Documenti L` «otium monasticum» come ambito di

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Documenti L` «otium monasticum» come ambito di
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Jean Leclercq
L’ «otium monasticum» come ambito di creazione artistica
1. Tempo libero e lavoro
Per il solo fatto di riunire sotto un unico titolo due parole che si riferiscono da una parte al
tempo libero dal lavoro e dall’altra alla creazione artistica, si pone un paradosso che
costituisce un perenne problema per gli storici del monachesimo e della cultura. Infatti il
paradosso della vita monastica è proprio questo: nonostante i suoi membri rinuncino al
mondo, tuttavia incidono su di esso, contribuendo a una sua trasformazione e alla
creazione di quelle «utopie» che rappresentano un’idealizzazione di ciò che il mondo
dovrebbe o potrebbe essere.
Qui non troviamo solamente un ulteriore esempio del più generale problema umano di
conciliare lo svago - la tranquillità e la libertà nell’uso del tempo - con il lavoro, la tecnica e
la produzione. Sarebbe necessario un vasto progetto di ricerca se dovessimo tentare di
considerare la sintesi fra tempo libero e creazione artistica del monachesimo lungo i secoli
e nei diversi luoghi, Tuttavia possiamo affermare che, nonostante i numerosi cambiamenti
legati al tempo, al luogo e alle istituzioni, troviamo in Occidente comuni e costanti
elementi che anche oggi rimangono presenti in una mutata realtà. Ma se i rapporti tra le
caratteristiche della cultura monastica hanno subìto mutamenti, queste ultime sono
rimaste invariate.
Esse possono essere così riassunte: 1) il bisogno di lavorare in un modo o in un altro,
mediante un’attività o manuale o intellettuale, da soli o con l’eventuale collaborazione di
altri (come per esempio dei conversi o dei fratelli oblati, comunque li si voglia chiamare);
2) il bisogno di tempo libero dal lavoro, inteso nel senso che chiariremo più avanti; 3) l’unione
di questi due momenti, lavoro e tempo libero, che sempre appare nelle opere d’arte. Queste
ultime possono essere di natura letteraria, o relative all’una o all’altra arte plastica, oppure
pregevoli opere ottenute con altre tecniche. Vi è una grande varietà, secondo i tempi e i
luoghi, sia riguardo alla loro quantità, sia per il rapporto tra i lavori eseguiti e i vari
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materiali. Rimane il fatto che là dove il monachesimo è vivo, troviamo sempre la bellezza,
e una bellezza del tutto particolare. La storia prova la verità di questa affermazione. Ma
come si può spiegare questo fenomeno?
La risposta si trova in alcuni princìpi fondamentali; qui intendiamo tracciare non tanto
l’evoluzione cronologica, ma ciò che potremmo chiamare la loro genesi dottrinale. In realtà
si tratta di illustrare queste idee di fondo in riferimento alle fonti, alle citazioni e attraverso
lo studio dei simboli usati. Non ci soffermeremo perciò a delineare lo sviluppo delle idee o
a descriverne minuziosamente le applicazioni nelle diverse culture. Molti trattati specifici
e studi generali sono già stati scritti a questo proposito.
Il nostro primo obiettivo è di determinare un preciso significato per quella particolare
forma di tempo libero che il latino classico indica col termine otium. Anche alla tradizione
cristiana è piaciuto descriverlo come tranquillità (quies), ozio (vacatio), sabato (sabbatum) ed
evocarlo mediante simboli poetici presi dalla Bibbia, come il letto o il divano (lectulus), il
sonno a occhi aperti, la consuetudine del riposo, la vita appartata e nascosta (vita
umbratilis). Tutti questi termini e queste immagini, con il vocabolario che da essi deriva,
potrebbero portare a una più o meno utile ambiguità. È abbastanza facile dire brevemente
ciò che non è l’otium monastico: non è l'ozio del ricco e del potente (cioè il «non far
niente»); non è la decisione di «non lavorare» che oggi si manifesta negli scioperi e nei
rallentamenti produttivi di protesta. Non è una fuga dalla dura realtà della condizione
umana in cui tutti si trovano a vivere, compresi i monaci e le monache, Ma che cos’è
allora?
Otium designa un intero ordine di attitudini e di attività, meglio definibile col termine
esicasmo, mutuato dalla tradizione cristiana orientale. Questa parola deve essere intesa
realmente e praticamente come riposo della mente (quies mentis), un concetto ricco di
significato (ma ben distinto dal senso che «esicasmo» va gradualmente acquistando nel
XIV secolo e nei secoli seguenti per l’influsso della speculazione teologica di Gregorio
Palamas, monaco del Monte Athos, e per la controversia che ne seguì). Lo spirito che è in
stato di riposo si immerge nell’ascesi, si nutre della quieta vita del monastero (quies
claustralis) e porta al silenzio interiore, alla pace del cuore e alla serena contemplazione
(quies contemplationis). Il contenuto di questa esperienza è stato spesso descritto in maniera
davvero affascinante da molti che l’hanno vissuta. Essa è attiva, dinamica, coinvolge tutto;
nello stesso tempo è una grazia e un habitus spirituale. «Esicasmo» rappresenta un
concetto così complesso che non basterebbe una lunga lista di accezioni a esaurirne il
significato. È densa di cultura, di equilibrio, di devozione, di santità, di spiritualità, di
studio; è interiore, totale, perpetua; è fonte di zelo, di conforto, è fattiva, forte e procura
diletto. È contraddistinta dalla stabilità, alla quale si è pensato talvolta di assimilarla,
poiché è l’opposto del continuo mutamento ed è un efficace rimedio contro la volubilità
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dell’uomo. È serenità; non ostacola i moti interiori dello spirito umano, ma li dirige verso
una meta trascendente, verso Dio, la cui eternità può essere fin d’ora condivisa.
Tuttavia nella vita monastica vi è molto di più dell’otium. Esso non deve essere idealizzato
come una felicità immediata; né lo si deve considerare separato dal labor, l’altra esigenza di
ogni vita umana, sia essa laica o monastica. Un aspetto complesso da trattare e da
comprendere è costituito dalla relazione tra lavoro e ascesi, due realtà entrambe
multiformi. La principale caratteristica del lavoro monastico è il controllo di sé, la ricerca
di una pace interiore, il superamento di sé. Proprio come gli atleti che continuamente
cercano di migliorarsi e di superare i propri limiti precedenti mediante un accorto
dispendio e un costante controllo delle proprie energie, così i monaci devono sempre
sforzarsi di trascendere se stessi. Si può raggiungere questo risultato soltanto grazie a una
serie di pratiche tipicamente monastiche, quali la veglia, il digiuno, la consapevolezza
della presenza di Dio e il dominio delle passioni. Naturalmente l’otium non può evitare
che si risveglino cattive passioni di tanto in tanto - a volte molto spesso. In queste
occasioni si deve essere pronti a combattere, a essere feriti e a lavare e medicare le ferite
che continuamente si riaprono. È questo il vero scopo della compunzione e della
disciplina.
La lotta interiore viene maggiormente sentita poiché una delle più acute forme di
sofferenza deriva da quella stessa tranquillità che è tra le principali prerogative della vita
monastica. La noia, il tedio (taedium) sono sempre incombenti. Gli psicologi contemporanei
si sforzano di dimostrare che questi sentimenti hanno in sé un valore potenziale, ma
quando si consacra l’esistenza alla ricerca di Dio e all’attesa dell’unione con lui, il
desiderio di una vita meno affannosa di quella che si è lasciata alle spalle, o delle gioie
celesti che si devono ancora raggiungere, può far nutrire disgusto per la vita stessa - come
alcuni monaci non hanno esitato a confessare: si te praesens vita fastidiosa sit… Un rimedio
contro questa noia è il lavoro, che è componente essenziale della vita monastica e una delle
armi del conflitto ascetico. Il monachesimo non si è mai applicato a un lavoro etico
(Arbeitsethos) fine a se stesso, come valore che permetta ai monaci di «realizzarsi», come
potremmo dire oggi. Tuttavia l’idea della realizzazione di sé è implicita nella Regula di san
Benedetto e in altri testi antichi, che noi possiamo interpretare in questo senso. Secondo la
tradizione, tuttavia, il lavoro è innanzi tutto un mezzo di sussistenza e via di salvezza. La
disputa del XII secolo tra Cluniacensi e Cistercensi, sul valore relativo del lavoro manuale
in opposizione al lavoro di altra natura, è incentrata su questo problema.
Originariamente tutti concordavano che il lavoro manuale, cioè quello eseguito
principalmente con le membra e i muscoli del corpo, è la forma primaria ed elementare
dell’attività monastica. Gli antichi non mancavano di fornire esempi concreti delle diverse
mansioni loro affidate. Cassiodoro, per esempio, descriveva precisi incarichi, quali «la
coltivazione di giardini, il lavoro dei campi e la raccolta dei frutti dell’orto». Più tardi san
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Bernardo avrebbe parlato di monaci «che dissodano il terreno, che abbattono gli alberi, che
portano il letame». Era frequente negli agiografi la descrizione di monache che
costruivano i loro monasteri «mescolando il cemento con le mani verginali». Nel IX secolo
Ildemaro, in uno dei due più antichi commenti della Regula di san Benedetto, affermava
categoricamente che «è impossibile accedere proficuamente all’ufficio della lettura senza
aver prima ottemperato alla norma del lavoro manuale».
Nelle sue Quaestiones, tuttora non pubblicate, composte verso la metà del XIII secolo, il
primo cistercense a conseguire il dottorato alla università di Parigi, Guigo, abate di
Aumône, formulò alcune distinzioni che aiutano a semplificare il nostro problema e danno
ordine all’abbondanza dei fatti storici a noi noti. A suo parere, l’obbligo del lavoro
manuale è più o meno vincolante, e varia secondo la Regola che viene osservata. Una delle
ragioni che motivavano il suo studio era quella di risvegliare l’interesse per il lavoro tra
coloro che interpretavano erroneamente l’otium. Tuttavia, secondo Guigo, non tutti i
monaci sono destinati al lavoro manuale: per alcuni è possibile dedicarsi a un'attività di
livello superiore. La contemplazione viene considerata un’occupazione più elevata, ma
essa non impedisce di impegnarsi in un lavoro più umile per provvedere alla propria
sussistenza o all’utilità comune. L’attività però non si deve limitare al solo lavoro manuale,
perché esiste un altro tipo di lavoro, che è lo studio (studium o più spesso studia). Esso
implica la capacità di leggere e di scrivere ed esige contemporaneamente tempo libero e
lavoro, cosicché può essere indifferentemente chiamato otium o studium scribendi et legendi.
Effettivamente l'attuale motto monastico ora et Iabora, «prega e lavora», basato su un abile
gioco di parole latine, può ingannare. Omettendo il verbo lege, «leggi», trascura un aspetto
dell’attività monastica sempre presente nella tradizione. «Quando sei seduto nella tua cella
– dice Isacco di Sceti – presta attenzione a tre cose: al lavoro manuale, alla meditazione dei
Salmi e alla preghiera». Isidoro di Siviglia aveva già scritto: «Il servo di Dio deve
incessantemente leggere, pregare e lavorare». Nel XIII secolo, sant’Edmondo di Abingdon
sintetizzò la tradizione autentica del motto in alcuni versi che Garcia Cisneros, abate di
Monserrat, avrebbe citato nel XVI secolo in due occasioni. La parte finale del
componimento suggerisce un rimedio contro la noia:
Nunc lege, nunc ora
Sacra vel in arte labora
Sic erit hora brevis
Et labor ipse levis.
Questi versi sono di grande interesse perché introducono la parola arte addirittura «arte
sacra» (ars sacra).
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Torneremo a considerare approfonditamente questi termini, ma per il momento sarà utile
riassumere tutto ciò che è stato detto sul significato di otium. Prima di tutto otium indica
ogni momento riservato alla preghiera, che per ogni cristiano e in particolare per i monaci
costituisce ciò che viene chiamata «vita contemplativa». Essa comprende la salmodia
dell’ufficio divino, la celebrazione del ciclo dei misteri salvifici, la lettura accompagnata
dalla meditazione, la preghiera personale e, soprattutto, la celebrazione dell’Eucarestia.
L’otium presuppone e include anche l’ascesi, la quale ha due principali manifestazioni
esteriori: la pratica delle virtù e il lavoro. Così da una parte l’otium esige la pratica della
virtù allo scopo di vincere il vizio («vita attrattiva», come talvolta è chiamata nel senso
originario dell’espressione) e dall’altra implica il lavoro come forma di ascesi, sia esso
manuale o intellettuale. A rigor di termini, non esiste un lavoro esclusivamente manuale.
Tutte le attività monastiche coinvolgono inevitabilmente, in modi diversi e a differenti
gradi, tutta la persona, corpo e anima, non solo le mani.
Per dimostrare che tutto ciò non costituisce solamente una sintesi teorica, artificialmente
costruita, esaminiamo alcuni tra gli innumerevoli scritti nei quali troviamo questi concetti
esemplificati e incarnati nella vita di singoli uomini.
La Vita di S. David di Menevia, scritta nel X secolo, e la Vita di S. Gregorio, abate di Burtscheid,
composta intorno al 1150, offrono esempi che qui saranno più che sufficienti, anche se nel
riassumerli perderemo molto della ricchezza del vocabolario originario e dell’armonia
delle parole. San David spese il suo tempo in tutte quelle forme di attività normalmente
connesse alla vita monastica: lavoro manuale, coltivazione dei campi, sicura tranquillità,
tempo libero dedicato alla preghiera, controllo dei propri pensieri, veglie, orazione, lettura
e copiatura di manoscritti. La giornata di san Gregorio era molto simile: «Dopo la
salmodia e la messa era solito leggere, scrivere o coltivare i campi... Aveva fama di
eccellente copista e di essere abile in diverse altre arti. Di tanto in tanto usava
interrompere il lavoro per alleggerire la fatica e dedicarsi all’intimo momento della
contemplazione, dell’attesa del Signore».
Queste rapide «istantanee», se cosi si può dire, della vita di due monaci potrebbero
indifferentemente essere state tratte da altre biografie monastiche o servite come modello
per tutte le altre. Esse dimostrano ancor più chiaramente l’esistenza di un programma
comune e costante nella tradizione monastica ed evidenziano come le attività
specificamente monastiche, preghiera e ascesi, non siano state confuse. Oggi talvolta
leggiamo o sentiamo dire che lavorare è pregare, il lavoro è preghiera (laborare est orare),
ma questa non sembra essere la concezione degli antichi: piuttosto che di una loro
concomitanza, essi parlano di un’alternanza. Il monaco passa dalla preghiera al lavoro,
dalla lettura alla scrittura. Tuttavia c’è una reale unità tra queste attività distinte. Tutte
tendono alla pace interiore e occupano il tempo dell’otium.
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L’otium monastico potrebbe essere paragonato a una strada che si snoda lungo una cresta,
tra due precipizi. Da una parte sta l’otiositas, il non lavorare affatto o il compiere un lavoro
insufficiente. Dall’altra c’è il negotium, il cui etimo stesso indica che è la negazione
dell’otium. Siamo dinanzi a un concetto che paradossalmente concilia il lavoro e il riposo,
due realtà che parrebbero sostanzialmente contrastanti. Si spiegano cosi espressioni che
possono sembrare contraddittorie, secondo cui il tempo dedicato allo spirito è laborioso,
attivo e perfino attivissimo (otium laboriosum, negotiosum, negotiosissimum). Il delicato
equilibrio tra il lavoro e il riposo può essere mantenuto solo attraverso l’ascesi e con l’aiuto
di Dio. Dopo averlo raggiunto, nonostante le inevitabili debolezze e gli errori, esso
assicura quella libertà di spirito che è la meta non solo di ogni monaco, ma anche di ogni
esperienza cristiana. Così il concetto di otium o di quies e quello di libertas sono associati,
come avviene nella lingua inglese per leisure e free time. Ed è proprio a causa di questo
legame che le arti praticate nel tempo libero sono chiamate «arti liberali», mediante un
gioco di parole sui due valori semantici di liber. Questo termine può significare figlio,
fanciullo o uomo libero, ma può anche voler dire libro (livre in francese, libro in spagnolo e
in italiano). Nel XII secolo Adamo di Perseigne indica entrambi i significati mentre
consiglia a un abate di fornire ai suoi monaci (cioè ai suoi figli, alla sua progenie spirituale)
un’educazione liberale: erudire liberos tuos; vere liberos tuos si liberales illas artes didicerint.
Questa associazione spiega anche le diverse interpretazioni del concerto di «libro di vita»
che si deve imparare a leggere.
Ma se un libro non viene prima scritto non può essere letto. Ecco allora che la trascrizione
di libri trova posto tra le attività monastiche, sia essa intrapresa come lavoro o durante
l’otium. La trascrizione di manoscritti è inoltre annoverata tra le arti «lavorative» che
promuovono la libertà sia tra coloro che le esercitano sia tra coloro che ne beneficiano,
Torneremo in seguito su questo argomento.
2. Arte come creazione
Dovremmo definire più chiaramente le parole ars e artifex. La prima viene più spesso usata
in riferimento a un’abilità di tipo pratico e come tale deve essere distinta da scientia.
Consente a chi la possiede di avere la capacità di produrre qualcosa, ma questo prodotto
costituirà un'opera d'arte, una creazione artistica, solo se viene eseguito in armonia con le
leggi teoretiche che governano ogni attività umana, meccanica o di qualsiasi altro genere.
Non esiste netta distinzione tra coloro che sono chiamati «artisti» e quelli che noi
chiameremmo «artigiani». Entrambi producono opere, guidati non da istintive doti
naturali, ma da uno spirito razionale. Questo principio può essere applicato a ogni
manufatto, a patto che i procedimenti usati a ogni livello rispettino le «regole d’arte». Ciò
riguarda in particolare quelle attività «liberali» che presuppongono la presenza di
un’apertura spirituale e un’elasticità nell’uso del tempo. Sotto il titolo di arte sono perciò
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comprese attività come la scrittura, la filatura, la tessitura, la pittura, l’architettura e la
composizione e rappresentazione di opere musicali: in poche parole, tutto ciò che tende a
trasformare qualsiasi realtà di ordine materiale in un’opera generata dallo spirito.
La produzione di un'opera d'arte è quindi indubbiamente un'attività creativa, una
continuazione dell’opera creatrice di Dio, il Creatore e l’Artista da cui ogni cosa ha origine.
«Creatore e Artista»; questi due attributi sono riferiti a Dio in Eb 11, 10: cuius conditor et
artifex Deus. In questo versetto Dio viene presentato come creatore e costruttore di quella
Città desiderata da Abramo, nostro padre nella fede ed esempio per tutti coloro che
abbandonano ogni cosa e partono alla ricerca di Dio. Ma Dio è un artista eterno, che crea
perpetuamente il suo capolavoro. Prima che venisse composta la lettera agli Ebrei, il libro
della Sapienza (7, 21) definiva la sapienza di Dio «artefice di ogni cosa», «maestra di tutte
le cose»; diceva inoltre (8, 6): «Se l'intelligenza opera, chi, tra gli esseri, è più artefice di
essa? »; e sempre in questo libro è la Sapienza che guida la nave costruita da una
«saggezza artigiana» (14, 2).
Questi concetti biblici vengono naturalmente ribaditi dai Padri della Chiesa. Artifex Deus è
una definizione ricorrente, attribuita ugualmente al Padre, a Cristo e allo Spirito Santo.
Dio non è solo artifex, opifex, creator e conditor di ogni vita angelica e umana, ma è, in modo
definitivo e assoluto, l’Artista degli artisti, l’Artigiano di tutti gli artigiani, il più grande di
tutti (artifex magnus e summus). Gli scrittori del Medioevo fecero proprio questo concetto e
lo approfondirono ulteriormente. «Poiché lo Spirito Santo è l’artista - dice Ermenrico di
Elwangen - egli può aggiungere tutto ciò che desidera all’opera delle sue mani». Rosvita
loda «la scienza meravigliosa di colui che ha disegnato e ha creato il mondo», l’artista
traboccante di bontà, bonus artifex: nella Vita di Santa lldegarda leggiamo che «anche le
virtù sono una creazione della mano del sommo artista». Un monaco di Saint-Germain di
Auxerre scrive che «ogni cosa che prima dell’inizio dei tempi già esisteva nel progetto del
divino artista è stata creata al di fuori di lui nel tempo, in armonia con l’attitudine artistica
del creatore» e a lui fa eco Eriugena, ricavando un’analogia da ciò che avviene nella mente
di un artista umano: «Considera con gli occhi dell’anima che le molte regole di un’arte
sono un tutt’uno nel pensiero dell’artista e vivono nello spirito di colui che le applica».
In tal modo, che si parli dell’azione di Dio nell’opera della creazione o della partecipazione
dell’uomo alla continuazione di quest’opera, la creazione artistica è distinta da tutto ciò
che è naturale e spontaneo. L’arte esalta la natura. Questo principio si applica a tutto ciò
che richiede uno sforzo e contribuisce al miglioramento sia dell’opera sia del suo creatore.
L’ordine, cioè l’organizzazione degli strumenti e dei metodi, ne è la prerogativa.
All’ingegno umano è richiesto di pensare, prevedere, inventare e decidere sull’uso
appropriato di materiali e strumenti. Ciò che è spontaneo viene dalla natura, ma l’arte
scaturisce dall’uomo grazie alla libertà datagli da Dio, creatore di ogni cosa, di modellare
le risorse della natura in nuove forme. La creazione artistica racchiude sempre l’elemento
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della scelta, della novità, dell’imprevisto e quindi del meraviglioso e del sorprendente.
Come ogni altra caratteristica dell’uomo, soggetto naturalmente al peccato, questa capacità
creativa può essere usata per il bene o per il male, per liberare l’uomo stesso dalle passioni
o per immergerlo ancor di più in esse. Tuttavia, poiché la creazione artistica implica
sempre un certo ordine di mezzi e una composizione dei materiali, l’attività dell’artista
conferisce universalmente alla natura un valore più alto, una bellezza ulteriore. Questo
vale non solo per l’opera, ma anche per l’artista. Dio infonde nell’artista la meravigliosa
capacità di fare della sua vita una opera d’arte, poiché la natura dell’artista si eleva
attraverso l’ascesi e l’incremento dei doni ricevuti da Dio. Ed è proprio la «cultura» che
rende l’artista capace di migliorare la natura; infatti la parola cultura, riferita spesso
all’opera e al nome di santi monaci e talvolta anche al nome di Dio e di Cristo, designa
ogni forma di lavoro e di industria - dall’agricoltura alla conoscenza delle realtà celesti, al
culto delle persone divine.
3. Le leggi della creazione artistica
L’attività che riguarda la produzione di manoscritti dimostra chiaramente il carattere
spirituale e di reale umiltà proprio di tutte le opere culturali. Noi siamo soliti anmmirare la
perfezione della calligrafia e i deliziosi ornamenti dei libri prodotti nei monasteri. Siamo
invece meno abituati a pensare a questa forma d’arte in termini di duro lavoro e di tutto
ciò che comporta l’organizzazione di uno scriptorium, come per esempio la dedizione e la
fatica degli amanuensi. Tuttavia solo in una vita nella quale la preghiera e l’ascesi avessero
conciliato l’ozium col labor, poteva realizzarsi quel tipo di collaborazione che caratterizzava
gli scriptoria medievali monastici.
Una recente e approfondita indagine sugli scriptoria di diverse abbazie ha richiamato
l’attenzione anche verso questi aspetti della trascrizione di testi. A Cluny, in un
manoscritto che fa parte di una storica collezione di opere di amanuensi della seconda
meta dell’XI secolo, Monique-Cécile Garand ha individuato sette, forse addirittura nove
mani di copisti in base ai diversi caratteri grafici. Di questi amanuensi solitamente non si
conosce il nome, ma anche quando lo si trova di essi possiamo sapere poco o nulla. I
copisti non sempre erano monaci di Cluny, ma in ogni caso erano legati a questo
monastero e vi avevano lavorato dopo essere giunti da molte regioni della Francia,
dell’Italia
e
della
Germania.
Essi
erano
attratti
dalla
ricchezza
culturale
e
dall’internazionalità di Cluny, e vi soggiornavano per diverso tempo. Dallo stile dei
disegni
e
dai
particolari
ornamentali
del
manoscritto
possiamo
immaginare
l’atteggiamento interiore del gruppo di monaci che lavoravano nello scriptorium. Si ha
l’impressione che «tutto fosse compiuto come se x… avesse gradualmente imposto il suo
stile su di un direttore dei lavori preoccupato di mantenere una visibile unità» dell’intera
opera. Vi è infatti una reale armonia nel lavoro prodotto da un tale sforzo di unità.
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Ciononostante, è possibile intravvedere le sfumature del gusto individuale dei vari copisti
nei fregi sulle proprie iniziali, quando venivano apposte. Similmente all’interno del
comune piano di lavoro era concessa ai copisti una certa libertà nei particolari riguardanti
la disposizione delle pagine. La libertà concessa agli amanuensi di Cluny è stata notata
anche da François Avril.
Tra i copisti che lavoravano a Malmesbury nella prima metà del XII secolo, Rodney
Thomson ha individuato quarantacinque mani tra coloro che egli chiama «assistenti» dello
storiografo Guglielmo. «Dovette trovare i suoi amanuensi tra quei monaci che erano
disposti a dare una mano, anche solo per un foglio o per una colonna... Si notano frequenti
variazioni d’inchiostro e sembra che gli amanuensi avessero lavorato saltuariamente e
talvolta dopo lunghi periodi di inattività. In tutto ciò si riflettono i diversi tipi di capacità e
di organizzazione». Thomson nota che a poco a poco i copisti, «tra cui alcuni non molto
abili nella calligrafia», migliorano e fanno progressi. Alla fine «nessuna di queste mani
raggiunge la perfezione, ma tutte si sono affinate». Cosi, sebbene la maggior parte dei libri
provenienti da questo composito scriptorium non siano di eccezionale qualità o splendide
opere, tutti contribuivano a promuovere l'otium e la vita culturale della comunità, e questo
era il loro unico scopo. Tra gli amanuensi vi erano alcuni artisti, ma solo alcuni. Tuttavia,
nonostante il numero abbastanza ristretto di veri professionisti, nei gruppi dei copisti che
lavoravano negli scriptoria monastici del XII secolo, la bellezza, l’armonia e la poesia delle
loro decorazioni floreali - più o meno realistiche - concorrono alla sobrietà e al buon gusto
delle iniziali realizzate da mani più esperte.
Tutto ciò riflette indubbiamente un preciso stile di vita. Questi manoscritti, dallo stile così
semplice, non provengono esclusivamente dal mondo cistercense, al quale talora è stato
troppo affrettatamente attribuito il monopolio di questo gusto artistico. Essi appartengono
alla tradizione monastica che più tardi verrà chiamata benedettina. In realtà le stesse
caratteristiche tipicamente monastiche di discrezione e di moderazione emergono da
un’attenta analisi di opere d’arte prodotte in luoghi diversi e in epoche successive nonostante le affermazioni di alcuni eminenti studiosi nelle loro polemiche e nonostante le
congetture sul passato fatte da alcuni storici dei nostri giorni. I manoscritti anglosassoni
del X e XI secolo, per esempio, hanno una notevole somiglianza con alcuni provenienti da
Citeaux, in Burgundia, posteriori ai tempo di santo Stefano Harding. D’altro canto a
Durham; a Reading e altrove – a Cluny a Fleury o a Saint-Martial – troviamo uno stile
particolare per ogni monastero, uno stile «della casa». Solo studi molto accurati come
quelli recentemente compiuti potranno consentire una maggior precisione in questo
campo.
Per ora queste nostre brevi osservazioni ci permettono di distinguere alcune norme che
regolano le arti creative esercitate dai monaci. La collaborazione fraterna è oggi molto
simile a quella del Medioevo o al tempo dei Maurini. La devota e operosa collaborazione
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da parte dei miei confratelli a Clervaux e nel monastero di San Gerolamo a Roma è
identica a quella ormai nota di Cluny e di Malmesbury.
In quest’ultimo caso molto era dovuto alla presenza di Guglielmo, il dinamico storicomonaco, che seppe sostenere diverse imprese e incoraggiare i suoi volenterosi aiutanti a
perseverare nel lavoro. Tuttavia, là come altrove, questa disinteressata fatica da parte di
un piccolo gruppo non sarebbe stata possibile senza l’atmosfera di otium, di ascesi e di
operosità di cui erano indubbiamente impregnate tutte quelle comunità di monaci delle
quali nulla conosciamo. La collaborazione, infatti, presuppone l’anonimato, la carità,
l’umiltà, il lavoro organico, l’obbedienza. Tali erano le esigenze e in tal modo erano
strutturate le norme che regolavano le arti creative del monachesimo medievale.
4. Fantasia realistica
L’esperienza monastica, vissuta concretamente giorno dopo giorno, non poteva non
lasciare la sua impronta sui consueti, comuni e costantemente ricorrenti caratteri estetici
che rendevano piacevole l’otium e al tempo stesso stimolavano i monaci all’ascesi nel pieno
del lavoro e talvolta della fatica fisica.
Quali erano allora le immagini e i temi preferiti dell’arte monastica? La risposta ci può
venire da due fonti: le stesse opere d’arte e gli scritti nei quali i monaci le spiegavano.
Entrambe le fonti mirano chiaramente a un unico scopo, ed è possibile dividere le
immagini presenti in tutta la tradizione in due grandi categorie.
La prima si riferisce al fine di ogni tensione umana, l’utopia che vorremmo vedere
realizzata hic et nunc, che desideriamo e speriamo di ricevere come premio futuro: stiamo
naturalmente parlando del Paradiso. A questo pensiero si ricollegano tutte le descrizioni e
le rappresentazioni del Paradiso, della Gerusalemme celeste, della totale e gloriosa
comunione dei santi e di tutto ciò che viene incluso sotto il nome di vita eterna.
Questa vita futura rimane per noi sconosciuta, ma la Bibbia ci offre alcune immagini della
beatitudine che si trova in essa. Nella Bibbia il Paradiso viene rappresentato in analogia al
tabernacolo dell’arca dell’alleanza e al tempio dove Dio abita e si è rivelato a Ezechiele, a
Isaia e ad altri. C’è anche il simbolo della città che troviamo nell’Apocalisse: Sion, la Città
d'oro, la Gerusalemme del cielo, vera patria di tutti i popoli, il mondo degli angeli, il regno
dove Cristo risorto, circondato dalla sua corte, è ammirato nel suo intero splendor. Tutto
ciò rappresenta solo un sogno fantastico, una forma di evasione dalla realtà? L’inno Urbs
Ierusulem beata dice a chiare lettere che c’è un prezzo da pagare per entrare nella città dei
santi. La Gerusalemme celeste è una città in cui regna la bellezza, costruita dalla Chiesa in
questo mondo attraverso tutte le fatiche cui si sottopone ogni costruttore, spese per la
formazione di pietre vive. Queste pietre, che devono diventare per sempre una parte
dell’edificio santo, sono messe al loro posto dall’Artista Supremo solo dopo essere state
definitivamente tagliate, levigate e ordinate insieme.
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Proprio gli autori più fervidi, talvolta i più prolissi nel trattare il tema del desiderio delle
realtà celesti, sono stati i più espliciti nell’indicare le condizioni grazie alle quali si ottiene
un anticipo del Paradiso già qui sulla terra, Pietro di Celle ce ne dà la più evidente
testimonianza. Egli e altri come lui forniscono la seconda categoria di simboli che si
ritrovano nell’arte monastica medievale. Nel suo De disciplina claustrali, Pietro dimostra
una grande ricchezza di immaginazione creativa; mentre parla di «disciplina angelica», di
«dimora regale» e di «stanza del tesoro», certo non si dimentica del peccato e delle sue
conseguenze o del fatto che la vita monastica è come una guerra di frontiera. «ll monastero
è situato al confine tra la purezza angelica e l’impurità del mondo» - egli afferma. Lì il
monaco trova un certo riposo, ma non è ancora l’eterno riposo sabbatico: è il tempo e il
luogo del lavoro. Una delle più importanti immagini di cui Pietro fa uso in quest’opera è il
paragone del monastero con la croce, porta sempre stretta che conduce alla resurrezione.
Per Pietro di Celle il monastero è un luogo di passaggio. In esso il monaco passa attraverso
le tentazioni, e attraverso una strada buia e faticosa raggiunge il mistero pasquale della
morte e della resurrezione dì Cristo. Lo scopo principale del monastero è quello di essere il
luogo dove piangere i peccati e lavorare per guarire le ferite che essi hanno provocato.
Solo in un ambiente come questo è possibile progredire nella memoria dei beati del cielo,
poiché tra loro e noi c’è lo stadium, costituito dall’ascesi e dalla severa preparazione cui ci
si deve sottoporre per trascendere la natura umana. Dopo lo stadium si accede al «cortile
interno», dove ci si spoglia della carne mortale e si è intimamente purificati. Così Pietro di
Celle simboleggiava la separazione dal mondo, la purificazione e le altre dure pratiche
(laboriora officia) della vita ascetica. Tuttavia, se questo programma viene seguito, la vita
del monastero diventa un rifugio, un luogo di riposo dopo la fatica, un intervallo di pace e
di quiete dopo lo sforzo. È come un movimento ciclico che incessantemente si ripete.
Spesso incontriamo l’immagine della Croce dove, come Gesù, siamo volontariamente tra
due «ladroni», simbolo, secondo Pietro, della vita comune del monastero e delle sue
difficoltà. Compare costantemente la parola «pace», ma a questo punto conosciamo le
rinunce che essa comporta. Il monastero viene paragonato anche al mercato di Tiro, dove
si può accumulare una gran quantità di ricchezze, in questo caso abbondanza di fatiche,
«Forse quando viene così raffigurata - egli dice - la disciplina monastica non è molto
attraente». Le sue pratiche includono necessariamente il silenzio, gli esercizi di ascesi e di
penitenza, la lettura, la confessione dei peccati, la preghiera talvolta faticosa, la
meditazione sulla morte e la comunione nel corpo e nel sangue del Signore, nutrimento di
vita eterna, Tuttavia per Pietro queste diverse immagini, queste osservanze e questi
sacramenti costituiscono un insieme omogeneo: una grande opera, che è imitazione
dell’opera di Cristo e partecipazione a essa. È perciò evidente che il capitolo finale sia
dedicato all’Eucarestia, sacramento che rende presente vita, morte e resurrezione di Cristo.
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Questo è dunque il contesto generale nel quale si può sviluppare la creatività monastica.
Dimenticare un qualche aspetto di questa realtà complessa che chiamiamo otium significa
perdere di vista l’equilibrio degli elementi che garantiscono la sua vitalità. Senza otium e
ascesi non ci può essere libertà interiore; senza la lettura e la preghiera non può esistere il
dinamismo creativo. Ma l’intima unione di tutti questi elementi ha come esito la pace e la
gioia; a cui si aggiunge la bellezza. È necessario infatti che la bellezza esista già nello
spirito e nella mente per potersi concretizzare nelle opere d’arte. La si può scorgere negli
scritti monastici così come nei monumenti. È percepibile nello stile di vita dei monaci
come pure negli edifici monastici. Non sapremmo comprendere il profondo significato
della grande chiesa di Cluny senza considerare l’ufficio della Trasfigurazione o della festa
di san Benedetto, che Ruth Steiner ha illustrato in un suo studio, o senza le illuminate
espressioni e le notazioni neumatiche custodite in questi uffici. Né possiamo apprezzare
interamente la chiesa dell’abbazia di Saint-Pierre di Reims senza conoscerci trattati di
Pietro di Celle, originati dalla stessa spiritualità. Infatti l’esicasmo dei trattati era
patrimonio comune di tutti i monaci: i libri e gli edifici erano opere di ambienti diversi e di
interessi particolari, ma omogenei nelle caratteristiche fondamentali. Da ciò deriva
un’espressione artistica pura, semplice, piena di pace. Non è né tragica né esuberante,
come l’arte fiorita presso altre scuole di spiritualità. Anzi, essa è calma e genera un senso
di tranquillità, perché prodotta da coloro che a prezzo del laboriosum otium lottano per
essere in pace con se stessi.
Tratto da: Umanesimo e cultura monastica, Jaca Book
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