie del tipo amores di Tibullo e Properzio.
Contenuto degli Elegiarum libri quattuor
I quattro libri di elegie di Kochanowski sono composti secondo il principio della varietas. Accanto alla tematica amorosa, compaiono anche quelle di contenuto politico, filosofico,
metaletterario e altre. Le elegie di argomento amoroso dominano decisamente l’intera raccolta. Ma anche qui il principio
basilare è quello della varietà. Essa riguarda sia la forma che il
contenuto. E così, alle elegie d’amore soggettive1, che presentano quanto vissuto dal punto di vista dell’ “io lirico”, si accompagnano elegie obiettive (quando viene presentato il mito di
Fedra e Ippolito2, in cui, in maniera simile alle Heroidi di Ovidio,
il poeta si permette di parlare delle sue passione alla donna;
ciò in amores non era presente). Ritroviamo anche un’elegia
etiologica (I 15), in cui il motivo del rifiuto d’amore da parte della
principessa Wanda e del suo suicidio serve a costruire la storia
sulle origini del Kopiec Wandy (“Poggio di Wanda”, situato nei
pressi di Cracovia. Ci sono anche bucoliche amorose (I 9; 11)
e anche elegie di argomento amoroso che sfruttano il topos
idilliaco (I 13, II 9, III 2) e quelle di tema metaletterario (III 11;
13; 15), un epitalamium (III 16), un paraclausithyron (I 14), un
127
propempticon per un uomo che ha abbandonato la giovane
moglie (IV 1: In questo caso l’epylion ha tema mitologio: Ulisse
e Penelope), le maledizioni di un amante tradito (II 5; 7; III 17).
Trattando di differenzazione dei concetti del tema amorosao, occorre rivolgere la propria attenzione alla ricchezza del
topos, al modo in cui vengono plasmate le eroine di questi versi
erotici, nonché all’ampia gamma di sentimenti. Ma di ciò parleremo più estesamente in seguito.
Le ricerche finora svolte si sono concentrate soprattutto sul
confronto della raccolta delle elegie di Kochanowski con i modelli antichi. Si è anche cercato di identificare le eroine-destinatarie delle dichiarazioni d’amore. È stato inoltre effettuato l’elenco dei tepos presenti nel suddetto autore e delle modalità di
realizzazione dei temi elegiaci tenendo presente le analogie con
altri poeti neolatini. Si soleva tuttavia evidenziare le ispirazioni
connesse con l’antichità presenti nelle elegie di Kochanowski e
la loro “resistenza” alle novità letterarie contemporanee. A prova di ciò si può addurre il fatto che venissero composte elegie
nel XVI sec., quando in Italia tale genere, trattato come mero
esercizio, era ormai passato di moda.
Oggi, in piena fioritura di ricerche a carattere comparativo,
forse la domanda più interessante da porsi è quella relativa a
come la raccolta di Kochanowski si presenti sullo sfondo dell’opera di altri poeti europei di lingua latina a lui contemporanei.
In qualità di padre della poesia polacca concepì il genere dell’elegia in latino. Per dare una risposta alle suddette domande,
descriveremo brevemente la teoria e la prassi del genere in
epoca rinascimentale.
Elegia: storia del genere (“definizione”
di Orazio interpretata da Scaligero)
L’elegia è una creatura ibrida, funzionante ai limiti dei generi. In ogni fase della sua esistenza storica aveva un aspetto
completamente diverso, assolveva a funzioni differenti e veniva
variamente interpretata. Agli umanisti venne trasmessa in due
modi contrastanti. Il primo, tradizionale e risalente all’epoca
alessandrina, consiste in una teoria che connette gli inizi dell’elegia con il lamento funebre, in mancanza di testimonianze
greche di elegie di tale argomento. Il secondo riguarda la prassi
di epoca romana nell’ambito dell’elegia d’amore. Tale contrasto era forte per coloro che intendevano imitare i modelli latini,
tenendo nel dovuto rispetto la teoria, specialmente quella di
128
Orazio. La sua dichiarazione alquanto enigmatica contenuta
nella Lettera ai Pisoni (in mancanza di altre fonti) veniva trattata
alla stregua di definizione. Il problema consisteva però nella sua
interpretazione.
Versibus impariter iunctis querimonia primum,
Post etiam inclusa est voti sententia compos;
Quis tamen exiguos elegos emiserit auctor,
Grammatici certant et adhuc sub iudice lis est;
(Ars Poetica 75-78).
Oggi si ritiene che tale dichiarazione non riguardi tanto
l’elegia, quanto il distico elegiaco e gli epitaffi in esso espressi
(querimonia: lamenti) e ancora gli epigrammi votivi (voti sententia compos: “parole dei desideri realizzati”). Dell’elegia vera e
propria egli dice solo che è inferiore, meno importante rispetto
all’epos cui aveva precedentemente accennato, e che la sua
origine è ignota.
Nei secoli trascorsi sia i querimonia che i voti sententia
compos venivano messi in relazione con il tema dell’elegia. Una
prova di conciliazione della teoria con la prassi si ebbe con la
formula querimonia amantium espressa già durante il medioevo. Tuttavia la concezione dell’elegia come opera riguardante le pene d’amore, il dolore per il mancato appagamento o
per la definitiva perdita della persona amata prese piede nel
XVI sec. In tal ambito un influsso non indifferente fu dato dal
petrarchismo che andava conquistando la poesia in latino e
che, al contrario del patrono di tale filone permetteva di trattare
l’amore appagato. In questo spirito sviluppò la sua teoria Giulio
Cesare Scaligero.
Le riflessioni concernenti le elegie sono comprese nel capitolo 50 del libro I e successivamente nel 125 del libro III della
sua opera intitolata Poetices libri septem3. Accogliendo la versione circa l’origine funebre del genere, spega la sua variante
posteriore e le tematiche con la simiglianza degli stati emotivi
che accompagnano un’eperienza luttuosa o una amorosa: in
amore l’amante spesso si lamenta. Il sentimento amoroso può
essere considerato alla stregua di quello della morte, perché
se l’amante perde i sensi, muore dal desiderio, come testimonia la mitologia (Nam et frequens conquestio in amoribus et
verissima mors, quae a nobis amentissimis amentissimo atque
ingratissimo sexui vivitur). In seguito Scaligero modificò la suddetta teoria, sostenendo che l’elegia era servita inizialmente ad
amantium commiserationes, cioé ad una lamentevole richiesta
129
di pietà alla porta dell’amata: Vox est tragica ελελευ, qua ad
amicarum fores usos fuisse priscos arbitror. Perciò la più antica forma di elegia sarebbe stato il paraklausithyron. Tale prima
funzione sarebbe stata in seguito ampliata, al fine di descrivere
anche l’appagamento dei desideri, come se si fosse voluto ringraziare il canto per aver compiuto il proprio compito. Voti deinde compotes, quasi eiusmodi carmini gratiam referrent, etiam
secundiorem illam fortunam celebrarunt.
L’interpretazione oraziano-scaligeriana
dell’elegia nella prassi europea
La diffusione di tale modo di concepire i compiti dell’elegia
è testimoniata dalla prassi letteraria degli autori del XV e del XVI
sec. L’esempio più evidente in tal senso è costituito dall’opera
del petrarchisca fiammingo Janus Secundus Hagiensis, la cui
opera Julia monobyblos (1541) anticipò di due decadi la pubblicazione della Poetica di Scaligero (1561). Entrambi le opere
che godettero di molta popolarità e influenza furono decisive
per la concezione del genere. L’elegia, dunque, doveva esprimere stati d’animo: all’inizio quello dell’amante che si strugge
per la passione non appagata (querimonia, vota – cioé desideri)
e in seguito quello di chi gioisce per la felicità dovuta all’appagamento (voti sententia compos). A differenza del loro modello,
infatti, i petrarchisti ammettevano l’amore appagato.
Le suddette indicazioni (nonché ovviamente l’esempio degli
elegiaci latini) servirono anche da schema per lo sviluppo del
sentimento che di solito rappresenta la parte essenziale nella
composizione di un ciclo elegiaco. In quest’ambito erano possibili le più disparate varianti.
Nel libro di Secundus, in cui è ravvisabile una distanza
scherzosa nei confronti del tema della propria opera e del suo
soggetto, le prime elegie del ciclo presentano i tentativi dell’eroe di conquistare l’amata, cantano l’amore atteso che promette qualcosa. I testi successivi sono costituiti da lamenti e
lagnanze contro il rivale, che gli ha portato via la fanciulla. Nella
decima elegia inaspettatamente si ha l’appagamento, che tuttavia, come si evincerà, si è verificato solo in sogno. L’elegia
che chiude il ciclo consiste, nonostante la delusione subita,
in un elogio alle divinità dell’amore. Il poeta, rassegnatosi con
quanto accaduto, guarda all’amore come ad un tema letterario, trattando il quale può raggiungere l’immortalità. Il vero
appagamento del suo amore risulta essere di natura letterario.
130
Un altro modo di costruire il ciclo e di interpretare il tema
si riscontra in Giovanni Pontano. Il suo De amore coniugali costituisce una prova di adattamento dell’elegia amorosa latina
alla moralità cristiana e ai costumi contemporanei nonché un
modello di amore coniugale e paterno. Il ciclo di Pontano, la
cui eroina è la moglie Ariadna, conserva la dinamica elegiaca
descritta in precedenza per quanto riguarda lo sviluppo e i destini dei sentimenti nutriti nei conftonti della donna. Il periodo
del corteggiamento e del fidanzamento è dominato da desideri
pieni i speranza (el. 1). La fine dell’attesa e l’appagamento del
sentimento amoroso si realizzano nei temi trattati nelle elegie
successive:il matrimonio, la comune felicità, la nascita dei figli
(a questo ciclo appartengono anche delle ninna-nanne per il
figlioletto, dette naeniae), le gite familiari nel cuore della natura,
la lettera sull’educazione delle figlie, gli epitalami per i loro matrimoni. Non mancano neanche qui i lamenti: i querimonia contengono numerosi versi, scritti nei periodi di lunga lontananza
a causa della guerra, carichi di nostalgia e di preoccupazione.
Si esprimono improbabili timori circa la fedeltà della moglie nei
momenti di lontananza dal coniuge durante i primi anni di matrimonio, infine l’enorme dolore a causa dell’estrema separazione dall’amata moglie e quindi del figlio (ad es. Elegia dal titolo
Ariadnam uxorem mortuam alloquitur). A completamento del
ciclo amoroso per la moglie e i figli sono i componimenti funebri
di questa raccolta di elegie e di altre, come Tumuli, Eridanus,
Eclogae.
È curioso che il suddetto paradigma interpretativo del genere elegiaco, definibile oraziano-scaligeriano, sia evidente anche in cicli comprendenti temi diversi da quelli degli amores.
Elegiarum libri del tedesco Petrus Lotichius Secundus, ruota
intorno al tema della nostalgia per la patria perduta e ha come
modello soprattutto la poesia d’esilio di Ovidio. Tuttavia lo
schema di sviluppo dei sentimenti è il medesimo. La fraseologia di Lotichius è spesso presa in prestito da Ovidio, ma si nota
anche una significativa presenza della terminologia oraziana4
nell’interpretazione formulata da Scaligero. I vota di Lotichius
non si riferiscono alla conquista di una donna, ma della patria,
reale e letteraria, dove avrebbe potuto trovare il sospirato. Nei
quaerimonia rimugina sulla perdita, la descrizione del confino,
la necessità di partecipare alla guerra, i tentativi di viaggi verso
la patria non coronati da successo, ecc. Soltanto l’ultima energia porta all’appagamento, cioé al raggiungimento dello scopo
del pellegrinaggio.
Queste sono le modalità più interessanti e rappresentati131
ve per la formazione di un ciclo elegiaco nell’Europa moderna.
Come si colloca in tale contesto l’opera Elegiarum libri quattuor
di Jan Kochanowski?
L’opera Elegiarum libri quattuor rispetto
ai filoni contemporanei di interpretazione del genere
L’influsso del concetto rinascimentale del genere sulle elegie di Kochanowski si evidenzia soprattutto nella versione a
stampa, edita poco prima della morte del poeta (1580). Nella
versione manoscritta di Elegiarum libri duo, la cui parte essenziale prese forma sicuramente già durante i suoi studi a Padova, possiamo rilevare una divisione dicotomica del contenuto.
Il Libro I è espressione dell’amore nascente e felice, mentre il
Libro II rappresenta una testimonianza della morte dei sentimenti, delle sofferenze dell’amante tradito. Nelle elegie comprese nei quattro libri possiamo notare un legame decisamente
più forte fra amore e sofferenza.
Il suo annuncio è contenuto già nell’elegia I 6, in cui per la
prima volta compare il nome dell’amante, Lidia, una sua lode
in toni entusiastici e una dichiarazione celebrativa in latino e in
polacco. Il verso termina con il tentativo di supplica a Cupidino
che colpisce con le sue mortifere frecce. Che a tale crudele
divinità basti il dolore che causano i piccoli bronci della fanciulla
o la sua frivolezza congenita! Che non aggiunga anche il rifiuto
(qui appare la figura dell’amator exclusus) che per l’amante è
sinonimo di morte! Infatti:
Nec malesanus Amor curis vacat: ille beatus
quem minimis urges, saeve Cupido, malis.
Projice letiferas, puer invidiose, sagittas,
Asperque in populum ne gere corda tuum.
Sit satis irata ingenita de levitate queri.
Ingratas pulsare fores, aditumque negari,
Illa mihi mortis suspicio instar erit.
Omnia perpetiar: modo spes, o Lydia, nobis
Omnis placandae ne sit adempta tui.
(I 6, 39-48)5.
Tuttavia il successivo componimento erotico, I 8, presenta
la patografia d’amore6 del poeta sofferente che veglia per tutta
la notte alla porta della fanciulla. I suoi canti perdono la con132
correnza con la borsa piena dell’altro amante. Con lo stesso
spirito sono stati composti il testo I 9, una bucolica elegiaca (il
sentimento non corrisposto del pastore-poeta Likotas per la
bella Filide, porta alla disperazione e all’impotenza creativa e
infine al desiderio di suicidio). L’elegia 10 consiste in un canto
che parla dell’attesa notturna dell’arrivo della fanciulla. Anche
se l’amante scongiura la notte, affinché duri fino all’arrivo di
Lidia, tutto è inutile.
Le elegie successive, nonostante l’elogio dell’amore (12) e
la visione della felicità, che potrebbe dare (13), rendono più
profonda l’impressione di devastazione e di disperazione. Soffermiamoci un attimo sull’elegia 12. Essa elabora il topos dell’amore come malattia, ma anche di elemento contrario alla
guerra, di propagatrice delle arti. Si tratta dell’eco proveniente
dagli storici antichi, passata attraverso Ovidio e adattata nell’era moderna soprattutto da Conrad Celtius, concernente il
topos della gelida Sarmazia. I suoi rozzi abitanti si interessavano solo alle lotte ed erano loro del tutto estranei i sentimenti
superiori. Proprio l’amore, come convince Kochanowski, era
diventato strumento di civilizzazione per quella Sarmazia selvaggia. Era stato l’amore ad insegnare a suo figlio le arti della
pace e le muse più dolci e soavi, affinché anche quel paese
avesse una sua lingua e un suo vate7. Subito dopo, tuttavia,
appare una dichiarazione antiorfeica e antiartistica: lo scopo
del poeta-amante non è il puro artismo, lo sconvolgimento della natura, un influsso su tutti ma, esclusivamente la conquista
della fanciulla, il superamento della porta chiusa che porta alla
sua casa. In seguito il tono dell’elegia è sempre più scoraggiante: viene smentita l’utilità di una qualsiasi azione. Nessuna virtù
preserverà l’uomo dalla sconfitta e l’esempio di Priamo dimostra cosa possono vedere i suoi occhi longevi: l’incendio della
patria, il cadavere del figlio, il ratto della moglie. Il componimento amoroso concluso in maniera così inattesa getta un’ombra
sulla visione-sogno di felicità bucolica tibulliana in seno alla natura con l’amata Lidia, contenuta nell’elegia successiva, la 13.
L’ultimo paraclasithron (14) di questo libro suggella il tradimento della fanciulla e la fine del rapporto.
Il secondo libro mantiene lo spirito della quaerimonia. La
composizione del libro permette di seguire il processo di morte
dell’amore o, per meglio dire, le prove effettuate per liberarsi da
esso con maggior o minor fortuna. Il sempre più frequente motivo della morte arriva al culmine negli ultimi due componimenti.
L’elegia II 10 reca un’argomentazione mitologico-filosofica del
suicidio, mentre la successiva il sonno, in cui la guida divina
133
conduce l’amante sfinito sulle rocce della Leucade, affinché su
modello di Safone termini le sue sofferenze d’amore. E in effetti,
il salto suicida nel baratro assume il significato di un rito di passaggio, di graduale morte dell’amante e della sua iniziazione
ad una nuova figura e ad un amore nuovo e maturo, cui viene
dedicato il libro III.
I primi due libri dell’opera Elegiarum libri quattuor è caratterizzato da una grande emotività e da una enorme scala di sentimenti. L’accettazione di un’assoluta sottomissione della signora, le dichiarazione di amore fino alla morte, che si trasformano
in disperazione dopo il tradimento sono i sentimenti che si ritrovano in Properzio. Tale drammatica lotta d’amore e morte,
non frequente nella poesia umanistica8, non è tipica neanche
per Kochanowski, la cui creatività polacca, in particolare, viene
ritenuta modello di armonia rinascimentale, di accettazione del
mondo e del suo ordine divino. Ancor più visibile diventa in
queste elegie la fedeltà al genere nell’accezione oraziano-scaligeriana del termine.
Nel libro III cambia invece completamente lo stato d’animo e mutano anche i modelli. Sebbene alcune opere di tema
amoroso siano dei rifacimenti della prima versione delle elegie,
tuttavia l’intero corpus fu composto nel periodo della maturità
artistica del poeta. Si possono qui rilevare i tratti noti da Pieśni e
Fraszki. Alle elegie di argomento amoroso del terzo libro danno
tono Tibullo e Orazio, fra i poeti antichi, e Giovanni Pontano, fra
quelli moderni (anche se finora non sono state condotte analisi
comparative in tale ambito).
Eroina di 5 delle diciassette elegie del III libro di Kochanowski è Pazyfila. Tali componimenti (1, 2, 3, 6 12) costituiscono un ciclo, che può essere definito con l’espressione presa in
prestito da Pontano de amore coniugali. A differenza dell’autore italiano di tale variante del genere, non si ha qui alcuna
traccia che potrebbe permettere l’identificazione dei Pazyfila
con Dorota Podlodowska, se si eccettua il fatto che proprio lei
fosse la moglie di Kochanowski. Il testo impone di riconoscere
il primato all’ispirazione letteraria connessa con l’antichità piuttosto che a quella reale relativa alla vita vissuta. Kochanowski
non va oltre la tematica elegiaca classica, in sintonia in questo
caso con lo spirito tibulliano. Manca l’originalità e lo slancio
poetico con cui Pontano presentava i suoi sentimenti coniugali
e familiari. Non era questa infatti l’intenzione di Kochanowski.
Elegiarum libri quattuor sembra manifestare l’intenzione di presentare nel maggior numero di accezioni possibili la tematica
amorosa. L’invenzione di Pontano diventa dunque un interes134
sante completamento della raccolta precedentemente scritta
di elegie erotiche.
L’influsso del poeta italiano è evidente negli strati compositivi. Queste cinque elegie si inseriscono anche nello schema
oraziano dei temi dell’elegia: vota, periodo non privo di tensioni
in attesa di ottenere l’assenso della prescelta (topos della militia
amorum nell’el. 1), e la visione bucolica della felicità comune
(el. 3). Le elegie 2, 6 e 12 rappresentano il periodo dell’amore realizzato. Le ultime due trattano il tema della querimonia:
nell’elegia 6 si assicura la fanciulla, titubante in seguito alle insinuazioni dei pettegoli, che il sentimento provato per lei durerà
anche dopo la morte; l’elegia 12 elabora il motivo della gelosia
per l’amata, che scaturisce dalla nostalgia e dalla lontananza.
In entrambi i testi si possono ritrovare temi noti dalle elegie
pontaniane.
Le elegie del libro III, sia quelle rientranti nell’ambito del
tema de amore coniugali con un filone dominante di temi metaletterari e filosofici, sembrano evere come scopo innanzitutto
la creazione di una visione coesa del mondo. S tratta di un microcosmo particolare, in cui il singolo si può ritrovare, radicarsi
e funzionare in maniera crea. Tale mondo viene costruito sia da
concezioni filosofiche che da quelle religiose, così come anche
i modelli portati dalla letteratura, principalmente da Tibullo e
Orazio.
Un esempio di tale costruzione è dato dall’el. III, 2, che imita
l’el. 5 del primo libro di Tibullo, in cui nella visione del poeta
Delia, solerte massaia prepara nella residenza di campagna
un banchetto per Messala. Ospite del componimento di Kochanowski è l’amico e mecenate del poeta, il vescovo Piotr
Myszkowski e la donna premurosa della casa di campagna
Pazyfila. Al contrario del suo modello latino, non si tratta tuttavia di un componimento erotico, il motivo della visita dell’illustre
ospite è anche marginale. Così come accade in un notevole
numero di Pieśni e Fraszki, il suddetto componimento costituisce il manifesto di una vita felice e moderata, vissuta lontano
dal frastuono della città e della corte, in un ambiente idilliaco
familiare all’interno presso la residenza di campagna. Dove si
potrebbe trovare l’otium, scrivere, riflettere, studiare i filosofi.
Dove, su modello di Petrarca, si potrebbero piantare i lauri9
per dare alle Muse il loro naturale ambiente di vita10. Tuttavia,
dal punto di vista ideologico, modello dell’elegia a Myszkowski
è l’Orazio dell’ode I 1 Ad Maecenatem e I 11 Ad Leuconoe11
piuttosto che Tibullo.
Tornando all’ispirazione di Kochanowski tratta dal succitato
135
ciclo di Pontano, saremmo inclini a riconoscerle un maggior
significato rispetto a ciò che si suole fare.
Tale influsso va ben oltre le elegie. Jan Kochanowski, infatti ha creato in una lingua polacca impareggiabile il toccante
ciclo dei Treny, dedicati alla figlioletta Orszula che non aveva
ancora compiuto tre anni. Tale componimento si ascrive alla
tematica de amore coniugali nel senso in cui lo usava Pontano.
Quest’ultimo nel ciclo cui si è in precedenza accenato mescola
anche epicedia ai suoi amati, la moglie e il figlio. L’Umanesimo
europeo del XVI e del XVII era ricco di opere dedicate ai bambini, soprattutto per quanto concerne i componimenti funebri. A
tale tendenza diede inizio per l’appunto la ricca produzione del
poeta italiano del XV secolo. I modelli della tenerezza paterna,
sulla ricchezza di stati d’animo e delle tradizioni letterarie utilizzate potevano essere rintracciati dal vate polacco nell’opera
pontaniana. I Treny, tuttavia vanno molto al di là delle tematiche
affrontate nelle elegie familiari di Pontano. Si tratta infatti sia di
un trattato filosofico che di una particolare lotta fra Giacobbe
con dia che l’umanista conduce dopo esser stato allontanato
dal suo idilliaco otium.
136
Note
(1) Elegie I 6, 8; 10; 12-14; II 1-6; 10-14; III 1-3, 6, 12.
(2) Elegia I 2.
(3) J.C. Scaliger, Poetices libri septem, Facsimile-Neudruck der Ausgabe
von Lyon 1561 mit einer Einleitung von A. Buck, Stuttgart-Bad Constatt 1964, s.
52; oraz J.C. Scaliger, Poetices libri septem, Sieben Bücher über die Dichtkunst,
Band I, Buch 1 und 2, Herausgegeben, übersetzt, eingeleitet und erläutert von L.
Deitz, Stuttgart-Bad Constatt 1994, s. 416.
(4) Walther Ludwig, Petrus Lotichius Secundus and the Roman Elegists:
Prolegomena to a Study of Neo-Latin Elegy, w: Classical Influences on European
Culture A.D. 1500-1700, ed. R. R. Bolgar, Cambridge 1976.
(5) Citazione dall’edizione: Jan Kochanowski, Dzieła wszystkie. Wydanie
pomnikowe, tekst ustalił, wstęp i przypiski dodał J. Przyborowski, przekład polski
T. Krasnosielski, t. 3, Warszawa 1884.
(6) Morbus amor meus est, et tu poscentibus astris, / Tam formosa meo
nata puella malo (I 8, 7-8).
(7) Si tratta della continuazione della dichiarazione properziana contenuta
nell’elegia introduttiva - Solus amor docuit blandos me fingere versus (Koch. I
1, 3).
(8) Z. Głombiowska, Elegie J. Kochanowskiego. Dwie wersje, Warszawa
1981, p. 126-127.
(9) Cfr. Koch. el. III 13 28-29.
(10) Tali motivi si ritrovano anche nelle el. 11, 13 i 15 III libro.
(11) L’inizio dell’elegia sembra essere una risposta positiva ai moniti indirizzati a Leukonoe: non cerca di conoscere nelle stelle il corso del destino e ciò
che mi aspetta: la morte verrà al momento opportuno, che gli dei non diranno
prima. L’equivalenza dei due testi è così forte da permettere di considerare quel
frammento dell’elegia (versi 1-8) parafrasi della famosa ode. Accantonando dai
pensieri diretti a Leukonoe, Kochanowski sposta comunque l’accento su un’altra
norma oraziana. Non vuole dire alla fine il carpe diem, ma l’aurea mediocritas. Dal
momento alla durata, una durata cosciente diversa dalla massima latina respice
finem. L’espressione Spatio brevi / spem longam reseces (Hor. c. I 11, 6-7) Viene
sostituita con quella Spes non praeverteret mors inopia meas (Koch. el. III 2, 8),
perché non mi preoccupo di fare grandi cose in futuro, ma mi accontendo di
ciò che mi basta per poter misurare i miei momenti. Qui sembra che l’accettazione del consiglio sapias, vina liques (c. I 11, 6), sii saggio, fa’ quello che hai da
compiere: semina onora le divinità agresti, sii felice per il raccolto e condividi con
gli amici la propria umile, ma placida felicità. Paupertas mihi cara mea est, hac
gaudeo tamquam / Si potiar regis, Croese beate, tuis. (el. III 2, 11-12). Il poeta di
Myszkowski, che nel suddetto libro diviene modello di uomo di corte e di carriera,
invita ad entrare in un mondo siffatto.
137
GRAŻYNA URBAN-GODZIEK
Zakład bibliografii
bibliografii polskiej
Uniwersytetu
Un
iwersytetu Jagiellońskiego, Kraków
Elegie miłosne Jana Kochanowskiego
na tle teorii i praktyki europejskiej
W XVI wieku w Polsce powstały dwa wybitne cykle elegijne – Tristia Klemensa Janiciusa (1542) i Elegiarum libri
quattuor (1580) Jana Kochanowskiego poprzedzone wersją
rękopiśmienną (Elegiarum libri duo z przed 1562 r.).
Pierwszy z wymienionych tomów należy do kręgu inspiracji
wygnańczą poezją Owidiusza i wpisuje się w charakterystyczny
dla nowożytnej twórczości elegijnej nurt autobiografii humanistycznej podejmującej topikę: de se aegrotante, de exilio suo,
ad posteritatem etc. Dzieło Kochanowskiego wzoruje się natomiast na elegiach typu amores głównie Tibullusa i Propercjusza.
Przegląd treści Elegiarum libri quattuor
Czteroksiąg elegii Kochanowskiego skomponowany jest
na zasadzie varietas. Obok tematyki miłosnej pojawiają się
tu wątki polityczne, filozoficzne, metaliterackie i inne. Materia
miłosna zdecydowanie dominuje w całym zbiorze. I tu jednak
naczelną zasadą jest rozmaitość. Dotyczy ona formy jak i treści.
I tak, subiektywnym elegiom miłosnym1 – przedstawiającym
przeżycia z punktu widzenia „ja” lirycznego – towarzyszą elegie obiektywne (gdy przedstawiono mit o Fedrze i Hipolicie2
– gdzie podobnie jak w Heroidach Owidiusza poeta pozwolił
o swych namiętnościach mówić kobiecie, co w amores nie
występowało). Znajdziemy tu też elegię aitiologiczną (I 15), w
której wątek odrzucenia miłości przez księżniczkę Wandę i jej
samobójstwa buduje opowieść o pochodzeniu Kopca Wandy pod Krakowem. Są też bukoliki miłosne (I 9; 11), a także
eksploatujące idylliczną topikę elegie o tematyce miłosnej (I 13,
II 9, III 2) i metaliterackiej (III 11; 13; 15). Epitalamium (III 16), paraklausithyron (I 14), propemptikon dla opuszczającego młodą
żonę (IV 1 – tu epylion na temat mitologiczny: Ulisses i Penelopa), złorzeczenia zdradzonego kochanka (II 5; 7; III 17).
139
Jeśli chodzi o zróżnicowanie ujęć tematu miłości, to zwrócić
należy uwagę na bogactwo topiki oraz sposób kształtowania
bohaterek erotyków, szeroką skalę uczuć. O tym szerzej za
chwilę.
Dotychczasowe badania skupiały się głównie na porównywaniu zbioru elegii Kochanowskiego do wzorów antycznych. Starano się również zidentyfikować bohaterki-adresatki miłosnych
wyznań. Dokonywano też zestawień występujących u Kochanowskiego toposów i sposobów realizacji tematów elegijnych
z analogicznymi miejscami u innych poetów nowołacińskich.
Zwykło się jednak wykazywać inspiracje antyczne elegii Kochanowskiego i jego „odporność” na współczesne nowinki
literackie – czego dowodem m.in. tworzenie elegii w drugiej
połowie XVI w., gdy we Włoszech moda na ów, traktowany jako
ćwiczebny gatunek dawno minęła.
Dziś, w dobie rozkwitu badań komparatystycznych chyba najbardziej interesujące jest pytanie, jak cały zbiór Kochanowskiego przedstawia się na tle dokonań współczesnych mu
łacińskich poetów Europy. Jak ojciec poezji polskiej pojmował
gatunek łacińskiej elegii. By odpowiedzieć na te wątpliwości,
pozwolę sobie skrótowo omówić renesansową teorię i praktykę
gatunku.
Elegia – dzieje gatunku („definicja”
Horacego zinterpretowana przez Scaligera)
Elegia jest tworem hybrydycznym, funkcjonującym na pograniczu gatunków. Na każdym etapie swojego historycznego
egzystowania wyglądała zupełnie inaczej, inne miała funkcje,
inaczej była interpretowana. Renesansowi humaniści otrzymali dwa sprzeczne przekazy dotyczące elegii. Pierwszy, to tradycyjna, wywodząca się z epoki aleksandryjskiej, teoria łącząca
początki elegii z żałobnym lamentem – przy braku archaicznych greckich świadectw elegii funeralnych. Drugi – praktyka rzymskiej elegii miłosnej. Ta sprzeczność była dotkliwa dla
twórców chcących imitować rzymskie wzorce, przy szacunku
dla teoretyków – zwłaszcza Horacego. Jego bowiem niezwykle enigmatyczną wypowiedź z Listu do Pizonów (z braku innych źródeł) traktowano jak definicję. Kłopot był tylko z jej
interpretacją.
140
Versibus impariter iunctis querimonia primum,
Post etiam inclusa est voti sententia compos;
Quis tamen exiguos elegos emiserit auctor,
Grammatici certant et adhuc sub iudice lis est;
(Ars Poetica 75-78).
Dziś uważa się, że wypowiedź ta dotyczy nie tyle elegii, co
dystychu elegijnego i wyrażonych w nim epitafiów (querimonia
– ‘żale’) oraz epigramów wotywnych (voti sententia compos
– ‘słowa spełnionych życzeń’). O samej elegii mówi jedynie, że
jest mniejsza, mniej znaczna od wymienionego wcześniej eposu, i że jej pochodzenie jest niewiadome.
W wiekach minionych zarówno owe querimonia jak i voti
sententia compos odnoszono do tematu elegii. Próbą pogodzenia teorii z praktyką była formuła querimonia amantium
sformułowana już w średniowieczu. Jednak pojmowanie elegii jako utworu o cierpieniach miłosnych, bólu niespełnienia
czy ostatecznej utraty ukochanej ugruntowało się w XVI w. A
niemały wpływ na to miał zdobywający poezję łacińską petrarkizm, który przeciwnie niż patron owego nurtu dopuszczał
miłość spełnioną. W tym duchu rozwinął swoją teorię Julius
Cesar Scaliger.
Rozważania nt. elegii zawarł w rozdziale 50. ks. I, a
następnie w 125 ks. III Poetices libri septem3. Przyjmując
wersję o funeralnym pochodzeniu gatunku, późniejszą odmianę
tematyki tłumaczy pokrewieństwem stanów emocjonalnych
towarzyszących przeżywaniu żałoby i miłości: w miłości kochanek często lamentuje i żali się. Uczucie miłości może też
być rozpatrywane podobnie jak śmierć, bo jeśli kochanek
traci zmysły, ginie z pożądania, czego świadectwo daje mitologia (Nam et frequens conquestio in amoribus et verissima
mors, quae a nobis amentissimis amentissimo atque ingratissimo sexui vivitur). Później Scaliger zmodyfikował tę teorię,
twierdząc, że elegia służyła pierwotnie ad amantium commiserationes, czyli do żałosnego wołania o zlitowanie pod drzwiami ukochanej: Vox est tragica ελελευ, qua ad amicarum
fores usos fuisse priscos arbitror. A więc najstarszą formą elegii miałby być paraklausithyron. Ta pierwotna funkcja została
rozszerzona, by opisywać również spełnienie pragnień – jakby
chcąc podziękować pieśni za wypełnienie jej zadania. Voti deinde compotes, quasi eiusmodi carmini gratiam referrent, etiam
secundiorem illam fortunam celebrarunt.
141
Horacjańsko-Scaligerowska interpretacja elegii
w praktyce europejskiej
O powszechności przedstawionego powyżej rozumienia
zadań elegii świadczy praktyka literacka piętnasto- i szesnastowiecznych twórców. Najbardziej wymownym przykładem
jest twórczość flamandzkiego petrarkisty Janusa Secundusa
Hagiensisa, którego Julia monobyblos (1541) poprzedziła o
dwie dekady wydanie Poetyki Scaligera (1561). Oba niezwykle popularne i wpływowe dzieła zadecydowały o pojmowaniu gatunku. Elegia wyrażać więc miała stany emocjonalne
najpierw udręczonego niezaspokojoną namiętnością kochanka
(querimonia, vota – czyli pragnienia), a później radującego się
szczęściem spełnienia (voti sententia compos). W odróżnieniu
od swego patrona, petrarkiści dopuszczali bowiem miłość
spełnioną.
Powyższe wyznaczniki (oraz oczywiście przykład elegików
rzymskich) posłużyły też do stworzenia schematu rozwoju uczucia, który zwykle stanowi trzon kompozycji cyklu elegijnego. W
ramach tego były możliwe najróżniejsze warianty.
W księdze Secundusa, gdzie wyczuwalny jest żartobliwy
dystans w stosunku do tematu swego dzieła i jego podmiotu, początkowe elegie cyklu są zapisem starań bohatera o
pozyskanie ukochanej, opiewają miłość oczekiwaną i dającą
obietnicę. Następne utwory to lamentacje i wyrzekania na
rywala, który odebrał mu dziewczynę. W 10. elegii następuje,
nieoczekiwanie, spełnienie – jednak, jak się okaże – tylko we
śnie. Elegia zamykająca cykl to – mimo przeżytego zawodu
– pochwała bóstw miłości. Poeta pogodziwszy się z przebytym
doświadczeniem, patrzy na miłość jako na temat literacki,
którego podjęcie zapewni mu nieśmiertelność. Prawdziwym
spełnieniem jego miłości okazuje się spełnienie literackie.
Inny sposób budowy cyklu i interpretacji tematu
zaprezentował Giovanni Pontano. Jego De amore coniugali to próba adaptacji rzymskiej elegii miłosnej do moralności
chrześcijańskiej i obyczajowości współczesnych, a także
wzorzec miłości małżeńskiej i ojcowskiej. Cykl Pontana, którego bohaterką jest żona – Ariadna, zachowuje opisaną wyżej
elegijną dynamikę rozwoju i losów uczucia do kobiety. Okres
zalotów i narzeczeństwa to pełne nadziei pragnienia – el. 1.
Kres oczekiwań i spełnienie miłości to opiewany w następnych
utworach ślub, wspólne szczęście, narodziny dzieci (do cyklu
należą również kołysanki dla syna naeniae), rodzinne wyprawy
na łono natury, list o wychowaniu córek, epitalamia na ich śluby.
142
Nie brak tu jednak i lamentacji: querimonia wypełniają liczne,
pełne tęsknoty i niepokoju wiersze pisane w czasie długich
wojennych rozstań. Nieprawdopodobne obawy o wierność
żony w początkowych latach małżeńskich rozstań, wreszcie
ogromny ból przy rozstaniu ostatecznym z ukochaną żoną a
później synem (elegie o tytułach tkj. Ariadnam uxorem mortuam
alloquitur). Dopełnieniem miłosnego cyklu dla żony i dzieci są
utwory żałobne z tego i innych zbiorów elegii, jak Tumuli, Eridanus, Eclogae.
Co ciekawe, ów – nazwijmy go – horacjańsko-scaligerowski
paradygmat interpretacji gatunku elegii, widoczny jest i w cyklach, których temat odbiega od amores. Elegiarum libri Niemca,
Petrusa Lotichiusa Secundusa, osnute jest wokół tęsknoty za
utraconą ojczyzną, i wzoruje się głównie na wygnańczej poezji
Owidiusza. Jednak schemat rozwoju uczucia jest ten sam. Frazeologia Lotichiusa zapożycza się często u Owidiusza, ale też
odnotowano4 znaczące występowanie terminologii Horacego
w interpretacji, jaką sformułował Scaliger. Lotichiusowe vota
odnoszą się nie do zdobycia kobiety, lecz ojczyzny – prawdziwej i literackiej, gdzie znalazłby upragnione otium. Querimonia
– to rozpamiętywanie straty, opis „zesłania”, konieczności uczestnictwa w wojnie, nie uwieńczone powodzeniem wyprawy do
ojczyzny, etc. Dopiero ostatnia elegia zbioru przynosi spełnienie
– czyli osiągnięcie celu pielgrzymki.
To najbardziej reprezentatywne i pewnie najciekawsze sposoby kształtowania cyklu elegijnego w nowożytnej Europie. Jak
sytuuje się w tym kontekście Elegiarum libri quattuor Jana Kochanowskiego?
Elegiarum Jana Kochanowskiego wobec
współczesnych nurtów interpretacji gatunku
Wpływ renesansowego sposobu pojmowania gatunku
na elegie Kochanowskiego uwidacznia się zwłaszcza w wersji drukowanej, wydanej tuż przed śmiercią poety (1580). W
rękopiśmiennym Elegiarum libri duo, którego trzon powstał
zapewne jeszcze w czasie studiów w Padwie, można dostrzec dychotomiczny rozdział treści. Księga I daje wyraz miłości
rodzącej się i szczęśliwej, księga II zaś to świadectwo umierania uczucia, cierpień zdradzonego kochanka. W czteroksięgu
elegii dostrzec można znacznie silniejsze połączenie miłości i
cierpienia.
Jego zapowiedź odczytujemy już w elegii I 6, w której po
143
raz pierwszy pojawia się imię kochanki – Lidii, jej entuzjastyczna
pochwała i deklaracja sławienia w łacińskim i polskim języku.
Wiersz ten kończy próba przebłagania Kupidyna rażącego
śmiercionośnymi strzałami. Niech temu okrutnemu bóstwu wystarczy ból, który sprawią drobne dąsy dziewczyny czy jej wrodzona płochość. Niech jednak nie dodaje odrzucenia (tu figura
amator exclusus), które dla kochanka jest równe śmierci:
Nec malesanus Amor curis vacat: ille beatus
quem minimis urges, saeve Cupido, malis.
Projice letiferas, puer invidiose, sagittas,
Asperque in populum ne gere corda tuum.
Sit satis irata ingenita de levitate queri.
Ingratas pulsare fores, aditumque negari,
Illa mihi mortis suspicio instar erit.
Omnia perpetiar: modo spes, o Lydia, nobis
Omnis placandae ne sit adempta tui.
(I 6, 39-48)5.
Jednak następny erotyk – I 8 przynosi patografię miłosną6
czuwającego całą noc pod drzwiami dziewczyny cierpiącego
poety. Jego pieśni przegrywają konkurencję z pełną kiesą innego amanta. W tymże duchu są kolejne utwory: I 9 – bukolika
elegijna (nieodwzajemnione uczucie pasterza-poety Likotasa
do pięknej Filidy, sprowadza nań rozpacz i niemoc twórczą
– w końcu pragnienie samobójczej śmierci). Elegia 10. to pieśń
nocnego oczekiwania na dziewczynę. Choć kochanek zaklina
noc, by trwała aż Lidia się pojawi – daremnie.
Następne elegie mimo pochwały miłości (12) i wizji
szczęścia, jakie dać by mogła (13), pogłębiają wrażenie spustoszenia emocjonalnego i zwątpienia. Pozwolę sobie zatrzymać
się chwilę nad elegią 12. Opracowuje ona topos miłości jako
choroby, ale też jako żywiołu przeciwnego wojnie, krzewicielki
sztuk. Jest to echo stworzonej przez starożytnych historyków,
a przejętej przez Owidiusza i zaadaptowanej w nowożytności
głównie przez Konrada Celtisa topiki surowej, mroźnej Sarmacji. Jej nieokrzesani mieszkańcy parali się wyłącznie walką
i obce im były wszelkie wyższe uczucia. I właśnie miłość – jak
przekonuje Kochanowski – stała się narzędziem cywilizującym
dla owej dzikiej Sarmacji. To miłość nauczyła jej syna sztuk pokojowych i słodszych nad wszystko muz, by i ta kraina miała
swoją mowę i swego wieszcza7. Zaraz jednak pojawia się antyorfejska, antyartystowska deklaracja – nie jest celem poetykochanka czysty artyzm, poruszanie przyrody, powszechne
144
oddziaływanie, ale – wyłącznie zdobycie dziewczyny, pokonanie
zamkniętej bramy jej domu. Dalej nastrój elegii jest coraz bardziej przygnębiający – zaprzeczono celowości jakiegokolwiek
działania. Żadna z cnót nie uchroni człowieka przed klęską,
a przykład Priama pokazuje, co mogą ujrzeć długowieczne
oczy: pożogę ojczyzny, trupa syna, gwałtem porwanej żony.
Tak niespodziewanie zakończony utwór miłosny daje cień na
zawartą w następnej el. 13. Tibullańską wizję-marzenie bukolicznego szczęścia na łonie przyrody z ukochaną Lidią. Ostatni
w tej księdze paraklausithyron (14) przypieczętowuje zdradę
dziewczyny i koniec związku.
II księga utrzymana jest w duchu querimoniae. Kompozycja
całości księgi pozwala śledzić proces umierania miłości, a
raczej – przeprowadzane ze zmiennym szczęściem – próby
wyzwalania się z niej. Co raz częściej pojawiający się motyw
śmierci znajduje swą kulminację w dwóch ostatnich utworach.
Elegia II 10 przynosi mitologiczno-filozoficzną argumentację dla
samobójstwa, następna zaś – sen, w którym boski przewodnik
prowadzi umęczonego kochanka nad Leukadejską skałę, by
wzorem Safony zakończył swe cierpienia miłosne. I rzeczywiście,
samobójczy skok w przepaść staje się wypełnieniem rytu
przejścia, obumarcia kochanka, i jego inicjacji do nowej postaci
i nowej, dojrzalszej miłości, której poświęci ks. III.
Pierwsze dwie księgi Elegiarum libri quattuor cechuje
wielka emocjonalność i ogromna skala uczuć. Zgoda na
bezwzględną podległość pani, deklaracje dozgonnej miłości,
które przeradzają się w rozpacz po zdradzie – to uczucia,
którym patronuje Propercjusz. Taka dramatyczna walka miłości
i nienawiści, nieczęsta w poezji renesansowej8, nietypowa też
jest dla Kochanowskiego, którego zwłaszcza polska twórczość,
postrzegana bywa jako wzór renesansowej harmonii, zgody na
świat i jego boski porządek. Tym bardziej widać w tych elegiach wierność gatunkowi – w owym Horacjańsko-Scaligerowym
rozumieniu.
Natomiast księga III zmienia patronat i nastrój. Choć niektóre utwory o wątkach miłosnych są przeróbkami elegii z I
wersji, to całość skomponowana została w okresie dojrzałej
twórczości poety. I można tu dostrzec znane z Pieśni i Fraszek rysy. Elegiom o tematyce miłosnej księgi III – z poetów
antycznych – ton nadali Tibullus i Horacy, z nowożytnych, jak
się zdaje – Giovanni Pontano (choć brak dotąd szczegółowych
analiz porównawczych).
Pięć spośród siedemnastu elegii ks. III Kochanowskiego
bohaterką czyni Pazyfilę. Te wiersze (1, 2, 3, 6 i 12) stanowią
145
cykl, który określić można zapożyczonym od Pontana mianem
de amore coniugali. W przeciwieństwie do włoskiego twórcy tej
odmiany gatunkowej, nie ma tu żadnego śladu pozwalającego
utożsamiać Pazyfilę z Dorotą Podlodowską – poza oczywistym
faktem, że właśnie ona była żoną Kochanowskiego. Tekst każe
raczej uznać prymat inspiracji literackiej antycznej nad życiową.
Kochanowski nie wychodzi poza klasyczną topikę elegijną, w
duchu tym razem Tibullańskim. Nie ma tu oryginalności i rozmachu poetyckiego, z jakim Pontano przedstawił swe uczucia
małżeńskie i rodzinne. Nie było to bowiem zamierzeniem Kochanowskiego. Elegiarum libri quattuor zdaje się przyświecać
chęć zaprezentowania jak największej ilości różnorodnych ujęć
tematyki miłosnej. Wynalazek Pontana stał się więc ciekawym
dopełnieniem wcześniej napisanego zbioru elegii erotycznych.
Wpływ włoskiego poety widać w warstwie kompozycji. Te
pięć elegii bardzo przejrzyście wpisuje się też w Horacjański
schemat tematów elegii: vota – to nie pozbawiony napięcia
okres oczekiwania na zgodę wybranki (topos militia amorum
w el. 1) i bukoliczna wizja wspólnego szczęścia (el. 3). Elegie 2, 6 i 12 przedstawiają czas miłości spełnionej. Te dwie
ostatnie realizują przy tym temat querimonia: w el. 6 zapewnia dziewczynę zwiedzioną pomówieniami plotkarzy o stałości
swego uczucia, nawet po śmierci; elegia 12 opracowuje motyw
zazdrości o ukochaną – która rodzi się z tęsknoty i oddalenia.
W obu tekstach można znajdujemy tematy znane z elegii Pontana.
Elegie ks. III, zarówno te których temat można określić jako
de amore coniugali, jak i te z dominującym wątkiem metaliterackim czy filozoficznym zdają się mieć na celu przede wszystkim stworzenie spójnej wizji świata. Swoistego mikrokosmosu życia, w którym jednostka może się odnaleźć, zakorzenić i
twórczo funkcjonować. Ten świat budują zarówno koncepcje
filozoficzne czy religijne, jak też wzorce niesione przez literaturę
– głównie Tibullusa i Horacego.
Przykładem takiej konstrukcji jest el. III 2 imitująca el. 5. pierwszej księgi Tibullusa, gdzie w wizji poety Delia-skrzętna gospodyni przygotowuje w wiejskiej posiadłości ucztę dla Messali.
Gościem w wierszu Kochanowskiego jest przyjaciel i mecenas
poety bp. Piotr Myszkowski, a usłużną panią wiejskiego domu
– Pazyfila. W przeciwieństwie do rzymskiego wzorca nie jest to
jednak utwór erotyczny, wątek wizyty dostojnego gościa jest
też marginalny. Tak jak spora ilość polskich Pieśni i Fraszek jest
ten utwór manifestem szczęśliwego umiarkowanego życia, z
dala od gwaru miasta i dworu, w idyllicznym otoczeniu rodzin146
nej posiadłości. Gdzie można znaleźć otium, pisać, rozmyślać,
studiować filozofów. Gdzie – wzorem Petrarki można sadzić
laury9, by stworzyć Muzom właściwe środowisko życiowe10.
Jednak ideologicznie bardziej istotnym wzorcem niż Tibullus dla
elegii do Myszkowskiego jest Horacego oda I 1 Ad Maecenatem i I 11 Ad Leuconoe11.
Powracając do inspiracji Kochanowskiego wspomnianym
cyklem Pontana – byłabym skłonna przypisywać mu większe
znaczenie, niż zwykło się to czynić. Wpływ ten sięga poza elegie. Jan Kochanowski stworzył bowiem w języku polskim niepowtarzalny, wstrząsający cykl Trenów poświecony niespełna
trzyletniej córeczce, Orszuli. Dzieło owo wpisuje się w tematykę
de amore coniugali, w sensie jaki nadał temu określeniu Pontano, mieszczący w swym cyklu również epicedia ukochanym
– żonie i synowi. Europejski humanizm XVI i XVII w. obfitował
w literaturę poświęconą dzieciom, zwłaszcza funeralną. Trend
ten zapoczątkowała właśnie bogata twórczość XV-wiecznego
włoskiego poety. Mógł znaleźć tu polski wieszcz wzór ojcowskiej
tkliwość, bogactwo nastrojów i wykorzystywanych tradycji literackich. Jednak Treny daleko wykraczają poza tematykę elegii rodzinnych Pontana. Jest to bowiem zarówno traktat filozoficzny, jak i swoista walka Jakuba z Bogiem toczona przez
humanistę wytrąconego z swego idyllicznego otium.
147
Note
(1) Elegie I 6, 8; 10; 12-14; II 1-6; 10-14; III 1-3, 6, 12.
(2) Elegia I 2.
(3) J.C. Scaliger, Poetices libri septem, Facsimile-Neudruck der Ausgabe
von Lyon 1561 mit einer Einleitung von A. Buck, Stuttgart-Bad Constatt 1964, s.
52; oraz J.C. Scaliger, Poetices libri septem, Sieben Bücher über die Dichtkunst,
Band I, Buch 1 und 2, Herausgegeben, übersetzt, eingeleitet und erläutert von L.
Deitz, Stuttgart-Bad Constatt 1994, s. 416.
(4) Walther Ludwig, Petrus Lotichius Secundus and the Roman Elegists:
Prolegomena to a Study of Neo-Latin Elegy, w: Classical Influences on European
Culture A.D. 1500-1700, ed. R. R. Bolgar, Cambridge 1976.
(5) Cyt. za wyd.: Jana Kochanowskiego, Dzieła wszystkie. Wydanie pomnikowe, tekst ustalił, wstęp i przypiski dodał J. Przyborowski, przekład polski T.
Krasnosielski, t. 3, Warszawa 1884.
(6) Morbus amor meus est, et tu poscentibus astris, / Tam formosa meo nata
puella malo (I 8, 7-8).
(7) To kontynuacja zawartej w elegii wstępnej propercjańskiej deklaracji - Solus amor docuit blandos me fingere versus (Koch. I 1, 3).
(8) Z. Głombiowska, Elegie J. Kochanowskiego. Dwie wersje, Warszawa
1981, s. 126-127.
(9) Zob. Koch. el. III 13 28-29.
(10) Te wątki znajdziemy też w el. 11, 13 i 15 III księgi.
(11) Początek elegii to jakby pozytywna odpowiedź na skierowane do Leukonoe przestrogi – nie próbuję poznać w gwiazdach biegu losów i tego, co mnie
czeka; śmierć przyjdzie w odpowiednim czasie, którego bogowie i tak nie zdradzą.
Odpowiedniość tych dwóch tekstów jest na tyle duża, że można by uznać ów
fragment elegii (w. 1-8) za parafrazę słynnej ody. Wychodząc od skierowanej
do Leukonoe myśli, przenosi jednak Kochanowski akcent na inną Horacjańską
zasadę. Nie chce powiedzieć na koniec: carpe diem, lecz raczej: aurea mediocritas. Z chwili – na trwanie, ale trwanie świadome innej jeszcze rzymskiej maksymy:
respice finem. Spatio brevi / spem longam reseces (Hor. c. I 11, 6-7) – ‘długą
nadzieję odmierzaj krótkimi chwilami’ zastępuje słowami Spes non praeverteret
mors inopia meas (Koch. el. III 2, 8) – ‘nagła śmierć nie uprzedzi, nie zniweczy
moich nadziei’ – bo nie zabiegam o wielkie rzeczy na przyszłość, lecz zadowalam
się tym, co mi wystarcza, by spokojnie odmierzać me chwile. To znowu jakby
wzięcie do siebie rady: sapias, vina liques (c. I 11, 6) – bądź mądry, czyń to, co
masz do wykonania: siej ziarno, czcij wiejskich bogów, ciesz się plonem i dziel z
przyjaciółmi swoje skromne lecz spokojne szczęście. Paupertas mihi cara mea
est, hac gaudeo tamquam / Si potiar regis, Croese beate, tuis. (el. III 2, 11-12).
Do takiego świata zaprasza poeta Myszkowskiego, który w tej księdze staje się
typem człowieka dworu i kariery.
148
ELWIRA BUSZEWICZ
Cattedra di Letteratura Polacca delle Origini e
dell’Illuminismo, Dip. di Studi Polacchi
Università Jagellonica di Cracovia
Il Canto oraziano in latino nella
Polonia rinascimentale
1. Romanae fidicines lyrae
in Polonia prima di Sarbiewski
Il concetto di imitazione oraziana nella poesia neolatina rinascimentale evoca un proprio cerchio ermeneutico. Infatti, da
una parte, come ha notato Elżbieta Sarnowska-Temeriusz, “il
Rinascimento scoprì in pieno Orazio” e innalzò la sua poesia
“al rango di modello imitato e modificato in vari modi”1, dall’altra invece, le imitazioni oraziane di vario tipo che comparvero
in quell’epoca portarono allo sviluppo dell’umanesimo rinascimentale, prepararono il terreno al “pensare poeticamente
per mezzo di Orazio”, coltivato sia nella poesia in latino che in
quella in vernacolo, e infine permisero a tale modo di pensare
di svilupparsi nel secolo XVII con un orientamento leggermente
diverso, chiamato più o meno correttamente manieristico, che
condusse all’emulazione della cosiddetta parodia oraziana.
Coronamento di tali certami viene da noi generalmente
considerata l’opera (indubbiamente di livello europeo) di Maciej
Kazimierz Sarbiewski.
Che significava, però, orazianismo prima di Sarbiewski? A
cosa servivano i metri oraziani ai poeti che componevano nella
polonia rinascimentale? Quanti erano tali poeti? Di che livello
erano?
Non è facile rispondere in maniera concisa e univoca a tale
domanda, soprattutto in quanto, nonostante appaiano di tanto
in tanto testi di dimensioni più o meno grandi relativi a tale problematica, gli studiosi continuano a porre l’accento soprattutto
alle necessità della ricerca e sostengono che la questione è
ancora aperta2.
Proviamo a esaminare tale questione in modo semplificato, senza scendere in analisi e valutazioni partecolareggiate, in
complicate speculazioni genologiche, cercando, ad esempio i
criteri che distinguono il canto dall’ode. Il punto di partenza
sarà costituito in tale sede dall’ars metrica: ci interesseranno
149
quei poeti, che si servirono nella loro opera dei metri lirici oraziani, non solo, dunque, della così diffusa strofa saffica, soprattutto quella minore, della strofa alcaica e di altre diverse
combinazioni asclepiadeo-gliconeo o del verso ipponatteo.
Sebbene non ci occuperemo in modo ampio del cosiddetto momento di rottura umanistico nella Polonia della fine del
XV e dell’opera degli esponenti del periodo iniziale del Rinascimento come Callimaco o Celtis, occorre tuttavia sottolineare
l’importanza del canto saffico del Buonaccorsi dedicato a San
Stanislao, la quale pose “ le basi di un nuovo stile poetico nel
campo della poesia religiosa”3. D’altra parte, alcune odi di Konrad Celtis, con le descrizioni di Cracovia “tripla” e della Vistola
“a due fiumi”, portarono ad una sempre maggiore presenza
di contenuti nazionali in forme oraziane, segnarono un preciso canone poetico nel cantare l’antica capitale, dal quale si
attingeva a piene mani e talora si copiava direttamente (i poeti
neolatini, infatti, ritenevano che non solo i testi dei poeti classici, con i quali “incrostavano” le proprie opere, costituissero un
bene comune, ma anche quelli degli autori contemporanei: ciò
ha fatto sì che alcuni studiosi abbiano considerato come lavori
discreti versi di secondaria importanza in cui mancano evidenti
elementi derubati da altri4). Callimaco e Celtis, dunque, aprono
il catalogo degli imitatori rinascimentali del Venusiano nelle nostre terre: a chiuderlo sarà Szymon Szymonowicz, noto come
Simon Simonides, nella Respublica Literarum. In mezzo, fra i
poeti che si servivano delle forme oraziane, di solito si ricordano i nomi dello slesiano Wawrzyniec Korwin e quelli di Paweł
di Krosno (alla cui figura ci ha accostato recentemente con la
sua monografia Albert Gorzkowski) Andrzej Krzycki, Jan Dantyszek, Jan Kochanowski, Tomasz Treter, Andrzej Schoneus,
Joachim Bielski. Non si tratta ovviamnente di una lista chiusa,
in quanto nelle raccolte di poesie in lingua latina, composte
da autori che si servivano di solito dell’esametro o del distico
elegiaco, capitano sporadicamente e con una certa frequenza
le strofe saffiche o quelle asclepidee. Tali sorprese oraziane si
ritrovano ad esempio nelle opere poetiche di Marcin Kromer5,
ricordati recentemente da Jerzy Starnawski e Romuald Turasiewicz. Il suddetto autore, oltre al verso asclepideo ad Albrecht I Hochenzollern6, che evoca la famosa ode a mecenate (C
I1), scrisse un bel’inno saffico a Dio7, in cui si chiede prosperità
per la Polonia e salute per il re Sigismondo. Non è questo,
tuttavia il momento e il luogo per permetterci una analisi particolareggiata dei testi. In questa sede ci concediamo solo un
paio di citazioni e correzioni. Proviamo, dunque, ad esaminare
150
il primo autore polacco, del quale si dice che creò una scuola
poetica: Paweł di Krosno.
2. Ricchezza sottovalutata
Come ha evidenziato in maniera convincente Albert Gorzkowski nella sua monografia, l’opera di Pawel di Krosno è
improntata ad una notevole ricchezza genologica; c’è largo
spazio per opere oraziane nella forma, di inni, canti e odi. È
presente anche un poema saffico molto interessante sulla discesa di Cristo a Otchłani: De inferorum vastatione. Parlando
di lui, lo studioso il sincretismo dei generi, l’utilizzo della forma
lirica in un’opera epica8. Tali interferenze non rappresentavano, comunque, casi isolati nella prassi dell’imitazione neolatina,
dato che la stessa strofa saffica si adattava bene a opere di
lunghezza maggiore dal carattere descrittivo, come dimostra
l’ode De Polonia et eius metropoli Cracovia di Wawrzyniec
korwin. Attirano la nostra attenzione anche inni saffici o alcaici:
quelli brevi dedicati alle divinità pagane (Giove, Atena, Apollo,
Mercurio, Bacco, le Muse) e quelli lunghi, dedicati al Dio dei
cristiani, a Maria Vergine e ai santi. Questi ultimi attingevano,
fra l’altro, alla tradizione degli inni paleocristiani. Tali invocazioni
solenni sono numerose nell’opera di Paweł di Krosno. A tal
proposito, ricordiamo che per la forte presenza della tematica
religiosa, la figura del suddetto autore viene collocata all’incrocio fra medioevo e rinascimento, qualsiasi cosa ciò significhi. In
passato gli storici della poesia neolatina avevano rilevato che la
poesia neolatina non era come Afrodite, emersa dal mare. Ci
permettiamo di evidenziare comunque che, sebbene Paweł di
Krosno non fosse un poeta che trasporta il lettore, non bisogna
necessariamente parlare di lui con indulgente superiorità, mentre la presenza del medioevo nella sua opera dovrebbe essere
espressa piuttosto con un’immagine, di cui si servì durante una
delle sue lezioni universitarie il prof. Tadeusz Ulewicz, trattando
del resto Kochanowski: “Sotto l’altare rinascimentale c’era un
muro gotico”. È inoltre il caso di sottolineare che nell’opera di
Paweł di Krosno ritroviamo anche versi su temi laici, connessi
sia alle lettere che allo spirito del Venusiano. Tali idee e forme
oraziane sono state indicate recentemente in un acuto studio
di Sabina Belina, che ha rivolto la sua attenzione non solo alla
biografia poetica del poeta divinis, Orazio, nata dalla penna del
professore di Cracovia9, ma anche ai temi e agli “stati d’animo”
orazioni presenti nei suoi canti10. Ciò è ravvisabile ad esempio
151
nei versi dedicati a Tanisław Thurzon, nonché nelle riflessioni
poetiche dirette Ad lectorem dell’edizione Troas di Seneca, in
cui le riflessioni sulla potenza della Fortuna annunciano il clima
di alcune liriche di Sarbiewski:
Quisquis protervae nosse cupis deae
Fraudes et astus innumerabiles,
Quam turba vatum fert gemella
Conspicuam generosa fronte. […]
Quae caeca, comis, blanda, potens, rapax,
Incerta, fallax, instabilis, vaga,
Iniusta, saeva, trux, maligna,
Lubrica mobiliorque ventis11 …etc.
Colpisce per il tono di neostoicismo cristiano anche l’opera
Exhortatio ad virtutem12. Aggiungiamo che molto dello spirito
oraziano è presente nel Carmen laudes poetice artis continens
et quod poemata immortalia sint et incaduca demonstrans,
che si ricollega in modo evidente all’ode (C IV 9) del venusiano,
che tocca il tema dell’immortalità grazie alla poesia e che si
colloca nel contesto del neoplatonismo e al concetto ad esso
appropriato del divino poeta-sacerdote13. Già dopo tali segnali
superficiali possiano riconoscere che l’orazianesimo di Paweł
di Krosno si manifestò in maniere molto più forte e ampia di
quanto si sia talvolta ritenuto e che l’opera del suddetto autore,
non a torto definito dallo studioso contemporaneo precedentemente citato “poeta abbandonato”14, costituisca in un certo
senso ancora una ricchezza trascurata per lo studio della storia
dell’imitaione oraziana in Polonia.
3. Cicli e raccolte. Da Kochanowski a Bielski
Rivolgiamo ora la nostra attenzione agli esempi di connessione ai metri lirici oraziani, che portarono come risultato forme dal carattere più o meno ciclico. Occorre cominciare dalla
raccolta di Jan di Czarnolas. Di Kochanowski si dice anche
che abbia segnato in Polonia l’inizio del canto in lingua latina
secondo il modello oraziano15; non si può ovviamente difendere la veridicità di tale giudizio nel senso letterale della parola. Il ciclo Lyricorum libellus (editio princeps del 1580, apparsa
a Cracovia), di modeste dimensioni (non multa sed multum!),
rappresenta senz’altro uno delle prime manifestazioni dell’orazianesimo maturo, nonché la prima raccolta di canti composti
152
consapevolmente adottando le regole di brevitas e varietas.
La brevitas può essere definita con precisione matematica: la
lunghezza delle singole odi rimane in genere nei limiti di 20-48
versi; un’eccezione è rappresentata dall’ultima ode sulla conquista di Polock, che ne ha 100.
La varietas, evidente e consapevole, riguarda sia la tematica che il metro. Dal punto di vista della versificazione abbiamo
successivamente: strofa alcaica, asclepidea II, alcaica, saffica
minore, asclepidea II, asclepidea I, asclepidea maggiore, asclepidea II, saffica minore, alcaica, alcmana e alcaica. Le questioni
concernenti la composizione della raccolta dal punto di vista
tematico, la sua affinità con il IV Libro delle odi di Orazio e il
principio della variatio di linee di pensiero armoniche sono state
trattate in maniera particolareggiata da Józef Budzyński16. Abbiamo comunque a che fare con una grande varietà: non è facile raggiungere tale obiettivo collocando nella raccolta soltanto 12 canti. Questi ultimi si incentrano su tematiche politiche,
riflessioni di vario genere, erotiche, conviviali oppure connesse
con determinate occasioni o riflessioni di vario genere, ma non
è sempre facile determinare in maniera univoca il carattere dell’opera. In un testo a carattere conviviale compaiono accenni
ad un’eventuale minaccia di guerra, mentre nel corso di un
colloquio poetico con Afrodite, del resto traduzione dei famosi versi di Safone, sono definiti dal succitato studioso come
“contrappunto erotico e di preghiera religiosa”17. Nonostante
Budzyński abbia effettuato un’analisi abbastanza ricca di dettagli dell’intera raccolta, rimangono ancora molti temi da trattare, soprattutto rispetto alle opinioni ancora penitenti, ricordate
dall’autore, sull’eccesso di retorica e mitologia, formulate una
volta da critici che adottavano criteri di valutazione derivanti dal
Romanticismo e preferivano gli elementi indigeni, l’originalità e
i cosiddetti sinceri sentimenti18. In linee più generali possibili si
può affermare che i critici accusavano le odi in latino di Kochanowski di eccesso... di latinità, nonostante essa sia in questo
caso eccezionale, incontestabile dal punto di vista ritmico, variegata sotto l’aspetto fonico, con l’introduzione di allitterazioni
piacevoli per l’orecchio e talvolta scrzose, come quando, ad
esempio, il poeta si rivolge ad uno sfortunato cavallo usando
le parole Quadrupedumque pudor... Val la pena notare anche
il carattere inusuale, indicato da Budzyński, dell’ode II (In deos
falsos), che secondo certi criteri di valutazione assolutamente inadeguati e anacronistici veniva considerata uno “stridore
privo di gusto” dovuto allo scontro fra cristianesimo e antichità, mentre costituisce in sostanza il punto di partenza di un
153
nuovo modello oraziano, che tendeva alla cosiddetta parodia
cristiana. “Non si tratta, infatti, soltanto dell’aricchimento della
struttura formale dell’opera sulla base del modello imitato, così
come accade nelle imitazioni tipiche del periodo umanisticorinascimentale a anche nella poesia di jan Kochanowski, molto
più importante diventa l’aspirazione a creare un’opera nel suo
interno con l’ausilio di quella stessa tecnica poetica, cioé un
testo di contenuto non pagano, che presenti tematihe cristiane. In seguito a ciò comincia a perdersi l’unità semantica del
modello classico, che era finora esistita, e del suo corrispettivo
letterario della poesia neolatina, mentre sussiste fra di loro solo
una simiglianza formale-artistica: in tal caso si tratta proprio di
questo. Tale modello di orazianesimo venne adottato in tempi
molto brevi [...]”19.
Il passo successivo verso la suddetta parodia è costituito
dalla raccolta di cento odi in onore di Hozjusz, composte da tomasz Treter, scrittore e incisore su rame. Si tratta del Theatrum
virtutum Stanislai Cardinalis Hosii episcopi Varmiensis. È un testo in linea di principio emblematico20, il cui punto di partenza
consiste in una serie di incisioni rappresentanti la vita del pio
uomo in immagini allegoriche. Ciò richiedeva un complemento
testuale, per il quale l’autore scelse la formula della polimetria
oraziana. Essa non era assolutamente lirica, né assolutamente oraziana: venne utilizzato, ad esempio anche l’esametro e
il distico elegiaco, con il quale furono composte alcune “odi”,
che ricordano le legie, quando sono più lunghe, o l’epigramma,
quando sono più brevi. Tale varietà versificatoria della raccolta
fortemente oraziana non costituisce un fatto isolato, fa venire
in mente, ad esempio, la Paraphrasis Psalmorum Davidis Poetica di Jerzy Buchanan; quest’ultimo, tuttavia, era considerato
il maggiore poeta del suo secolo21, il che non si può affermare
nel caso di Treter, al quale sono stati rimproverati alcuni errori
metrici22. Ci sono anche coloro che ritengono che egli abbia
scritto decisamente troppo e che non sia molto adatto alla lettura. Vale comunque la pena soffermarsi su un paio di importanti particolari.
Innanzitutto, l’opera di Treter canta con termini e frasi oraziani la vita, la carriera spirituale e la pia morte dell’illustre rappresentante della Chiesa, ragion per cui lo spirito dell’intero
volume è evidentemente cristiano, anzi di più, cattolico. Ciò implica anche la polemica con il protestantesimo e talora anche
escusioni antiebraiche.
In secondo luogo, nella raccolta sono presenti evidenti accenti patrii, come avviene nella orgogliosa lode di Cracovia, che
154
dà inizio al ciclo ed è composta in strofa alcaica con un incipit
maestoso:
O civitatum Sarmatiae decus
Craci Parentis filia nobilis,
Adverte mentem! Pluribus te
Nominibus reputo beatam.
Oppure nel caso della parimenti maestosa laudatio asclepiadeo-gliconea dell’Accademia di Cracovia, che comincia con
le sguenti parole: Ter felix Academia. Non ocorre ovviamente
aggiungere che fra le altre varie ragioni per le quali si dovrebbe
lodare Cracovia e l’Accademia, una è fondamentale e assolutamente superiore a tutte: Hozjusz, che proprio lì si degnò di
nascere e studiare!
In terzo luogo, rispetto ad una certa lacuna, evidente nella lirica neolatina polacca per quanto riguarda i temi familiari,
trattati abbondantemente, ad esempio, nella lirica in latino del
Rinascimento francese, appaiono interessanti e attraenti dei
versi attinenti proprio a tale sfera della vita, come quelli alcaici
dedicati al padre (LXXXII), che risultano essere particolarmente
commoventi. In essi Treter loda al suo genitore la vecchiaia di
Hozjusz come modello parenetico e alla fine dà un monito attingendo i termini dall’ode di flacco a Talliarco:
Felix senectam ducito candidam,
Permitte Christo cetera, qui simul
Ut iusserit, nec tu meo, nec
Ipse tuo prohibebor ore23.
Qualunque errore si sia verificato all’interno della raccolta
(e si potrebbe talvolta persino appisolarsi alla maniera oraziana
scrivendo cento odi), vale la pena sottolineare in quarto luogo
che Treter attinge anche un metro usato dal Venusiano, abbastanza raro nella poesia neolatina, come accade nell’ode XXIII
In Canonicatum Cracoviensem, in cui usa il verso ipponatteo,
oppure nell’ode XLIV, De Hosii Romam vocatione, in cui si trova
una combinazione comprendente tre tipi di verso: il trimetro
giambico, il trimetro dattilico catalettico, il dimetro giambico
(tale metro si ritroverà in seguito nell’ode di sarbiewski per lo
stemma dei Barberini).
Un altro ciclo di opere oraziane è costituito dal Flagellum
livoris di Szymanowicz: si tratta di un’opera non tanto ampia
come le precedenti, in quanto comprende 19 testi, i quali, però,
155
come preannuncia con orgoglio il titolo, abbracciano omnia
fere metrorum genera. Il suddetto ciclo, con l’Invidia nel ruolo
di protagonista, che sferra un attacco alla Virtù e al suo Heros,
è oraziano soprattutto dal punto di vista metrico, mentre per
quanto concerne l’inventio attinge piuttosto a Virgilio, Ovidio e
Claudiano24. Dal punto di vista stilistico, invece, l’opera va in direzione del barocco, nonostante si tratti di una delle prime opere di Simonides. Come sappiamo, in Simanowicz si ritrovano
anche opere che sia per forma che per spirito sono oraziane.
Vale la pena evidenziare che l’opera del Pindaro polacco è stata trattata recentemente in maniera competente, interessante e
talvolta innovativa la studiosa Ewa Jolanta Głębicka25.
Una raccolta altrettanto interessante dal carattere fortemente oraziano, in cui si intravedono gli inizi della parodia barocca, sono i Carmina26 di Joachim Bielski. Nonostante l’attenzione notevole concessa ad essi da Budzyński e il rango, cui li
ascrisse27, continuano a non essere molto lette da noi, per non
dire che sono piuttosto ignorate.
* * *
Abbiamo fin qui indicato solo un paio di piste. Rispetto all’assoluta apertura del tema, rimangono tuttavia da chiudere
alcuni accenni con un “surrogato” di conclusione. L’imitazione
oraziana in latino in Polonia richiede di essere nuovamente analizzata, non solo nel contesto della retorica e della poetica, bensì anche in relazione ad una più ampia scala europea; occorre
accantonare i vecchi stereotipi e ridare la bellezza perduta a ciò
che è stato ingiustamente dimenticato.
156
Note
(1) E. Sarnowska-Temeriusz, Horacjanizm, in: Słownik literatury staropolskiej,
a cura di T. Michałowska, B. Otwinowska, E. Sarnowska-Temeriusz, Wrocław
1990, p. 271.
(2) Cfr. ibidem, p. 276.
(3) A. Gorzkowski, Pawełz Krosna. Humanistyczne peregrynacje krakowskiego profesora, Kraków 2000, p. 157.
(4) Cfr. J. Budzyński, Horacjanizm w liryce polsko-łacińskiej renesansu i baroku, Wrocław 1985, p. 109.
(5) Martini Cromeri Carmina Latina, ediderunt, praefatione instruxerunt, annotationibus illustraverunt Georgius Starnawski, Romualdus Turasiewicz, Cracoviae 2003.
(6) Ibidem, p. 52.
Dux Alberte, ducum gloria, qui genus
Clarum a Sarmatiae regibus inclytis
Ducis, qui proavum stemmata principum
Ornas armisonae Pallados artibus
Etc.
(7) Ibidem, p. 40.
O Deus, celsi retinens Olympi
Sceptra, terrarum pelagique princeps,
Cuius existuntque vigentque sancto
Numine cuncta.
Tu genus mortale animi vigore
Praepeti firmas sapientiaque.
Tu Pater vitae Dominusque mortis
Fonsque bonorum.
Absque Te coecis ferimur tenebris,
Absque Te vita miseri caremus,
Absque te nulli sumus et patenti
Dedimur Orco.
Tu Sigismundo, patriae parenti,
Prorogas vitam, redhibes salutem,
Pristinisque aegrum, pater o Benigne,
Viribus auges…
Etc.
(8) A. Gorzkowski, op. cit., p. 246-250.
(9) L’opera di orazio, come sostiene A. Gorzowski, op. cit., p. 158, “era perfettamente conosciuta a Pawel non solo Grazie al. fatto che la spiegò in qualità di
extraneus a Bursa Węgierska (o nella casa da lui presa in affitto), ma anche per
merito dei commentari all’opera di Orazio di Beroaldo, che egli possedeva nella
propria biblioteca”.
La biografia poetica di Orazio viene considerata dallo studioso come „omaggio al poeta di Roma [...] connesso con un accento educativo”.
(10) S. Belina, Horacy w poezji Pawła z Krosna, in: Studia Classica et Neolatina a cura di Zofia Głombiowska, T. 1, Gdańsk 1994, p. 73-85.
(11) Pauli Crosnensis Carmina, ed. M. Cytowska, Wrocław 1962, p. 171.
(12) Ibidem, p. 73-74.
(13) Ibidem, p. 46-50.
(14) A. Gorzkowski, op. cit., p. 29.
(15) L. Ślękowa, Pieśń, Słownik Literatury Staropolskiej, op.cit., p. 569.
(16) J. Budzyński, op. cit., p. 63-90. Lo studioso (p. 63) definisce tale raccolta come un capitolo eccezionale dell’imitazione umanistico-rinascimentale nell’opera di Jan di Czarnolas.
157
(17) Ibidem, p. 64
(18) Ibidem, p. 88. ”La valutazione severa dipende spesso dall’adozione
come criterio artistico della valorizzazione delle opere liriche rientranti nella norma
romantica, che pone al primo posto nella poesia il soggettivismo del «linguaggio
dei sentimenti». Ciò rappresenta un anacronismo penalizzante nei confronti della
lirica classica umanistico-rinascimentale”. Cfr. anche S. Zabłocki, Poezja polskołacińska wczesnego renesansu. Wybrane zagadnienia, [in:] Problemy literatury
staropolskiej, seria 2, a cura di J. Pelc, p. 8-38.
(19) J. Budzyński, op. cit., p. 90. Lo studioso prende in considerazione (s.79)
anche le belle apostrofi-preghiere di questo canto, che richiamano in mente il
canto-inno polacco di Kochanowski Czego chcesz od nas, Panie…, come ad
esempio:
Te nos non pecudum sanguine, sed prece
Casta prosequimur, cordeque simplice:
Tu placatus amicis
Adversa omnia mollies.
(20) Ricorda il caratterere emblematico dell’opera la riedizione contemporanea (con i fac-simili dei manoscritti delle odi in latino) all’intorno della biblioteka Tradycji literackich, a cura di Wacław Walecki delle incisioni, pubblicate a
Roma nel 1588: Thomae Treteri Theatrum virtutum divi Stanislai Hosii / Teatr
cnót świątobliwego Stanisława Hozjusza, Cracoviae 1998. Alla base dell’edizione
c’era l’esemplare della Biblioteca Czartoryskich Rkps (manoscritto) 2921 IV. Venticinque odi scelte sono state tradotte da Elwira Buszewiczowa.
(21) „Buchanan was acknowledged to have surpassed all competitors in
the felicity of his rendering, and it was on the title-page of their editions of his
translation that Henri and Robert Estienne assigned him the distinction above
referred to, of being poetarum nostri saeculi facile princeps” P. Hume Brown,
Reformation and Renascence in Scotland, § 17. George Buchanan, in: The Cambridge History of English and American Literature in 18 Volumes (1907-21), vol. III.
Renascence and Reformation.
(22) Cfr. J. Budzyński, op. cit., p. 103: “la raccolta di odi sembra essere
incompiuta, fra l’altro, per alcuni errori metrici [...]. Tuttavia attira l’attenzione la
varietà di metri imitati da Orazio; nelle odi vengono infatti utilizzati tutti i metri dei
Carmina ed Epodon, e inoltre quello del gliconeo II ad uso incisorio in un modo
ignoto a Orazio”.
(23) Ha notato tale coincidenza anche J. Budzyński, op. cit., p. 104, in quanto parla di “adattamento cristianizzato” delle espressioni e le locuzioni di Orazio.
Occorre tener presente (e ciò non è stato omesso da Budzyński), che l’opera di Treter rappresenta gli effetti dei vecchi studi oraziani dell’autore. Un frutto
istruttivo dei suddetti studi fu anche la preparazione di un indice all’edizione di
Lione delle opere di Orazio In Quinti Horatii Flacci Venusini Poetae Latini Poemata
omnia rerum ac verborum locupletissimus index studio et labore Thomae Treteri
Posnaniensis collectus et ad communem studiosorum utilitatem editus, Antwerpia 1575, ed. succ. Frankfurt 1600. Nell’introduzione contenente la dedica ad
Hozjusz, Treter riconosce che fece quell’indice soprattutto per necessità propria,
in quanto voeva muoversi più agevolmente nel mondo dei concetti oraziani. Dopo
esser passato a compiere lavori maggiormente impegnativi per la Chiesa, desiderava salvare il suo lavoro per motivi didattici, per il bene della collettività delle
persone istruite („ne Rempublicam litterarum huius operae meae fructu privare
vellem” - edizione di Francoforte, p. 3).
(24) Cfr. J. Budzyński, op. cit., p. 114-115.
(25) Ewa Jolanta Głębicka, Szymon Szymonowic Poeta Latinus, Studia Staropolskie. Series Nova, Tom 2, Warszawa 2001.
(26) Editi in libri separati, come, ad esempio, il Carminum Ioachimi Bilscii liber
I, Cracoviae, Siebeneycher 1588, sono apparsi sotto forma di raccolta soltanto
nel XX secolo: Ioachimi Bilscii Carmina Latina nunc primum in unum volumen
collecta, Iedidit T. Bieńkowski, Warszawa 1962.
(27) J. Budzynski, op. cit., pp. 119-129. Lo studioso esamina perspicace-
158
mente il carattere della raccolta di Bielski e gli assegna un ruolo molto importante
nello sviluppo della parodia oraziana: lungo la strada della stilizzazione della lingua
secondo il modello oraziano, con la contemporanea cristianizzazione dei suoi
motivi pagana venne creata la «parodia cristiana». Questa nuova tecnicapotica
portò, come vediamo, a nuove inattese esperienze creative e ad effetti del tutto di
valore; entrambi questi elementi segnarono un significativo passo avanti rispetto
alle prove di Treter e di Szymanowicz.
159
ELWIRA BUSZEWICZ
Katedra Literatury Staropolskiej i Oświeceniowej
Instytutu Polonistyki Uniwersytetu Jagiellońskiego
Kraków
Łacińska pieśń horacjańska
w renesansowej polsce
Romanae fidicines lyrae w Polsce
przed Sarbiewskim
Zagadnienie imitacji horacjańskiej w renesansowej poezji
nowołacińskiej ewokuje swoiste koło hermeneutyczne. Z jednej
strony bowiem, jak zauważyła Elżbieta Sarnowska-Temeriusz,
„Renesans odkrył Horacego w pełni” i podniósł jego poezję
„do rangi wzoru imitowanego i modyfikowanego na różne sposoby”1, z drugiej natomiast – pojawiające się coraz liczniej imitacje horacjańskie bardzo różnego rodzaju przyczyniały się do
rozwoju renesansowego humanizmu, przygotowywały grunt
pod poetyckie „myślenie Horacym”, kultywowane zarówno
w poezji łacińskiej, jak i wernakularnej, a wreszcie pozwoliły
temu myśleniu rozwinąć się w XVII stuleciu w innym nieco kierunku, zwanym mniej lub bardziej słusznie manierystycznym,
prowadzącej do emulacji zwanej chrześcijańską parodią
horacjańską. Za ukoronowanie tych certaminów uważa się
powszechnie u nas twórczość (niezaprzeczalnie europejskiej
rangi) Macieja Kazimierza Sarbiewskiego.
Co jednak oznaczał horacjanizm przed Sarbiewskim? Do
czego służyły horacjańskie metra poetom tworzącym w renesansowej Polsce? Jak dużo było tych poetów? Jaka jest ich
ranga?
Niełatwo w sposób zwięzły i jednoznaczny odpowiedzieć
na to pytanie, zwłaszcza że pomimo pojawiających się co
jakiś czas większych i mniejszych opracowań problemu uczeni
nieustannie akcentują przede wszystkim potrzeby badawcze i
stwierdzają otwartość zagadnienia2.
Spróbujemy rozważyć tę kwestię w sposób uproszczony,
nie wdając się w szczegółowe analizy i oceny, w skomplikowane
docieklanmia genologiczne, szukające np. precyzyjnych kryteriów odróżniających pieśń od ody. Punktem wyjścia będzie tu
ars metrica – interesować nas będą ci poeci, którzy posługiwali
się w swej twórczości horacjańskimi miarami lirycznymi, nie
161
tylko więc tak rozpowszechnioną tu strofą saficką, zwłaszcza
mniejszą, strofą alcejską ale i różnymi kombinacjami asklepiadejsko-glikonejskimi, czy wierszem hipponaktejskim.
Jakkolwiek nie będziemy się szeroko zajmować tzw. przełomem
humanistycznym w Polsce w końcu XV w. oraz twórczością importowanych jaskółek renesansowego przedwiośnia jak Kallimach czy Celtis, warto zdecydowanie podkreślić ważność safickiej pieśni Buonaccorsiego o św. Stanisławie, która położyła
„podwaliny nowego stylu poetyckiego na gruncie poezji religijnej”3. Z kolei niektóre ody Konrada Celtisa, z opisami „potrójnego” Krakowa i „dwurzecznej” Wisły, przyczyniły się wydatnie
do coraz częstszej obecności w horacjańskich formach treści
rodzimych, wyznaczyły pewien kanon poetyckiego opiewania
dawnej stolicy, z którego czerpano pełnymi garściami, a nieraz ściągano żywcem (poeci nowołacińscy uważali bowiem za
wspólne dobro nie tylko teksty poetów klasycznych, którymi
inkrustowali swe dzieła, lecz także dorobek współczesnych; do
tego stopnia, że niektórzy uczeni uważają za całkiem przyzwoitą
robotę wiersze mniejszego lotu, w których brak ewidentnych
literackich kradzieży4). Kallimach i Celtis otwierają więc katalog renesansowych imitatorów Wenuzyjczyka na naszych ziemiach; zamyka go zaś Szymon Szymonowic w Respublica litterarum znany jako Simon Simonides. Pomiędzy nimi pośród
poetów posługującymi się formami horacjańskimi wymienia się
zwykle Ślązaka Wawrzyńca Korwina, Pawła z Krosna (którego sylwetkę przybliżył ostatnio w swej monografii Albert Gorzkowski), Andrzeja Krzyckiego, Jana Dantyszka, Jana Kochanowskiego, Tomasza Tretera, Andrzeja Schoneusa, Joachima
Bielskiego. Nie jest to oczywiście lista zamknięta, ponieważ w
zbiorach łacińskich poezji autorów posługujących się zwykle
raczej heksametrem czy dystychem elegijnym trafiają się nieraz
sporadycznie lub kilkakrotnie użyte strofy safickie czy asklepiadejskie. Takie horacjańskie niespodzianki znajdziemy np. w przypomnianych ostatnio przez Jerzego Starnawskiego i Romualda Turasiewicza utworach poetyckich Marcina Kromera5, gdzie
oprócz asklepiadejskiego wiersza do Albrechta I Hochenzollerna6, przywołującego słynną odę do Mecenasa (C I1) znajdujemy
piękny hymn saficki do Boga7, upraszający o pomyślność dla
Polski i zdrowie dla króla Zygmunta. Nie czas to jednak i nie
miejsce, by pozwolić sobie na szczegółową analizę tekstów.
Pozwolimy sobie tu jedynie na parę przypomnień i sprostowań.
Spróbujmy więc najpierw przyjrzeć się horacjanizmowi pierwszego rodzimego twórcy, o którym mówi się, że stworzył szkołę
poetycką – Pawłowi z Krosna.
162
Lekceważone bogactwo
Jak pokazał przekonywająco w swej monografii Albert
Gorzkowski, twórczość Krośnianina cechuje spore bogactwo
genologiczne; wiele tu miejsca dla utworów horacjańskich w
formie, hymnów, pieśni czy ód. Jest też bardzo interesujący
poemat saficki o zstąpieniu Chrystusa do Otchłani, De inferorum vastatione. Omawiając go, podkreśla badacz synkretyzm
gatunkowy, wykorzystanie formy lirycznej w utworze epickim8.
Interferencje takie nie były jednak niczym odosobnionym w
praktyce nowołacińskiej imitacji, zaś sama strofa saficka dobrze sprawdzała się w dłuższych utworach o charakterze np.
opisowym, jak dowodzi oda De Polonia et eius metropoli Cracovia (O Polsce i jej stolicy Krakowie) Wawrzyńca Korwina.
Uwagę zwracają też hymny, safickie czy alcejskie; krótsze, do
bóstw pogańskich (Jowisz, Atena, Apollo, Merkury, Bakchus,
Muzy) oraz dłuższe, do Boga chrześcijan, Maryi Dziewicy i
świętych, czerpiące m.in. z wczesnochrześcijańskich tradycji
hymnicznych. Tych uroczystych inwokacji jest u Krośnianina
dużo. Jak pamiętamy, ze względu na silną obecność tematyki
religijnej umieszczano jego sylwetkę gdzieś na skrzyżowaniu
średniowiecza i renesansu, cokolwiek miałoby to oznaczać.
Dawniejsi historycy poezji nowołacińskiej zauważali na tę
okoliczność, że renesansowa poezja nowołacińska nie była
Afrodytą, która wyłoniła się z morza. Pozwolę sobie jednak
zauważyć, że jakkolwiek Paweł z Krosna nie zawsze jest poetą
porywającym czytelnika, niekoniecznie trzeba mówić o nim z
pobłażliwą wyższością, a obecność średniowiecza w jego
twórczości należałoby raczej wyrazić obrazem, którym posłużył
się podczas jednego z wykładów uniwersyteckich profesor
Tadeusz Ulewicz, mówiąc zresztą o Kochanowskim: „Pod
ołtarzem renesansowym był gotycki mur”. Podkreślić też wypada, że w twórczości Krośnianina znajdujemy również wiersze
świeckie, nawiązujące i do litery, i do ducha Wenuzyjczyka, a te
horacjańskie idee i formy wskazała niedawno w przenikliwej rozprawce Sabina Belina, zwracając uwagę nie tylko na poetycką
biografię poetae divini, Horacego, pióra krakowskiego profesora9, lecz także na tematy i wręcz „nastroje” horacjańskie obecne w jego pieśniach10. Widać to np.w wierszu do Stanisława
Thurzona, a także w poetyckich refleksjach kierowanych Ad
lectorem edycji Troas Seneki, gdzie refleksja nad potęgą Fortuny zapowiada klimat niektórych liryków Sarbiewskiego:
163
Quisquis protervae nosse cupis deae
Fraudes et astus innumerabiles,
Quam turba vatum fert gemella
Conspicuam generosa fronte. […]
Quae caeca, comis, blanda, potens, rapax,
Incerta, fallax, instabilis, vaga,
Iniusta, saeva, trux, maligna,
Lubrica mobiliorque ventis11… etc.
W ton chrześcijańskiego neostoicyzmu uderza też
utwór Exhortatio ad virtutem12. Dodajmy, że wiele ducha
horacjańskiego niesie w sobie Carmen laudes poetice artis
continens et quod poemata immortalia sint et incaduca demonstrans, w sposób najbardziej oczywisty nawiązująca do ody
(C IV 9) Wenuzyjczyka, podejmująca topikę unieśmiertelnienia
dzięki poezji i umieszczająca ją w kontekście neoplatonizmu
i właściwej mu koncepcji boskiego poety-wieszcza13. Już po
tych klku dość powierzchownych sygnałach musimy uznać,
że horacjanizm Pawła z Krosna przejawiał się o wiele silniej i
szerzej, niż to się niekiedy uważa, i że twórczość Krośnianina,
nie bez podstaw określonego przez współczesnego badacza
jako „poeta zarzucony”14, stanowi w pewnym sensie nadal
lekceważone bogactwo dla zbadania dziejów łacińskiej imitacji
horacjańskiej w Polsce.
Cykle i zbiory. Od Kochanowskiego do Bielskiego
Zwróćmy się z kolei ku przykładom takiego nawiązywania
do horacjańskich miar lirycznych, które przyniosło w rezultacie
formy mniej lub bardziej cykliczne. Zacząć wypada od zbiorku
Jana z Czarnolasu. O Kochanowskim mówi się nawet, że
zainicjował w Polsce dzieje łacińskiej pieśni wzorowanej na Horacym15; prawdziwości tego sądu w sensie dosłownym nie da
się oczywiście obronić. Skromny jednak objętościowo (non multa sed multum!) cykl Lyricorum libellus (editio princeps w 1580
r. w Krakowie) jest na pewno jednym z pierwszych przejawów
dojrzałego horacjanizmu, a na pewno pierwszym zbiorem pieśni
ułożonym świadomie z zastosowaniem zasad brevitas i varietas.
Brevitas można określić z matematyczną precyzją: długość poszczególnych ód pozostaje na ogół w przedziale od 20-48 wersów; wyjątek stanowi ostatnia oda o zdobyciu Połocka, która
ma ich 100. Varietas, wyraźna i świadoma, dotyczy zarówno
tematyki, jak i metryki. Pod względem wersyfikacji mamy kolej164
no: strofę alcejską, asklepiadejską II, alcejską, saficką mniejszą,
asklepiadejską II, asklepiadejską I, asklepiadejską większą,
asklepiadejską II, saficką mniejszą, alcejską, alkmańską i
alcejską. Kompozycję zbioru pod względem tematyki, jego
powinowactwa z IV księgą ód Horacjusza i zasadę variatio
harmonijnych ciągów myślowych omówił szczegółowo Józef
Budzyński16. W każdym razie mamy tu wielką rozmaitość, co nie
tak łatwo osiągnąć umieszczając w zbiorze jedynie 12 pieśni. Są
one okolicznościowo-polityczne, refleksyjne, erotyczne, biesiadne, ale nie zawsze tak łatwo i jednoznacznie daje się określić
charakter utworu. W tekście o charakterze biesiadnym pojawia
się w poincie wzmianka o ewentualnym zagrożeniu wojennym,
a poetycką rozmowę z Afrodytą, zresztą przekład znanego wiersza Safony, określił badacz jako „kontrapunkt erotyczno-modlitewny”17. Pomimo przeprowadzenia przez Budzyńskiego dość
bogatej analizy całego zbioru, bardzo wiele pozostaje jeszcze o
nim do powiedzenia, zwłaszcza wobec przypomnianych przez
badacza pokutujących nadal opinii o nadmiarze retoryki i mitologii, sformułowanych niegdyś przez krytyków stosujących romantyczne kryteria oceny, preferujące rodzimość, oryginalność
i tzw. szczere uczucie18. Najogólniej można by powiedzieć, że
krytycy zarzucali łacińskim odom Kochanowskiego nadmiar…
łaciny, choć ta akurat jest tu znakomita, rytmicznie bez zarzutu,
zróżnicowana fonicznie, wprowadzająca miłe dla ucha i nieraz
żartobliwe aliteracje, kiedy np. poeta zwróci się do niefortunnego konia: Quadrupedumque pudor… Warto odnotować też
wskazany przez Budzyńskiego nietypowy charakter ody II (In
deos falsos), według dawnych, wysoce niestosownych i anachronicznych kryteriów oceny uchodząca za „niesmaczny zgrzyt” zderzenia chrześcijaństwa z antykiem, a w gruncie rzeczy
punkt wyjścia nowego modelu horacjanizmu, zmierzającego ku
tzw. parodii chrześcijańskiej „Nie chodzi już bowiem o samo tylko
bogacenie struktury formalnej utworu w oparciu o naśladowany
wzorzec, jak to się dzieje w typowej imitacji renesansowo-humanistycznej i także w poezji Jana Kochanowskiego, istotniejsze staje się dążenie, by z pomocą tej samej techniki poetyckiej
stworzyć utwór wewnętrznie, czyli treściowo niepogański,
prezentujący tematykę chrześcijańską. W rezultacie zaczyna się
zatracać dotychczasowa jednolitość semantyczna klasycznego wzorca i jego nowołacińskiego odpowiednika literackiego,
a pozostaje jedynie ich formalno–artystyczne podobieństwo, o
co właśnie w tym wypadku chodzi. Taki też model horacjanizmu
zostanie bardzo szybko podjęty […]”19.
Następnym krokiem ku tej parodii jest zbiór stu ód na cześć
165
Hozjusza pióra Tomasza Tretera, pisarza i miedziorytnika. Chodzi o Theatrum virtutum Stanislai Cardinalis Hosii episcopi Varmiensis. Dzieło z założenia emblematyczne20, którego punktem
wyjścia była seria rycin przedstawiająca życie świątobliwego
męża w alegorycznych obrazach, domagało się dopełnienia tekstowego, dla którego autor wybrał formułę horacjańskiej polimetrii. Nie była ona absolutnie liryczna ani absolutnie horacjańska
– zastosowany został również np. heksametr czy dystych
elegijny, którym napisane są niektóre „ody”, przypominające
wówczas elegie, jeśli są dłuższe, lub epigramaty, jeśli krótsze.
Taka rozmaitość wersyfikacyjna zbioru silnie horacjańskiego nie
jest czymś odosobnionym, przywodzi na myśl np. Paraphrasis
Psalmorum Davidis Poetica Jerzego Buchanana; Buchanan jednak uważany był za najwybitniejszego poetę swego wieku21,
czego na pewno o Treterze, któremu wytknięto nieco błędów
metrycznych22, powiedzieć nie można. Są nawet tacy, którzy
uważają, iż stanowczo napisał za dużo i nie bardzo nadaje się
to do czytania. Warto jednak zwrócić uwagę na parę istotnych
szczegółów. Po pierwsze, dzieło Tretera opiewa horacjańskim
słownictwem i frazą życie, karierę duchowną i pobożną śmierć
dostojnika Kościoła, a więc duch całego tomu jest ewidentnie
chrześcijański, więcej: katolicki, co oznacza w tym przypadku
również polemikę z protestantyzmem, a niekiedy i wycieczki
antyżydowskie. Po drugie, są w zbiorze wyraźne akcenty rodzime, jak otwierająca cykl dumna pochwała Krakowa, napisana
strofą alcejską, o podniosłym początku:
O civitatum Sarmatiae decus
Craci Parentis filia nobilis,
Adverte mentem! Pluribus te
Nominibus reputo beatam,
czy również podniosła, asklepiadejsko-glikonejska laudacja
Akademii Krakowskiej zaczynająca się słowami: Ter felix Academia. Nie trzeba oczywiście dodawać, że pośród różnych innych racji, dla których należałoby chwalić Kraków i Akademię,
jedna jest dla autora podstawowa i bezwzględnie nadrzędna:
Hozjusz, który tam właśnie raczył urodzić się i studiować! Po
trzecie, wobec pewnej luki, jaką widać w nowołacińskiej liryce
polskiej w zakresie tematów rodzinnych, poruszanej np. bogato
w łacińskiej poezji francuskiego renesansu, ujmujące i ciekawe
wydają się wiersze do tej właśnie sfery życia nawiązujące, ze
szczególnie wzruszającym wierszem alcejskim do własnego
ojca (LXXXII), któremu Treter zachwala starość Hozjusza jako
166
wzorzec parenetyczny, a na koniec udziela duszpasterskiego
napomnienia czerpiąc słownictwo z ody Flakka do Talliarcha:
Felix senectam ducito candidam,
Permitte Christo cetera, qui simul
Ut iusserit, nec tu meo, nec
Ipse tuo prohibebor ore23.
Jakiekolwiek potknięcia metryczne zdarzyłyby się na przestrzeni zbioru (a można się nieraz po horacjańsku zdrzemnąć
pisząc sto ód!), warto zaznaczyć po czwarte, że sięga Treter
także po dość rzadkie w poezji nowołacińskiej metra Wenuzyjczyka, jak np. w odzie XXIII In Canonicatum Cracoviensem
po wiersz hipponaktejski, a w XLIV, De Hosii Romam vocatione
trójwersowy układ: trymetr jambiczny – trymetr daktyliczny katalektyczny – dymetr jambiczny (takie metrum znajdzie się potem w Sarbiewskiego oodzie na herb Barberinich).
Innym cyklem utworów horacjańskich jest Szymonowica
Flagellum livoris, rzecz nie tak już obszerna, zawierająca 19
utworów, ale za to, jak dumnie głosi tytuł, zawierająca w sobie
omnia fere metrorum genera. Cykl ten, z Zawiścią w roli głównej,
przypuszczającą ataki na Cnotę i jej Herosa, jest horacjański
głównie pod względem metrycznym, inwencyjnie czerpiąc
raczej z Wergiliusza, Owidiusza i Klaudiana24. Stylistycznie zaś
dzieło zmierza w stronę baroku, choć to wczesny utwór Simonidesa. Jak wiemy, w twórczości Szymonowica znajdują się też
utwory i z kształtu, i z ducha horacjańskie. Warto zaznaczyć,
że łacińską twórczość polskiego Pindara omówiła ostatnio w
sposób kompetentny, interesujący, a niekiedy i odkrywczy Ewa
Jolanta Głębicka25.
Również ciekawym zbiorem o charakterze silnie
horacjańskim, gdzie dopatrywano się pierwocin barokowej parodii, są Carmina26 Joachima Bielskiego. Pomimo sporej uwagi,
jaką poświęcił im Budzyński i rangi, którą im przypisał27, w dalszym ciągu raczej nie bywają u nas nadmiernie czytane, o ile nie
należałoby raczej powiedzieć, że są raczej ignorowane.
* * *
To oczywiście tylko parę tropów. Wobec absolutnej
otwartości tematu pozostaje zamknąć tych kilka napomknień
namiastką konkluzji. Łacińska imitacja horacjańska w Polsce
domaga się nowego zbadania, nie tylko w kontekście retoryki i
poetyki, ale również w odniesieniu do szerszej skali europejskiej;
domaga się porzucenia dawnych stereotypów i przywrócenia
utraconego piękna temu, co niesłusznie zapomniane.
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Note
(1) E. Sarnowska-Temeriusz, Horacjanizm, w: Słownik literatury staropolskiej,
pod red. T. Michałowskiej, B. Otwinowskiej, E. Sarnowskiej-Temeriusz, Wrocław
1990, s. 271.
(2) Por. ibidem, s. 276.
(3) A. Gorzkowski, Pawełz Krosna. Humanistyczne peregrynacje krakowskiego profesora, Kraków 2000, s. 157.
(4) Por. J. Budzyński, Horacjanizm w liryce polsko-łacińskiej renesansu i baroku, Wrocław 1985, s. 109.
(5) Martini Cromeri Carmina Latina, ediderunt, praefatione instruxerunt, annotationibus illustraverunt Georgius Starnawski, Romualdus Turasiewicz, Cracoviae 2003.
(6) Ibidem, s. 52.
Dux Alberte, ducum gloria, qui genus
Clarum a Sarmatiae regibus inclytis
Ducis, qui proavum stemmata principum
Ornas armisonae Pallados artibus
Etc.
(7) Ibidem, s. 40
O Deus, celsi retinens Olympi
Sceptra, terrarum pelagique princeps,
Cuius existuntque vigentque sancto
Numine cuncta.
Tu genus mortale animi vigore
Praepeti firmas sapientiaque.
Tu Pater vitae Dominusque mortis
Fonsque bonorum.
Absque Te coecis ferimur tenebris,
Absque Te vita miseri caremus,
Absque te nulli sumus et patenti
Dedimur Orco.
Tu Sigismundo, patriae parenti,
Prorogas vitam, redhibes salutem,
Pristinisque aegrum, pater o Benigne,
Viribus auges…
Etc.
(8) A. Gorzkowski, op. cit., s. 246-250.
(9) Twórczość Horacjusza, jak stwierdza A. Gorzkowski, op. cit., s. 158,
„znał Paweł doskonale nie tylko dzięki temu, iż objaśniał ją jako extraneus w Bursie Węgierskiej (lub w wynajmowanym przez siebie domu), lecz również dzięki
komentarzom Beroalda do twórczości Horacego, które posiadał w swoim
księgozbiorze”. Poetycką biografię Horacego uważa badacz za „hołd złożony
rzymskiemu poecie […] połączony z akcentem wychowawczym”.
(10) S. Belina, Horacy w poezji Pawła z Krosna, w: Studia Classica et Neolatina pod red. Zofii Głombiowskiej, T. 1, Gdańsk 1994, s. 73-85.
(11) Pauli Crosnensis Carmina, ed. M. Cytowska, Wrocław 1962, s.171.
(12) Ibidem, s. 73-74.
(13) Ibidem, s. 46-50.
(14) A. Gorzkowski, op.cit., s. 29.
(15) L. Ślękowa, Pieśń, Słownik Literatury Staropolskiej, op.cit., s. 569.
(16) J. Budzyński, op. cit., s. 63-90. Badacz (s. 63) nazywa ten zbiór
wyjątkowym rozdziałem imitacji renesansowo-humanistycznej w twórczości Jana
z Czarnolasu.
(17) Ibidem, s. 64.
(18) Ibidem, s. 88. „Surowa ocena wynika często z faktu stosowania jako
kryterium artystycznego wartościowania utworów lirycznych normy romantycznej,
168
najwyżej stawiającej w poezji subiektywizm „mowy uczuć”, co jest krzywdzącym
anachronizmem w stosunku do klasycyzującej liryki renesansowo-humanistycznej”. Por. też S. Zabłocki, Poezja polsko-łacińska wczesnego renesansu. Wybrane zagadnienia, [w:] Problemy literatury staropolskiej, seria 2, pod red. J. Pelca,
s. 8-38.
(19) J. Budzyński, op. cit., s. 90. Badacz zwraca też uwagę (s.79) na piękne
apostrofy-modlitwy tej pieśni, przywołujące na myśl polską pieśń-hymn Kochanowskiego Czego chcesz od nas, Panie… jak np.:
Te nos non pecudum sanguine, sed prece
Casta prosequimur, cordeque simplice:
Tu placatus amicis
Adversa omnia mollies.
(20) Emblematyczny charakter dzieła przypomina współczesne wznowienie
(wraz z podobiznami rękopisów ód łacińskich) w Bibliotece Tradycji Literackich
pod redakcją Wacława Waleckiego sztychów, wydanych w Rzymie w 1588 r.:
Thomae Treteri Theatrum virtutum divi Stanislai Hosii / Teatr cnót świątobliwego
Stanisława Hozjusza, Cracoviae 1998. Podstawą edycji tekstu był egzemplarz
Biblioteki Czartoryskich Rkps 2921 IV. Wybrane ody w liczbie 25 przełożyła Elwira
Buszewiczowa.
(21) „Buchanan was acknowledged to have surpassed all competitors in
the felicity of his rendering, and it was on the title-page of their editions of his
translation that Henri and Robert Estienne assigned him the distinction above
referred to, of being poetarum nostri saeculi facile princeps” P. Hume Brown,
Reformation and Renascence in Scotland, § 17. George Buchanan, in: The Cambridge History of English and American Literature in 18 Volumes (1907-21), vol. III.
Renascence and Reformation.
(22) Por. J. Budzyński, op.cit., s. 103: „Zbiór ód wygląda na nie wykończony,
m.in. dzięki pewnym błędom metrycznym […]. Pomimo to uwagę zwraca
rozmaitość miar wierszowych naśladowanych z Horacego, w odach bowiem
zastosowano wszystkie metra Carminum i Epodon, a nadto glikonej II w użyciu
stychicznym w sposób nieznany Horacemu”.
(23) Zauważył tę zbieżność także J. Budzyński, op. cit., s. 104, mówiąc o
„schrystianizowanej adaptacji” zwrotów i wyrażeń Horacego. Warto zauważyć
(i nie przeoczył tego Budzyński), że dzieło Tretera jest pokłosiem dawnych studiów horacjańskich autora. Instruktywnym owocem tychże studiów było także
zestawienie indeksu do lyońskiej edycji Horacego (In Quinti Horatii Flacci Venusini
Poetae Latini Poemata omnia rerum ac verborum locupletissimus index studio et
labore Thomae Treteri Posnaniensis collectus et ad communem studiosorum utilitatem editus, Antwerpia 1575, wyd. nast. Frankfurt 1600. W kierowanej do Hozjusza przedmowie dedykacyjnej przyznaje Treter, że indeks ów sporządził głównie
dla własnych potrzeb, chcąc sprawniej poruszać się w świecie horacjańskich
pojęć. Przeszedłszy zaś do poważniejszych zatrudnień w służbie Kościoła, pragnie ocalić swą pracę ze względów dydaktycznych, dla dobra społeczności ludzi
wykształconych („ne Rempublicam litterarum huius operae meae fructu privare
vellem” – za edycją frankfurcką, s. 3).
(24) Por. J. Budzyński, op. cit., s. 114-115.
(25) Ewa Jolanta Głębicka, Szymon Szymonowic Poeta Latinus, Studia Staropolskie. Series Nova, Tom 2, Warszawa 2001.
(26) Wydawane w osobnych księgach, jak np. Carminum Ioachimi Bilscii
liber I, Cracoviae, Siebeneycher 1588, doczekały się zbiorowego wydania dopiero w XX stuleciu: Ioachimi Bilscii Carmina Latina nunc primum in unum volumen
collecta, Iedidit T. Bieńkowski, Warszawa 1962.
(27) J. Budzyński, op.cit., s. 119-129. Badacz wnikliwie rozważa charakter zbiorku Bielskiego i przysądza mu wcale istotną rolę w rozwoju parodii
horacjańskiej: „Na drodze więc stylizacji językowej według wzorca Horacjańskiego
przy równoczesnym schrystianizowaniu jego pogańskich motywów powstała
„parodia chrześcijańska”. Nowa ta technika poetycka przyniosła, jak widzimy,
nieoczekiwanie świeże doświadczenia twórcze i całkiem wartościowe efekty, jedno i drugie znacznie dalej posunięte niż próby Tretera i Szymonowica.
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Pubblicato a cura di:
Fondazione Cassamarca
Piazza S. Leonardo, 1 - 31100 Treviso
Stampato nel mese di ottobre 2006 presso Europrint (Tv)