racconti in blu - Libertà Edizioni
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racconti in blu - Libertà Edizioni
Libertà Edizioni Alberico, Altieri, Bianchi, Bocconi, Bomprezzi, Casales, Cevasco, Giacanelli, Lencioni, Mattioli, Scipioni, Torchetti, Zambelli Franz RACCONTI IN BLU Foto originali di Emiliano Cevasco A cura di Anna Alberico Libertà Edizioni A tutti i lettori RACCONTI IN BLU Fabrizia Scipioni L’ANGELO Verissimo che ognuno ha i suoi guai e li vive in modo differente. Chi fa scene ed esagera e chi sdrammatizza o riesce a non sottovalutare pur restando dentro di sé in massima armonia possibile. Da cosa dipenda non lo so, resto comunque sempre stupita davanti agli esagerati, forse perché, essendo che niente tocca se non tocca, a modo mio lo sono anche io. No, non con sceneggiate esterne, ma interne certamente sì. 9 Un macinino, un rododendro, macché, sono un fiore di Giugno, nata il mese che matura il grano, come cantava Guccini nella canzone dei dodici mesi. Eh, bella la canzone dei dodici mesi, e quante volte l’ho cantata di gusto. Ma di dodici mesi ne ho passati davvero tanti e non sono stati proprio così poetici o almeno io non li ho visti così. Ma sì, chi se ne frega, doveva andare così, su le maniche e avanti, perché non ci si attarda al passato, anche se è stato la nostra storia, la nostra formazione. Perché bisogna essere forti, andare avanti, leggere con le chiavi giuste la vita … e bla bla bla. Ma basta! Voglio sedermi su una panchinetta in riva al mare insieme a mio marito e non avere pensieri. Eccoci qui, a fare in modo di non avere pensieri: ma potevamo pensarci prima, prendendo baracca e burattini e andando chessò in India, in Brasile o dove ci portava il destino. Come fa mia figlia Marta. Lavora sei mesi in Italia e poi parte e spende tutto. E chi vivrà vedrà. E noi cinquantenni? Come eravamo felici quando non lo sapevamo, e poi? Poi cosa è successo? Non lo so e non lo sa nessuno. Solo che ognuno ce l’ha fatta a modo suo e siamo ancora quasi tutti qui, devastati sotto certi aspetti e migliorati sotto altri. Personalmente la vita, se pur dura non mi ha contaminato granché, vorrei solo ritrovare un po’ di gioia ed entusiasmo, quelli che a volte vedo trasparire dagli occhi dei nostri politici e delle nostre veline. Le veline le capisco, sono tanto giovani, ma quell’entusiasmo dei politici non lo capisco molto. Ah già, ma io di politica non ci capisco niente e il peggio è che, più vado avanti e più mi pare di non capirci niente nemmeno di vita. Beata ignoranza … rivoglio l’ignoranza. La dotta ignoranza. 10 Il sole brilla ancora, malato, ma c’è, e un’altra estate è arrivata e per Anna scriverò un racconto. Chi è Anna? Chi mi ha invitato a scriverlo ed è stato abbastanza il suo invito per ritrovare la via della gioia e dell’entusiasmo. Forse è tutto molto semplice e io invece complico le cose. Ora pare anche che i guai li attiriamo, è uscito anche sul libro sulla legge dell’attrazione, sono aperta a tutto, ed è proprio questa mia apertura mentale che nella vita mi ha fatta ammirare tantissimo, ma anche fregata. Oh, può pure essere che un po’ folle lo sia diventata con tutte ‘ste tranvate sulla testa. Dicono di me che sono forte, resistente e i complimenti si sprecano. E allora penso di essere troppo umile, di avere scritto tre romanzi piuttosto belli, di essere stata scelta per fare una biografia a Denise, una ragazzina morta a soli diciassette anni in un incidente stradale, di essere stata contattata da una Signora per provare a scrivere un serial. Ma nella mia vita sempre e solo gloria … Avete presente quando da piccolini in colonia ci facevano cantare John Brown? Ecco io mi sono fermata lì. Tanta gloria al partigiano John Brown. Del resto era inevitabile, vengo da una famiglia di alpini da parte di madre e di partigiani da parte di padre. Uno dei miei zii, Spartaco, che ancora è vivente, lo chiamavano Briciola e ne parlava Radio Londra. E così la mia famiglia da parte dell’uno e dell’altro mi ha cresciuta come una piccola storica del popolo, racconti di partigiani, di alpini, di campi di concentramento (non sono mancati nemmeno i deportati in famiglia). E la piccola storica del popolo, meglio sarebbe stato se l’avessero cresciuta per fare la valletta del 11 pomofiore, come mi fu proposto di fare quando avevo vent’anni, ma io no, io ero altera in tutta la fierezza della mia spina dorsale famigliare. Che stronzata! E dissi di no quando mi chiesero di lavorare in una televisione privata, una delle prime, ricordo la … come si chiama … ah sì Paola Ferrari, che faceva i primi passi e prometteva di portare Vasco Rossi a una trasmissione per farsi notare dal dirigente, certo Dottor Romano o Romani, se ricordo bene. Mi presero alla reception e mi chiesero di fare la carina con i calciatori di Voi studio a Voi stadio, no, nulla di eccessivo, ma magari di lasciare aperto quel bottoncino in più … di essere diversa insomma. Uscii in lacrime quella sera, Marta mi aspettava a casa. Mio marito mi disse di non andare più, e così feci. Che stupida, potevo dribblare un po’, potevo adattarmi, in fondo mi avevano solo proposto di adeguarmi un attimo. E io invece guardavo con compassione quella piccoletta e magrissima Paola Ferrari, a quell’arrivismo che non mi piaceva. Se i giovani sapessero e i vecchi potessero, diceva il mio papà. Se ce la fossimo giocata meglio, ora non ci ritroveremmo a saltare le vacanze. Ma Anna, sarà un’estate felice, lo giuro! Anna, Anna, che storia vuoi che ti racconti? Credo di avere finito anche la fantasia. Credo che a 50 anni si rallenti ogni movimento e quello che più mi spiace è dover infilare gli occhiali se devo leggere, che brutto. Ok, dai Anna, cominciamo, come comincio con il c’era una volta … che fa sempre fiaba? Ma sì. Non so cosa andrò a scrivere, non lo so mai. 12 Ma da qualche parte arriveremo di certo. Dai Anna, vieni. C’era una volta un angelo, stanco di girovagare e di aiutare la gente. Incontrò però un giorno una canzone di Domenico Modugno e pensò che fosse stata scritta appositamente per lui, perché a lui era davvero capitato di dire quelle cose a una persona che stava buttandosi giù nel fiume Brenta, certo Camillo, gli sembrava di ricordare. Meraviglioso, ma non ti accorgi che questo mondo è meraviglioso. Le parole e la musica di quella canzone, dedicata sicuramente a lui, lo riappassionarono agli uomini, il solo pensiero di Camillo lo smosse e gli fece venire voglia di andare a trovarlo. Così l’Angelo Nicola si incamminò, un po’ volando e un po’ no, per le strade di Bassano del Grappa in cerca di Camillo. “Le sere d'estate, scendendo lungo la Strada Valsugana, che da Trento giunge a Bassano, si può godere una delle viste più belle della città. Il viale che parte dal Castello Superiore e giunge fino alla Porta delle Grazie è avvolto in una magica atmosfera dorata. Un tempo il viale era protetto a nord dalle mura medievali, malauguratamente abbattute nel 1886, per permettere un più ampio godimento del panorama alle ricche famiglie bassanesi che, con i loro bei palazzi, di questo viale avevano fatto una delle zone più belle della città. 13 Questo lungo viale alberato è oggi Viale dei Martiri, un tempo Contrada delle Grazie, poi viale XX Settembre. Prende l'attuale nome dai 31 partigiani che il 26 settembre 1944 furono impiccati in città, di cui una parte proprio a quegli alberi che ancor oggi si affacciano sulla Valbrenta. Il 9 ottobre 1946 l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri dell'appena costituita Repubblica Italiana, Alcide De Gasperi, conferiva a Bassano la Medaglia d'oro al valor militare. Ogni anno la città rievoca il rastrellamento del Grappa (20-23 settembre 1944) e l'eccidio che vi succedette.” (Bassanonet.it). Niente da fare, Camillo non c’era, eppure qualcuno avrebbe dovuto sapere qualcosa di lui, di certo. Attraversò tutta Bassano ed arrivò nel comune di San Giacomo, vicino a Romano d’Ezzellino, chiese dove si trovava “La corte”, sapeva che Camillo era nato lì e che certamente qualche parente era rimasto ad abitarci. Entrò nella corte, gli sembrò bellissima e magica, con tutti quei gattini piccolini, un cagnetto legato alla catena ma felice di starci, i bambini seduti sui gradini delle scale e le donne che legavano mazzi di frumento. L’angelo Nicola si guardò in giro, ma di Camillo non vedeva traccia alcuna. Decise di andare da una vecchia signora, detta Zia Pincera, e chiese a lei notizie. La vecchina pian piano alzò gli occhi dalle sue mutandone che stava rammendando e, guardandolo, disse che Camillo era diventato molto ricco e che era andato a vivere lontano, si era sposato e aveva avuto cinque bambini che, oramai, erano grandi. E 14 che sua sorella (della zia Pincera), che era la mamma di Camillo, sperava ogni giorno di rivederlo, almeno prima di morire. Camillo era diventato Americano e nella corte non ci era mai più tornato. Bello stronzo, pensò l’angelo Nicola, però subito corresse il pensiero: ogni persona può avere validi motivi per fare e non fare una cosa. L’angelo Nicola rimase ugualmente stupito, come poteva avere scelto, Camillo, di andare via da un posto così magico, incantato, ritirato e rimasto come una volta. La corte vecchia, un’oasi di pace, e sì che il gesto di Camillo, che lui prontamente aveva fermato, dimostrava sensibilità. Bah, strane le persone, pensò l’angelo Nicola. Un angolo così bello l’angelo Nicola non l’aveva mai trovato e decise di rimanere a vivere lì e di tanto in tanto avrebbe rubato qualche spiga di grano, per portarla ai martiri della libertà. Ma un giorno, quando nessuno se lo aspettava più, ecco arrivare Camillo, aveva deciso di trascorrere l’estate lì. 15 Enrico Mattioli CITOFONI 1. È mezzo ottobre. Nel cortile che conduce alle scale condominiali, i ragazzini ci provano gusto a saltar sul tappeto di foglie ingiallite e rametti insecchiti; ancor più giocoso è il loro fuggire all'ira di Orlando, il portiere dello stabile che mal sopporta la celia dei mostriciattoli impertinenti. Alvaro Malacosta torna dal passeggio e trova il portiere furente. - Salve Orlando. Come va? 16 - Ah … male, sig. Alvaro, andiamo male … Fa freddo, eh? Macché … non è il freddo. Questi ragazzini … - Ah … eh, però a me, i miei nipoti, dritti devono marciare, sennò a casa mia non ce li voglio mica … - Ebbè … - Ma sì, diciamolo: bisogna saper comandare e lei, caro Orlando, mi sa che … I due sono destati attraverso il citofono dal richiamo di Matilde Malacosta. Alvaro, Alvaro … vieni al balcone. Il vecchio, chiusi brevemente gli occhi, sospira e s'affanna sotto il portone. Orlando, non solo per deformazione professionale incuriosito, lo affianca. - Che c'è? - urla Alvaro alla moglie. - Devi andare di corsa dal ferramenta! - Ma sono tornato ora! - Devi prendere l'insetticida. - Ancora con l'insetticida?! Poi, rivoltosi dubbioso a Orlando, ma in realtà cercando la sua comprensione, sussurra al portiere: - Ma cosa ci farà con tutto quest'insetticida: lo beve? - No che non lo bevo l'insetticida - continua donna Matilde dal balcone - ma se servisse te lo allungherei nel caffelatte! - Vabbè, vado! Mandami giù i soldi col canestro. - Ora te li mando … e sbrigati! 17 Matilde, attenta a non farla penzolare troppo, sfila lentamente la corda del canestro e manda i soldi giù a basso. 2. Alvaro e il portiere si spostano davanti ai citofoni e rimangono a chiacchierare. - Certo, caro Alvaro, che sua moglie … - sospira Orlando. - Non me ne parli - fa l'altro - per fortuna che io … Dal citofono sentono ancora la voce di Matilde che richiama il marito. Alvaro, Alvaro: vieni un po’ sotto! - Che c'è ancora? - urla lui. Dì al tuo amico che è pagato per lavorare e non per origliare e che se lui fosse più attento di me, la guardiola non sarebbe un porto di mare! Matilde riabbassa la serranda e rientra. I due uomini si guardano sbigottiti. Alvaro chiude il pugno e impreca verso i cielo. Nella quiete dello stabile, la serranda si leva ancora col suo greve rumore. - Che ci fai ancora lì? - urla Matilde. - Niente - si giustifica Alvaro - stavo ribadendo a lui, quello che tu gli hai detto giustamente prima … - E sbrigati! - conclude Matilde. La serranda cala di nuovo, i due restano a spettegolare. - Certo che sua moglie … 18 - Eh già! Maledetti citofoni … se non fosse indaffarata in cucina, penserei che resta sempre attaccata a quell'apparecchio … Poi, come a cambiare discorso, con modo confidenziale lo prende sotto braccio e gli chiede: - A proposito, Orlando, dove tiene lei gli insetticidi: in guardiola? - Sì. Ma non vorrà mica darli a bere a sua moglie? - Ma no … cosa ha capito? - Ah … - sospira il portiere. - No, è che da quando quella ha scovato gli insetti fuochisti in cucina, la notte invece di dormire rimane di ronda. Per me è meglio, mi creda, però se non dorme, di giorno si stranisce. - Non vorrei essere io al posto di quei poveri insetti! - Beh … la capisco. Io la saluto. Ma lei che fa, Orlando, non va a casa? - No. Devo aspettare l'amministratore che deve lasciare un pacco in guardiola. Solo che ancora non si vede, porca zozza! - Embè? E io che ci sto a fare? Mi dia le chiavi della guardiola. L'aspetterò io. Poi domani gliele rendo. - Ma grazie! Grazie sig. Malacosta. - Di nulla, di nulla. Su, vada Orlando, ci penso io. Il portiere s'allontana. Il vecchio muove ad armeggiare verso la guardiola. Traffica, s'impiccia spostando scatole e scatoloni. Giunge l'amministratore con il pacco. - Salve Malacosta. Cosa ci fa qui? - Cosa ci faccio? Orlando aveva un'urgenza e mi ha pregato di aspettarla per il pacco. 19 - Sì, infatti dovevo solo lasciarlo qui. Arrivederci. Salve … 3. Alvaro chiude la guardiola ed esce di soppiatto. Torna furtivo sotto i balconi e passa davanti ai citofoni. È scesa ormai l'oscurità, ma lui sembra non curarsene, anche perché nessuno farebbe caso a un povero diavolo che si aggira con cacciavite e tenaglie. Nel frattempo la bella signora Tabacci esce dall'ascensore col figlio insolente. - Buonasera Alvaro. - Buonasera, porta a spasso il piccolo? - Lo chiami piccolo: questo è indemoniato! Poi si rivolge al figlio: - Osvaldo? Saluta il signor Malacosta! - Ciao - dice il ragazzino. - Ciao - risponde il vecchio. - Dove è andato di bello, Alvaro? Intanto il marmocchio si divincola dalla presa della madre e corre in cortile a saltare su foglie e rametti. - Osvaldo? Non ti sporcare! - urla la madre. - Ah … i bambini! - sospira Alvaro - Io sono tornato dal ferramenta. Abbiamo casa infestata dai fuochisti e ho preso l'insetticida. - Ah … un po’ di pazienza e si risolverà, vedrà … - Speriamo, speriamo … - Ma sì … io la saluto, Alvaro. - Arrivederci, signora. Il vecchio apre, entra nell'abitacolo e sale. Scende al pianerottolo e richiude la porta dell'ascensore. 20 Infila le chiavi nella serratura, ma la porta s'apre di scatto. Donna Matilde è sull'uscio. - Embè? Fammi entrare! - esclama Alvaro. - I soldi! - dice lei tendendo la mano. - Che soldi? - Quelli dell'insetticida. - Credi che me l'abbiano offerto? - Sì. Al bar della guardiola! - Ma … - borbotta lui grattandosi la testa. - Niente ma! Credi di darmela a bere, tu a me? Così Alvaro, rassegnato e sconsolato, estrae le banconote e le porge alla moglie. Se ne va in salotto davanti al televisore. - Sempre col televisore acceso - urla Matilde - perché non vieni a darmi una mano, invece? - Io terrò anche il televisore acceso: ma tu, con questa cucina sempre a tutto volume? - Zitto e mettiti al lavoro! 4. Alvaro sposta faticosamente la vecchia macchina del gas e sparge l'insetticida tra le fessure delle piastrelle. Apre la finestra per far circolare l'aria e allontana la gatta che s'intrufola tra i lavori. S'accorge che la moglie impreca col citofono e ridacchia mentre continua a passare l’insetticida. Nell’altro ambiente la moglie si attacca all’occhiolino della porta sul pianerottolo. - Dove sei? - urla Alvaro: - Vuoi darmi una mano? Matilde torna furtiva in cucina. 21 - - Quelli del quinto piano stanno salendo. Lo sai che ieri notte son tornati alle tre e mezza? - dice la donna. Ma come fai a sapere tutto di tutti? E poi i citofoni sono rotti, vorrei capire come fai che non esci mai e sei sempre chiusa in casa. Per guardare lontano, non c'è bisogno di scalare la montagna. Che? Proverbio cinese. Prover… boh? Un momento! Cosa? Come fai a sapere che i citofoni sono rotti? Come faccio a saperlo? Sì, come fai? E come faccio? È che si sono rotti e ho cercato pure di aggiustarli. Bisogna avvertire l’amministratore. No ferma: cosa fai? L’amministratore non può essere disturbato. E perché? Perché è stanco, poveraccio. E poi per queste cose c’è Orlando. Sì, Orlando … Ferma, ti ho detto. Vuoi posare quel telefono? 22 5. L'indomani Alvaro esce per la spesa come ogni mattina e trova Orlando impegnato col tecnico dei citofoni. - Salve Orlando. Che succede? - Eh … c'è un contatto, ma qualcuno ha pure manomesso i fili: cavolo, sono stati tranciati! - Ah … sì, in effetti anche ieri, quando eravamo qui davanti, si sentiva un rumorio continuo sotto sotto... - Già, deve aver fuso qualcosa - afferma il tecnico -eppure non capisco: erano nuovi! Forse è stato un contatto, un sovraccarico, non so. È come se qualcuno fosse attaccato giorno e notte. Ma non riesco a spiegarmi questi fili tagliati: un guaio doppio! Davvero incredibile, inusuale! Alvaro, un'oretta dopo torna con le buste dal mercato. Prova a suonare il citofono, ma sembra che non funzioni. Così passa per l'atrio, supera il cortile e arriva al portone. Sale sull'ascensore e giunge casa. La moglie gli va incontro. - Hanno aggiustato i citofoni? – gli chiede. - No, credo di no. - - Acc … - Beh … che ti prende? I citofoni si rompono … - Sembra che non succeda più niente in questo palazzo. Nel pomeriggio, Alvaro esce per il passeggio. Passa per la guardiola e trova Orlando ancora col tecnico a riparare la scatola dei citofoni. 23 - Buonasera Alvaro. Il guasto è più grave del previsto. Mi sa che ci vorrà un po’ di tempo. - Quello che ci vuole ci vuole. L'importante è che vadano a posto, ma senza fretta. - Certo … - Ci vediamo dopo. Dopo un'ora Alvaro torna. Orlando, vicino ai citofoni, sta smistando la posta nelle casette. - Salve Orlando. E i citofoni? - Sì, tutto bene. Ce l'abbiamo fatta … - Oh … ecco una buona notizia. Però, si sente ancora quel rumorino … - Sì, in effetti c'è. Non siamo proprio riusciti a eliminarlo. Comunque … c'è questa lettera per lei … pubblicità mi pare … - Ah … le solite scocciature … andiamo a prenderci un punch con questo freddo? - Ma sì, Alvaro. Offro io, però … I due stanno per allontanarsi, quando dal citofono s'alza la voce di Matilde. Alvaro, Alvaro … Questi, seguito dal portiere, raggiunge il cortile. - Che c'è? - urla alla moglie. - Dove credi di andare? - chiede lei. - Mi allontano un attimo, devo fare un lavoretto con Orlando. - Lui ce lo ha già un lavoretto. Ogni scusa è buona per andare al bar! La serranda s'abbassa. I due si guardano. Alvaro sospira. Orlando s'avvia a chiudere la guardiola: - Adesso è tutto chiaro … Poi si volta verso Alvaro: 24 - È finita la pace, sig. Malacosta. Già. Era meglio quando si stava peggio. Ah, maledetti citofoni! 25 Paolo Bocconi L’OROLOGIAIO Quanti anni erano che non passavo di lì? Forse venti, ma a me sembravano cento. Piazza Cittadella aveva forse un bar in più e una merceria in meno, ma aveva ancora quelli che furono i confini della mia “vita sociale” di un tempo: la scuola e l’orologiaio. Fu soprattutto quest’ultimo ad attrarre la mia attenzione. La stessa insegna, la stessa vetrina che vetrina non era, ma soprattutto lo stesso uomo, incredibilmente più vecchio, che lavorava in vetrina per sfruttare la luce che il sole gli dava per poche ore al giorno. Il tavolo sul quale lavorava era ingombro di rotelle, molle e ingranaggi esattamente come lo era venti o cento anni prima quando solo un vetro lo separava dagli occhi sgranati di un bambino che forse aveva otto anni. 26 Quel bambino ero io e non vedevo l’ora di uscire da scuola per andare a spiaccicare il naso su quella vetrina ed ammirare quell’uomo eccezionale che ricostruiva un orologio con mille pezzi tutti uguali. “Cento anni” dopo quel bambino possedeva sei orologi. Io possedevo sei orologi. Ma le funzioni si erano confuse: ero io che controllavo il tempo attraverso loro, oppure loro lo facevano attraverso me? Una sera d’inverno un segnale orario dette un fiero scossone alla mia sicurezza: tutti e sei gli orologi erano indietro di un secondo! La sera precedente ne avevo regolato uno sul segnale orario e gli altri cinque sul primo. Eccola … per forza questa doveva essere la spiegazione! Avevo tardato un secondo nel premere il pulsante “set” del primo. La sera dopo il ritardo era di sei secondi. Dieci giorni dopo il ritardo era di sette minuti. Non capivo e il terreno mi scivolava da sotto i piedi finché, per caso, ripassai di lì. Piazza Cittadella aveva forse un bar in più e una merceria in meno, ma “Lui” era ancora là, dietro il vetro e con il monocolo sempre più vicino alle rotelle dentate. - Buon giorno, si ricorda di me? - Tu sei Paolo, il mio ultimo apprendista. - Ho sei problemi che mi angosciano, eccoli. - Perché, Paolo, li hai portati a me? - Perché non conosco nessuno al mondo che possa risolvermeli. - I tuoi orologi, Paolo, non sono rotti; è il tuo tempo che si è rotto: ha imboccato una discesa e i freni sono rotti … ed io, purtroppo, non ho gli strumenti per ripararli. 27 - E sull’ultima sillaba appoggiò la testa bianca su di un cuscino fatto di rotelle, molle ed ingranaggi. 28 Elettra Bianchi Il BAMBINO CHE PARLAVA CON L’ECO Tanto tempo fa, in un paese lontanissimo, abitavano due sposi che desideravano intensamente avere un bambino e ogni giorno pregavano il Signore che li esaudisse. La loro richiesta fu accettata e la mamma si accorse ben presto che nel suo pancino cominciava a esistere un bambino piccolo piccolo piccolo,uguale a un chicco di riso, ma già con il cuoricino che batteva, le manine con le dita e anche gli occhi e i capelli. La mamma e il papà aspettarono con tanto amore e tanta gioia che il bambino nascesse; avevano scelto 29 di chiamarlo Gigi e quando lo videro per la prima volta piansero contenti perché lo trovarono bello e perfetto. Purtroppo il bambino diventando grandicello presentò un grave difetto: la sua voce produceva una forte eco, come la sirena di una fabbrica, e tutti dovevano comprimersi le orecchie con le mani per non essere assordati da quel terribile sibilo. Inoltre di ogni parola egli ripeteva l’ultima sillaba e diventava impossibile capire che cosa stesse dicendo. I genitori lo fecero visitare da tutti i medici del paese, poi cercarono specialisti famosi anche all’estero, ma tutti scuotevano rattristati la testa e dicevano che non conoscevano la strana malattia del bambino e che bisognava rassegnarsi, mettergli piuttosto un bavaglio alla bocca e insegnargli il linguaggio dei segni. Il povero Gigi lottò per rifiutare il bavaglio e anche i genitori erano infelici di dover ricorrere a quel mezzo, ma non c’era altro da fare, non si potevano assordare tutti gli abitanti del paese. Siccome non poteva neanche andare a scuola a causa del suo difetto, Gigi fu mandato a pascolare le pecore su una montagna nei pressi di casa sua, una montagna alta alta che aveva sempre il cocuzzolo nascosto tra le nuvole e candido di neve. Il povero bambinello cominciò ad affezionarsi alla montagna e ogni volta si spingeva sempre più avanti nel cammino, sempre più su, seguito da tutte le sue pecore. Quale fu la sua meraviglia quando si accorse un giorno di essere giunto sulla punta della montagna! Il panorama era stupendo, si vedeva di là quasi tutto il mondo, con tutte le sue diverse popolazioni e l’aria era bianca come la neve, ma la neve non procurava freddo e un sole color delle nespole pro30 fumava di frutta i dintorni e generava un calorino dolce come il miele. Il cuore del bambino si mise a battere di gioia, quel luogo gli faceva provare sentimenti sconosciuti; non si sentiva più escluso e obbligato a tenere il bavaglio, ma autorizzato a parlare, a gridare, a manifestare i suoi pensieri. Allora gonfiò i polmoni con tutta l’aria che poté e poi, guardando verso le numerose popolazioni alla base della montagna, a tutti gli uomini e le donne che stavano lavorando nei campi o in ufficio, che guidavano ogni genere di autoveicoli o macchine, stavano seduti in treno o sulle navi, pregavano o curavano qualcuno, si mise a gridare con tutta la potenza della sua voce: - Ehi! Ehi! Fratelli miei ascoltatemi, sono qui, ascoltate quello che voglio dirvi, a voi non può far male la mia voce, voi siete gli uomini e le donne del mondo più vasto, io voglio parlare a tutti voi e non solo ai miei pochi paesani, ascoltatemi, vi pregooooooo. Poi si fermò sbalordito pensando di aver osato troppo e di aver ferito qualcuno, come al solito. Con sua grande sorpresa vide che quasi tutti si erano fermati, avevano girato la testa in su e gli facevano ampi gesti con le mani e sorrisi e inchini. Capì che la sua voce era arrivata, non aveva ferito nessuno, anzi c’erano tante persone che volevano ascoltarlo ed essergli amici. Si accorse inoltre che per uno strano intreccio di venti che spiravano dal basso verso l’alto anche lui poteva ascoltare le parole di tutte quelle persone. Così si misero d’accordo e stabilirono che tutti i giorni si sarebbero dati appuntamento per raccontarsi qualcosa, per scambiare idee e anche per studiare, perché no; Gigi aveva sempre avuto molto rimpianto per non aver potuto frequentare la scuola. 31 Si fecero preparativi vari e si allestì una piccola aula sulle pendici della montagna. Un giorno un maestro e alcuni ragazzi gli andarono incontro e lo invitarono ad entrare con loro. Ma il bambino, impaurito, se ne stava zitto. Temeva d’infrangere per sempre il suo sogno di poter parlare. E se anche loro fossero fuggiti spaventati non appena avessero udito da vicino la potenza terribile della sua voce? Eppure i suoi amici insistevano incoraggianti e allora lui, timidamente, disse più sottovoce che poté il suo nome: - Mi chiamo Gigi. - Come ? Ripeti, non abbiamo sentito bene intervenne il maestro. Gigi, sbalordito ma questa volta col tono per lui normale, ripeté il suo nome: nessuno fuggì. Si scoperse così che anche le orecchie degli uomini, come le corde vocali, possono essere fatte in modo diverso e le persone sentono o non sentono secondo come le hanno. Gigi diventò un ragazzo felice insieme ai suoi molti amici della montagna, studiò con passione e i suoi genitori furono assai contenti della nuova vita che lo attendeva. Solo passando qualche volta per le strade del suo villaggio e vedendo qualche persona che ancora lo evitava egli faceva un piccolo piccolo: - Oh!!! E se la rideva di cuore a veder l’altro che scappava a gambe levate. 32 Massimo Lencioni IL CAMPOSANTO DI MAGGIANO Il cimitero si apre con un fischio nella poca campagna. Poca, perché a monte dopo qualche passo il sentiero che s'inerpica per il bosco, dove s'andava a far castagne, incontra l'autostrada che ci fu fatta vent'anni or sono. Si rimane a mezz'aria a vederne la stenta ascesa, sbarrati dal viadotto. Di là, a valle, c'è invece la strada per dove si viene: ed è un merito della piccola ansa di canne e fuscelli se di qua si sta come isolati nel silenzio, mentre a 33 pochi metri sfrecciano le macchine verso Viareggio. Ad ogni modo, qui ci si viene con la sola eco dei propri passi sulla strada sterrata, così predisposti in una specie di intimidimento come ad entrare in chiesa. Qui, raramente disturbi qualcuno. Tanto che sarebbe un ottimo posto per venirci a pensare, o anche solo ad oziare, a baloccarsi tra il ronzio degli insetti. Eppure non manchi di entrarci a passetti, sulle punte, e col cuore sospeso. Ma non è che sia paura, quella cosa che ti capita di pensare in luoghi come questo, no: perché il cimitero di Maggiano bisogna conoscerlo. Sorge su una collina rasa, dove comincia a montare il Quiesa, con un muricciolo basso che sembra un pollaio. La casa di mia nonna è qui vicino e io da sempre lo conosco, ché, di là, lo vedevo dopo qualche campo, dalla spallierina d'edera: là, in pieno sole, appena un po' più alto degli altri prati, come un castelletto senza cime. Era il limite dei funghi, cioè: là sapevo che i prataioli non riprendevano a nascere, allora perché andarci? In verità avevo, sì, un po' di paura, che è normale a quell'età: ma più la sera, quando proprio di lassù, come per incanto, si svegliava una brezza fresca senza origine, perché tutto era buio. Solo ora so che era brezza di mare, che viene da Viareggio, di là dal monte. Ma allora, tanto bastava a un brivido per ricacciarmi in casa. Oppure, uno strano sentimento mi metteva quella acquerugiola che veniva giù di là e scorreva per la Canabbia, il fosso che tra i pollai scendeva verso Maggiano, il paese, e s'avvizziva al ponte del Sartino, quello dove alla guerra ci passavano i soldati. Quella roba era, come dire, succo del castelletto, acqua dei morti: ma non cose tetre, macabre, no; 34 pensavo però fosse proprio quello che era, acqua che passa accanto a loro, a quel muretto e che so, magari le affidano i propri pensieri, qualche cruccio, qualche sospiro. E dicevo, vedi come ci crescono le ortiche nel fosso? Sono loro che se lo proteggono, non ci devo andare. Ma di giorno, no: quel campo era proprio quello che era, un altro campo, se pure più sfortunato, senza funghi e senza fiori veri, di quelli nati sulla terra: perché quanto a fiori, quelli ce li aveva, ma finti, o tagliati e portati a macerare nelle fiale d'ottone o di rame, ritti con un senso di magia. Ecco perché gli stava bene il nome, camposanto. Allora, oggi, quando vengo qui, vengo al camposanto, e non al cimitero che, a dispetto del suo primo significato, suona male e fa stringere i denti. Vengo qui, perché ci ho anch'io i miei morti, qualche Lencioni, qualche Puccetti, e ci verrei a visitarli, così come mi hanno insegnato e a parlarci, se loro mi rispondessero qualcosa: solo che loro se ne stanno ormai assorti, con un fare dispettoso e anche un po' vanitoso, nella migliore foto, e non sono mai come li ho conosciuti: non fanno più errori, non battono ciglio, fan mostra di esser saggi. Poco male, mi dico, io ho fatto il mio dovere. Ahimè, però: perché questo, al camposanto di Maggiano, è vero fino a un certo punto. Qui, stai tranquillo che dopo un po' finisce che non pensi più a niente, vano e distratto come uno che ha fatto tutto e si riposa: altro che il luogo dove riposano i morti, qui ci si viene a oziare da vivi! Quale giornata che sia, basta un sole anche appena velato che qui, tra quattro mura, ci nasce un tepore cordiale, gentile, senza un alito, un'aria di serra e di solario. E diventi, avvolto da questa inaspettata e pagana pace, un botanico senza scienza, cullato dal 35 piccolo calore, stretto nel tuo cappotto a gongolare se è inverno, illuminato nella tua pigrizia da quella luce buona e ferma che mandano i marmi tutt'attorno. Il camposanto ha la sua flora e la sua fauna, muschi sui muri e le brecce, erba buona d'aiuola, malerbe, persino qua e là dei papaveri, al tempo, e poi quei suoi fiori senza radice: e formiche e lucertole, e grilli e passeri e finte colombe di gesso su qualche altarino più vecchio. E a volte c'è qualche storiella, un po' triste e retorica, scritta su qualche pietra-silice, di bambini malati o di sposi sfortunati. Su questa si posa sempre la cavolaia, bianca, grossa farfalla di campagna, ben nutrita, e mi distrae dalla lettura: finché esce di là dal muro, per altri campi. Ma mi accorgo che è tardi, è ora di andare a mangiare, e l'odore ne arriva fin qua. Mi segno, rivado col cuore più aperto, richiudo col fischio il cancello. Addio allora, i miei cari: anche oggi non vi ho ritrovato. 36 Fabio Altieri VOYEUR EXTRA SENSORIALE 1. Morta Lo so bene che voi penserete che sia banale eppure è successo proprio così: veloce, indolore (per quel che ricordo ben inteso) e totalmente inaspettato. Come nella maggior parte delle cose della vita quando meno te lo aspetti zac tutto cambia e per quanto ti sforzi la puntata è sul tavolo e il croupier ha già detto rien ne vas plus. Il tuo destino ruota in piena accelerazione nella roulette e non ti resta che guardare la pallina. - Siamo noi a decidere della nostra vita - dite. Baggianate! Voi giustamente vi chiederete che prova ne abbia. Beh, il fatto che sia stesa a terra in un vestito di seta amaranto ne è la prova lampante! 37 Chiaramente sto divagando, ma cercate di capirmi, cazzo, sono sconvolta. Ok … un bel respiro (si fa per dire) e un passo indietro. Cerchiamo di andare per ordine. Giovedì sera, appuntamento alle nove meno dieci al Barnaba, un piccolo bar del centro. Dio quanto lo odio quel bar! E no, non è come pensate. Non lo odio perché sono stata così idiota da pensare che il barman fosse un uomo diverso dagli altri e ci sia finita a letto. Per inciso lui non era affatto diverso, o meglio diverso lo era (lo stronzo!) dal momento che non disdegnava affatto l’apparato riproduttivo maschile! Ora, sia ben chiaro, io non ho nulla contro i gay. Io adoro i gay. Tutti i miei amici sono gay. Tutti! Se fossi uomo probabilmente sarei gay visto la mia ossessione per le collane vintage, le pettinature anni Trenta e le canzoni tragiche di cuori infranti, ma qui non si sta parlando di essere o meno gay, qui si sta parlando del codice sessuale. Sei etero, ottimo! Sei gay, grande! Sei trans, fantastico! Ma se dici di essere etero e ti comporti da etero e poi vai a letto con un uomo (e no, non era curiosità, lo stronzo si è scopato metà dei miei amici gay e si è fatto scopare dall’altra metà) allora, come riportato nel comma uno del codice sessuale: sei uno stronzo. Punto e basta! Ecco ho perso di nuovo il nocciolo della questione. Scusate sarà stato il colpo in testa. Probabilmente adesso i pensieri non hanno più spazio, sono cavalli selvaggi e mi spingono a parlare a briglia sciolta. Comunque stavo dicendo … esco di casa direzione Barnaba: dieci minuti a piedi. Il mio vestito è una nuvola di seta amaranto! Dio come adoro la seta! Mi scivola leggera sui fianchi. Mi sento accarezzata da piccole cascate d’acqua. Passo, flush, passo, 38 flush, passo, flush. Una sirena a passeggio. E la mia pelle? Che meraviglia! Sono abbronzata alla perfezione. Cammino lievemente annoiata e accompagnata da un familiare rumore di tacchi a spillo color oro. Naturalmente Gucci. Il mio tic tac rimbomba tra le arcate dei portici. Sotto il braccio una borsetta deliziosa di puro oro colato. Il resto di me, vi starete chiedendo a questo punto. Beh quel che resta da immaginare è una lieve scia di lucida labbra (il rossetto è ormai trapassato remoto), capelli castano chiari (naturali sia ben chiaro) e occhi verdi nascosti ai passanti da una montatura Armani. Dovrei forse per inciso ammettere che entrare nel vestito di seta, scelto appositamente per la festa di Lele, mi è costato dieci giorni di cena a base di valeriana. E intendo solo valeriana. La cosa negativa è che andavo a letto ogni giorno con una voragine nello stomaco come il Grand Canyon, quella positiva è che grazie al benefico effetto della valeriana lo vivevo con enorme tranquillità. Ma torniamo a noi. Gucci, Gucci perché mi hai abbandonata? Beh ecco infine il mio messaggio per le future generazioni: mai sottovalutare il pericolo che può nascere dalla congiunzione di un paio di tacchi a spillo e di una grata. Potreste finire come me: una nuvola amaranto stesa sul pavimento di Via Vittorio Emanuele II priva di fiato. Banalmente morta! 2. Voyeur extrasensoriale Galleggio! Questa è la sensazione che descrive più accuratamente il mio stato attuale. Anche se dire 39 sensazione forse è un’esagerazione, dal momento che ho tirato le cuoia. O almeno credevo. E invece eccomi qui. Sono intrappolata in un angolo del soffitto di una camera d’ospedale. Il mio corpo giace tra le lenzuola bianche (di scarsa qualità) in una piccola stanza arredata con delle tende improponibili. Quanto meno hanno avuto la decenza di togliermi il vestito. Non vorrei si rovinasse! Un attimo … ma di cosa mi preoccupo: sono morta, cazzo! O da quel che vedo abbastanza vicina alla morte. Siamo onesti, non ho per nulla una bella cera. Avrei potuto mangiare pizza per gli ultimi dieci giorni della mia vita! Non sarei mai entrata nel vestito, ma vuoi mettere la soddisfazione. Mi chiedo come funziona. Nel senso, cosa sono esattamente in questo momento? Aria? Un fantasma? Oppure una leggera idea di quello che ero un tempo? Da quel che capisco non riesco a muovermi e non sono un fantasma fluttuante di estrema bellezza. Direi più che altro un paio di occhi confinato nell’angolo del soffitto di una camera d’ospedale (almeno è una singola). Forse tra poco vedrò la famosa luce che mi trasporterà nel paradiso. Beh almeno nell’aldilà non girerò come una vecchia, ma nel fulgore della mia giovinezza. Avrei potuto fare un sacco di altre cose in questa vita, ma come si dice, c’est la vie..credo! Certo la questione del digiuno mi rode ancora un bel po’! … buio … Toh mi è venuto a trovare il mio Cici. Il mio vero amore. Stiamo insieme da quasi tre mesi ormai. Guarda come sta bene con quel maglioncino. Deve essere della nuova collezione di David Mayer, non 40 ho dubbi. Lui adora David Mayer. Povero Cici deve essere disperato. Mi tiene la mano … che caro. Di nuovo si apre la porta: un’altra visita. Anche da morta (o quasi) la mia vita è un via vai di amici e persone che mi amano. Se avessi la bocca potrei sospirare in questo momento. Ahhh. Aspetta un momento, ma è Siria. Dio come la odio! Cosa vuole quella piccola biscia di palude? Di sicuro l’hanno costretta i suoi a venire in ospedale. Guarda come le brillano gli occhi ora che ha visto il mio Cici. Troia! - Ehi ciao - dice. Cavolo è più falsa della gramigna, si vede lontano un miglio che non è per nulla dispiaciuta per me. - Ciao Siria - risponde lui mesto. Povero … - Non si sa ancora nulla? - No. È così da molte ore ormai. Il mio amore... - sospira. Ohhh non è dolce il mio Cici? Piange per me (d’altra parte me lo merito sono stata una ragazza fantastica e a letto lo sanno tutti che sono una bomba). - Dai non fare così sono sicura che migliorerà. Ha una testa dura lo sai bene - dice la serpe e si avvicina al mio amore. Ma come osa! Gli sta toccando la mano. E lui se la fa toccare. Ehi dico, siamo in un ospedale, cazzo! Poi lei gli si siede accanto e per un po’ non parla. Fissa la mano che il mio Cici le stringe (e quando ti ricapita bella!). Quindi osa fare l’improponibile. Gli appoggia la testa sul petto e finge di piangere. Che attricetta da quattro soldi. Sembra quasi che sghignazzi. Sei solo un’oca mi senti? Ocaaaaaa! Il mio Cici le alza la testa. Pure le lacrime riesce a fingere la serpe. 41 Potrebbe avere un futuro da attrice, gliene rendo atto. Lei sbatte quegli occhioni da quaglia che si ritrova nella direzione del mio amore. Poi con uno scatto felino gli si avvicina e lo bacia. Che bastarda! Ma ora vedrai il mio Cici ti prende a calci per avere osato profanare la mia memoria! Ora inizia. Stai a guardare … Ma che cazzo fa lo stronzo? La sta baciando? Non ci posso credere! I tre mesi più belli della mia vita buttati nel cesso. Fantastico! Staccatemi la spina adesso, ho visto abbastanza per questa vita! E invece i blasfemi continuano. No, ma fate pure tranquilli sapete, fate come se non ci fossi! … Allora, io non so come funziona qui la cosa, ma questa parte da voyeur extrasensoriale nella quale mi ritrovo non mi piace per nulla. È possibile avere per un attimo solo la bocca e non gli occhi? Ho giusto due cose da dire. Ehi voi due (stronzi!) laggiù mi sentite? Ehi tu Cici ti ricordi di me? Sono la tua ragazza! Quella nel letto accanto! Quella morta, cazzo! … buio … Di nuovo sola. I due farisei sono spariti. Ma sì, che facciano quello che vogliono, si meritano a vicenda (stronzi!). Non appena arrivo in paradiso gli preparo un bel comitato di benvenuto. Ho giusto due cose da dire sul loro conto. Di nuovo la porta si apre. Ecco mia madre. Neanche in ospedale si toglie gli occhiali da sole. Ah, ma la capisco tutto quel bianco potrebbe rovinarle le retine, povera. Figurati … 42 Che gran donna mi ritrovo per madre! È cosi piena di botox che pur piangendo manterrebbe quell’espressione di vacua noia che le hanno scolpito in faccia. Non si avvicina neanche al letto. Mi fissa da lontano. Chissà cosa starà pensando? A volte mi viene il dubbio che io non sia sua figlia. Dubito che mia madre possa essere riuscita a indossare la stessa cosa ogni giorno per nove mesi: me appunto! Si avvicina al letto e mi aggiusta le coperte attenta a non sfiorarmi nemmeno per un momento. Quindi si gira sui suoi tacchi Gucci (lo ammetto la donna ha classe, su questo non ci piove) ed esce. Probabilmente chiederà al commercialista se può scaricare le spese funebri nella dichiarazione dei redditi! Mia madre è fatta così! Non la odio neanche. È semplicemente immune alle emozioni. Gliele avranno estratte da piccola in Svizzera, la sua terra natale. Probabilmente c’è un vaccino a queste cose chiamate emozioni. A volte vorrei averlo anch’io quel vaccino, ma non penso ne avrò più bisogno. … buio … 3. La vera storia … o quasi! All’improvviso mi sento strana. Molto più terrena in un certo senso. La forza gravitazionale comincia a fare di nuovo presa su di me. La sensazione di galleggiamento comincia a diventare meno profonda e da una recondita e forse ormai persa parte di me sento una forza che mi spinge verso il basso. È come se fossi al centro di una strana lotta. Sono una nave sballot43 tata dalla burrasca o un uccello spiumato che non riesce a mantenere la rotta. Sono ancora sospesa in alto, relegata in un angolo del soffitto, ma ho meno equilibrio. Ecco mi sto abbassando di quota. Mi sorge un dubbio: forse non andrò affatto in paradiso, forse sto andando dritta dritta all’inferno! E no cazzo! Il tacco rotto, la messa in piega e il colore dei capelli rovinati (ok, ok lo ammetto non è castano chiaro ma castano scuro), il mio vestito preferito probabilmente strappato e ora anche questo! Non è giusto! Perdo ancora di quota. Cerchiamo di stare calmi. STIAMO CALMI! Mi batterebbe il cuore a mille, se ne avessi uno. Io non voglio andare all’inferno! E va bene uffa i miei capelli sono neri come la pece e se non li stiro appena sveglia, sembra che sia uscita dalla galleria del vento. Ecco sono stata sincera, posso tornare su adesso? Non mi frega neanche di quella zucchina priva di sentimenti di mia madre o di quel coglione del mio ragazzo. No, aspetta, non volevo dire coglione! Giuro! Intendevo come parte anatomica! Mi fermo. Ondeggio incerta a mezz’aria. Forse li ho convinti! Non dovrei pensarlo, ma convinto chi? Maledetti pensieri in libertà! Comunque mi sono fermata, vedo il mio corpo immobile esattamente sotto di me. Che mi sia salvata in corner? All’improvviso però ricomincio a muovermi. Lentamente. Centimetro dopo centimetro. A quanto pare non sono più diretta verso il basso, ma mi sposto lateralmente formando dei cerchi. 44 Comincio a roteare sopra il mio corpo come fossi intrappolata in un ciclone. Giro sempre più veloce. Uooosh … uooooossh … uoooooshh. Mi gira tutto, non ci capisco niente. Se fossi ancora viva mi verrebbe da vomitare. Invece vedo solo tutta la stanza girare come una trottola e sarebbe una figata se non fosse che sto per andare giù all’inferno. Avessi la bocca fumerei l’ultima sigaretta! Giro e mi muovo sempre più in basso. Uoooshh … giù di un po’, uooosh … giù di un po’. Disegno cerchi sempre più piccoli. E poi … poi cado dentro. Dentro di me! Di nuovo! Tesoro, tesoro svegliati - mi chiama una voce familiare. È lontanissima e sento una lieve pressione su qualcosa che potrebbe essere un braccio. - Mmmm - rispondo, ma forse succede solo nella mia testa o nell’aldilà. Che sia già rinata? Dio, fa che il colore dei miei capelli sia castano chiaro e che siano lisci! - Signora forse sarà un po’ confusa al risveglio – aggiunge una seconda voce rassicurante. Apro gli occhi lentamente e vedo tutto appannato. Che sia viva dopotutto? Una persona che riconosco come mia madre copre la mia visuale. È in lacrime. Impossibile! - La lasci riposare - è l’ultima cosa che sento. - 45 Un mese dopo sono in piedi davanti allo specchio. Eccomi. Mi chiamo Amanda, novantanove chili per un metro e sessantacinque. La donna cannone completamente accessoriata. La mia operazione di chirurgia bariatrica per il trattamento dell’obesità è andata bene. Ho già perso tre chili e zero complicazioni post operatorie. - L’anestesia gioca brutti scherzi si sa - mi ha detto il dottore il giorno dopo il mio risveglio. Io in tacchi a spillo che muoio cadendo … alla fin fine era tutto un sogno, ma così reale. Forse sono morta così in un’altra vita. No, se fossi morta così adesso sarei gay. Sarebbe più appropriato. Beh un attimo, non proprio tutto era frutto della lidocaina che mi hanno iniettato per farmi dormire. C’è un segreto che non ho mai confessato, una piccola parte di verità nel sogno che ho fatto. Nel mio armadio, tra vestiti informi ed extra large dai colori improponibili, c’è nascosto un piccolo gioiello: un grazioso vestito di seta rossa la cui taglia non voglio neanche pronunciare. Il tessuto è dolce al tatto, quasi impalpabile e fresco, oooh dovreste sentirlo: è una cascata di acqua viva. È lì che mi aspetta da dieci anni. Non ha mai saputo chi l’avrebbe indossato. Sono il suo appuntamento al buio mai arrivato. Ecco perché mi sono operata. Penso che quel vestito abbia atteso abbastanza! Posso essere (stata) grassa, ma maleducata mai! 46 Franco Bomprezzi L’ORA DI TIMY Ogni giorno si incantava, verso il tramonto, ad osservare dall’alto gli stormi di gabbiani che pigramente seguivano la corrente dell’Hudson, mentre le chiatte trasportavano, lente, merci e rifiuti di New York. Gli uomini erano puntini contro l’orizzonte, gli uccelli si intuivano dalle traiettorie aeree contro il sole, con quei rapidi tuffi verso la superficie del fiume, alla ricerca di pesce, per quanto inquinato fosse. Impossibile sentire i loro versi, i loro richiami striduli nel cielo. Troppo forte, a quell’ora, il frastuono proveniente dalla strada, cento metri più in basso, nel cuore della Grande Mela. Ma per Timy questa era una delle poche distrazioni, in un 47 lavoro di precisione, ventiquattrore su ventiquattro, 365 giorni all’anno. Certo, si sentiva un po’ stanco e frustrato, sempre da solo, in cima a quel vecchio grattacielo con pretese liberty, sopravvissuto agli sventramenti degli ultimi trent’anni. Ma nello stesso tempo si compiaceva della propria precisione cronometrica, della riconosciuta affidabilità. Nel suo campo non temeva rivali. Mancava, semmai, un po’ di poesia. Timy distolse lo sguardo dalla baia di Hudson e tornò a osservare il fiume di gente che sbucava dalle bocche della subway, la metropolitana che inghiottiva ogni giorno milioni di pendolari, ma anche di perdigiorno, di disoccupati, di turisti, donne, giovani, vecchi, accomunati dalla fretta. Una maledetta fretta. Ecco perché appena si materializzavano dal buio della scala mobile e si affacciavano alla superficie, quasi tutti volgevano la testa all’insù e confrontavano l’ora con la sua. Già, perché Timy era un grande, grandissimo orologio, appeso al grattacielo di una banca, funzionante quasi in eterno grazie a una pila atomica. Aveva due enormi lancette metalliche, nere, che segnavano le ore e i minuti, scrupolosamente indicati sul quadrante bianco avorio. I secondi venivano scanditi da una terza lancetta, più sottile e chiara, ma non per questo meno precisa. Due fenditure nel quadrante avrebbero dovuto contenere il mese e il giorno. Ma Timy, che inspiegabilmente viveva una propria esistenza e si percepiva come essere pensante, le utilizzava per guardare, erano le finestre per i suoi occhi invisibili. Un orologio animato e pensante nel cuore della metropoli, un’anomalia forse voluta dal suo inventore, un ingegnere morto da tempo, che si era dedicato a strani esperimenti. 48 Fatto sta che Timy non era un orologio qualsiasi. E se ne compiaceva non poco. Era una enorme soddisfazione notare come gli impiegati della banca, prima di essere inghiottiti dal grattacielo, si rivolgevano a lui per assicurarsi di essere in orario, meglio ancora se in anticipo anche di pochi minuti sull’ora prevista per far scorrere il badge di riconoscimento nella fessura del marcatempo. Erano visi già stanchi, che accennavano comunque a una specie di sorriso, quasi di riconoscenza nei riguardi di Timy, che dall’alto li rasserenava, con le sue lancette precise e imparziali, come se dicesse loro: “Bravi, anche questa volta siete stati puntuali, nessun rimprovero in vista. Buon lavoro, ci vediamo all’uscita”. E infatti uno sguardo, assai diverso, arrivava fin lassù anche al termine delle lunghe ore di ufficio, convulse, scandite anch’esse da altri orologi, quello del reparto, ma anche il display del cellulare, e poi l’orologio da polso, e il timer del computer. Timy lo sapeva bene, il padrone delle vite degli umani era il tempo. Ecco perché il suo lavoro era così prezioso e richiesto. “Il tempo è denaro”: la scritta campeggiava proprio sotto il quadrante, ed era il motto del grattacielo, settanta piani pullulanti di persone indaffarate, dall’alba al tramonto, e spesso anche fino a notte inoltrata. Ecco, dopo le undici di sera poteva cominciare a rilassarsi, erano assai meno gli sguardi che cercavano le sue lancette ovviamente illuminate, e Timy poteva concedersi un po’ di fantasia e qualche ora di sonno, sempre vigile, naturalmente. Nel piccolo piazzale che separava il grattacielo dal flusso del traffico, miracolosamente, come a volte succede a New York, si era salvato un albero e, accanto all’albero, una panchina. Incredibile davvero. 49 Quella sera di luglio Timy notò una bambina, seduta da sola sulla panchina, come in attesa di qualcuno che non arrivava. Era già grandicella, di quell’età nella quale si comincia a essere indipendenti ma non troppo. Guardava alternativamente l’uscita della metropolitana e poi, voltandosi con espressione inquieta, le lancette dell’orologio. Aspettava sicuramente qualcuno, e non nascondeva il disappunto per un incontro mancato. Si alzò dopo un ultimo sguardo implorante all’orologio e si allontanò, sconsolata, sul marciapiede ancora affollatissimo. Scomparve in pochi istanti alla vista di Timy. Ed ecco, due minuti più tardi, sbucare dalla metropolitana un uomo abbastanza giovane, con giacca e cravatta, e una borsa d’affari sotto braccio. Uno sguardo alla panchina vuota e poi su, verso l’orologio. Dalle lancette di Timy la conferma: aveva fatto tardi, un quarto d’ora di troppo. La bambina non c’era più. L’uomo si accasciò esausto sulla panchina, estrasse dalla giacca il telefono cellulare e chiamò. Timy non poteva ascoltare la conversazione, ma ormai era chiaro: il tempo aveva tradito un padre e una figlia. Che peccato. Ma ecco, il giorno dopo, ripetersi la scena. O meglio, Timy era stato molto attento, non si era lasciato distrarre troppo dai gabbiani e dal tramonto. Erano ormai le 7.30 di sera, ed ecco la bambina arrivare puntuale, accompagnata da un’anziana signora, che la baciò sulla guancia prima di salutarla e di darle le ultime raccomandazioni. La piccola sorrise incerta. Poi cominciò a fissare l’uscita della metropolitana. Timy ebbe un sussulto: forse poteva fare qualcosa. Per la prima volta nella sua vita cronometrica ignorò le regole per le quali era stato inventato e frenò le lancette dell’orologio, in modo tale che i 50 minuti scorressero molto lentamente. La bambina ogni tanto guardava in alto, e si rasserenava: non era poi così tardi, che strano. Era trascorso in effetti un quarto d'ora, ma le lancette di Timy segnavano solo cinque minuti: il tempo, che diamine, si poteva rallentare, naturalmente a fin di bene. E infatti ecco apparire, trafelato e stanco, l’uomo della sera prima, convinto di essere in un ritardo incolmabile: la bambina, ancora sulla panchina, si alzò di scatto, gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Allora lui guardò in alto incredulo, ma le lancette di Timy confermavano: era arrivato in orario. Padre e figlia si allontanarono abbracciati, parlando fitto fitto, e ridendo. Timy per la prima volta si sentì felice. E da quel giorno, ogni tanto, giocò a dilatare il tempo, a rallentarlo un po’. Qualcuno cominciò ad accorgersi di questa stranezza, ma ciò accrebbe la popolarità di Timy, e ogni sera una piccola folla di ritardatari si radunava nella piazzetta indicando con il dito teso verso l’alto questo strano orologio, non più affidabile, ma molto divertente, quasi umano. Timy, riconoscente, salutava tutti con un batter di secondi. Il tempo, in fin dei conti, non mancava mai. 51 Salvatore Torchetti IL FOLLETTO FLIT (Può un piccolo folletto sognare un giorno di diventare un bambino vero?) Tanti e tanti anni or sono, un grazioso folletto di nome Flit viveva in una piccola casa nascosta tra le verdi fronde di una grande quercia secolare. La grande quercia apparteneva ad un’anziana coppia di contadini inglesi: la famiglia Legan. Flit non era più alto di un gheriglio di noce; aveva capelli lunghi e verdi come smeraldi, gli occhi color zaffiro e la carnagione rosea come la pelle di un bimbo. 52 Il folletto vestiva abiti molto sgargianti, erano preparati con cura da mamma Yolanda, una canuta farfalla grande esperta di cucito. Yolanda si prese cura di Flit dal giorno in cui lo trovò abbandonato ai piedi della grande quercia dei Legan. Flit, infatti, venne abbandonato dai propri genitori appena nato … Yolanda, quel mattino, era intenta a succhiare il nettare dei fiori, quando venne incuriosita da un buffo essere seminascosto nell’erba. - E questo cos’ è? – si domandò la farfalla afferrando il neonato per osservarlo meglio. Ella, infatti, non aveva mai visto un folletto prima di allora. Fu proprio in quell’istante che uscì la mamma di Flit allo scoperto e sembrò essere seriamente preoccupata. - La prego signora farfalla di aiutarmi perché sono nei guai! – esclamò la donna folletto tutta agitata. - E tu chi sei? - Io mi chiamo Rona e sono la regina dei folletti della terra dell’Ovest; sono la mamma di Flit, colui che tieni nella mano. - Regina della terra di cosa? - Ora non ho tempo per discutere, devo scappare via. Avrei disperato bisogno del tuo aiuto! - Dimmi, cosa posso fare per te? - Vorrei che ti prendessi cura del mio figliolo finché non farò ritorno a riprenderlo. - Sarei ben disposta ad aiutarla, ma non saprei proprio da dove cominciare! - Troverai tutto in questa lettera. Allora puoi aiutarmi? - chiese nuovamente la regina. - Va bene. Cercherò di fare del mio meglio. 53 - Grazie infinite. Detto questo, la regina dei folletti si allontanò velocemente dal giardino, balzando da un fiore all’altro, fino a svanire nella fitta vegetazione. Yolanda, a quel punto, sfilò la lettera di Rona e fu sorpresa di leggerne il contenuto … La farfalla apprese così le motivazioni che spinsero Rona ad abbandonare il piccolo Flit, ma conobbe anche le indicazioni per prendersi cura di lui. Forse non tutti sanno che esistono tanti tipi di folletti e prendono il nome dalle piante dove abitano; infatti vi sono i folletti dei fiori, dell’erba, dei frutti e degli alberi. Il piccolo Flit faceva parte di quest’ultima categoria, infatti era un folletto delle querce. Yolanda lesse molto attentamente le indicazioni contenute nella lettera e fu stupita di venire a conoscenza di tante e preziose informazioni circa le abitudini dei folletti. I folletti delle querce infatti, quando sono molto piccoli come Flit, si nutrono della linfa contenuta nelle foglie più tenere dei maestosi alberi. Divenuti grandi mangiano anche le ghiande mature e ne sono molto ghiotti! I folletti, durante il periodo invernale, vivono all’interno di piccole cavità nel tronco degli alberi. All’arrivo festoso della primavera i folletti formano delle capanne di foglie e fiori profumati ben nascoste tra le verdeggianti fronde. I folletti delle querce sono maestri nel suonare il “tagi”. Il tagi è simile ad un’armonica ricavata dal gambo di una foglia di mughetto sapientemente lavorata. È proprio durante le notti estive che i folletti delle querce amano sdraiarsi sulle foglie e suonare il tagi al chiarore della luna. 54 Capita non di rado anche all’uomo di ascoltarne il dolce suono, ma spesso viene da lui erroneamente interpretato per il trillo dei grilli. Ogni quercia ha il suo re e la sua regina e a loro spetta il duro compito di garantire l’armonia all’intera popolazione … Yolanda, terminata la lettura della lettera, si mise subito al lavoro per costruire una capanna adatta a lei ed al piccolo Flit; lo sfamò con la nutriente linfa delle foglie più tenere della grande quercia. - Chi l’avrebbe mai detto che sarei diventata nutrice di questo folletto! - pensò Yolanda sorpresa … Trascorsero diversi anni da quel giorno avventuroso; si alternarono così i freddi inverni inglesi e le frizzanti estati. Flit divenne forte e sano e Yolanda diventò grande conoscitrice del popolo dei folletti delle querce. Yolanda, dal giorno in cui si prese cura di Flit, venne accolta con immensa gioia dal numeroso popolo che abitava la grande quercia dei Legan. Flit era un folletto curioso ed intelligente e proprio grazie a queste sue caratteristiche, ebbe modo di spiare di nascosto l’anziana coppia dei Legan. I Legan vivevano in una casa modesta non molto distante dalla quercia. Un bel giorno il folletto chiese allo scoiattolo Jessy di accompagnarlo nella casa dei Legan e fu accontentato. - Perché vuoi proprio andare dai Legan? Non credi possa essere pericoloso per te? - Vorrei solo capire qualcosa in più sul mondo degli umani di cui mi hai tanto parlato. Sono solo curioso… 55 - Fai molta attenzione, i Legan hanno una gatta di nome Margaret sempre a caccia di qualcosa … - Non ti preoccupare, so badare a me stesso. Anche se non ho le ali come i folletti dei fiori, posso fare grandi salti per superare gli ostacoli! - Va bene mi hai convinto. Forza sali sul dorso e tieniti forte perché ti porto ad esplorare un nuovo mondo! - Evviva! Flit salì sul dorso di Jessy. - Si vola! - esclamò il folletto entusiasta. Flit, a bordo del grazioso scoiattolo, atterrò proprio davanti alla finestra della cucina dei Legan. - Jessy … Sei tornato finalmente! - disse la donna - Credevo ti fossi dimenticato di una povera vecchia come me. Ora ti prendo le noccioline che ti piacciono tanto. La donna raccolse i frutti da un’ampolla posta sull’antica credenza, aprì la finestra e li donò allo scoiattolo che saltò dalla gioia. Flit approfittò della situazione per entrare a curiosare in casa. Il folletto trascorse l’intero pomeriggio ad osservare sia la coppia di anziani, sia la casa colma di strani oggetti. La gatta Margaret si accorse subito dell’invasiva presenza del folletto e lo seguì nervosamente attendendo il momento giusto per sferrargli l’attacco. Flit fece molta attenzione a non cadere in trappola … I Legan, come ogni pomeriggio, sedevano accanto al camino scoppiettante gustandosi una tazza di the. Pensavano a come sarebbe stato bello poter ricevere l’affetto di un figlio… 56 - Cara Louise, ormai non dovremmo più pensare a queste cose; niente e nessuno potrà donarci questa grande gioia. Siamo vecchi disse John con un’espressione malinconica dipinta sul volto. - Amore mio, a me basta solo poter immaginare di avere un figlio per continuare a vivere serenamente. Non togliermi questa medicina per l’anima. - Scusami cara, hai ragione. Il fatto è che a volte soffro così tanto per questa situazione che se non ne parlo mi pare di stare meglio ed invece mi sbaglio. - Senti caro, chiediamo a Dio ancora una volta di donarci un figlio come ha fatto per Abramo e Sara. Soltanto Lui potrà esaudire la nostra preghiera. - Va bene cara chiediamolo ancora una volta. L’anziana coppia, tenendosi per mano pregò intensamente il Signore supplicandoLo di esaudire la loro richiesta. Flit osservò le lacrime scivolare dagli occhi dei due anziani e si rattristò grandemente per loro. Mentre li osservava pregare a Flit venne in mente una formidabile idea. Il folletto uscì dalla finestra della cucina, chiamò Jessy e si fece riaccompagnare a casa. - Come ti sono sembrati gli umani? - chiese lo scoiattolo durante il viaggio di ritorno. - Gli umani sono come i folletti perché hanno un buon cuore, ma sono più alti e grossi. - Hai avuto paura? - All’inizio un po’, ma poi mi sono fatto coraggio. Il piccolo Flit rincasò un po’ stanco, ma con un pensiero che lo animava nel cuore. 57 - C’è qualcosa che ti turba piccolo mio? chiese mamma Yolanda. - Sì mamma! - Parla figliolo, lo sai che di me puoi fidarti. Flit spiegò a mamma Yolanda la sua avventura in casa Legan e poi chiese: - Avrei una cosa da domandarti. Vorrei diventare un bambino per poter regalare a Louise e John la gioia di poter essere genitori. - Vuoi diventare un bambino? Cosa stai dicendo figliolo, lo sai che un folletto non può mutare il suo aspetto in un bambino! - Lo so … Eppure ci deve essere un modo per aiutare quella coppia di anziani. Vorrei solo vederli felici, tutto qui! - Sei veramente sicuro di voler diventare un bambino vero? - Si mammina. I Legan sono brave persone, hanno sofferto molto nella vita, sono soli ed affaticati. Chi si prenderà cura di loro negli anni venturi? Non posso essere indifferente al problema, mi capisci? - Certo caro. Sei sempre stato un folletto di animo nobile. C’è un solo modo per sapere se puoi diventare un bambino vero. - E quale? - Potresti recarti dal re dei folletti a chiedergli di consultare il grande libro della conoscenza. Nel libro ci sarà scritto qualcosa di utile per risolvere il tuo problema. - Ci vado subito! Flit si sistemò velocemente le vesti, si pettinò i capelli e con qualche balzo giunse nella grande dimora della famiglia reale. Lì fu accolto con garbo e cortesia. 58 - Che cosa posso fare per te piccolo Flit? chiese il re con voce tonante. - Avrei bisogno di chiederle di consultare il grande libro della conoscenza per me. - Qual’è la tua richiesta? - Vorrei sapere se un folletto come me può diventare un bambino. Il re rise di gusto nell’udire quella richiesta poi si fece più serio ed esclamò: - Ho quasi duemila anni e non mi è mai capitato di udire una cosa più assurda di questa! Vorresti diventare un bambino? - Sì mio re, desidero che la famiglia Legan sia felice. - Che cosa vai dicendo? Non ti capisco! Flit cominciò a raccontare tutto quello che aveva appreso della famiglia Legan e del loro grande desiderio di diventare genitori. - Va bene; date le premesse consulterò il grande libro della conoscenza. - Grazie. È davvero gentile mio re! Il re prese del tempo per consultare il grande il libro … - Mi dispiace figliolo, ma il libro non dice nulla circa la tua richiesta. Probabilmente nessuno mai prima di te ha formulato il desiderio di diventare un bambino. - Non può proprio fare nulla per aiutarmi? domandò Flit sconsolato. - Temo di no, ma nel grande libro v’è scritto un proverbio che forse potrà consolarti. - Sono tutto orecchi! - Vi sono tre cose al mondo che possono rendere veramente felice un folletto: la fede, la speranza e l’amore, ma la più grande di tutte è l’amore. 59 Flit ringraziò il re per la sua disponibilità e tornò a casa piangente. Il popolo dei folletti, infatti, lo derideva per la sua folle richiesta. Il folletto raccontò tutto a mamma Yolanda la quale lo strinse forte a sé per incoraggiarlo. - Non c’è nulla di impossibile se credi! - disse la mamma. - Ti voglio bene mammina, sei l’unica a credere in me… Arrivò ben presto la notte. Flit, prima di addormentarsi, decise di rivolgere una supplica a quel Dio che aveva sentito nominare dai Legan. Era la prima volta che pregava e non sapeva bene cosa dire... Gli aprì semplicemente il suo cuore … Quando terminò la preghiera successe una cosa molto strana; il folletto udì come una voce sommessa, gentile e dolce provenire dal suo cuore. La voce diceva: “Domani notte recati in casa dei Legan e dormi nel loro letto. Non aver timore per la gatta perché non ti vedrà.” - Che sta succedendo, chi ha parlato? - chiese Flit preoccupato. Era la prima volta che udiva la voce di Dio. Flit corse a raccontare il tutto a mamma Yolanda, la quale intuì che il figliolo aveva appena udito la voce di Dio. - Cosa vuoi fare figliolo? - chiese la farfalla. - Io desidero seguire il consiglio di quella voce. - Sono d’accordo, ma ti chiedo di portarmi con te perché non voglio rimanere sola. - D’accordo mammina. Flit tornò in camera sua. Quando si svegliò era già mattino ed una donna folletto lo guardava dolcemente al capezzale. 60 Flit si alzò di scatto e domandò: - Chi è lei signora? - Flit piccolo mio … Scusami tanto se ti ho abbandonato, non avercela con me. Sono la tua mamma! Il folletto guardò la madre per diversi istanti che gli parvero infiniti e l’abbracciò forte. Flit pianse molto perché non sperava più di rivederla. La mamma gli raccontò le motivazioni dell’abbandono. Era stata promessa al principe del suo regno dal padre tiranno. Suo padre, infatti, desiderava che lei diventasse regina solo per godere di popolarità e ricchezza. Al padre non importava affatto se la figlia non amava il principe. Lei era già segretamente incinta di un altro … Purtroppo dovette sposarsi col principe sotto le pesanti minacce del padre. Quando giunse il tempo di partorire lei scappò di nascosto dal regno dell’Ovest col suo innamorato e si diresse nella grande quercia dei Legan. Rona partorì un bel maschietto che chiamò Flit il cui significato è “goccia di rugiada sorridente baciata dal sole.” La donna folletto in seguito scrisse una lettera e lasciò il piccino ai piedi della grande quercia che Yolanda trovò prontamente. Rona non fece più ritorno al suo regno; fuggì col suo innamorato in terre lontane. I due furono ricercati dall’esercito reale per diversi anni, poi il principe si risposò. Il padre di Rona fu cacciato dal regno e nessuno seppe mai che fine avesse fatto … Flit ascoltò la storia della madre attentamente e fu molto turbato in cuor suo perché capì improvvisamente di trovarsi di fronte ad un bivio. Da una parte c’era il sogno di poter diventare bambino e dall’altra la possibilità di vivere la propria vita con la famiglia natale. 61 Flit si la sua futuro - fece coraggio, raccontò alla madre tutta storia e pure la decisione presa sul suo … Cosa hai intenzione di fare figlio mio? Vuoi veramente diventare un bambino per aiutare una coppia di umani di cui non conosci nulla? - Non lo so. Sono un po’ confuso … - Non pensi al dolore che potresti recare alla tua mamma se diventi un bambino? Flit meditò qualche istante poi disse: - Hai avuto altri figli oltre me in tutti questi anni? - Sì, ho altri tre figli che ti stanno aspettando qui fuori con tuo padre. - È come pensavo … Hai avuto il privilegio di vivere la gioia della maternità, ma questa coppia di anziani non ha avuto la tua stessa benedizione. Capisci quello che intendo dirti, non è vero? - Sì, ho compreso. Sei un folletto di buon cuore, figlio mio. Hai un animo nobile. - Grazie mamma. Sono contento di sentirtelo dire. Ho compreso una cosa importante in questo tempo: non è la ricchezza, la posizione sociale o un titolo onorifico che ti rende nobile, ma è l’amore offerto al prossimo tuo che ti trasforma giorno dopo giorno in figlio di re. - Le tue parole mi lasciano stupefatta. Hai ragione piccolo mio. Sono orgogliosa di te! - Ora fai venire qui il resto della famiglia perché vorrei salutarli. Rona fece entrare la sua famiglia nella camera del figlio. Flit raccontò loro la storia della sua vita … 62 Le ore trascorsero liete e Flit giocò per la prima volta con i suoi fratelli. Conobbe anche il padre che lo amava tanto. Giunse ben presto la sera ed il folletto dovette salutare la sua famiglia per recarsi a casa dei Legan. - Se lo vorrete, potrete rimanere a vivere in questa casa per venirmi a trovare ogni qual volta lo gradirete! - disse il folletto. - Ottima idea figliolo! - esclamò il padre con gli occhi velati di lacrime. Flit baciò e salutò la famiglia. Ormai la notte avvolgeva tutta la campagna. Flit entrò nella camera da letto dei Legan attraverso la finestra socchiusa. Mamma Yolanda era con lui. Il folletto si stese sul cuscino proprio in mezzo ai due anziani e si addormentò beatamente. Il mattino seguente Flit fu svegliato dalle grida di stupore di Louise. Persino John non riusciva a credere ai suoi occhi … Videro un bambino in carne ed ossa disteso sul loro letto! I coniugi ringraziarono Dio per averli esauditi e strinsero forte al cuore quel bimbo dallo sguardo birichino … Mamma Yolanda svolazzava allegra per la camera da letto, mentre la “vecchia” famiglia di Flit festeggiava sul davanzale della finestra. Flit si ammirò allo specchio nel suo nuovo aspetto e si piacque molto nonostante i suoi goffi movimenti. Il popolo dei folletti della grande quercia si stupì del miracolo avvenuto a Flit e si rattristò non poco per aver dubitato del grande potere della fede … Dio moltiplicò i giorni da vivere dei Legan e come ogni favola che si rispetti tutti vissero felici e contenti. 63 Emiliano Cevasco L’ALBEROEDIO otto la prima notte nella nuova casa andò bene. non c'erano rumori. lessi il mio libro per un paio d'ore poi, steso sul divano, mi addormentai, come sanno fare i bambini. l'indomani il sole risplendeva riflesso nelle pozzanghere lasciate la sera prima dal solito temporale di passaggio. camminai a lungo nel giardino. ero stato nel deserto, a volte, ma tanto silenzio mai mi aveva colpito. di fronte a me, un albero. 64 le sue foglie erano strambe: da un lato, verdissime, rimanevano verdi al contatto col sole; l'altra parte, lucida, risplendeva acida quando i raggi di luce la sfioravano. rimasi per un po' seduto ad ammirarlo. presi la pipa, ne odorai l'aroma, dopodiché la accesi, gustandomi l'estasi di solo essere senza per forza fare. tornai a dormire. ero lì per riposarmi. prima che Tutto iniziasse, dovevo ristorarmi dopo tanta vita grama. sette le persone che mi conoscono fanno strane domande. dicono male di me, in giro. ma poi con me sembrano appoggiare le mie istanze, le mie opinioni. non vedo mia moglie da molti anni. ho cresciuto da solo una figlia. senza domandarmi perché. sapevo di doverlo fare. e così, triste a volte, sempre l'ho fatto. 65 ora mia figlia fa la motivatrice. fa qualcosa che si chiama coaching. ha a che fare con la psicologia. mi diverte sapere che tutta la sua vita è impostata sulla motivazione. a me è sempre mancata e, tuttora, è latitante. la mia motivazione è ogni giorno differente: come una bella dama, veste ogni dì un vestito diverso. la mia motivazione oggi è un albero. riuscite a vederlo, l'albero? adesso riunisce i rami in volteggi acuti; il sole gli bacia le foglie, rendendolo eclettico. mia figlia non sa dove mi trovi. per certi aspetti, nemmeno io lo so. sono in un altro posto. però sono forse al mio posto. come l'albero. sei da quando sono nelle nuova casa, mi sveglio alle 5.45. badate, non metto la sveglia. 66 semplicemente, spesso sconvolto da immagini oniriche convulse apro gli occhi. guardo il quadrante digitale della sveglia e vedo due cinque separati da un quattro al centro, insolente. non credo voglia dire qualcosa. qui non ho mai appetito, o bisogni particolari. nemmeno il sesso mi rapisce con turbamenti o visualizzazioni. nella mia vita sono stato sovente schiavo di bisogni che credevo desideri: donne, droghe, relazioni e paure. quando apro gli occhi, constato le 5.45 e mi lavo la faccia. nonostante dissimuli con me stesso la tensione, sento dentro la fretta di uscire dalla porta della veranda e contemplare l'albero. quello che mi scompensa è il tipo di sensazione. l'ho provata in passato già diverse volte: è la brama di ritrovare una persona, un amore, un amico, un progetto. un'idea, a volte. mi colpisce la staticità di quel legno vivo distante da me. 67 appena faccio capolino in giardino, le sue foglie sui rami sono immobili. dopo poco, accennano a muoversi, sfacciate. mi domando: le muove la mia mente? cinque la colazione diventa un turbamento. per me è sempre stato il pasto più importante. ma qui, mai ho fame. in casa nulla manca: chi l'abitava prima aveva organizzato tutto alla perfezione. l'arredamento è sobrio ed elegante. ci sono padelle, colini, mestoli e arnesi indispensabili per una buona cucina. il frigo mi ha accolto con generosità e opulenza: uova, carne e pesce, salumi, verdure e frutta. diverse birre. in uno scaffale piuttosto in alto, molte bottiglie di vino, alcune dozzinali. nel bagno ho trovato alcune riviste pornografiche. come un ragazzino, ho finto di non vederle. dalle copertine, un'esplosione di cazzi culi peli bocche, irriverenti. 68 stamane ho cucinato tre uova con del prosciutto. l'odore mi ha incantato ma, come al solito, non ho ingoiato nulla. ho osservato il piatto come un'opera d'arte da contemplare. poi ho buttato via tutto. perché non ho mai fame? l'appetito è sempre stato elemento di grande importanza in me. a tutti i livelli: bisogni desideri idee ... ho sempre avuto l'impressione di me come un secchio che poteva mai riempirsi davvero fino in cima. insaziabile. non mi è mai bastata una donna sola, una portata sola, un'avventura sola, un'occupazione sola. sempre molto. da consumarsi, freneticamente. oggi guardo piatti pieni e riviste chiuse. è finita la mia era pornografica? è mezzogiorno. il sole è preciso sulla mia testa. sento il caldo avvamparmi le guance e il collo. 69 avverto la mia fisicità di cinquantenne solo. ne ho repulsione. è tardi per non avere fame, o sete. sono quattro giorni che non mi alimento. di cosa ho bisogno se, almeno, respiro? quattro ho provato a tagliarmi con un coltellaccio da cucina. con la punta del coltello ho bucato il dito indice della mano destra. è uscito un po' di sangue. ma non ho avvertito dolore. ho leccato il dito e non aveva sapore. le nuvole passavano leggere e veloci mentre constatavo la mia assenza di dolore. mi stupii nel sentirmi affranto nel considerare questa condizione come negativa. nel mondo, nella storia, nelle religioni, il dolore ha sempre avuto un ruolo centrale nella sua ineluttabilità. 70 io ne ero finalmente libero. mi sarei affettato come un prosciutto. mi ha frenato una sorta di senso del pudore. la mia carne viva avrebbe potuto, morta, lasciarmi scompensato. uscii in giardino, con la mano sanguinante; l'albero, vivace, scuoteva le sue foglie. ancora, non avevo fame. tre nel bosco non volano uccelli, non albergano animali. nei passi palesemente visibili nel contesto non vedo tracce, orme o altro. credo di essere l'ultimo abitante sulla Terra. oggi ho provato a cuocere una bistecca di vitello insieme a ravanelli e insalata, da sempre il mio piatto preferito. ho contemplato il piatto e non ho mangiato. mi sono pesato: sono ancora 87 chili. eppure sono sei giorni che non mi alimento con nulla. anche l'acqua non mi attira e neppure il vino. 71 cosa succede? due all'improvviso, non c'è più giorno. ho controllato: sono le 5.45 e il sole non riesce a sorgere. più volte mi sono pizzicato il braccio in ragione di un risveglio improvviso, ma non c'è stata possibilità. la notte ha lasciato il suo manto nero e pesante sopra le mie spalle. in giardino non sento rumori. non vedo l'albero. il frigo è vuoto, d'improvviso. le luci non si accendono più. mi domando se il freddo che avverto sia di matrice interna o esterna. con chi sto facendo i conti, adesso? la porta di ingresso, sempre chiusa, si apre. non appare nessuna luce, ma riesco a distinguere una figura alta che si fa largo, decisa, verso me. è strano. 72 ho davanti un uomo a metà. il suo corpo è decisamente simile al mio. è umano, in tutto e per tutto. ha le mani pelose come le mie e la sua statura è di poco inferiore alla mia. il suo viso è però di sorcio, un sorcetto di campagna e quasi non mi stupisco se, quando parla, ha uno spiccato accento veneto. ooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo ooohhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh FFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFRRRRRRRRRRR RRRRRRRRRAAAAAANNNNCCCCCCCCCOOOO OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO OOOOOO mi dice, in un cantilenato inutile. io, però, non mi chiamo Franco. lo sono stato a volte. per la maggior parte ho, però, dissimulato. e ingannato il Tempo. so perché il sorcio è qui. veste una divisa da facchino e fuori lo attendono manutengoli ubriachi. 73 uno Franco mi dice detesto queste cose, ma è ora. il tuo corpo è ormai ufficialmente cadavere da un'oretta e mezzo. più di spegnere le luci, che devo fare? venirti a prendere di peso. vieni, dai. il carro è fuori. io non ho paura, non provo rabbia, non conosco la tristezza. la gioia non mi abita. seguo il sorcio e penso a mia figlia, alla mia mano sanguinante e alla mia inutile atarassia. dove andiamo? chiedo, banale. che cazzo ne so? mi risponde il sorcio. secondo te mi pagano per fare filosofia? sei morto, stronzo. niente di più. 74 vorrei chiedere una sigaretta, come nei buoni film. ma è tardi anche per quello. mi trasformerò? gli chiedo. in questo momento sei in un sacco. fai i tuoi conti. 75 Beppe Casales GUARDIE E LADRI Guarda, a me piacerebbe parlare con te, darti un bacio per farti sentire il calore delle mie labbra, mi piacerebbe portarti a vedere un posto meraviglioso e nel frattempo, chiederti come stai, lì, nel tuo corpo, cosa pensi di questa vita che stiamo vivendo, se ti piace farti toccare, in che modo, se speri di vivere qualche mese a Parigi, se a volte piangi e perché. Dici che non hai tempo. Allora và. Non ti trattengo. Io discuterò della vita e delle stelle con quel passero affamato, che da alcuni minuti sta puntando il mio panino al prosciutto. Penso che forse lui, calmata la fame, potrebbe anche avere il piacere di parlarmi di cosa vede dall'alto. Dirmi che giochi fa con i suoi amici passerotti, se si conoscono da tanto oppure se si gioca anche tra sconosciuti. Se mangiano le briciole perché gli piacciono o perché non trovano altro. Se ogni tanto vanno a casa a trovare la famiglia. 76 Vedi? Vedi quante cose ho da fare, io, senza di te? Non ho bisogno che tu ritagli del tempo per me, non c'è bisogno di trovare un pretesto per incontrarsi. Il passerotto l'ho conosciuto adesso. Lui non ha molto altro da fare, dopo mangiato. Si pensava di fare un giro. Ecco, adesso pensi che io sia pazzo perché voglio fare un giro con un passerotto. Ma che ne sai? Non lo conosci nemmeno. Perché devi subito giudicare? Non è che per caso ... vorresti venire con noi? Sacrificare il tuo impegno per sentire cos'ha da dire il passerotto? Ma poi come glielo dici? Così, al telefono: - Scusa, non posso venire, mi è saltato fuori un impegno improvviso con un passerotto, sai, è importante ... Come glielo spieghi che è importante parlare con i passerotti, che ti ha messo curiosità sapere cosa pensano quando ci guardano dall'alto che manco ce n'accorgiamo? - Hai un impegno con un passerotto? Ma come si chiama? - Non so, aspetta che glielo chiedo, scusa, come ti chiami? No... è che sta mangiando un panino al prosciutto ... cotto, prosciutto cotto ... chiede se è buono. Sì, dice di sì, è buono. D'accordo, allora ci si vede dopo. Chiede se dopo il panino e la passeggiata hai voglia di un aperitivo. No ... il passerotto dice che c'ha un gioco che deve fare con altri passerotti ... Dice che se vuoi portare anche loro, anche gli altri passerotti, non c'è problema, dice che sarebbe felice di conoscere tutti quanti ... Dice che se è un posto all'aperto va bene. Vabbè, sì, adesso devo chiudere, andiamo a fare una 77 passeggiata. Dove? Non domanda è? Camminiamo. lo so. Che Andiamo in giro. Non mi serve niente. Non ho bisogno di niente, solo che mi tieni per il braccio mentre camminiamo, ché sento di più quello che mi racconti. Che se per caso ti infervori, ti agiti tutto, oppure stringi la presa. Mi piace. E non guardo a terra come al solito, perché il passerotto continua a svolazzare intorno, e quando dice le cose è bello guardarlo negli occhi, mentre agita piume e argomenti. - Lo sai che voi passerotti fate proprio dei giochi del cazzo? Cosa c'è di divertente nel fatto che vi dovete inseguire? Vi inseguite ... e basta? Lo so, tu mi dici, anche noi giochiamo a guardie e ladri, che ci inseguiamo e basta. Ma almeno noi aggiungiamo la componente morale, tu fai il ladro, e sei il cattivo, io faccio la guardia, e sono buono. Lascia perdere che poi tutti vogliono fare i ladri ... quello è perché è più divertente farsi inseguire ... anche voi passerotti fate che uno ruba e l'altro insegue? Cazzo, allora è proprio uguale. Voi fate lo stesso gioco che facciamo noi. Non l'avrei mai detto. Ecco. Se ne è andato. Come si chiamava? 78 David Giacanelli TEMPO PER ME Ore 16.00. Scatta la segreteria telefonica. - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. Sempre la solita solfa. Ma Anna non c’è mai. Ore 17.30 - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. 79 Ore 20.00. - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. E ora come faccio. A chi lo racconto che si è rifatto vivo. Come mi devo comportare. Ripasso con il pensiero tutte le tattiche comportamentali che mi sono imposto. Devo mostrare tutta la leggerezza possibile, che non dipendo da lui. Il mio umore, il mio equilibrio, lo stato d’animo non possono essere così condizionabili. E poi, quelle risposte stringate e succinte che dicono ma non dicono, non osano mai. Sempre a rincorrere ciò che la vita non mi ha dato. Ma adesso basta. Non gli rispondo più. Ci ho già fatto i conti. L’ho perdonato. Un perdono laico il mio, ma l’ho perdonato. Ha ammesso i suoi sbagli. Questo serve a me. Basta. Vado avanti. Razionalmente è così. Certo. Ma, emotivamente, perché non mi basta? E le budella si aggrovigliano fino a sottrarmi il fiato e l’appetito e la voglia di fare. Ore 21.00. - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. Anna non c’è. Ma penso a lei. A quanta vita ha sacrificato per gli altri. Sedute su sedute per fare sentire meglio la gente. Minuti che si sono trasformati in ore per cercare di restituire benessere alle persone. Il benessere non ha prezzo. 80 Eppure Anna è lì che, indefessa, appunta sul suo blocco tutto quanto sei disponibile a raccontarle e ti chiede. Inutile eludere la domanda. A domanda risposta pertinente. Ti domanda dei sogni, che sognare è importante. Il canovaccio imprescindibile dal quale partire sempre. E io che di sogni ne faccio in quantità? Tanti da non ricordarli più. - È un buon segno - annuisce lei - devi appuntarli. - Quante soddisfazioni mi dai. - Beh , lo immagino. Anche se poi è difficile spiegarle che la mia mente è affaticata. Che mi sveglio la mattina con il mal di testa perché sognare troppo è come vivere due vite parallele che di rado s’incrociano e, quando accade, il reale e l’onirico che per un attimo sono stati un unico corpo si se parano subito. È una vita che sogno. Magari, se qualche sogno divenisse realtà, non mi dispiacerebbe affatto. Non ho fatto altro nella mia vita. Sospeso tra sogno e realtà. Il mio riscatto: essere materialmente in un luogo ma spaziare con la mente altrove, circondato di altre persone, asserendo altro. Ho messo piede sulla luna, vinto innumerevoli premi “Strega”, sono rimpatriato con scoop mediatici che hanno cambiato la storia e sono stato rapito e liberato più volte. Così, ancora, ho vinto a Wimbledon, Roland Garros, ho segnato la storia con il record in velocità sui 200 stile libero, sono stato Ministro della Repubblica e segretario di partito. Ho avuto tanti figli che mi hanno accudito nella mia senilità. Ho viaggiato con loro. Per non parlare dei posti nei quali sono stato circumnavigando il 81 mondo. E Anna che sorride compiaciuta, che assiste ad un film visto e rivisto. Beata lei. Tanta sicumera. Anna non ha figli né, forse, un compagno o marito. Neanche una compagna a quanto mi risulta. Anna avrà intorno ai sessanta anni, portati bene, odoranti di libri polverosi, di biglietti aerei, di paesi visitati, di Medio Oriente, di incontri fortuiti e relazioni universitarie. Non c’è stato spazio per legami sentimentali, almeno non duraturi, né per essere madre. Eppure Anna è appagata perché si è cibata delle storie degli altri. Le ha analizzate, scomposte milioni di volte per ricomporle. Anna dei miracoli, che finisce il dolore della gente. Anna che, giunta al capolinea della sua esistenza ha deciso così, di punto in bianco, che basta. È ora di smetterla e pensare un po’ a sé. Che troppa energia e fatica ha profuso per alleviare la vita della gente, per renderla degna di essere vissuta. Che l’ha spogliata, la gente, di tutte quelle sovrastrutture limitanti e condizionanti. Che l’ha messa di fronte alle paure ancestrali: la malattia, la morte, la caducità e precarietà esistenziali. Che l’ha portata, sempre la gente, a concentrarsi su se stessa e gli istinti primordiali. È così che mi sono liberato. Grazie alle capacità di Anna. Grazie a lei ho vissuto il mio amore accettandolo fino in fondo. Grazie ad Anna. E mentre Anna scrive nel suo quaderno, mozziconi di sigarette, delle MS morbide rosse, affollano il posacenere sulla scrivania in legno di fronte la finestra. Alle spalle della scrivania, sempre di fronte la finestra, una sedia, la sua, e un divano dove sono ada- 82 giato io. Le fisso le scarpe. Ne indossa sempre un paio nuovo. Unico vezzo del quale si compiace. In questa stanza le nostre conversazioni e, alla mia sinistra, una libreria enorme a muro. In una delle mensole, quelle centrali, spicca una sveglia grande a segnare il nostro tempo. Il tempo scade ma Anna continua, va avanti imperterrita perché vuole chiudere il cerchio. Vuole farmi tornare a casa più leggero e consapevole. Ora, però, Anna non ce la fa più. L’orologio si è bloccato una volta per tutte. Il pomeriggio che mi ha detto: - Vai, ora sei pronto. Possiamo terminare qui. Ama liberamente senza remore. Sperimenta, fa quello che ti senti di fare e obbedisci al tuo istinto. Ti porterà lontano. È come se ogni bene prodotto le fosse sottratto. Tanta energia infonde agli altri e tanta ne esce. Finite le sue ultime sedute ha acquistato un biglietto che l’ha portata nello Yemen, e prima in Siria e prima ancora ad Agropoli. Da quando ha terminato di pensare agli altri per concentrarsi su se stessa sono cominciati gli interminabili viaggi e le segreterie telefoniche. Ore 9.00. - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. Anna non ti risponde al telefono. Rientrata a casa dal suo ultimo viaggio riavvolge il nastro e ascolta la segreteria telefonica che non fa che lampeggiare compulsiva, come molti degli impulsi che ha guarito. 83 Così i suoi pazienti hanno liberato le fantasie erotiche, hanno vissuto dimentichi dei sensi di colpa, delle morali di riflesso, concentrandosi solo sulla propria libido. Hanno amato, tradito, posto fine al le relazioni atrofizzate di una vita per ricominciare. Quello che vorrebbe fare anche lei. Ricominciare. Eppure non le riesce. Al momento viaggia. Finito un viaggio si riposa a casa qualche settimana e poi riparte. Possibile che Anna non riesca a trovare il suo di equilibrio, a rimpossessarsi della propria esistenza, farsi del bene? Non più i problemi degli altri ma i suoi: le sue esigenze. Viaggia, torna, riparte in un moto incessante. Senza radici. Si fermerà mai? Probabilmente no e viaggiare l’aiuta a non pensare. Ora di ritorno dalla sua ultima trasferta al Cairo, appena entrata nell’androne del suo palazzo, si è ficcata dentro l’ascensore. Non vuole farsi vedere da nessuno. Non vuole incontrare persone, vicini, altri condomini. Affannata ha premuto il terzo tasto dell’ascensore. Si guarda allo specchio. Non si riconosce. Vi scorge una donna più giovane almeno di dieci anni. Una folta chioma bionda. Gli occhi, gli stessi, sono truccati e un rossetto rosso vivo le disegna le labbra. Molto fard la fa sembrare abbronzata e le sottrae diversi anni nel computo generale. Il trucco, anche per il caldo, evapora e i contorni non sono più così definiti. È sciatta nel suo vestitino estivo sgualcito così come nel suo rossetto che le restituiscono una antica sensualità. Si sente pulsare sempre più. Il battito aumenta le sue frequenze, le sudano le mani, non sa dove appoggiarsi. Eppure si piace. Spinge il bottone color 84 avorio con inciso un grosso 3 in nero e parte. Il primo piano, il secondo, il terzo. - Dott.ssa Momigliano, così lei sostiene la sua tesi sul suicidio. Ci mostri di quali altre argomentazioni si avvale per sostenere il suo pensiero. Stava discutendo la sua tesi di laurea. I ricordi le si mischiano con velocità e violenza provocandole confusione. Si ricorda com’era, prima che cominciasse ad immolarsi per gli altri. Ricorda il suo lungo percorso di consapevolezza. Eppure è buffo questo destino. Ora che è arrivato il suo tempo, quello di Anna, non riesce a concentrarsi sul da farsi. E viaggia, fa parlare la sua segreteria telefonica, è sempre più schiva. Sempre in fuga. Si percepisce diversa. Lei è stata sempre mora, capelli corti, tagliati in modo composto e accurato. Trucco praticamente assente e, all’occorrenza, un rossetto color carne. Quella allo specchio non può essere lei. No. Deve trattarsi della proiezione del suo desiderio. Mentre passa dal secondo al terzo piano infila distrattamente un braccio nella borsa. Accanto al suo porta pillole, alla borsa con i trucchi, entra in contatto con una parete sottile e lucida al tatto. La estrae. È una foto. Nella foto è raffigurata la splendida e avvenente bionda di prima, con il rossetto accecante e la pelle rilucente, abbracciata ad un uomo. I due si baciano sulle labbra con espressione intensa e felice. Gira la foto. Un virgolettato campeggia: “Muchas Rojas”. “Molte rosse”. Che cosa significherà mai? Che cosa ci fa quella foto nella sua borsa che, ad osservarla bene, non sembra neanche più la sua borsa. E la sigla in spagnolo poi? Troppo artefatta per i suoi gusti, pensata per 85 risaltare. Lei che invece non vuole risaltare, che schiva scappa a se stessa, che non si ferma perché non vuole del tempo per pensare a sé. È arrivata al terzo piano. Ore 10.30. - Questa è la segreteria telefonica di Anna Momigliano. In questo momento non posso rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile. Si guarda nuovamente allo specchio. Non è più la bionda mozzafiato con sguardo ammiccante e denso di esperienza personale. Ora è la Anna di sempre. In fuga da se stessa ma ormai pronta ad affrontarsi. Chiude l’ascensore. Rovista di nuovo nella borsa e trova le chiavi. Le infila nella toppa e apre. Un sospiro di sollievo: è a casa. Accende la luce, poggia la giacca e velocemente attraversa il corridoio che la porta allo studio. Solleva gli occhi in alto a sinistra e comincia ricordare le ultime sedute nelle quali ha elargito felicità o, almeno, ci ha provato. Ricorda Marisa che ha smesso di vomitare e ora ha un rapporto equilibrato con il cibo. Ricorda Luca che ha smesso di colpevolizzarsi sul lavoro, di pensarsi malato o, peggio ancora, schizofrenico, semplicemente perché ha accettato di amare gli uomini. Ricorda Sandra che ha trovato la forza di andare a vivere da sola e divorziare dal marito che, oltre a tradirla, la maltrattava. Ricorda Bice, che dopo avere partorito un bimbo morto, è entrata in crisi con il marito troppo accondiscendente e passivo. Ricorda Caterina, che è dovuta scappare dai suoi genitori per non restarvi avvinghiata tutta la vita, perché 86 troppo li amava ed era troppo amata. Ricorda Emanuele che hanno ricoverato al Gemelli dopo l’ennesima pista di cocaina. Ricorda Pietro, che senza volerlo ha ucciso in un incidente stradale una bambina di soli quattro anni. Ogni cellula del suo cervello ha spazio e tempo per un ricordo, un caso al quale si è appassionata. Fino ad oggi tutti hanno avuto uno spazio nella sua vita tranne lei. D’altronde è stato per questo che ha deciso di scegliere la professione. Aiutare gli altri per aiutare se stessi. Le è stato chiaro fin dall’inizio. Ora, però, che il panico la travolge e costringe a muoversi continuamente, ha deciso che basta. Oggi si presenta il conto. Oggi è il suo tempo. Risponde al telefono. Parla di filo ascoltando cosa vuole il paziente. Questa volta avrà la forza di cambiare: non lo accetterà come avrebbe fatto in passato né ricomincerà a viaggiare. Ha terminato da poco tempo la terapia. Qualche scossa di assestamento è normale, glielo aveva anticipato. Ringrazia e riattacca. Ricomincia a vivere. 87 Daniele Zambelli Franz ANDREAS Qualche tempo fa, in una casetta tutta di legno di un paese piccino piccino sulle montagne dell’Austria, viveva una famiglia umile e modesta. Hermann, il papà, lavorava diciotto ore al giorno nella cava di marmo nero che si trovava sulla collina proprio sopra il borgo. La mamma, Marie, portava avanti la famiglia prendendosi cura dei loro quattro figli e quante ore lavorasse al giorno nessuno lo ha mai saputo. 88 Nonostante tutte le difficoltà, conducevano una vita tranquilla sotto il sole che girava sopra le loro teste. Il più grande dei loro figli, Andreas, rappresentava per loro l’unica preoccupazione di quell’esistenza serena. Appena nato, il medico gli diede una leggera sberla per farlo piangere; in tutta risposta, Andreas lanciò una terribile bestemmia e con un diretto al mento stese al suolo il chirurgo. Il primo giorno d’asilo, a tre anni, organizzò un torneo di poker in sala mensa e lasciò in mutande tutti gli altri bambini, quattro maestre, due inservienti e il cuoco. In effetti era un bambino intelligentissimo; in prima elementare, la maestra chiese ai bambini chi di loro sapesse già scrivere. Andreas domandò: - In quale lingua? E subito dopo si alzò, andò alla lavagna e scrisse il primo canto della Divina Commedia in francese antico. A otto anni, un pomeriggio in cui si stava annoiando molto, fece ubriacare il gatto di casa e poi lo incollò a una parete. I genitori si infuriarono e gli fecero promettere che si sarebbe comportato meglio con gli animali. Allora Andreas prese da una parte Jack, il labrador di famiglia, e tenne con lui un pesantissimo discorso sul senso della vita. Per un paio di giorni, Jack fu visto girare per la casa con un’espressione assente e molto triste sul muso; una settimana dopo, papà Hermann lo trovò impiccato in soffitta. Hermann si arrabbiò moltissimo, spaccò un grosso ceppo di larice con una testata, scaraventò la nonna giù per le scale e si sedette in un angolo, pensieroso. Le sue sfuriate erano terribili, ma dopo 89 si sentiva meglio, e decise di dare una raddrizzata al figlioletto. L’unico interesse che accomunava Andreas ai suoi coetanei, erano i cartoni animati. Davanti alle avventure di Bugs Bunny, Will e il Coyote e Braccio di Ferro, egli tornava ad essere quello che era: un bambino. I suoi occhi si riempivano di stupore e la sua bocca si apriva in grandi risate; insomma, si divertiva come un bambino. Un pomeriggio di inizio autunno, quando le foglie, cadendo dagli alberi vengono agitate dall’aria frizzante, Andreas venne avvicinato da un grande signore, alto tre metri e dai lunghi capelli rossi. - Buon pomeriggio, Andreas - disse l’uomo con la sua voce cavernosa. Andreas rifletté alcuni secondi e poi passò oltre dicendo: - Mi dispiace, lei non può essere reale, le dimensioni dell’homo sapiens sapiens, al termine del complesso procedimento durante il quale è avvenuto il differenziamento delle strutture anatomo-fisiologiche, superano raramente i due metri in altezza; quindi lei deve essere il risultato di una proiezione olografica della mia mente. L’enorme uomo rise forte, facendo spaventare uno stormo di rondini che si era appena radunato per la migrazione. I poveri uccelli, terrorizzati da quella risata, sbagliarono direzione e puntarono verso nord. Metà di loro non se ne accorse e morì di freddo e di stenti nel cortile di una acciaieria di Rotterdam. L’altra metà fece marcia indietro ma finì intrappolata in una rete di bracconieri tra Firenze e Roma. Ma torniamo al nostro racconto. Il misterioso uomo, disse ad Andreas che veniva da molto lontano per portargli un messaggio. Disse che il Principe 90 di Tutti i Bambini del Mondo aveva saputo che egli spesso si comportava male. Aggiunse inoltre che aveva intenzione di punire il bambino, togliendo il sorriso a tutti i suoi cartoni animati preferiti. Andreas si allontanò di qualche metro dicendo di non credere una parola di tutto quel discorso strampalato e senza senso. Poiché era un bambino molto educato, si girò per salutare quello strano signore ma, come d’incanto, egli era sparito. Andreas si strinse nelle spalle e tornò a casa. Come ogni tardo pomeriggio, il bambino si accomodò sul sofà del soggiorno ed attese l’inizio dei cartoni animati. Nel caminetto il fuoco crepitava e lanciava qualche scintilla nella stanza semioscura. Fuori, le ombre della sera, allungandosi sempre di più, avevano quasi terminato di tingere di nero la grande tela del cielo. Quel giorno successe qualcosa di strano all’interno della temibile scatola chiamata televisione. I cartoni animati andavano regolarmente in onda, contemporaneamente su molti canali, ma le trame erano molto strane. La tenera e piccola Heidi aveva messo del cianuro nella minestra del nonno e, una volta che il vecchio aveva tirato le cuoia, aveva venduto l’intero gregge di caprette, la baita e tutto il terreno, e con il ricavato aveva aperto, insieme a Peter, un locale notturno a Monaco di Baviera. L’orso Yoghi era stato finalmente beccato in flagranza dai Rangers con le mani nel sacco, anzi nel cesto da pic-nic, e dopo un processo per direttissima era stato rinchiuso nel carcere federale di Denver dove avrebbe dovuto scontare quindici anni. Il suo amico Bubu si era invece beccato otto an- 91 ni per aver aperto la pelliccia davanti ad una bambina dell’Iowa. Braccio di Ferro si era rotto le palle di mangiare solo spinaci e per mantenersi in forma si faceva continue iniezioni di steroidi anabolizzanti. Inoltre, aveva fatto pace con Brutus, e insieme avevano messo su un’organizzazione per il traffico di clandestini via mare. Andreas iniziò a piangere e a chiamare forte la sua mamma che accorse spaventata e stupita, poiché il suo bambino non aveva mai pianto prima d’ora. Andreas, appoggiando la propria testa contro il petto della madre, le raccontò tutto quello che gli era successo, dall’incontro con quello strano signore ai terribili cartoni animati. Continuò a singhiozzare e giurò che da allora in avanti si sarebbe comportato meglio. La madre intanto, gli accarezzava la testa e gli sussurrava all’orecchio di non preoccuparsi, tutto sarebbe tornato a posto. Quella sera, nell’osteria del paese, papà Hermann ed un suo gigantesco cugino di una terra lontana, brindarono con due enormi boccali di birra scura in mano e due videocassette sotto il braccio. 92 Anna Alberico TEMPESTE Dopo un pomeriggio d’afa grigia, sfociato in sera soffocante, appaiono i primi balenii al di là dei monti. Chiarori discontinui e lontani fendono la coltre di nubi. Si annuncia un temporale. Pensa sia ora di rincasare. Lungo la strada le saette solcano il cielo. Non hanno una fonte definita: compaiono dietro i rilievi per propagarsi oltre il litorale. Sempre più nitidi e frequenti, i fulmini assumono un ritmo persistente. Dall’alto, al di là del nero, si scaraventano giù, illuminando per un istante il grigiore all’orizzonte, i grevi nembi sovrastanti, le on- 93 de incalzanti da est, mosse da un vento sbucato all’improvviso. - Non c’è pericolo – pensa – escluso per chi è in mare. Rare gocce di pioggia, infila la chiave nella serratura. Non accende le luci per osservare meglio la tempesta. Ma dall’interno della casa prova disagio. I tuoni si alternano in schianti e rimbombi facendo tremare i vetri. Si avvicina alla finestra. Una saetta infinita si scaglia nelle onde, per poi dissolversi in un pulviscolo di frammenti luminescenti. Esce sul terrazzo. Una barca naviga lungo la costa, le luci verdi e blu tracciano l’accelerazione di una fuga troppo lenta, un affanno palpabile contro il fronte degli elementi. Intermittenze di nuvole cupe e cronometrie di flutti sospinti dalla corrente. Il cimitero, a sinistra, s’accende in flash d’architetture giallognole, che smorzano i lumini sbalzando le tombe curate o dimenticate. Fra tre giorni sarebbe trascorso un altro anno ancora. Da un temporale affascinante, distante, circoscritto. Certo meno violento di questo. Inquietudine e sogno, quella fase era finita. Un’altra, adesso, a cancellarla. Più vicina e dirompente, ci sta dentro, la vede, insieme ricorda. No, quella tempesta non sarebbe scomparsa mai, irreale ed esistita, non ci può tornare, non la può annullare. In un minuscolo fotogramma s’insinua sullo sfondo. Guarda l’orizzonte, guarda il mare, le infiorescenze delle canne sbattute dalle raffiche. Non troppa afflizione, il tempo, ormai tanto, è servito. Non solo quello. Bagliori e comparse di onde trasversali, poi sposta lo sguardo al cielo, un attimo al cimitero. 94 Quella festa è conclusa, immagina il bosco sotto la pioggia. È quel pensiero a evitare il rimorso del distacco. Indifferenza, una sorta di vuoto, solo onde, tormenta, saette. Turbamento. Il bosco. Niente a che vedere con ciò che vede … lo desidera, ci si rifugia, finalmente dimentica. Si sporge oltre il muro: sotto, sulla strada, alcuni ragazzi contemplano lo spettacolo. Un poco, poi scappano via. La barca ha oltrepassato la scogliera. Rimanere ancora è pericoloso. Si volta verso casa. La sua ombra si profila sulla tenda in movimento. Un fremito di paura. - Finirà male. Non sa perché quella frase sia scattata nel cervello, senza togliersene più. Non vuole darla per scontata, ma in ogni momento di smarrimento la ripete. - Peggio di un corvo - si dice. E ripensa a quante volte questi imprevisti sintagmi mentali, avversi o propizi, si siano rivelati veri. Tante. - Sì, però non ci avevi riflettuto. Questa volta, invece, l’hai fatto. O forse no? Non mi ricordo. E male per chi? Un presagio insistente che non l’abbandona. Non si deve andare, tantomeno restare. Rientra, inizia a diluviare. I lampi, dopo infinite scariche luminose e fragori di tuono, si allontanano. Rumore di pioggia per provare a dormire. Il bosco. Perché pioveva? Pareva quasi un dispetto. E chi se ne frega, ci sono gli alberi. Ma poi non bastano. Piove ancora di più. Bisogna scappare. Ma cosa importa? Mica è questo che ricorda del bosco. Sono i colori, gli alberi e il cielo scuro al preludio dell’estate, il nitore del verde, la luce smorzata, l’isolamento di un’atmosfera autunnale 95 … suggestiva. Un simbolo? Forse, ma non in prospettiva. Come la pioggia estiva. Fra le reminescenze, lo scroscio della pioggia, visioni di mani e di corpi mica si può dormire … - Quale sarà la prossima mossa? – si chiede. Non riuscendo a indovinarla si addormenta. Cariatitrip è un insulto alla logica, un’aporia contraria al buon senso. Le dicotomie intelligenzasensibilità, demenza-crudeltà, in lui si annientano. Lusinga gli sconosciuti, disdegna gli amici e asseconda i nemici. Ottuso ed emotivo, non riesce proprio a mettere insieme un istinto decente. Un cervello senescente nel corpo di un giovane bastardo pezzato, inutile e dannoso. La prossima mossa, infatti, è un coltello e quell’inetto cosa combina? Entra in casa scodinzolando a rincorrere una pallina. Colpi nei mobili, ticchettii di zampe sul pavimento … si sveglia. La lama è lì, di fronte al letto. Dietro due occhi di ghiaccio o di brace … espressione indubbiamente folle. Una tachicardia da panico non può mancare, ma poi … poi chissà … rivede la trama del sogno interrotto e non prova sgomento ma rabbia, un’ira incontenibile, un grumo d’oppressione e sconfitta. Lui è lì per uccidere, tra un attimo potrebbe essere finita. Un po’ di terrore, please … no. Ce l’ha addosso, ma balza dalle lenzuola, un calcio sleale, il tempo d’afferrare il coltello a serramanico sempre a portata. Punta alla gola, ma lui l’afferra al polso. Lotta e a cosa pensa? Il colpo finale l’avrebbe sferrato al cane. 96 Tutto già scritto, le leggi non cambiano, questioni matematiche. Eppure le parallele in qualche punto s’incontrano … è stato dimostrato? E il calcolo della probabilità contiene larghi margini d’incertezze. E il cielo a volte scende a terra. Come la terra diventa voragine fino a un fondo che non c’è. Stupido e insulso perdersi in vaneggiamenti pseudo filosofici sbattendo il capo al suolo, cercando di sferrare un morso, sputando lacrime e capelli … Infatti non ci si perde, volteggiano in un gorgo di sangue e colpi, buio e sudore, dolore e strette … manco un po’ di spazio per rotolare. Il polso dolente, la testa che sbatte, il solito maledetto spigolo, urla e insulti soffocati. Le parallele diventano una spirale, l’equazione la radice di una parabola infinita … una bocca, sguardi, mani … il bosco. No, non adesso, deve tornare nel bosco. Dimostrando l’indimostrabile, Cariatitrip s’incazza non poco quando la pallina va a finire sotto la gamba dell’aggressore, che gli sferra un calcio. Questo non lo tollera, la notte non vede un tubo, gli odori si sono mischiati, il pazzo è un amico, quindi può trattarlo da nemico. Non che le sue meningi a moviola sappiano elucubrare un ragionamento … il tutto avviene istantaneamente, per una volta i neuroni collegano le fauci a quell’imbastitura di cervello, insomma addenta il polpaccio, passa alle natiche. E fine della storia. Fine senza commenti: niente allarmi o polizia. - Ti consiglio un’antitetanica. E preventivamente un bourbon. E cazzo non stare a piangere che semmai dovrei piangere io … porca … - dice riempiendo due bicchieri. 97 - Ma non capisci che mi manchi, che senza di te non esisto? - Però esisto io … anzi per poco non più. La tua è un’ossessione. Solo ossessione. Dammi una sigaretta. - Hai una storia? - Ora dico, tenti d’ammazzarmi e devo anche darti delle spiegazioni? - Ma no, non volevo ammazzarti. - Strano, mi sembrava di sì. Senti, chiudiamola lì prima che m’incazzi. Se vuoi ti regalo il cane, pare che andiate d’accordo. - Io ti chiedo scusa, scusa per tutto quello che ti ho detto, per quanto non ho capito e nemmeno dimostrato … Nel dirlo, cogli occhi tersi di blu, una lacrima incipiente, ricci neri e scarmigliati, bocca ad angolo cadente, allunga una mano sulla sua spalla. Si ritrae istintivamente. Era quasi riuscito a rendersi credibile, come sempre, ma no, non deve sfiorare, toccare, implorare … questo no! Dove non arriva la mente riesce il corpo … il corpo, le labbra, le foglie … - Vieni, abbracciami … - Non mi toccare! - Maledizione, tu non capisci, non vuoi capire. Intanto riacquista l’aspetto dominante fra i due o più. Il viso raggrinzisce, il terso ora opaco, zanne brillanti, sorriso da squalo … Un demone? Un pazzo? Sa cosa fare. Cariatitrip colpisce ancora, portando un coltello nella cuccia, l’altro in camera da letto … uno stolto perverso. Lui afferra il polso, strattona, immobilizza. - Ora vieni con me. 98 - Lasciami. - Taci. Ho una sorpresa per te. Non trovando soluzioni, lo segue, forse si sarebbe calmato. A spinta dentro l’auto, partenza. Vetri bagnati, asfalto lucido, la tempesta si è placata. Qualche saetta, rimbombi remoti, pioggia sottile, deserto metallico. - Ma non capisci che ti amo? - Fottiti. - Allora secondo te non ti amo? Non ti amo? No, sei tu, tu che non mi hai amato mai! E intanto accelera, sgomma, inchioda, su un catorcio inversamente proporzionale al cane. - Va bene, non ti amo, non ti ho amato mai. Allora ti togli dai coglioni? Tanto se non ti amo cosa ci stai a fare? - Eh no, io ti chiedo scusa, scusa per aver cancellato il tuo amore … sono stato io … tu sei forte, tu hai ragione. - Ma no, figurati, ho torto marcio, un carattere da schifo, non sei tu, sono io, io su di te … siamo noi e che cazzo di senso ha? Fammi scendere. Rallenta maledizione, rallenta! Una serie di tornanti e slitta, frena, stride, riparte, pugni sul cruscotto, telepass in frantumi, oggetti volanti, inchioda a un millimetro dall’auto davanti, colpisce ancora e grida. - No, no, no! Tu non hai capito un cazzo, bastava che mi abbracciassi. - Sì, domani, così dall’abbraccio si passa al bacio, dal bacio … - Pensi che ti voglia scopare … è questo che pensi? Che ti voglia scopare? Ah, è così … 99 E sbatte, accelera, frena, le corde vocali al limite, la voce gracchia, l’auto sbanda … - Ma ora ti dimostrerò … - Ma non dimostrarmi niente … e l’orgoglio dove ce l’hai? Nel buco del …? - L’amore che tutto supera, io ci credevo. - Sei un torturatore ... Fammi scendere. - Io ti ammazzo, lo capisci o no che ti ammazzo? Che ammazzo te, ammazzo lui, lo faccio a pezzi, lo taglio a fettine davanti a te … lo capisci o no che non hai scampo? Tra un giorno, tra un anno, io sarò sempre lì … basta che uno ti sfiori, ti prenda la mano, ti accarezzi i capelli … e sarà dannato da te, perché lo ucciderò. Lo capisci o no? Nessuno deve toccarti. Le curve aumentano, la velocità pure, le ruote non aderiscono, il terrore sale. Molto meglio il temporale. La strada è il suo incubo. Lui lo sa, ecco perché l’ha fatto. Piange, si copre gli occhi. - Rallenta, ti prego rallenta. - Dimmi che hai capito, dimmi che hai capito che ti ucciderò. - Vai all’inferno. Altro colpo al cruscotto, altra inchiodata, altra sbandata. - Allora mi sfotti! Dimmi che hai capito! - Ho capito. - Cosa? Dimmi cosa o mi butto nel burrone, lo vedi lì? Mi butto. - Va bene, mi ucciderai. Però ora portami a casa. - Te lo scordi. Nessuno! Nessunooooo… Un urlo rauco, assordante, infernale, stridio di gomme, la paranoia congela la scena. 100 Una frazione di secondo, spalanca la portiera, salta, corre in mezzo alla carreggiata … intuisce che se riparte l’investe … ma no, scende, l’afferra, cadono, due fari, una frenata. - Aiuto, mi porti via – dice all’allibito guidatore. E lui è già scomparso, inghiottito dal buio. - D’accordo, è successo qualcosa di grave? - Non so, vorrei dormire. Due scatti automatici: chiusura centralizzata. Si volta, un sogghigno. Un brivido lungo la schiena, una mano sulla coscia … - Oh no, no, no … - Paura, eh? Ma dai, scherzo, anche tu mi hai spaventato. Ti porto a casa. Preme i comandi, i vetri si socchiudono, le sicure si alzano. La tempesta riprende. Lei non piange, trema tra i singulti. È lui il suo assassino? No, e lo sa. Sarebbe finita? Nemmeno. Si sdraia. E torna nel bosco, anche se dorme vicino al mare. Gli alberi, il verde, le mani, i corpi, le labbra, i capelli … - Cosa si nasconde nel bosco? Piante, animali, insetti, tesori, cadaveri … chissà, è un mistero. Chiude gli occhi sull’oscurità per ricordare, il resto lo avrebbe potuto inventare. Un sipario di tenebra cala sul verde, allora capisce: è vana fantasia. Il bosco è inesistente, nasconde solo il niente. 101 INDICE 9 Fabrizia Scipioni, L’angelo 16 Enrico Mattioli, Citofoni 26 Paolo Bocconi, L’orologiaio 29 Elettra Bianchi, Il bambino che parlava con l’eco 33 Massimo Lencioni, Il camposanto di Maggiano 37 Fabio Altieri, Voyeur extra sensoriale 47 Franco Bomprezzi, L’ora di Timy 52 Salvatore Torchetti, Il folletto Flit 64 Emiliano Cevasco, L’alberoedio 76 Beppe Casales, Guardie e ladri 79 David Giacanelli, Tempo per me 88 Daniele Zimbelli Franz, Andreas 93 Anna Alberico, Tempeste Prima Edizione Luglio 2009