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La morte di subito Una morte improvvisa, in dialetto napoletano, “`e
La morte di subito Una morte improvvisa, in dialetto napoletano, “’e subbito”, è una bella morte, se può essere considerato bello morire. Tutti se la augurano e la preferiscono a una morte che arriva dopo una lunga e debilitante malattia, che spesso ti rincitrullisce e ti porta a dipendere dagli altri, parenti o estranei che siano. Ma se ti viene il coccolone e ci rimani secco, è perché non sei stato soccorso in tempo, non sei arrivato vivo là dove ti potevano salvare. Eri solo e nessuno ti ha potuto aiutare, non ti sei curato di quei piccoli segnali di avvertimento che hai avuto. Sei insomma stato beccato da “sorella nostra morte corporale” perché è successo “questo, questo e questo” e se non fosse stato così, non saresti morto. Non svegliarsi una bella mattina all’età di ottantacinque anni può essere anche un bene. Ma morire di infarto fulminante a sessantacinque anni non è proprio da augurarselo. Se, come dicono le statistiche, la vita media degli uomini, che campano sempre meno delle donne, è di settantotto anni, chi scrive è un uomo, hai vissuto tredici anni in meno, senza tener conto delle eccellenze, di quelli che superano in buona salute anche i novanta anni. Occorre quindi una precisazione. La morte di subito è bella quando arriva al momento giusto. Ora può capitare che, quando ti arriva la botta, infarto, ictus e quelle altre belle cose lì, non muori ma ne esci ammaccato, non più quello di prima, tanto da augurarti di morire anziché vivere. Anche la vecchiaia, un poco alla volta, ti ammacca, ti debilita e ti rende inefficiente, alcuni arrivano a dire: Non voglio diventare vecchio. Ma chi lo dice non si rende conto che per non diventare vecchi si deve morire quando si è ancora giovani. Capita anche che questa debilitazione e inefficienza, ti colpisce dalla nascita o comunque molto presto. Parlo di una persona con gravi handicap fisici e/o mentali. Riflettendo sul suo stato, spesso arriviamo a dire: Che ci campa a fare? Queste situazioni o altre simili, che non abbiamo preso in considerazione, necessitano di un’attenta riflessione. La vita, per essere vissuta, deve essere degna di esserlo e non possono esserci altri che la valutano e decidono al posto nostro. Dal momento che siamo noi e nessun altro i padroni di essa, dobbiamo essere in grado di porvi termine quando riteniamo la nostra vita non più degna di essere vissuta. Per sua definizione l’uomo è un essere in grado di intendere e di volere, se queste capacità dovessero venir meno, è nel suo pieno diritto decidere di farsi dare la morte, non essendo lui stesso in grado di farlo. Questa volontà deve essere espressa per iscritto quando si è pienamente consapevoli e responsabili delle proprie azioni e decisioni. La società, una volta accertato il verificarsi di queste condizioni, deve, in accordo alla volontà espressa, prendere su di se la responsabilità di sospendere ogni trattamento che continui artificiosamente il prolungamento della vita, gli accanimenti terapeutici e consentire che la vita termini il suo corso. A dirla bene, c’è un come, quando e perché vivere o morire.