racconti in blu - Libertà Edizioni

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racconti in blu - Libertà Edizioni
Libertà Edizioni
Alberico, Altieri, Bianchi, Bocconi, Bomprezzi,
Casales, Cevasco, Giacanelli, Lencioni, Mattioli,
Scipioni, Torchetti, Zambelli Franz
RACCONTI IN BLU
Foto originali di Emiliano Cevasco
A cura di Anna Alberico
Libertà Edizioni
A tutti i lettori
RACCONTI IN BLU
Fabrizia Scipioni
L’ANGELO
Verissimo che ognuno ha i suoi guai e li vive in
modo differente. Chi fa scene ed esagera e chi
sdrammatizza o riesce a non sottovalutare pur restando dentro di sé in massima armonia possibile.
Da cosa dipenda non lo so, resto comunque sempre
stupita davanti agli esagerati, forse perché, essendo
che niente tocca se non tocca, a modo mio lo sono
anche io. No, non con sceneggiate esterne, ma interne certamente sì.
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Un macinino, un rododendro, macché, sono un fiore di Giugno, nata il mese che matura il grano, come cantava Guccini nella canzone dei dodici mesi.
Eh, bella la canzone dei dodici mesi, e quante volte
l’ho cantata di gusto. Ma di dodici mesi ne ho passati davvero tanti e non sono stati proprio così poetici o almeno io non li ho visti così.
Ma sì, chi se ne frega, doveva andare così, su le
maniche e avanti, perché non ci si attarda al passato, anche se è stato la nostra storia, la nostra formazione. Perché bisogna essere forti, andare avanti,
leggere con le chiavi giuste la vita … e bla bla bla.
Ma basta!
Voglio sedermi su una panchinetta in riva al mare
insieme a mio marito e non avere pensieri.
Eccoci qui, a fare in modo di non avere pensieri:
ma potevamo pensarci prima, prendendo baracca e
burattini e andando chessò in India, in Brasile o
dove ci portava il destino. Come fa mia figlia Marta. Lavora sei mesi in Italia e poi parte e spende tutto. E chi vivrà vedrà.
E noi cinquantenni? Come eravamo felici quando
non lo sapevamo, e poi? Poi cosa è successo? Non
lo so e non lo sa nessuno. Solo che ognuno ce l’ha
fatta a modo suo e siamo ancora quasi tutti qui, devastati sotto certi aspetti e migliorati sotto altri.
Personalmente la vita, se pur dura non mi ha contaminato granché, vorrei solo ritrovare un po’ di
gioia ed entusiasmo, quelli che a volte vedo trasparire dagli occhi dei nostri politici e delle nostre veline. Le veline le capisco, sono tanto giovani, ma
quell’entusiasmo dei politici non lo capisco molto.
Ah già, ma io di politica non ci capisco niente e il
peggio è che, più vado avanti e più mi pare di non
capirci niente nemmeno di vita. Beata ignoranza …
rivoglio l’ignoranza. La dotta ignoranza.
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Il sole brilla ancora, malato, ma c’è, e un’altra estate è arrivata e per Anna scriverò un racconto. Chi è
Anna? Chi mi ha invitato a scriverlo ed è stato abbastanza il suo invito per ritrovare la via della gioia
e dell’entusiasmo.
Forse è tutto molto semplice e io invece complico
le cose. Ora pare anche che i guai li attiriamo, è uscito anche sul libro sulla legge dell’attrazione, sono aperta a tutto, ed è proprio questa mia apertura
mentale che nella vita mi ha fatta ammirare tantissimo, ma anche fregata. Oh, può pure essere che un
po’ folle lo sia diventata con tutte ‘ste tranvate sulla
testa.
Dicono di me che sono forte, resistente e i complimenti si sprecano.
E allora penso di essere troppo umile, di avere
scritto tre romanzi piuttosto belli, di essere stata
scelta per fare una biografia a Denise, una ragazzina morta a soli diciassette anni in un incidente stradale, di essere stata contattata da una Signora per
provare a scrivere un serial.
Ma nella mia vita sempre e solo gloria … Avete
presente quando da piccolini in colonia ci facevano
cantare John Brown? Ecco io mi sono fermata lì.
Tanta gloria al partigiano John Brown. Del resto
era inevitabile, vengo da una famiglia di alpini da
parte di madre e di partigiani da parte di padre.
Uno dei miei zii, Spartaco, che ancora è vivente, lo
chiamavano Briciola e ne parlava Radio Londra.
E così la mia famiglia da parte dell’uno e dell’altro
mi ha cresciuta come una piccola storica del popolo, racconti di partigiani, di alpini, di campi di concentramento (non sono mancati nemmeno i deportati in famiglia).
E la piccola storica del popolo, meglio sarebbe stato se l’avessero cresciuta per fare la valletta del
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pomofiore, come mi fu proposto di fare quando avevo vent’anni, ma io no, io ero altera in tutta la
fierezza della mia spina dorsale famigliare. Che
stronzata!
E dissi di no quando mi chiesero di lavorare in una
televisione privata, una delle prime, ricordo la …
come si chiama … ah sì Paola Ferrari, che faceva i
primi passi e prometteva di portare Vasco Rossi a
una trasmissione per farsi notare dal dirigente, certo
Dottor Romano o Romani, se ricordo bene. Mi presero alla reception e mi chiesero di fare la carina
con i calciatori di Voi studio a Voi stadio, no, nulla
di eccessivo, ma magari di lasciare aperto quel bottoncino in più … di essere diversa insomma. Uscii
in lacrime quella sera, Marta mi aspettava a casa.
Mio marito mi disse di non andare più, e così feci.
Che stupida, potevo dribblare un po’, potevo adattarmi, in fondo mi avevano solo proposto di adeguarmi un attimo.
E io invece guardavo con compassione quella piccoletta e magrissima Paola Ferrari,
a
quell’arrivismo che non mi piaceva.
Se i giovani sapessero e i vecchi potessero, diceva
il mio papà.
Se ce la fossimo giocata meglio, ora non ci ritroveremmo a saltare le vacanze. Ma Anna, sarà
un’estate felice, lo giuro!
Anna, Anna, che storia vuoi che ti racconti? Credo
di avere finito anche la fantasia. Credo che a 50 anni si rallenti ogni movimento e quello che più mi
spiace è dover infilare gli occhiali se devo leggere,
che brutto.
Ok, dai Anna, cominciamo, come comincio con il
c’era una volta … che fa sempre fiaba?
Ma sì.
Non so cosa andrò a scrivere, non lo so mai.
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Ma da qualche parte arriveremo di certo.
Dai Anna, vieni.
C’era una volta un angelo, stanco di girovagare e di
aiutare la gente.
Incontrò però un giorno una canzone di Domenico
Modugno e pensò che fosse stata scritta appositamente per lui, perché a lui era davvero capitato di
dire quelle cose a una persona che stava buttandosi
giù nel fiume Brenta, certo Camillo, gli sembrava
di ricordare.
Meraviglioso, ma non ti accorgi che questo mondo
è meraviglioso.
Le parole e la musica di quella canzone, dedicata
sicuramente a lui, lo riappassionarono agli uomini,
il solo pensiero di Camillo lo smosse e gli fece venire voglia di andare a trovarlo.
Così l’Angelo Nicola si incamminò, un po’ volando
e un po’ no, per le strade di Bassano del Grappa in
cerca di Camillo.
“Le sere d'estate, scendendo lungo la Strada Valsugana, che da Trento giunge a Bassano, si può
godere una delle viste più belle della città. Il viale
che parte dal Castello Superiore e giunge fino alla
Porta delle Grazie è avvolto in una magica atmosfera dorata.
Un tempo il viale era protetto a nord dalle mura
medievali, malauguratamente abbattute nel 1886,
per permettere un più ampio godimento del panorama alle ricche famiglie bassanesi che, con i loro
bei palazzi, di questo viale avevano fatto una delle
zone più belle della città.
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Questo lungo viale alberato è oggi Viale dei Martiri, un tempo Contrada delle Grazie, poi viale XX
Settembre. Prende l'attuale nome dai 31 partigiani
che il 26 settembre 1944 furono impiccati in città,
di cui una parte proprio a quegli alberi che ancor
oggi si affacciano sulla Valbrenta. Il 9 ottobre
1946 l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri
dell'appena costituita Repubblica Italiana, Alcide
De Gasperi, conferiva a Bassano la Medaglia d'oro
al valor militare.
Ogni anno la città rievoca il rastrellamento del
Grappa (20-23 settembre 1944) e l'eccidio che vi
succedette.”
(Bassanonet.it).
Niente da fare, Camillo non c’era, eppure qualcuno
avrebbe dovuto sapere qualcosa di lui, di certo.
Attraversò tutta Bassano ed arrivò nel comune di
San Giacomo, vicino a Romano d’Ezzellino, chiese
dove si trovava “La corte”, sapeva che Camillo era
nato lì e che certamente qualche parente era rimasto
ad abitarci.
Entrò nella corte, gli sembrò bellissima e magica,
con tutti quei gattini piccolini, un cagnetto legato
alla catena ma felice di starci, i bambini seduti sui
gradini delle scale e le donne che legavano mazzi
di frumento.
L’angelo Nicola si guardò in giro, ma di Camillo
non vedeva traccia alcuna.
Decise di andare da una vecchia signora, detta Zia
Pincera, e chiese a lei notizie.
La vecchina pian piano alzò gli occhi dalle sue mutandone che stava rammendando e, guardandolo,
disse che Camillo era diventato molto ricco e che
era andato a vivere lontano, si era sposato e aveva
avuto cinque bambini che, oramai, erano grandi. E
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che sua sorella (della zia Pincera), che era la mamma di Camillo, sperava ogni giorno di rivederlo,
almeno prima di morire.
Camillo era diventato Americano e nella corte non
ci era mai più tornato.
Bello stronzo, pensò l’angelo Nicola, però subito
corresse il pensiero: ogni persona può avere validi
motivi per fare e non fare una cosa.
L’angelo Nicola rimase ugualmente stupito, come
poteva avere scelto, Camillo, di andare via da un
posto così magico, incantato, ritirato e rimasto come una volta.
La corte vecchia, un’oasi di pace, e sì che il gesto
di Camillo, che lui prontamente aveva fermato, dimostrava sensibilità. Bah, strane le persone, pensò
l’angelo Nicola.
Un angolo così bello l’angelo Nicola non l’aveva
mai trovato e decise di rimanere a vivere lì e di
tanto in tanto avrebbe rubato qualche spiga di grano, per portarla ai martiri della libertà.
Ma un giorno, quando nessuno se lo aspettava più,
ecco arrivare Camillo, aveva deciso di trascorrere
l’estate lì.
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Enrico Mattioli
CITOFONI
1.
È mezzo ottobre. Nel cortile che conduce alle scale
condominiali, i ragazzini ci provano gusto a saltar
sul tappeto di foglie ingiallite e rametti insecchiti;
ancor più giocoso è il loro fuggire all'ira di Orlando, il portiere dello stabile che mal sopporta la celia
dei mostriciattoli impertinenti.
Alvaro Malacosta torna dal passeggio e trova il
portiere furente.
- Salve Orlando. Come va?
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-
Ah … male, sig. Alvaro, andiamo male …
Fa freddo, eh?
Macché … non è il freddo. Questi ragazzini …
- Ah … eh, però a me, i miei nipoti, dritti
devono marciare, sennò a casa mia non ce
li voglio mica …
- Ebbè …
- Ma sì, diciamolo: bisogna saper comandare e lei, caro Orlando, mi sa che …
I due sono destati attraverso il citofono dal richiamo di Matilde Malacosta.
Alvaro, Alvaro … vieni al balcone.
Il vecchio, chiusi brevemente gli occhi, sospira e
s'affanna sotto il portone. Orlando, non solo per deformazione professionale incuriosito, lo affianca.
- Che c'è? - urla Alvaro alla moglie.
- Devi andare di corsa dal ferramenta!
- Ma sono tornato ora!
- Devi prendere l'insetticida.
- Ancora con l'insetticida?!
Poi, rivoltosi dubbioso a Orlando, ma in realtà cercando la sua comprensione, sussurra al portiere:
- Ma cosa ci farà con tutto quest'insetticida:
lo beve?
- No che non lo bevo l'insetticida - continua
donna Matilde dal balcone - ma se servisse te lo allungherei nel caffelatte!
- Vabbè, vado! Mandami giù i soldi col canestro.
- Ora te li mando … e sbrigati!
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Matilde, attenta a non farla penzolare troppo, sfila
lentamente la corda del canestro e manda i soldi giù
a basso.
2.
Alvaro e il portiere si spostano davanti ai citofoni e
rimangono a chiacchierare.
- Certo, caro Alvaro, che sua moglie … - sospira Orlando.
- Non me ne parli - fa l'altro - per fortuna che
io …
Dal citofono sentono ancora la voce di Matilde che
richiama il marito.
Alvaro, Alvaro: vieni un po’ sotto!
-
Che c'è ancora? - urla lui.
Dì al tuo amico che è pagato per lavorare
e non per origliare e che se lui fosse più
attento di me, la guardiola non sarebbe un
porto di mare!
Matilde riabbassa la serranda e rientra. I due uomini si guardano sbigottiti. Alvaro chiude il pugno e
impreca verso i cielo. Nella quiete dello stabile, la
serranda si leva ancora col suo greve rumore.
- Che ci fai ancora lì? - urla Matilde.
- Niente - si giustifica Alvaro - stavo ribadendo a lui, quello che tu gli hai detto
giustamente prima …
- E sbrigati! - conclude Matilde.
La serranda cala di nuovo, i due restano a spettegolare.
- Certo che sua moglie …
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-
Eh già! Maledetti citofoni … se non fosse
indaffarata in cucina, penserei che resta
sempre attaccata a quell'apparecchio …
Poi, come a cambiare discorso, con modo confidenziale lo prende sotto braccio e gli chiede:
- A proposito, Orlando, dove tiene lei gli
insetticidi: in guardiola?
- Sì. Ma non vorrà mica darli a bere a sua
moglie?
- Ma no … cosa ha capito?
- Ah … - sospira il portiere.
- No, è che da quando quella ha scovato gli
insetti fuochisti in cucina, la notte invece
di dormire rimane di ronda. Per me è meglio, mi creda, però se non dorme, di
giorno si stranisce.
- Non vorrei essere io al posto di quei poveri insetti!
- Beh … la capisco. Io la saluto. Ma lei che
fa, Orlando, non va a casa?
- No. Devo aspettare l'amministratore che
deve lasciare un pacco in guardiola. Solo
che ancora non si vede, porca zozza!
- Embè? E io che ci sto a fare? Mi dia le
chiavi della guardiola. L'aspetterò io. Poi
domani gliele rendo.
- Ma grazie! Grazie sig. Malacosta.
- Di nulla, di nulla. Su, vada Orlando, ci
penso io.
Il portiere s'allontana. Il vecchio muove ad armeggiare verso la guardiola. Traffica, s'impiccia spostando scatole e scatoloni. Giunge l'amministratore
con il pacco.
- Salve Malacosta. Cosa ci fa qui?
- Cosa ci faccio? Orlando aveva un'urgenza
e mi ha pregato di aspettarla per il pacco.
19
-
Sì, infatti dovevo solo lasciarlo qui. Arrivederci.
Salve …
3.
Alvaro chiude la guardiola ed esce di soppiatto.
Torna furtivo sotto i balconi e passa davanti ai citofoni. È scesa ormai l'oscurità, ma lui sembra non
curarsene, anche perché nessuno farebbe caso a un
povero diavolo che si aggira con cacciavite e tenaglie.
Nel frattempo la bella signora Tabacci esce dall'ascensore col figlio insolente.
- Buonasera Alvaro.
- Buonasera, porta a spasso il piccolo?
- Lo chiami piccolo: questo è indemoniato!
Poi si rivolge al figlio:
- Osvaldo? Saluta il signor Malacosta!
- Ciao - dice il ragazzino.
- Ciao - risponde il vecchio.
- Dove è andato di bello, Alvaro?
Intanto il marmocchio si divincola dalla presa della
madre e corre in cortile a saltare su foglie e rametti.
- Osvaldo? Non ti sporcare! - urla la madre.
- Ah … i bambini! - sospira Alvaro - Io sono
tornato dal ferramenta. Abbiamo casa infestata dai fuochisti e ho preso l'insetticida.
- Ah … un po’ di pazienza e si risolverà, vedrà …
- Speriamo, speriamo …
- Ma sì … io la saluto, Alvaro.
- Arrivederci, signora.
Il vecchio apre, entra nell'abitacolo e sale. Scende
al pianerottolo e richiude la porta dell'ascensore.
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Infila le chiavi nella serratura, ma la porta s'apre di
scatto. Donna Matilde è sull'uscio.
- Embè? Fammi entrare! - esclama Alvaro.
- I soldi! - dice lei tendendo la mano.
- Che soldi?
- Quelli dell'insetticida.
- Credi che me l'abbiano offerto?
- Sì. Al bar della guardiola!
- Ma … - borbotta lui grattandosi la testa.
- Niente ma! Credi di darmela a bere, tu a
me?
Così Alvaro, rassegnato e sconsolato, estrae le banconote e le porge alla moglie. Se ne va in salotto
davanti al televisore.
- Sempre col televisore acceso - urla Matilde - perché non vieni a darmi una mano, invece?
- Io terrò anche il televisore acceso: ma tu,
con questa cucina sempre a tutto volume?
- Zitto e mettiti al lavoro!
4.
Alvaro sposta faticosamente la vecchia macchina
del gas e sparge l'insetticida tra le fessure delle piastrelle. Apre la finestra per far circolare l'aria e allontana la gatta che s'intrufola tra i lavori.
S'accorge che la moglie impreca col citofono e ridacchia mentre continua a passare l’insetticida.
Nell’altro ambiente la moglie si attacca
all’occhiolino della porta sul pianerottolo.
- Dove sei? - urla Alvaro: - Vuoi darmi una
mano?
Matilde torna furtiva in cucina.
21
-
-
Quelli del quinto piano stanno salendo. Lo
sai che ieri notte son tornati alle tre e mezza? - dice la donna.
Ma come fai a sapere tutto di tutti? E poi i
citofoni sono rotti, vorrei capire come fai
che non esci mai e sei sempre chiusa in
casa.
Per guardare lontano, non c'è bisogno di
scalare la montagna.
Che?
Proverbio cinese.
Prover… boh?
Un momento!
Cosa?
Come fai a sapere che i citofoni sono rotti?
Come faccio a saperlo?
Sì, come fai?
E come faccio? È che si sono rotti e ho cercato pure di aggiustarli.
Bisogna avvertire l’amministratore.
No ferma: cosa fai? L’amministratore non
può essere disturbato.
E perché?
Perché è stanco, poveraccio. E poi per queste cose c’è Orlando.
Sì, Orlando …
Ferma, ti ho detto. Vuoi posare quel telefono?
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5.
L'indomani Alvaro esce per la spesa come ogni
mattina e trova Orlando impegnato col tecnico dei
citofoni.
- Salve Orlando. Che succede?
- Eh … c'è un contatto, ma qualcuno ha pure manomesso i fili: cavolo, sono stati
tranciati!
- Ah … sì, in effetti anche ieri, quando eravamo qui davanti, si sentiva un rumorio
continuo sotto sotto...
- Già, deve aver fuso qualcosa - afferma il
tecnico -eppure non capisco: erano nuovi!
Forse è stato un contatto, un sovraccarico,
non so. È come se qualcuno fosse attaccato
giorno e notte. Ma non riesco a spiegarmi
questi fili tagliati: un guaio doppio! Davvero incredibile, inusuale!
Alvaro, un'oretta dopo torna con le buste dal mercato. Prova a suonare il citofono, ma sembra che
non funzioni. Così passa per l'atrio, supera il cortile
e arriva al portone.
Sale sull'ascensore e giunge casa. La moglie gli va
incontro.
- Hanno aggiustato i citofoni? – gli chiede.
- No, credo di no.
- - Acc …
- Beh … che ti prende? I citofoni si rompono …
- Sembra che non succeda più niente in
questo palazzo.
Nel pomeriggio, Alvaro esce per il passeggio. Passa per la guardiola e trova Orlando ancora col tecnico a riparare la scatola dei citofoni.
23
-
Buonasera Alvaro. Il guasto è più grave
del previsto. Mi sa che ci vorrà un po’ di
tempo.
- Quello che ci vuole ci vuole. L'importante
è che vadano a posto, ma senza fretta.
- Certo …
- Ci vediamo dopo.
Dopo un'ora Alvaro torna. Orlando, vicino ai citofoni, sta smistando la posta nelle casette.
- Salve Orlando. E i citofoni?
- Sì, tutto bene. Ce l'abbiamo fatta …
- Oh … ecco una buona notizia. Però, si
sente ancora quel rumorino …
- Sì, in effetti c'è. Non siamo proprio riusciti a eliminarlo. Comunque … c'è questa
lettera per lei … pubblicità mi pare …
- Ah … le solite scocciature … andiamo a
prenderci un punch con questo freddo?
- Ma sì, Alvaro. Offro io, però …
I due stanno per allontanarsi, quando dal citofono
s'alza la voce di Matilde.
Alvaro, Alvaro …
Questi, seguito dal portiere, raggiunge il cortile.
- Che c'è? - urla alla moglie.
- Dove credi di andare? - chiede lei.
- Mi allontano un attimo, devo fare un lavoretto con Orlando.
- Lui ce lo ha già un lavoretto. Ogni scusa è
buona per andare al bar!
La serranda s'abbassa. I due si guardano.
Alvaro sospira. Orlando s'avvia a chiudere la guardiola:
- Adesso è tutto chiaro …
Poi si volta verso Alvaro:
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-
È finita la pace, sig. Malacosta.
Già. Era meglio quando si stava peggio. Ah,
maledetti citofoni!
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Paolo Bocconi
L’OROLOGIAIO
Quanti anni erano che non passavo di lì?
Forse venti, ma a me sembravano cento.
Piazza Cittadella aveva forse un bar in più e una
merceria in meno, ma aveva ancora quelli che furono i confini della mia “vita sociale” di un tempo:
la scuola e l’orologiaio.
Fu soprattutto quest’ultimo ad attrarre la mia attenzione.
La stessa insegna, la stessa vetrina che vetrina non
era, ma soprattutto lo stesso uomo, incredibilmente
più vecchio, che lavorava in vetrina per sfruttare la
luce che il sole gli dava per poche ore al giorno.
Il tavolo sul quale lavorava era ingombro di rotelle,
molle e ingranaggi esattamente come lo era venti o
cento anni prima quando solo un vetro lo separava
dagli occhi sgranati di un bambino che forse aveva
otto anni.
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Quel bambino ero io e non vedevo l’ora di uscire
da scuola per andare a spiaccicare il naso su quella
vetrina ed ammirare quell’uomo eccezionale che
ricostruiva un orologio con mille pezzi tutti uguali.
“Cento anni” dopo quel bambino possedeva sei
orologi. Io possedevo sei orologi. Ma le funzioni
si erano confuse: ero io che controllavo il tempo
attraverso loro, oppure loro lo facevano attraverso me?
Una sera d’inverno un segnale orario dette un fiero
scossone alla mia sicurezza: tutti e sei gli orologi
erano indietro di un secondo!
La sera precedente ne avevo regolato uno sul segnale orario e gli altri cinque sul primo.
Eccola … per forza questa doveva essere la spiegazione! Avevo tardato un secondo nel premere il
pulsante “set” del primo.
La sera dopo il ritardo era di sei secondi.
Dieci giorni dopo il ritardo era di sette minuti.
Non capivo e il terreno mi scivolava da sotto i piedi
finché, per caso, ripassai di lì.
Piazza Cittadella aveva forse un bar in più e una
merceria in meno, ma “Lui” era ancora là, dietro il
vetro e con il monocolo sempre più vicino alle rotelle dentate.
- Buon giorno, si ricorda di me?
- Tu sei Paolo, il mio ultimo apprendista.
- Ho sei problemi che mi angosciano, eccoli.
- Perché, Paolo, li hai portati a me?
- Perché non conosco nessuno al mondo che
possa risolvermeli.
- I tuoi orologi, Paolo, non sono rotti; è il tuo
tempo che si è rotto: ha imboccato una discesa e i freni sono rotti … ed io, purtroppo,
non ho gli strumenti per ripararli.
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-
E sull’ultima sillaba appoggiò la testa bianca su di un cuscino fatto di rotelle, molle ed
ingranaggi.
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Elettra Bianchi
Il BAMBINO CHE
PARLAVA CON L’ECO
Tanto tempo fa, in un paese lontanissimo, abitavano due sposi che desideravano intensamente avere
un bambino e ogni giorno pregavano il Signore che
li esaudisse.
La loro richiesta fu accettata e la mamma si accorse
ben presto che nel suo pancino cominciava a esistere un bambino piccolo piccolo piccolo,uguale a un
chicco di riso, ma già con il cuoricino che batteva,
le manine con le dita e anche gli occhi e i capelli.
La mamma e il papà aspettarono con tanto amore e
tanta gioia che il bambino nascesse; avevano scelto
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di chiamarlo Gigi e quando lo videro per la prima
volta piansero contenti perché lo trovarono bello e
perfetto.
Purtroppo il bambino diventando grandicello presentò un grave difetto: la sua voce produceva una
forte eco, come la sirena di una fabbrica, e tutti dovevano comprimersi le orecchie con le mani per
non essere assordati da quel terribile sibilo. Inoltre
di ogni parola egli ripeteva l’ultima sillaba e diventava impossibile capire che cosa stesse dicendo.
I genitori lo fecero visitare da tutti i medici del paese, poi cercarono specialisti famosi anche
all’estero, ma tutti scuotevano rattristati la testa e
dicevano che non conoscevano la strana malattia
del bambino e che bisognava rassegnarsi, mettergli
piuttosto un bavaglio alla bocca e insegnargli il linguaggio dei segni.
Il povero Gigi lottò per rifiutare il bavaglio e anche
i genitori erano infelici di dover ricorrere a quel
mezzo, ma non c’era altro da fare, non si potevano
assordare tutti gli abitanti del paese.
Siccome non poteva neanche andare a scuola a causa del suo difetto, Gigi fu mandato a pascolare le
pecore su una montagna nei pressi di casa sua, una
montagna alta alta che aveva sempre il cocuzzolo
nascosto tra le nuvole e candido di neve.
Il povero bambinello cominciò ad affezionarsi alla
montagna e ogni volta si spingeva sempre più avanti nel cammino, sempre più su, seguito da tutte le
sue pecore.
Quale fu la sua meraviglia quando si accorse un
giorno di essere giunto sulla punta della montagna!
Il panorama era stupendo, si vedeva di là quasi tutto il mondo, con tutte le sue diverse popolazioni e
l’aria era bianca come la neve, ma la neve non
procurava freddo e un sole color delle nespole pro30
fumava di frutta i dintorni e generava un calorino
dolce come il miele.
Il cuore del bambino si mise a battere di gioia, quel
luogo gli faceva provare sentimenti sconosciuti;
non si sentiva più escluso e obbligato a tenere il
bavaglio, ma autorizzato a parlare, a gridare, a manifestare i suoi pensieri. Allora gonfiò i polmoni
con tutta l’aria che poté e poi, guardando verso le
numerose popolazioni alla base della montagna, a
tutti gli uomini e le donne che stavano lavorando
nei campi o in ufficio, che guidavano ogni genere
di autoveicoli o macchine, stavano seduti in treno o
sulle navi, pregavano o curavano qualcuno, si mise
a gridare con tutta la potenza della sua voce:
- Ehi! Ehi! Fratelli miei ascoltatemi, sono qui,
ascoltate quello che voglio dirvi, a voi non
può far male la mia voce, voi siete gli uomini e le donne del mondo più vasto, io voglio parlare a tutti voi e non solo ai miei pochi paesani, ascoltatemi, vi pregooooooo.
Poi si fermò sbalordito pensando di aver osato
troppo e di aver ferito qualcuno, come al solito.
Con sua grande sorpresa vide che quasi tutti si erano fermati, avevano girato la testa in su e gli facevano ampi gesti con le mani e sorrisi e inchini. Capì che la sua voce era arrivata, non aveva ferito
nessuno, anzi c’erano tante persone che volevano
ascoltarlo ed essergli amici. Si accorse inoltre che
per uno strano intreccio di venti che spiravano dal
basso verso l’alto anche lui poteva ascoltare le parole di tutte quelle persone.
Così si misero d’accordo e stabilirono che tutti i
giorni si sarebbero dati appuntamento per raccontarsi qualcosa, per scambiare idee e anche per studiare, perché no; Gigi aveva sempre avuto molto
rimpianto per non aver potuto frequentare la scuola.
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Si fecero preparativi vari e si allestì una piccola aula sulle pendici della montagna. Un giorno un maestro e alcuni ragazzi gli andarono incontro e lo invitarono ad entrare con loro. Ma il bambino, impaurito, se ne stava zitto. Temeva d’infrangere per sempre il suo sogno di poter parlare. E se anche loro
fossero fuggiti spaventati non appena avessero udito da vicino la potenza terribile della sua voce?
Eppure i suoi amici insistevano incoraggianti e allora lui, timidamente, disse più sottovoce che poté
il suo nome:
- Mi chiamo Gigi.
- Come ? Ripeti, non abbiamo sentito bene intervenne il maestro.
Gigi, sbalordito ma questa volta col tono per lui
normale, ripeté il suo nome: nessuno fuggì. Si scoperse così che anche le orecchie degli uomini, come le corde vocali, possono essere fatte in modo
diverso e le persone sentono o non sentono secondo
come le hanno.
Gigi diventò un ragazzo felice insieme ai suoi molti
amici della montagna, studiò con passione e i suoi
genitori furono assai contenti della nuova vita che
lo attendeva.
Solo passando qualche volta per le strade del suo
villaggio e vedendo qualche persona che ancora lo
evitava egli faceva un piccolo piccolo:
- Oh!!!
E se la rideva di cuore a veder l’altro che scappava a gambe levate.
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Massimo Lencioni
IL CAMPOSANTO DI
MAGGIANO
Il cimitero si apre con un fischio nella poca campagna. Poca, perché a monte dopo qualche passo il
sentiero che s'inerpica per il bosco, dove s'andava a
far castagne, incontra l'autostrada che ci fu fatta
vent'anni or sono. Si rimane a mezz'aria a vederne
la stenta ascesa, sbarrati dal viadotto.
Di là, a valle, c'è invece la strada per dove si viene:
ed è un merito della piccola ansa di canne e fuscelli
se di qua si sta come isolati nel silenzio, mentre a
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pochi metri sfrecciano le macchine verso Viareggio. Ad ogni modo, qui ci si viene con la sola eco
dei propri passi sulla strada sterrata, così predisposti in una specie di intimidimento come ad entrare
in chiesa.
Qui, raramente disturbi qualcuno. Tanto che sarebbe un ottimo posto per venirci a pensare, o anche
solo ad oziare, a baloccarsi tra il ronzio degli insetti. Eppure non manchi di entrarci a passetti, sulle
punte, e col cuore sospeso. Ma non è che sia paura,
quella cosa che ti capita di pensare in luoghi come
questo, no: perché il cimitero di Maggiano bisogna
conoscerlo.
Sorge su una collina rasa, dove comincia a montare
il Quiesa, con un muricciolo basso che sembra un
pollaio. La casa di mia nonna è qui vicino e io da
sempre lo conosco, ché, di là, lo vedevo dopo qualche campo, dalla spallierina d'edera: là, in pieno sole, appena un po' più alto degli altri prati, come un
castelletto senza cime.
Era il limite dei funghi, cioè: là sapevo che i prataioli non riprendevano a nascere, allora perché andarci? In verità avevo, sì, un po' di paura, che è
normale a quell'età: ma più la sera, quando proprio
di lassù, come per incanto, si svegliava una brezza
fresca senza origine, perché tutto era buio.
Solo ora so che era brezza di mare, che viene da
Viareggio, di là dal monte. Ma allora, tanto bastava
a un brivido per ricacciarmi in casa. Oppure, uno
strano sentimento mi metteva quella acquerugiola
che veniva giù di là e scorreva per la Canabbia, il
fosso che tra i pollai scendeva verso Maggiano, il
paese, e s'avvizziva al ponte del Sartino, quello dove alla guerra ci passavano i soldati.
Quella roba era, come dire, succo del castelletto,
acqua dei morti: ma non cose tetre, macabre, no;
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pensavo però fosse proprio quello che era, acqua
che passa accanto a loro, a quel muretto e che so,
magari le affidano i propri pensieri, qualche cruccio, qualche sospiro.
E dicevo, vedi come ci crescono le ortiche nel fosso? Sono loro che se lo proteggono, non ci devo
andare. Ma di giorno, no: quel campo era proprio
quello che era, un altro campo, se pure più sfortunato, senza funghi e senza fiori veri, di quelli nati
sulla terra: perché quanto a fiori, quelli ce li aveva,
ma finti, o tagliati e portati a macerare nelle fiale
d'ottone o di rame, ritti con un senso di magia. Ecco
perché gli stava bene il nome, camposanto.
Allora, oggi, quando vengo qui, vengo al camposanto, e non al cimitero che, a dispetto del suo primo significato, suona male e fa stringere i denti.
Vengo qui, perché ci ho anch'io i miei morti, qualche Lencioni, qualche Puccetti, e ci verrei a visitarli, così come mi hanno insegnato e a parlarci, se loro mi rispondessero qualcosa: solo che loro se ne
stanno ormai assorti, con un fare dispettoso e anche
un po' vanitoso, nella migliore foto, e non sono mai
come li ho conosciuti: non fanno più errori, non
battono ciglio, fan mostra di esser saggi.
Poco male, mi dico, io ho fatto il mio dovere. Ahimè, però: perché questo, al camposanto di Maggiano, è vero fino a un certo punto. Qui, stai tranquillo
che dopo un po' finisce che non pensi più a niente,
vano e distratto come uno che ha fatto tutto e si riposa: altro che il luogo dove riposano i morti, qui ci
si viene a oziare da vivi!
Quale giornata che sia, basta un sole anche appena
velato che qui, tra quattro mura, ci nasce un tepore
cordiale, gentile, senza un alito, un'aria di serra e di
solario. E diventi, avvolto da questa inaspettata e
pagana pace, un botanico senza scienza, cullato dal
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piccolo calore, stretto nel tuo cappotto a gongolare
se è inverno, illuminato nella tua pigrizia da
quella luce buona e ferma che mandano i marmi
tutt'attorno.
Il camposanto ha la sua flora e la sua fauna, muschi
sui muri e le brecce, erba buona d'aiuola, malerbe,
persino qua e là dei papaveri, al tempo, e poi quei
suoi fiori senza radice: e formiche e lucertole, e
grilli e passeri e finte colombe di gesso su qualche
altarino più vecchio.
E a volte c'è qualche storiella, un po' triste e retorica, scritta su qualche pietra-silice, di bambini malati o di sposi sfortunati. Su questa si posa sempre la
cavolaia, bianca, grossa farfalla di campagna, ben
nutrita, e mi distrae dalla lettura: finché esce di là
dal muro, per altri campi.
Ma mi accorgo che è tardi, è ora di andare a mangiare, e l'odore ne arriva fin qua. Mi segno, rivado
col cuore più aperto, richiudo col fischio il cancello. Addio allora, i miei cari: anche oggi non vi ho
ritrovato.
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Fabio Altieri
VOYEUR EXTRA
SENSORIALE
1. Morta
Lo so bene che voi penserete che sia banale eppure
è successo proprio così: veloce, indolore (per quel
che ricordo ben inteso) e totalmente inaspettato.
Come nella maggior parte delle cose della vita
quando meno te lo aspetti zac tutto cambia e per
quanto ti sforzi la puntata è sul tavolo e il croupier
ha già detto rien ne vas plus. Il tuo destino ruota in
piena accelerazione nella roulette e non ti resta che
guardare la pallina.
- Siamo noi a decidere della nostra vita - dite.
Baggianate! Voi giustamente vi chiederete che prova ne abbia. Beh, il fatto che sia stesa a terra in un
vestito di seta amaranto ne è la prova lampante!
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Chiaramente sto divagando, ma cercate di capirmi,
cazzo, sono sconvolta.
Ok … un bel respiro (si fa per dire) e un passo indietro. Cerchiamo di andare per ordine.
Giovedì sera, appuntamento alle nove meno dieci al
Barnaba, un piccolo bar del centro. Dio quanto lo
odio quel bar! E no, non è come pensate. Non lo
odio perché sono stata così idiota da pensare che il
barman fosse un uomo diverso dagli altri e ci sia
finita a letto.
Per inciso lui non era affatto diverso, o meglio diverso lo era (lo stronzo!) dal momento che non disdegnava affatto l’apparato riproduttivo maschile!
Ora, sia ben chiaro, io non ho nulla contro i gay. Io
adoro i gay. Tutti i miei amici sono gay. Tutti!
Se fossi uomo probabilmente sarei gay visto la mia
ossessione per le collane vintage, le pettinature anni
Trenta e le canzoni tragiche di cuori infranti, ma
qui non si sta parlando di essere o meno gay, qui si
sta parlando del codice sessuale. Sei etero, ottimo!
Sei gay, grande! Sei trans, fantastico!
Ma se dici di essere etero e ti comporti da etero e
poi vai a letto con un uomo (e no, non era curiosità,
lo stronzo si è scopato metà dei miei amici gay e si
è fatto scopare dall’altra metà) allora, come riportato nel comma uno del codice sessuale: sei uno
stronzo. Punto e basta!
Ecco ho perso di nuovo il nocciolo della questione.
Scusate sarà stato il colpo in testa. Probabilmente
adesso i pensieri non hanno più spazio, sono cavalli
selvaggi e mi spingono a parlare a briglia sciolta.
Comunque stavo dicendo … esco di casa direzione
Barnaba: dieci minuti a piedi. Il mio vestito è una
nuvola di seta amaranto! Dio come adoro la seta!
Mi scivola leggera sui fianchi. Mi sento accarezzata
da piccole cascate d’acqua. Passo, flush, passo,
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flush, passo, flush. Una sirena a passeggio. E la mia
pelle? Che meraviglia! Sono abbronzata alla perfezione.
Cammino lievemente annoiata e accompagnata da
un familiare rumore di tacchi a spillo color oro. Naturalmente Gucci. Il mio tic tac rimbomba tra le arcate dei portici. Sotto il braccio una borsetta deliziosa di puro oro colato.
Il resto di me, vi starete chiedendo a questo punto.
Beh quel che resta da immaginare è una lieve scia
di lucida labbra (il rossetto è ormai trapassato remoto), capelli castano chiari (naturali sia ben chiaro) e occhi verdi nascosti ai passanti da una montatura Armani.
Dovrei forse per inciso ammettere che entrare nel
vestito di seta, scelto appositamente per la festa di
Lele, mi è costato dieci giorni di cena a base di valeriana. E intendo solo valeriana. La cosa negativa
è che andavo a letto ogni giorno con una voragine
nello stomaco come il Grand Canyon, quella positiva è che grazie al benefico effetto della valeriana
lo vivevo con enorme tranquillità.
Ma torniamo a noi. Gucci, Gucci perché mi hai abbandonata? Beh ecco infine il mio messaggio per le
future generazioni: mai sottovalutare il pericolo che
può nascere dalla congiunzione di un paio di tacchi
a spillo e di una grata. Potreste finire come me: una
nuvola amaranto stesa sul pavimento di Via Vittorio Emanuele II priva di fiato.
Banalmente morta!
2. Voyeur extrasensoriale
Galleggio! Questa è la sensazione che descrive più
accuratamente il mio stato attuale. Anche se dire
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sensazione forse è un’esagerazione, dal momento
che ho tirato le cuoia. O almeno credevo. E invece
eccomi qui. Sono intrappolata in un angolo del soffitto di una camera d’ospedale. Il mio corpo giace
tra le lenzuola bianche (di scarsa qualità) in una
piccola stanza arredata con delle tende improponibili. Quanto meno hanno avuto la decenza di togliermi il vestito. Non vorrei si rovinasse!
Un attimo … ma di cosa mi preoccupo: sono morta,
cazzo! O da quel che vedo abbastanza vicina alla
morte. Siamo onesti, non ho per nulla una bella cera. Avrei potuto mangiare pizza per gli ultimi dieci
giorni della mia vita! Non sarei mai entrata nel vestito, ma vuoi mettere la soddisfazione.
Mi chiedo come funziona. Nel senso, cosa sono esattamente in questo momento? Aria? Un fantasma? Oppure una leggera idea di quello che ero un
tempo? Da quel che capisco non riesco a muovermi
e non sono un fantasma fluttuante di estrema bellezza. Direi più che altro un paio di occhi confinato
nell’angolo del soffitto di una camera d’ospedale
(almeno è una singola).
Forse tra poco vedrò la famosa luce che mi trasporterà nel paradiso. Beh almeno nell’aldilà non girerò
come una vecchia, ma nel fulgore della mia giovinezza. Avrei potuto fare un sacco di altre cose in
questa vita, ma come si dice, c’est la vie..credo!
Certo la questione del digiuno mi rode ancora un
bel po’!
… buio …
Toh mi è venuto a trovare il mio Cici. Il mio vero
amore. Stiamo insieme da quasi tre mesi ormai.
Guarda come sta bene con quel maglioncino. Deve
essere della nuova collezione di David Mayer, non
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ho dubbi. Lui adora David Mayer. Povero Cici deve essere disperato. Mi tiene la mano … che caro.
Di nuovo si apre la porta: un’altra visita. Anche da
morta (o quasi) la mia vita è un via vai di amici e
persone che mi amano. Se avessi la bocca potrei
sospirare in questo momento. Ahhh.
Aspetta un momento, ma è Siria. Dio come la odio!
Cosa vuole quella piccola biscia di palude? Di sicuro l’hanno costretta i suoi a venire in ospedale.
Guarda come le brillano gli occhi ora che ha visto il
mio Cici. Troia!
- Ehi ciao - dice.
Cavolo è più falsa della gramigna, si vede lontano
un miglio che non è per nulla dispiaciuta per me.
- Ciao Siria - risponde lui mesto.
Povero …
- Non si sa ancora nulla?
- No. È così da molte ore ormai. Il mio amore... - sospira.
Ohhh non è dolce il mio Cici? Piange per me
(d’altra parte me lo merito sono stata una ragazza fantastica e a letto lo sanno tutti che sono una
bomba).
- Dai non fare così sono sicura che migliorerà. Ha una testa dura lo sai bene - dice la
serpe e si avvicina al mio amore.
Ma come osa! Gli sta toccando la mano. E lui se la
fa toccare. Ehi dico, siamo in un ospedale, cazzo!
Poi lei gli si siede accanto e per un po’ non parla.
Fissa la mano che il mio Cici le stringe (e quando ti
ricapita bella!). Quindi osa fare l’improponibile.
Gli appoggia la testa sul petto e finge di piangere.
Che attricetta da quattro soldi. Sembra quasi che
sghignazzi. Sei solo un’oca mi senti? Ocaaaaaa!
Il mio Cici le alza la testa. Pure le lacrime riesce a
fingere la serpe.
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Potrebbe avere un futuro da attrice, gliene rendo
atto.
Lei sbatte quegli occhioni da quaglia che si ritrova
nella direzione del mio amore. Poi con uno scatto
felino gli si avvicina e lo bacia.
Che bastarda! Ma ora vedrai il mio Cici ti prende a
calci per avere osato profanare la mia memoria!
Ora inizia. Stai a guardare …
Ma che cazzo fa lo stronzo? La sta baciando? Non
ci posso credere!
I tre mesi più belli della mia vita buttati nel cesso.
Fantastico! Staccatemi la spina adesso, ho visto abbastanza per questa vita!
E invece i blasfemi continuano. No, ma fate pure
tranquilli sapete, fate come se non ci fossi!
… Allora, io non so come funziona qui la cosa, ma
questa parte da voyeur extrasensoriale nella quale
mi ritrovo non mi piace per nulla.
È possibile avere per un attimo solo la bocca e non
gli occhi? Ho giusto due cose da dire.
Ehi voi due (stronzi!) laggiù mi sentite?
Ehi tu Cici ti ricordi di me? Sono la tua ragazza!
Quella nel letto accanto! Quella morta, cazzo!
… buio …
Di nuovo sola. I due farisei sono spariti. Ma sì, che
facciano quello che vogliono, si meritano a vicenda
(stronzi!). Non appena arrivo in paradiso gli preparo un bel comitato di benvenuto. Ho giusto due cose da dire sul loro conto.
Di nuovo la porta si apre. Ecco mia madre. Neanche in ospedale si toglie gli occhiali da sole. Ah,
ma la capisco tutto quel bianco potrebbe rovinarle
le retine, povera. Figurati …
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Che gran donna mi ritrovo per madre! È cosi piena
di botox che pur piangendo manterrebbe
quell’espressione di vacua noia che le hanno scolpito in faccia. Non si avvicina neanche al letto. Mi
fissa da lontano. Chissà cosa starà pensando? A
volte mi viene il dubbio che io non sia sua figlia.
Dubito che mia madre possa essere riuscita a indossare la stessa cosa ogni giorno per nove mesi: me
appunto!
Si avvicina al letto e mi aggiusta le coperte attenta
a non sfiorarmi nemmeno per un momento. Quindi
si gira sui suoi tacchi Gucci (lo ammetto la donna
ha classe, su questo non ci piove) ed esce.
Probabilmente chiederà al commercialista se può
scaricare le spese funebri nella dichiarazione dei
redditi!
Mia madre è fatta così! Non la odio neanche. È
semplicemente immune alle emozioni. Gliele avranno estratte da piccola in Svizzera, la sua terra
natale. Probabilmente c’è un vaccino a queste cose
chiamate emozioni. A volte vorrei averlo anch’io
quel vaccino, ma non penso ne avrò più bisogno.
… buio …
3. La vera storia … o quasi!
All’improvviso mi sento strana. Molto più terrena
in un certo senso.
La forza gravitazionale comincia a fare di nuovo
presa su di me. La sensazione di galleggiamento
comincia a diventare meno profonda e da una recondita e forse ormai persa parte di me sento una
forza che mi spinge verso il basso. È come se fossi
al centro di una strana lotta. Sono una nave sballot43
tata dalla burrasca o un uccello spiumato che non
riesce a mantenere la rotta. Sono ancora sospesa in
alto, relegata in un angolo del soffitto, ma ho meno
equilibrio.
Ecco mi sto abbassando di quota.
Mi sorge un dubbio: forse non andrò affatto in paradiso, forse sto andando dritta dritta all’inferno!
E no cazzo! Il tacco rotto, la messa in piega e il colore dei capelli rovinati (ok, ok lo ammetto non è
castano chiaro ma castano scuro), il mio vestito
preferito probabilmente strappato e ora anche
questo!
Non è giusto!
Perdo ancora di quota. Cerchiamo di stare calmi.
STIAMO CALMI!
Mi batterebbe il cuore a mille, se ne avessi uno.
Io non voglio andare all’inferno! E va bene uffa i
miei capelli sono neri come la pece e se non li stiro
appena sveglia, sembra che sia uscita dalla galleria
del vento. Ecco sono stata sincera, posso tornare su
adesso?
Non mi frega neanche di quella zucchina priva di
sentimenti di mia madre o di quel coglione del mio
ragazzo. No, aspetta, non volevo dire coglione!
Giuro! Intendevo come parte anatomica!
Mi fermo.
Ondeggio incerta a mezz’aria. Forse li ho convinti!
Non dovrei pensarlo, ma convinto chi?
Maledetti pensieri in libertà!
Comunque mi sono fermata, vedo il mio corpo
immobile esattamente sotto di me. Che mi sia salvata in corner?
All’improvviso però ricomincio a muovermi. Lentamente. Centimetro dopo centimetro. A quanto pare non sono più diretta verso il basso, ma mi sposto
lateralmente formando dei cerchi.
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Comincio a roteare sopra il mio corpo come fossi
intrappolata in un ciclone. Giro sempre più veloce.
Uooosh … uooooossh … uoooooshh.
Mi gira tutto, non ci capisco niente. Se fossi ancora
viva mi verrebbe da vomitare. Invece vedo solo tutta la stanza girare come una trottola e sarebbe una
figata se non fosse che sto per andare giù
all’inferno.
Avessi la bocca fumerei l’ultima sigaretta!
Giro e mi muovo sempre più in basso.
Uoooshh … giù di un po’, uooosh … giù di un po’.
Disegno cerchi sempre più piccoli.
E poi … poi cado dentro.
Dentro di me!
Di nuovo!
Tesoro, tesoro svegliati - mi chiama una
voce familiare.
È lontanissima e sento una lieve pressione su qualcosa che potrebbe essere un braccio.
- Mmmm - rispondo, ma forse succede solo
nella mia
testa o nell’aldilà. Che sia già rinata? Dio, fa che il
colore dei miei capelli sia castano chiaro e che siano lisci!
- Signora forse sarà un po’ confusa al risveglio –
aggiunge una seconda voce rassicurante.
Apro gli occhi lentamente e vedo tutto appannato.
Che sia viva dopotutto?
Una persona che riconosco come mia madre copre
la mia visuale. È in lacrime. Impossibile!
- La lasci riposare - è l’ultima cosa che sento.
-
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Un mese dopo sono in piedi davanti allo specchio.
Eccomi. Mi chiamo Amanda, novantanove chili per
un metro e sessantacinque.
La donna cannone completamente accessoriata. La
mia operazione di chirurgia bariatrica per il trattamento dell’obesità è andata bene.
Ho già perso tre chili e zero complicazioni post operatorie.
- L’anestesia gioca brutti scherzi si sa - mi
ha detto il dottore il giorno dopo il mio risveglio.
Io in tacchi a spillo che muoio cadendo … alla fin
fine era tutto un sogno, ma così reale.
Forse sono morta così in un’altra vita. No, se
fossi morta così adesso sarei gay. Sarebbe più
appropriato.
Beh un attimo, non proprio tutto era frutto della lidocaina che mi hanno iniettato per farmi dormire.
C’è un segreto che non ho mai confessato, una piccola parte di verità nel sogno che ho fatto.
Nel mio armadio, tra vestiti informi ed extra large
dai colori improponibili, c’è nascosto un piccolo
gioiello: un grazioso vestito di seta rossa la cui taglia non voglio neanche pronunciare. Il tessuto è
dolce al tatto, quasi impalpabile e fresco, oooh dovreste sentirlo: è una cascata di acqua viva. È lì che
mi aspetta da dieci anni. Non ha mai saputo chi
l’avrebbe indossato. Sono il suo appuntamento al
buio mai arrivato. Ecco perché mi sono operata.
Penso che quel vestito abbia atteso abbastanza!
Posso essere (stata) grassa, ma maleducata mai!
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Franco Bomprezzi
L’ORA DI TIMY
Ogni giorno si incantava, verso il tramonto, ad osservare dall’alto gli stormi di gabbiani che pigramente seguivano la corrente dell’Hudson, mentre le
chiatte trasportavano, lente, merci e rifiuti di New
York. Gli uomini erano puntini contro l’orizzonte,
gli uccelli si intuivano dalle traiettorie aeree contro
il sole, con quei rapidi tuffi verso la superficie del
fiume, alla ricerca di pesce, per quanto inquinato
fosse. Impossibile sentire i loro versi, i loro richiami striduli nel cielo. Troppo forte, a quell’ora, il
frastuono proveniente dalla strada, cento metri più
in basso, nel cuore della Grande Mela. Ma per
Timy questa era una delle poche distrazioni, in un
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lavoro di precisione, ventiquattrore su ventiquattro,
365 giorni all’anno. Certo, si sentiva un po’ stanco
e frustrato, sempre da solo, in cima a quel vecchio
grattacielo con pretese liberty, sopravvissuto agli
sventramenti degli ultimi trent’anni. Ma nello stesso tempo si compiaceva della propria precisione
cronometrica, della riconosciuta affidabilità. Nel
suo campo non temeva rivali. Mancava, semmai,
un po’ di poesia.
Timy distolse lo sguardo dalla baia di Hudson e
tornò a osservare il fiume di gente che sbucava dalle bocche della subway, la metropolitana che inghiottiva ogni giorno milioni di pendolari, ma anche di perdigiorno, di disoccupati, di turisti, donne,
giovani, vecchi, accomunati dalla fretta. Una maledetta fretta. Ecco perché appena si materializzavano dal buio della scala mobile e si affacciavano alla
superficie, quasi tutti volgevano la testa all’insù e
confrontavano l’ora con la sua. Già, perché Timy
era un grande, grandissimo orologio, appeso al
grattacielo di una banca, funzionante quasi in eterno grazie a una pila atomica. Aveva due enormi
lancette metalliche, nere, che segnavano le ore e i
minuti, scrupolosamente indicati sul quadrante
bianco avorio. I secondi venivano scanditi da una
terza lancetta, più sottile e chiara, ma non per questo meno precisa. Due fenditure nel quadrante avrebbero dovuto contenere il mese e il giorno. Ma
Timy, che inspiegabilmente viveva una propria esistenza e si percepiva come essere pensante, le utilizzava per guardare, erano le finestre per i suoi occhi invisibili. Un orologio animato e pensante nel
cuore della metropoli, un’anomalia forse voluta dal
suo inventore, un ingegnere morto da tempo, che si
era dedicato a strani esperimenti.
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Fatto sta che Timy non era un orologio qualsiasi. E
se ne compiaceva non poco. Era una enorme soddisfazione notare come gli impiegati della banca,
prima di essere inghiottiti dal grattacielo, si rivolgevano a lui per assicurarsi di essere in orario, meglio ancora se in anticipo anche di pochi minuti
sull’ora prevista per far scorrere il badge di riconoscimento nella fessura del marcatempo. Erano visi
già stanchi, che accennavano comunque a una specie di sorriso, quasi di riconoscenza nei riguardi di
Timy, che dall’alto li rasserenava, con le sue lancette precise e imparziali, come se dicesse loro:
“Bravi, anche questa volta siete stati puntuali, nessun rimprovero in vista. Buon lavoro, ci vediamo
all’uscita”. E infatti uno sguardo, assai diverso, arrivava fin lassù anche al termine delle lunghe ore di
ufficio, convulse, scandite anch’esse da altri orologi, quello del reparto, ma anche il display del
cellulare, e poi l’orologio da polso, e il timer del
computer.
Timy lo sapeva bene, il padrone delle vite degli
umani era il tempo. Ecco perché il suo lavoro era
così prezioso e richiesto. “Il tempo è denaro”: la
scritta campeggiava proprio sotto il quadrante, ed
era il motto del grattacielo, settanta piani pullulanti
di persone indaffarate, dall’alba al tramonto, e
spesso anche fino a notte inoltrata. Ecco, dopo le
undici di sera poteva cominciare a rilassarsi, erano
assai meno gli sguardi che cercavano le sue lancette
ovviamente illuminate, e Timy poteva concedersi
un po’ di fantasia e qualche ora di sonno, sempre
vigile, naturalmente.
Nel piccolo piazzale che separava il grattacielo dal
flusso del traffico, miracolosamente, come a volte
succede a New York, si era salvato un albero e, accanto all’albero, una panchina. Incredibile davvero.
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Quella sera di luglio Timy notò una bambina, seduta da sola sulla panchina, come in attesa di qualcuno che non arrivava. Era già grandicella, di
quell’età nella quale si comincia a essere indipendenti ma non troppo. Guardava alternativamente
l’uscita della metropolitana e poi, voltandosi con
espressione inquieta, le lancette dell’orologio. Aspettava sicuramente qualcuno, e non nascondeva il
disappunto per un incontro mancato. Si alzò dopo
un ultimo sguardo implorante all’orologio e si allontanò, sconsolata, sul marciapiede ancora affollatissimo. Scomparve in pochi istanti alla vista di
Timy.
Ed ecco, due minuti più tardi, sbucare dalla metropolitana un uomo abbastanza giovane, con giacca e
cravatta, e una borsa d’affari sotto braccio. Uno
sguardo alla panchina vuota e poi su, verso
l’orologio. Dalle lancette di Timy la conferma: aveva fatto tardi, un quarto d’ora di troppo. La bambina non c’era più. L’uomo si accasciò esausto sulla panchina, estrasse dalla giacca il telefono cellulare e chiamò. Timy non poteva ascoltare la conversazione, ma ormai era chiaro: il tempo aveva tradito un padre e una figlia. Che peccato.
Ma ecco, il giorno dopo, ripetersi la scena. O meglio, Timy era stato molto attento, non si era lasciato distrarre troppo dai gabbiani e dal tramonto. Erano ormai le 7.30 di sera, ed ecco la bambina arrivare puntuale, accompagnata da un’anziana signora, che la baciò sulla guancia prima di salutarla e di
darle le ultime raccomandazioni. La piccola sorrise
incerta. Poi cominciò a fissare l’uscita della metropolitana. Timy ebbe un sussulto: forse poteva fare
qualcosa. Per la prima volta nella sua vita cronometrica ignorò le regole per le quali era stato inventato
e frenò le lancette dell’orologio, in modo tale che i
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minuti scorressero molto lentamente. La bambina
ogni tanto guardava in alto, e si rasserenava: non
era poi così tardi, che strano. Era trascorso in effetti
un quarto d'ora, ma le lancette di Timy segnavano
solo cinque minuti: il tempo, che diamine, si poteva
rallentare, naturalmente a fin di bene.
E infatti ecco apparire, trafelato e stanco, l’uomo
della sera prima, convinto di essere in un ritardo incolmabile: la bambina, ancora sulla panchina, si alzò di scatto, gli corse incontro e gli gettò le braccia
al collo. Allora lui guardò in alto incredulo, ma le
lancette di Timy confermavano: era arrivato in orario. Padre e figlia si allontanarono abbracciati, parlando fitto fitto, e ridendo. Timy per la prima volta
si sentì felice.
E da quel giorno, ogni tanto, giocò a dilatare il
tempo, a rallentarlo un po’. Qualcuno cominciò ad
accorgersi di questa stranezza, ma ciò accrebbe la
popolarità di Timy, e ogni sera una piccola folla di
ritardatari si radunava nella piazzetta indicando con
il dito teso verso l’alto questo strano orologio, non
più affidabile, ma molto divertente, quasi umano.
Timy, riconoscente, salutava tutti con un batter di
secondi. Il tempo, in fin dei conti, non mancava
mai.
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Salvatore Torchetti
IL FOLLETTO FLIT
(Può un piccolo folletto sognare un giorno di diventare un bambino vero?)
Tanti e tanti anni or sono, un grazioso folletto di
nome Flit viveva in una piccola casa nascosta tra le
verdi fronde di una grande quercia secolare. La
grande quercia apparteneva ad un’anziana coppia di
contadini inglesi: la famiglia Legan.
Flit non era più alto di un gheriglio di noce; aveva
capelli lunghi e verdi come smeraldi, gli occhi color zaffiro e la carnagione rosea come la pelle di un
bimbo.
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Il folletto vestiva abiti molto sgargianti, erano preparati con cura da mamma Yolanda, una canuta farfalla grande esperta di cucito. Yolanda si prese cura
di Flit dal giorno in cui lo trovò abbandonato ai
piedi della grande quercia dei Legan.
Flit, infatti, venne abbandonato dai propri genitori
appena nato …
Yolanda, quel mattino, era intenta a succhiare il
nettare dei fiori, quando venne incuriosita da un
buffo essere seminascosto nell’erba.
- E questo cos’ è? – si domandò la farfalla afferrando il neonato per osservarlo meglio.
Ella, infatti, non aveva mai visto un folletto
prima di allora.
Fu proprio in quell’istante che uscì la mamma di
Flit allo scoperto e sembrò essere seriamente preoccupata.
- La prego signora farfalla di aiutarmi perché
sono nei guai! – esclamò la donna folletto
tutta agitata.
- E tu chi sei?
- Io mi chiamo Rona e sono la regina dei folletti della terra dell’Ovest; sono la mamma
di Flit, colui che tieni nella mano.
- Regina della terra di cosa?
- Ora non ho tempo per discutere, devo scappare via. Avrei disperato bisogno del tuo aiuto!
- Dimmi, cosa posso fare per te?
- Vorrei che ti prendessi cura del mio figliolo
finché non farò ritorno a riprenderlo.
- Sarei ben disposta ad aiutarla, ma non saprei proprio da dove cominciare!
- Troverai tutto in questa lettera. Allora puoi
aiutarmi? - chiese nuovamente la regina.
- Va bene. Cercherò di fare del mio meglio.
53
- Grazie infinite.
Detto questo, la regina dei folletti si allontanò velocemente dal giardino, balzando da un fiore all’altro,
fino a svanire nella fitta vegetazione.
Yolanda, a quel punto, sfilò la lettera di Rona e fu
sorpresa di leggerne il contenuto …
La farfalla apprese così le motivazioni che spinsero
Rona ad abbandonare il piccolo Flit, ma conobbe
anche le indicazioni per prendersi cura di lui.
Forse non tutti sanno che esistono tanti tipi di folletti e prendono il nome dalle piante dove abitano;
infatti vi sono i folletti dei fiori, dell’erba, dei frutti
e degli alberi. Il piccolo Flit faceva parte di
quest’ultima categoria, infatti era un folletto delle
querce.
Yolanda lesse molto attentamente le indicazioni
contenute nella lettera e fu stupita di venire a conoscenza di tante e preziose informazioni circa le abitudini dei folletti.
I folletti delle querce infatti, quando sono molto
piccoli come Flit, si nutrono della linfa contenuta
nelle foglie più tenere dei maestosi alberi. Divenuti
grandi mangiano anche le ghiande mature e ne sono
molto ghiotti!
I folletti, durante il periodo invernale, vivono
all’interno di piccole cavità nel tronco degli alberi.
All’arrivo festoso della primavera i folletti formano
delle capanne di foglie e fiori profumati ben nascoste tra le verdeggianti fronde.
I folletti delle querce sono maestri nel suonare il
“tagi”. Il tagi è simile ad un’armonica ricavata dal
gambo di una foglia di mughetto sapientemente lavorata.
È proprio durante le notti estive che i folletti delle
querce amano sdraiarsi sulle foglie e suonare il tagi
al chiarore della luna.
54
Capita non di rado anche all’uomo di ascoltarne il
dolce suono, ma spesso viene da lui erroneamente
interpretato per il trillo dei grilli.
Ogni quercia ha il suo re e la sua regina e a loro
spetta il duro compito di garantire l’armonia
all’intera popolazione …
Yolanda, terminata la lettura della lettera, si mise
subito al lavoro per costruire una capanna adatta a
lei ed al piccolo Flit; lo sfamò con la nutriente linfa
delle foglie più tenere della grande quercia.
- Chi l’avrebbe mai detto che sarei diventata
nutrice di questo folletto! - pensò Yolanda
sorpresa …
Trascorsero diversi anni da quel giorno avventuroso; si alternarono così i freddi inverni inglesi e le
frizzanti estati.
Flit divenne forte e sano e Yolanda diventò grande
conoscitrice del popolo dei folletti delle querce.
Yolanda, dal giorno in cui si prese cura di Flit,
venne accolta con immensa gioia dal numeroso popolo che abitava la grande quercia dei Legan.
Flit era un folletto curioso ed intelligente e proprio
grazie a queste sue caratteristiche, ebbe modo di
spiare di nascosto l’anziana coppia dei Legan. I
Legan vivevano in una casa modesta non molto distante dalla quercia.
Un bel giorno il folletto chiese allo scoiattolo Jessy
di accompagnarlo nella casa dei Legan e fu accontentato.
- Perché vuoi proprio andare dai Legan? Non
credi possa essere pericoloso per te?
- Vorrei solo capire qualcosa in più sul mondo degli umani di cui mi hai tanto parlato.
Sono solo curioso…
55
-
Fai molta attenzione, i Legan hanno una
gatta di nome Margaret sempre a caccia di
qualcosa …
- Non ti preoccupare, so badare a me stesso.
Anche se non ho le ali come i folletti dei
fiori, posso fare grandi salti per superare gli
ostacoli!
- Va bene mi hai convinto. Forza sali sul dorso e tieniti forte perché ti porto ad esplorare
un nuovo mondo!
- Evviva!
Flit salì sul dorso di Jessy.
- Si vola! - esclamò il folletto entusiasta.
Flit, a bordo del grazioso scoiattolo, atterrò proprio
davanti alla finestra della cucina dei Legan.
- Jessy … Sei tornato finalmente! - disse la
donna - Credevo ti fossi dimenticato di una
povera vecchia come me. Ora ti prendo le
noccioline che ti piacciono tanto.
La donna raccolse i frutti da un’ampolla posta
sull’antica credenza, aprì la finestra e li donò allo
scoiattolo che saltò dalla gioia.
Flit approfittò della situazione per entrare a curiosare in casa.
Il folletto trascorse l’intero pomeriggio ad osservare sia la coppia di anziani, sia la casa colma di strani oggetti.
La gatta Margaret si accorse subito dell’invasiva
presenza del folletto e lo seguì nervosamente attendendo il momento giusto per sferrargli l’attacco.
Flit fece molta attenzione a non cadere in trappola …
I Legan, come ogni pomeriggio, sedevano accanto
al camino scoppiettante gustandosi una tazza di the.
Pensavano a come sarebbe stato bello poter ricevere l’affetto di un figlio…
56
-
Cara Louise, ormai non dovremmo più pensare a queste cose; niente e nessuno potrà
donarci questa grande gioia. Siamo vecchi disse John con un’espressione malinconica
dipinta sul volto.
- Amore mio, a me basta solo poter immaginare di avere un figlio per continuare a vivere serenamente. Non togliermi questa
medicina per l’anima.
- Scusami cara, hai ragione. Il fatto è che a
volte soffro così tanto per questa situazione
che se non ne parlo mi pare di stare meglio
ed invece mi sbaglio.
- Senti caro, chiediamo a Dio ancora una volta di donarci un figlio come ha fatto per Abramo e Sara. Soltanto Lui potrà esaudire la
nostra preghiera.
- Va bene cara chiediamolo ancora una volta.
L’anziana coppia, tenendosi per mano pregò intensamente il Signore supplicandoLo di esaudire la loro richiesta.
Flit osservò le lacrime scivolare dagli occhi dei due
anziani e si rattristò grandemente per loro.
Mentre li osservava pregare a Flit venne in mente
una formidabile idea.
Il folletto uscì dalla finestra della cucina, chiamò
Jessy e si fece riaccompagnare a casa.
- Come ti sono sembrati gli umani? - chiese
lo scoiattolo durante il viaggio di ritorno.
- Gli umani sono come i folletti perché hanno
un buon cuore, ma sono più alti e grossi.
- Hai avuto paura?
- All’inizio un po’, ma poi mi sono fatto coraggio.
Il piccolo Flit rincasò un po’ stanco, ma con un
pensiero che lo animava nel cuore.
57
-
C’è qualcosa che ti turba piccolo mio? chiese mamma Yolanda.
- Sì mamma!
- Parla figliolo, lo sai che di me puoi fidarti.
Flit spiegò a mamma Yolanda la sua avventura in
casa Legan e poi chiese:
- Avrei una cosa da domandarti. Vorrei diventare un bambino per poter regalare a
Louise e John la gioia di poter essere genitori.
- Vuoi diventare un bambino? Cosa stai dicendo figliolo, lo sai che un folletto non può
mutare il suo aspetto in un bambino!
- Lo so … Eppure ci deve essere un modo per
aiutare quella coppia di anziani. Vorrei solo
vederli felici, tutto qui!
- Sei veramente sicuro di voler diventare un
bambino vero?
- Si mammina. I Legan sono brave persone,
hanno sofferto molto nella vita, sono soli ed
affaticati. Chi si prenderà cura di loro negli
anni venturi? Non posso essere indifferente
al problema, mi capisci?
- Certo caro. Sei sempre stato un folletto di
animo nobile. C’è un solo modo per sapere
se puoi diventare un bambino vero.
- E quale?
- Potresti recarti dal re dei folletti a chiedergli
di consultare il grande libro della conoscenza. Nel libro ci sarà scritto qualcosa di utile
per risolvere il tuo problema.
- Ci vado subito!
Flit si sistemò velocemente le vesti, si pettinò i capelli e con qualche balzo giunse nella grande dimora della famiglia reale. Lì fu accolto con garbo e
cortesia.
58
-
Che cosa posso fare per te piccolo Flit? chiese il re con voce tonante.
- Avrei bisogno di chiederle di consultare il
grande libro della conoscenza per me.
- Qual’è la tua richiesta?
- Vorrei sapere se un folletto come me può
diventare un bambino.
Il re rise di gusto nell’udire quella richiesta poi si
fece più serio ed esclamò:
- Ho quasi duemila anni e non mi è mai capitato di udire una cosa più assurda di questa!
Vorresti diventare un bambino?
- Sì mio re, desidero che la famiglia Legan
sia felice.
- Che cosa vai dicendo? Non ti capisco!
Flit cominciò a raccontare tutto quello che aveva
appreso della famiglia Legan e del loro grande desiderio di diventare genitori.
- Va bene; date le premesse consulterò il
grande libro della conoscenza.
- Grazie. È davvero gentile mio re!
Il re prese del tempo per consultare il grande il
libro …
- Mi dispiace figliolo, ma il libro non dice
nulla circa la tua richiesta. Probabilmente
nessuno mai prima di te ha formulato il desiderio di diventare un bambino.
- Non può proprio fare nulla per aiutarmi? domandò Flit sconsolato.
- Temo di no, ma nel grande libro v’è scritto
un proverbio che forse potrà consolarti.
- Sono tutto orecchi!
- Vi sono tre cose al mondo che possono rendere veramente felice un folletto: la fede, la
speranza e l’amore, ma la più grande di tutte è l’amore.
59
Flit ringraziò il re per la sua disponibilità e tornò a
casa piangente. Il popolo dei folletti, infatti, lo derideva per la sua folle richiesta.
Il folletto raccontò tutto a mamma Yolanda la quale
lo strinse forte a sé per incoraggiarlo.
- Non c’è nulla di impossibile se credi! - disse la mamma.
- Ti voglio bene mammina, sei l’unica a credere in me…
Arrivò ben presto la notte. Flit, prima di addormentarsi, decise di rivolgere una supplica a quel Dio
che aveva sentito nominare dai Legan. Era la prima
volta che pregava e non sapeva bene cosa dire... Gli
aprì semplicemente il suo cuore …
Quando terminò la preghiera successe una cosa
molto strana; il folletto udì come una voce sommessa, gentile e dolce provenire dal suo cuore.
La voce diceva:
“Domani notte recati in casa dei Legan e dormi nel
loro letto. Non aver timore per la gatta perché non
ti vedrà.”
- Che sta succedendo, chi ha parlato? - chiese
Flit preoccupato. Era la prima volta che udiva la voce di Dio.
Flit corse a raccontare il tutto a mamma Yolanda, la
quale intuì che il figliolo aveva appena udito la voce di Dio.
- Cosa vuoi fare figliolo? - chiese la farfalla.
- Io desidero seguire il consiglio di quella
voce.
- Sono d’accordo, ma ti chiedo di portarmi
con te perché non voglio rimanere sola.
- D’accordo mammina.
Flit tornò in camera sua. Quando si svegliò era già
mattino ed una donna folletto lo guardava dolcemente al capezzale.
60
Flit si alzò di scatto e domandò:
- Chi è lei signora?
- Flit piccolo mio … Scusami tanto se ti ho
abbandonato, non avercela con me. Sono la
tua mamma!
Il folletto guardò la madre per diversi istanti che gli
parvero infiniti e l’abbracciò forte. Flit pianse molto perché non sperava più di rivederla. La mamma
gli raccontò le motivazioni dell’abbandono.
Era stata promessa al principe del suo regno dal
padre tiranno. Suo padre, infatti, desiderava che lei
diventasse regina solo per godere di popolarità e
ricchezza. Al padre non importava affatto se la figlia non amava il principe. Lei era già segretamente
incinta di un altro … Purtroppo dovette sposarsi col
principe sotto le pesanti minacce del padre. Quando
giunse il tempo di partorire lei scappò di nascosto
dal regno dell’Ovest col suo innamorato e si diresse
nella grande quercia dei Legan. Rona partorì un bel
maschietto che chiamò Flit il cui significato è
“goccia di rugiada sorridente baciata dal sole.”
La donna folletto in seguito scrisse una lettera e lasciò il piccino ai piedi della grande quercia che Yolanda trovò prontamente.
Rona non fece più ritorno al suo regno; fuggì col
suo innamorato in terre lontane. I due furono ricercati dall’esercito reale per diversi anni, poi il principe si risposò. Il padre di Rona fu cacciato dal regno e nessuno seppe mai che fine avesse fatto …
Flit ascoltò la storia della madre attentamente e fu
molto turbato in cuor suo perché capì improvvisamente di trovarsi di fronte ad un bivio. Da una parte c’era il sogno di poter diventare bambino e
dall’altra la possibilità di vivere la propria vita con
la famiglia natale.
61
Flit si
la sua
futuro
-
fece coraggio, raccontò alla madre tutta
storia e pure la decisione presa sul suo
…
Cosa hai intenzione di fare figlio mio? Vuoi
veramente diventare un bambino per aiutare
una coppia di umani di cui non conosci nulla?
- Non lo so. Sono un po’ confuso …
- Non pensi al dolore che potresti recare alla
tua mamma se diventi un bambino?
Flit meditò qualche istante poi disse:
- Hai avuto altri figli oltre me in tutti questi
anni?
- Sì, ho altri tre figli che ti stanno aspettando
qui fuori con tuo padre.
- È come pensavo … Hai avuto il privilegio
di vivere la gioia della maternità, ma questa
coppia di anziani non ha avuto la tua stessa
benedizione. Capisci quello che intendo dirti, non è vero?
- Sì, ho compreso. Sei un folletto di buon
cuore, figlio mio. Hai un animo nobile.
- Grazie mamma. Sono contento di sentirtelo
dire. Ho compreso una cosa importante in
questo tempo: non è la ricchezza, la posizione sociale o un titolo onorifico che ti
rende nobile, ma è l’amore offerto al prossimo tuo che ti trasforma giorno dopo giorno in figlio di re.
- Le tue parole mi lasciano stupefatta. Hai ragione piccolo mio. Sono orgogliosa di te!
- Ora fai venire qui il resto della famiglia
perché vorrei salutarli.
Rona fece entrare la sua famiglia nella camera del
figlio. Flit raccontò loro la storia della sua vita …
62
Le ore trascorsero liete e Flit giocò per la prima
volta con i suoi fratelli. Conobbe anche il padre che
lo amava tanto.
Giunse ben presto la sera ed il folletto dovette salutare la sua famiglia per recarsi a casa dei Legan.
- Se lo vorrete, potrete rimanere a vivere in
questa casa per venirmi a trovare ogni qual
volta lo gradirete! - disse il folletto.
- Ottima idea figliolo! - esclamò il padre con
gli occhi velati di lacrime.
Flit baciò e salutò la famiglia.
Ormai la notte avvolgeva tutta la campagna.
Flit entrò nella camera da letto dei Legan attraverso
la finestra socchiusa. Mamma Yolanda era con lui.
Il folletto si stese sul cuscino proprio in mezzo ai
due anziani e si addormentò beatamente.
Il mattino seguente Flit fu svegliato dalle grida di
stupore di Louise. Persino John non riusciva a credere ai suoi occhi … Videro un bambino in carne
ed ossa disteso sul loro letto!
I coniugi ringraziarono Dio per averli esauditi e
strinsero forte al cuore quel bimbo dallo sguardo
birichino …
Mamma Yolanda svolazzava allegra per la camera
da letto, mentre la “vecchia” famiglia di Flit festeggiava sul davanzale della finestra.
Flit si ammirò allo specchio nel suo nuovo aspetto
e si piacque molto nonostante i suoi goffi movimenti.
Il popolo dei folletti della grande quercia si stupì
del miracolo avvenuto a Flit e si rattristò non poco
per aver dubitato del grande potere della fede …
Dio moltiplicò i giorni da vivere dei Legan e come
ogni favola che si rispetti tutti vissero felici e contenti.
63
Emiliano Cevasco
L’ALBEROEDIO
otto
la prima notte nella nuova casa andò bene.
non c'erano rumori.
lessi il mio libro per un paio d'ore poi, steso sul divano, mi addormentai, come sanno fare i bambini.
l'indomani il sole risplendeva riflesso nelle pozzanghere lasciate la sera prima dal solito temporale di
passaggio.
camminai a lungo nel giardino.
ero stato nel deserto, a volte, ma tanto silenzio mai
mi aveva colpito.
di fronte a me, un albero.
64
le sue foglie erano strambe: da un lato, verdissime,
rimanevano verdi al contatto col sole; l'altra parte,
lucida, risplendeva acida quando i raggi di luce la
sfioravano.
rimasi per un po' seduto ad ammirarlo.
presi la pipa, ne odorai l'aroma, dopodiché la accesi, gustandomi l'estasi di solo essere senza per forza
fare.
tornai a dormire.
ero lì per riposarmi.
prima che Tutto iniziasse, dovevo ristorarmi dopo
tanta vita grama.
sette
le persone che mi conoscono fanno strane domande.
dicono male di me, in giro. ma poi con me sembrano appoggiare le mie istanze, le mie opinioni.
non vedo mia moglie da molti anni.
ho cresciuto da solo una figlia.
senza domandarmi perché.
sapevo di doverlo fare.
e così, triste a volte, sempre l'ho fatto.
65
ora mia figlia fa la motivatrice. fa qualcosa che si
chiama coaching. ha a che fare con la psicologia.
mi diverte sapere che tutta la sua vita è impostata
sulla motivazione.
a me è sempre mancata e, tuttora, è latitante.
la mia motivazione è ogni giorno differente: come
una bella dama, veste ogni dì un vestito diverso.
la mia motivazione oggi è un albero.
riuscite a vederlo, l'albero?
adesso riunisce i rami in volteggi acuti; il sole gli
bacia le foglie, rendendolo eclettico.
mia figlia non sa dove mi trovi.
per certi aspetti, nemmeno io lo so.
sono in un altro posto.
però sono forse al mio posto.
come l'albero.
sei
da quando sono nelle nuova casa, mi sveglio alle
5.45.
badate, non metto la sveglia.
66
semplicemente, spesso sconvolto da immagini oniriche convulse apro gli occhi.
guardo il quadrante digitale della sveglia e vedo
due cinque separati da un quattro al centro, insolente.
non credo voglia dire qualcosa.
qui non ho mai appetito, o bisogni particolari.
nemmeno il sesso mi rapisce con turbamenti o visualizzazioni.
nella mia vita sono stato sovente schiavo di bisogni
che credevo desideri: donne, droghe, relazioni e
paure.
quando apro gli occhi, constato le 5.45 e mi lavo la
faccia.
nonostante dissimuli con me stesso la tensione, sento dentro la fretta di uscire dalla porta della veranda
e contemplare l'albero.
quello che mi scompensa è il tipo di sensazione.
l'ho provata in passato già diverse volte: è la brama
di ritrovare una persona, un amore, un amico, un
progetto.
un'idea, a volte.
mi colpisce la staticità di quel legno vivo distante
da me.
67
appena faccio capolino in giardino, le sue foglie sui
rami sono immobili.
dopo poco, accennano a muoversi, sfacciate.
mi domando: le muove la mia mente?
cinque
la colazione diventa un turbamento.
per me è sempre stato il pasto più importante.
ma qui, mai ho fame.
in casa nulla manca: chi l'abitava prima aveva organizzato tutto alla perfezione.
l'arredamento è sobrio ed elegante.
ci sono padelle, colini, mestoli e arnesi indispensabili per una buona cucina.
il frigo mi ha accolto con generosità e opulenza:
uova, carne e pesce, salumi, verdure e frutta.
diverse birre.
in uno scaffale piuttosto in alto, molte bottiglie di
vino, alcune dozzinali.
nel bagno ho trovato alcune riviste pornografiche.
come un ragazzino, ho finto di non vederle.
dalle copertine, un'esplosione di cazzi culi peli bocche, irriverenti.
68
stamane ho cucinato tre uova con del prosciutto.
l'odore mi ha incantato ma, come al solito, non ho
ingoiato nulla.
ho osservato il piatto come un'opera d'arte da contemplare.
poi ho buttato via tutto.
perché non ho mai fame?
l'appetito è sempre stato elemento di grande importanza in me.
a tutti i livelli: bisogni desideri idee ...
ho sempre avuto l'impressione di me come un secchio che poteva mai riempirsi davvero fino in cima.
insaziabile.
non mi è mai bastata una donna sola, una portata
sola, un'avventura sola, un'occupazione sola.
sempre molto.
da consumarsi, freneticamente.
oggi guardo piatti pieni e riviste chiuse.
è finita la mia era pornografica?
è mezzogiorno.
il sole è preciso sulla mia testa.
sento il caldo avvamparmi le guance e il collo.
69
avverto la mia fisicità di cinquantenne solo.
ne ho repulsione.
è tardi per non avere fame, o sete.
sono quattro giorni che non mi alimento.
di cosa ho bisogno se, almeno, respiro?
quattro
ho provato a tagliarmi con un coltellaccio da cucina.
con la punta del coltello ho bucato il dito indice
della mano destra.
è uscito un po' di sangue.
ma non ho avvertito dolore.
ho leccato il dito e non aveva sapore.
le nuvole passavano leggere e veloci mentre constatavo la mia assenza di dolore.
mi stupii nel sentirmi affranto nel considerare questa condizione come negativa.
nel mondo, nella storia, nelle religioni, il dolore ha
sempre avuto un ruolo centrale nella sua ineluttabilità.
70
io ne ero finalmente libero.
mi sarei affettato come un prosciutto.
mi ha frenato una sorta di senso del pudore.
la mia carne viva avrebbe potuto, morta, lasciarmi
scompensato.
uscii in giardino, con la mano sanguinante; l'albero,
vivace, scuoteva le sue foglie.
ancora, non avevo fame.
tre
nel bosco non volano uccelli, non albergano animali.
nei passi palesemente visibili nel contesto non vedo
tracce, orme o altro.
credo di essere l'ultimo abitante sulla Terra.
oggi ho provato a cuocere una bistecca di vitello
insieme a ravanelli e insalata, da sempre il mio
piatto preferito.
ho contemplato il piatto e non ho mangiato.
mi sono pesato: sono ancora 87 chili.
eppure sono sei giorni che non mi alimento con
nulla.
anche l'acqua non mi attira e neppure il vino.
71
cosa succede?
due
all'improvviso, non c'è più giorno.
ho controllato: sono le 5.45 e il sole non riesce a
sorgere.
più volte mi sono pizzicato il braccio in ragione
di un risveglio improvviso, ma non c'è stata possibilità.
la notte ha lasciato il suo manto nero e pesante sopra le mie spalle.
in giardino non sento rumori.
non vedo l'albero.
il frigo è vuoto, d'improvviso.
le luci non si accendono più.
mi domando se il freddo che avverto sia di matrice
interna o esterna.
con chi sto facendo i conti, adesso?
la porta di ingresso, sempre chiusa, si apre.
non appare nessuna luce, ma riesco a distinguere
una figura alta che si fa largo, decisa, verso me.
è strano.
72
ho davanti un uomo a metà.
il suo corpo è decisamente simile al mio.
è umano, in tutto e per tutto.
ha le mani pelose come le mie e la sua statura è di
poco inferiore alla mia.
il suo viso è però di sorcio, un sorcetto di campagna e quasi non mi stupisco se, quando parla, ha
uno spiccato accento veneto.
ooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo
ooohhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh
FFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFFRRRRRRRRRRR
RRRRRRRRRAAAAAANNNNCCCCCCCCCOOOO
OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO
OOOOOO
mi dice, in un cantilenato inutile.
io, però, non mi chiamo Franco.
lo sono stato a volte.
per la maggior parte ho, però, dissimulato.
e ingannato il Tempo.
so perché il sorcio è qui.
veste una divisa da facchino e fuori lo attendono
manutengoli ubriachi.
73
uno
Franco
mi dice
detesto queste cose, ma è ora.
il tuo corpo è ormai ufficialmente cadavere da
un'oretta e mezzo.
più di spegnere le luci, che devo fare? venirti a
prendere di peso.
vieni, dai.
il carro è fuori.
io non ho paura, non provo rabbia, non conosco la
tristezza.
la gioia non mi abita.
seguo il sorcio e penso a mia figlia, alla mia mano
sanguinante e alla mia inutile atarassia.
dove andiamo?
chiedo, banale.
che cazzo ne so?
mi risponde il sorcio.
secondo te mi pagano per fare filosofia? sei morto,
stronzo.
niente di più.
74
vorrei chiedere una sigaretta, come nei buoni film.
ma è tardi anche per quello.
mi trasformerò?
gli chiedo.
in questo momento sei in un sacco.
fai i tuoi conti.
75
Beppe Casales
GUARDIE E LADRI
Guarda, a me piacerebbe parlare con te, darti un
bacio per farti sentire il calore delle mie labbra, mi
piacerebbe portarti a vedere un posto meraviglioso
e nel frattempo, chiederti come stai, lì, nel tuo corpo, cosa pensi di questa vita che stiamo vivendo, se
ti piace farti toccare, in che modo, se speri di vivere
qualche mese a Parigi, se a volte piangi e perché.
Dici che non hai tempo.
Allora và. Non ti trattengo. Io discuterò della vita e
delle stelle con quel passero affamato, che da alcuni minuti sta puntando il mio panino al prosciutto.
Penso che forse lui, calmata la fame, potrebbe anche avere il piacere di parlarmi di cosa vede dall'alto. Dirmi che giochi fa con i suoi amici passerotti,
se si conoscono da tanto oppure se si gioca anche
tra sconosciuti. Se mangiano le briciole perché gli
piacciono o perché non trovano altro. Se ogni tanto
vanno a casa a trovare la famiglia.
76
Vedi? Vedi quante cose ho da fare, io, senza di te?
Non ho bisogno che tu ritagli del tempo per me,
non c'è bisogno di trovare un pretesto per incontrarsi. Il passerotto l'ho conosciuto adesso. Lui non ha
molto altro da fare, dopo mangiato. Si pensava di
fare un giro.
Ecco, adesso pensi che io sia pazzo perché voglio
fare un giro con un passerotto. Ma che ne sai? Non
lo conosci nemmeno. Perché devi subito giudicare?
Non è che per caso ... vorresti venire con noi? Sacrificare il tuo impegno per sentire cos'ha da dire il
passerotto? Ma poi come glielo dici? Così, al telefono:
- Scusa, non posso venire, mi è saltato fuori
un impegno improvviso con un passerotto,
sai, è importante ...
Come glielo spieghi che è importante parlare con i
passerotti, che ti ha messo curiosità sapere cosa
pensano quando ci guardano dall'alto che manco ce
n'accorgiamo?
- Hai un impegno con un passerotto? Ma
come si chiama?
- Non so, aspetta che glielo chiedo, scusa,
come ti chiami? No... è che sta mangiando
un panino al prosciutto ... cotto, prosciutto
cotto ... chiede se è buono. Sì, dice di sì, è
buono. D'accordo, allora ci si vede dopo.
Chiede se dopo il panino e la passeggiata
hai voglia di un aperitivo. No ... il
passerotto dice che c'ha un gioco che deve
fare con altri passerotti ... Dice che se vuoi
portare anche loro, anche gli altri passerotti,
non c'è problema, dice che sarebbe felice di
conoscere tutti quanti ... Dice che se è un
posto all'aperto va bene. Vabbè, sì, adesso
devo chiudere, andiamo a fare una
77
passeggiata. Dove? Non
domanda è? Camminiamo.
lo
so.
Che
Andiamo in giro. Non mi serve niente. Non ho bisogno di niente, solo che mi tieni per il braccio
mentre camminiamo, ché sento di più quello che mi
racconti. Che se per caso ti infervori, ti agiti tutto,
oppure stringi la presa. Mi piace. E non guardo a
terra come al solito, perché il passerotto continua a
svolazzare intorno, e quando dice le cose è bello
guardarlo negli occhi, mentre agita piume e argomenti.
- Lo sai che voi passerotti fate proprio dei
giochi del cazzo? Cosa c'è di divertente nel
fatto che vi dovete inseguire? Vi inseguite
... e basta? Lo so, tu mi dici, anche noi
giochiamo a guardie e ladri, che ci
inseguiamo e basta. Ma almeno noi
aggiungiamo la componente morale, tu fai il
ladro, e sei il cattivo, io faccio la guardia, e
sono buono. Lascia perdere che poi tutti
vogliono fare i ladri ... quello è perché è più
divertente farsi inseguire ... anche voi
passerotti fate che uno ruba e l'altro
insegue? Cazzo, allora è proprio uguale.
Voi fate lo stesso gioco che facciamo noi.
Non l'avrei mai detto.
Ecco. Se ne è andato. Come si chiamava?
78
David Giacanelli
TEMPO PER ME
Ore 16.00.
Scatta la segreteria telefonica.
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
Sempre la solita solfa. Ma Anna non c’è mai.
Ore 17.30
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
79
Ore 20.00.
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
E ora come faccio. A chi lo racconto che si è rifatto
vivo. Come mi devo comportare. Ripasso con il
pensiero tutte le tattiche comportamentali che mi
sono imposto. Devo mostrare tutta la leggerezza
possibile, che non dipendo da lui. Il mio umore, il
mio equilibrio, lo stato d’animo non possono essere
così condizionabili.
E poi, quelle risposte stringate e succinte che dicono ma non dicono, non osano mai. Sempre a rincorrere ciò che la vita non mi ha dato.
Ma adesso basta. Non gli rispondo più. Ci ho già
fatto i conti. L’ho perdonato. Un perdono laico il
mio, ma l’ho perdonato. Ha ammesso i suoi sbagli.
Questo serve a me. Basta. Vado avanti.
Razionalmente è così. Certo. Ma, emotivamente,
perché non mi basta? E le budella si aggrovigliano fino a sottrarmi il fiato e l’appetito e la
voglia di fare.
Ore 21.00.
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
Anna non c’è. Ma penso a lei. A quanta vita ha sacrificato per gli altri. Sedute su sedute per fare sentire meglio la gente. Minuti che si sono trasformati
in ore per cercare di restituire benessere alle persone. Il benessere non ha prezzo.
80
Eppure Anna è lì che, indefessa, appunta sul suo
blocco tutto quanto sei disponibile a raccontarle e
ti chiede. Inutile eludere la domanda. A domanda
risposta pertinente.
Ti domanda dei sogni, che sognare è importante.
Il canovaccio imprescindibile dal quale partire
sempre.
E io che di sogni ne faccio in quantità? Tanti da
non ricordarli più.
- È un buon segno - annuisce lei - devi appuntarli.
- Quante soddisfazioni mi dai.
- Beh , lo immagino.
Anche se poi è difficile spiegarle che la mia mente
è affaticata. Che mi sveglio la mattina con il mal di
testa perché sognare troppo è come vivere due vite
parallele che di rado s’incrociano e, quando accade,
il reale e l’onirico che per un attimo sono stati un
unico corpo si se parano subito.
È una vita che sogno.
Magari, se qualche sogno divenisse realtà, non mi
dispiacerebbe affatto. Non ho fatto altro nella mia
vita. Sospeso tra sogno e realtà. Il mio riscatto: essere materialmente in un luogo ma spaziare con la
mente altrove, circondato di altre persone, asserendo altro.
Ho messo piede sulla luna, vinto innumerevoli
premi “Strega”, sono rimpatriato con scoop mediatici che hanno cambiato la storia e sono stato rapito
e liberato più volte. Così, ancora, ho vinto a Wimbledon, Roland Garros, ho segnato la storia con il
record in velocità sui 200 stile libero, sono stato
Ministro della Repubblica e segretario di partito.
Ho avuto tanti figli che mi hanno accudito nella
mia senilità. Ho viaggiato con loro. Per non parlare
dei posti nei quali sono stato circumnavigando il
81
mondo.
E Anna che sorride compiaciuta, che assiste ad un
film visto e rivisto. Beata lei. Tanta sicumera.
Anna non ha figli né, forse, un compagno o marito.
Neanche una compagna a quanto mi risulta. Anna
avrà intorno ai sessanta anni, portati bene, odoranti
di libri polverosi, di biglietti aerei, di paesi visitati,
di Medio Oriente, di incontri fortuiti e relazioni universitarie.
Non c’è stato spazio per legami sentimentali, almeno non duraturi, né per essere madre. Eppure Anna
è appagata perché si è cibata delle storie degli altri.
Le ha analizzate, scomposte milioni di volte per ricomporle.
Anna dei miracoli, che finisce il dolore della gente.
Anna che, giunta al capolinea della sua esistenza ha
deciso così, di punto in bianco, che basta. È ora di
smetterla e pensare un po’ a sé.
Che troppa energia e fatica ha profuso per alleviare
la vita della gente, per renderla degna di essere vissuta. Che l’ha spogliata, la gente, di tutte quelle sovrastrutture limitanti e condizionanti. Che l’ha
messa di fronte alle paure ancestrali: la malattia, la
morte, la caducità e precarietà esistenziali. Che l’ha
portata, sempre la gente, a concentrarsi su se stessa
e gli istinti primordiali.
È così che mi sono liberato. Grazie alle capacità di
Anna. Grazie a lei ho vissuto il mio amore accettandolo fino in fondo. Grazie ad Anna.
E mentre Anna scrive nel suo quaderno, mozziconi
di sigarette, delle MS morbide rosse, affollano il
posacenere sulla scrivania in legno di fronte la
finestra.
Alle spalle della scrivania, sempre di fronte la finestra, una sedia, la sua, e un divano dove sono ada-
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giato io. Le fisso le scarpe. Ne indossa sempre un
paio nuovo. Unico vezzo del quale si compiace.
In questa stanza le nostre conversazioni e, alla mia
sinistra, una libreria enorme a muro. In una delle
mensole, quelle centrali, spicca una sveglia grande
a segnare il nostro tempo.
Il tempo scade ma Anna continua, va avanti imperterrita perché vuole chiudere il cerchio. Vuole farmi tornare a casa più leggero e consapevole. Ora,
però, Anna non ce la fa più. L’orologio si è bloccato una volta per tutte. Il pomeriggio che mi ha
detto:
- Vai, ora sei pronto. Possiamo terminare qui.
Ama liberamente senza remore. Sperimenta,
fa quello che ti senti di fare e obbedisci al
tuo istinto. Ti porterà lontano.
È come se ogni bene prodotto le fosse sottratto.
Tanta energia infonde agli altri e tanta ne esce. Finite le sue ultime sedute ha acquistato un biglietto
che l’ha portata nello Yemen, e prima in Siria e
prima ancora ad Agropoli. Da quando ha terminato
di pensare agli altri per concentrarsi su se stessa
sono cominciati gli interminabili viaggi e le segreterie telefoniche.
Ore 9.00.
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
Anna non ti risponde al telefono. Rientrata a casa
dal suo ultimo viaggio riavvolge il nastro e ascolta
la segreteria telefonica che non fa che lampeggiare compulsiva, come molti degli impulsi che ha
guarito.
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Così i suoi pazienti hanno liberato le fantasie erotiche, hanno vissuto dimentichi dei sensi di colpa,
delle morali di riflesso, concentrandosi solo sulla
propria libido. Hanno amato, tradito, posto fine al
le relazioni atrofizzate di una vita per ricominciare.
Quello che vorrebbe fare anche lei. Ricominciare.
Eppure non le riesce. Al momento viaggia. Finito
un viaggio si riposa a casa qualche settimana e poi
riparte.
Possibile che Anna non riesca a trovare il suo di
equilibrio, a rimpossessarsi della propria esistenza,
farsi del bene?
Non più i problemi degli altri ma i suoi: le sue esigenze. Viaggia, torna, riparte in un moto incessante. Senza radici. Si fermerà mai?
Probabilmente no e viaggiare l’aiuta a non pensare.
Ora di ritorno dalla sua ultima trasferta al Cairo,
appena entrata nell’androne del suo palazzo, si è
ficcata dentro l’ascensore.
Non vuole farsi vedere da nessuno. Non vuole incontrare persone, vicini, altri condomini.
Affannata ha premuto il terzo tasto dell’ascensore.
Si guarda allo specchio. Non si riconosce. Vi scorge una donna più giovane almeno di dieci anni.
Una folta chioma bionda. Gli occhi, gli stessi, sono
truccati e un rossetto rosso vivo le disegna le labbra. Molto fard la fa sembrare abbronzata e le sottrae diversi anni nel computo generale.
Il trucco, anche per il caldo, evapora e i contorni
non sono più così definiti. È sciatta nel suo vestitino estivo sgualcito così come nel suo rossetto che
le restituiscono una antica sensualità.
Si sente pulsare sempre più. Il battito aumenta le
sue frequenze, le sudano le mani, non sa dove appoggiarsi. Eppure si piace. Spinge il bottone color
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avorio con inciso un grosso 3 in nero e parte. Il
primo piano, il secondo, il terzo.
- Dott.ssa Momigliano, così lei sostiene la
sua tesi sul suicidio. Ci mostri di quali altre
argomentazioni si avvale per sostenere il
suo pensiero.
Stava discutendo la sua tesi di laurea. I ricordi le si
mischiano con velocità e violenza provocandole
confusione. Si ricorda com’era, prima che cominciasse ad immolarsi per gli altri. Ricorda il suo
lungo percorso di consapevolezza. Eppure è buffo questo destino. Ora che è arrivato il suo tempo, quello di Anna, non riesce a concentrarsi sul
da farsi.
E viaggia, fa parlare la sua segreteria telefonica, è
sempre più schiva. Sempre in fuga. Si percepisce
diversa. Lei è stata sempre mora, capelli corti, tagliati in modo composto e accurato. Trucco praticamente assente e, all’occorrenza, un rossetto color
carne.
Quella allo specchio non può essere lei. No. Deve
trattarsi della proiezione del suo desiderio. Mentre
passa dal secondo al terzo piano infila distrattamente un braccio nella borsa. Accanto al suo porta pillole, alla borsa con i trucchi, entra in contatto con
una parete sottile e lucida al tatto.
La estrae. È una foto. Nella foto è raffigurata la
splendida e avvenente bionda di prima, con il rossetto accecante e la pelle rilucente, abbracciata ad
un uomo. I due si baciano sulle labbra con espressione intensa e felice. Gira la foto. Un virgolettato
campeggia: “Muchas Rojas”. “Molte rosse”. Che
cosa significherà mai? Che cosa ci fa quella foto
nella sua borsa che, ad osservarla bene, non sembra
neanche più la sua borsa. E la sigla in spagnolo
poi? Troppo artefatta per i suoi gusti, pensata per
85
risaltare. Lei che invece non vuole risaltare, che
schiva scappa a se stessa, che non si ferma perché
non vuole del tempo per pensare a sé.
È arrivata al terzo piano.
Ore 10.30.
- Questa è la segreteria telefonica di Anna
Momigliano. In questo momento non posso
rispondervi ma lasciate pure un vostro messaggio e vi risponderò appena possibile.
Si guarda nuovamente allo specchio. Non è più la
bionda mozzafiato con sguardo ammiccante e denso di esperienza personale.
Ora è la Anna di sempre. In fuga da se stessa ma
ormai pronta ad affrontarsi. Chiude l’ascensore.
Rovista di nuovo nella borsa e trova le chiavi. Le
infila nella toppa e apre. Un sospiro di sollievo: è a
casa.
Accende la luce, poggia la giacca e velocemente
attraversa il corridoio che la porta allo studio. Solleva gli occhi in alto a sinistra e comincia ricordare
le ultime sedute nelle quali ha elargito felicità o,
almeno, ci ha provato.
Ricorda Marisa che ha smesso di vomitare e ora ha
un rapporto equilibrato con il cibo. Ricorda Luca
che ha smesso di colpevolizzarsi sul lavoro, di pensarsi malato o, peggio ancora, schizofrenico, semplicemente perché ha accettato di amare gli uomini.
Ricorda Sandra che ha trovato la forza di andare a
vivere da sola e divorziare dal marito che, oltre a
tradirla, la maltrattava. Ricorda Bice, che dopo avere partorito un bimbo morto, è entrata in crisi con il
marito troppo accondiscendente e passivo. Ricorda
Caterina, che è dovuta scappare dai suoi genitori
per non restarvi avvinghiata tutta la vita, perché
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troppo li amava ed era troppo amata. Ricorda Emanuele che hanno ricoverato al Gemelli dopo
l’ennesima pista di cocaina.
Ricorda Pietro, che senza volerlo ha ucciso in un
incidente stradale una bambina di soli quattro anni.
Ogni cellula del suo cervello ha spazio e tempo per
un ricordo, un caso al quale si è appassionata. Fino
ad oggi tutti hanno avuto uno spazio nella sua vita
tranne lei.
D’altronde è stato per questo che ha deciso di scegliere la professione. Aiutare gli altri per aiutare se
stessi. Le è stato chiaro fin dall’inizio. Ora, però,
che il panico la travolge e costringe a muoversi
continuamente, ha deciso che basta.
Oggi si presenta il conto. Oggi è il suo tempo.
Risponde al telefono. Parla di filo ascoltando cosa
vuole il paziente. Questa volta avrà la forza di
cambiare: non lo accetterà come avrebbe fatto in
passato né ricomincerà a viaggiare.
Ha terminato da poco tempo la terapia. Qualche
scossa di assestamento è normale, glielo aveva anticipato.
Ringrazia e riattacca. Ricomincia a vivere.
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Daniele Zambelli Franz
ANDREAS
Qualche tempo fa, in una casetta tutta di legno di
un paese piccino piccino sulle montagne
dell’Austria, viveva una famiglia umile e modesta.
Hermann, il papà, lavorava diciotto ore al giorno
nella cava di marmo nero che si trovava sulla collina proprio sopra il borgo. La mamma, Marie, portava avanti la famiglia prendendosi cura dei loro
quattro figli e quante ore lavorasse al giorno nessuno lo ha mai saputo.
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Nonostante tutte le difficoltà, conducevano una
vita tranquilla sotto il sole che girava sopra le loro
teste.
Il più grande dei loro figli, Andreas, rappresentava per loro l’unica preoccupazione di
quell’esistenza serena. Appena nato, il medico gli
diede una leggera sberla per farlo piangere; in tutta
risposta, Andreas lanciò una terribile bestemmia e
con un diretto al mento stese al suolo il chirurgo.
Il primo giorno d’asilo, a tre anni, organizzò un
torneo di poker in sala mensa e lasciò in mutande
tutti gli altri bambini, quattro maestre, due inservienti e il cuoco.
In effetti era un bambino intelligentissimo; in
prima elementare, la maestra chiese ai bambini chi
di loro sapesse già scrivere. Andreas domandò:
- In quale lingua?
E subito dopo si alzò, andò alla lavagna e scrisse
il primo canto della Divina Commedia in francese
antico.
A otto anni, un pomeriggio in cui si stava annoiando molto, fece ubriacare il gatto di casa e poi
lo incollò a una parete. I genitori si infuriarono e gli
fecero promettere che si sarebbe comportato meglio
con gli animali. Allora Andreas prese da una parte
Jack, il labrador di famiglia, e tenne con lui un pesantissimo discorso sul senso della vita. Per un paio
di giorni, Jack fu visto girare per la casa con
un’espressione assente e molto triste sul muso; una
settimana dopo, papà Hermann lo trovò impiccato
in soffitta.
Hermann si arrabbiò moltissimo, spaccò un
grosso ceppo di larice con una testata, scaraventò la
nonna giù per le scale e si sedette in un angolo,
pensieroso. Le sue sfuriate erano terribili, ma dopo
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si sentiva meglio, e decise di dare una raddrizzata
al figlioletto.
L’unico interesse che accomunava Andreas ai
suoi coetanei, erano i cartoni animati. Davanti alle
avventure di Bugs Bunny, Will e il Coyote e Braccio di Ferro, egli tornava ad essere quello che era:
un bambino. I suoi occhi si riempivano di stupore e
la sua bocca si apriva in grandi risate; insomma, si
divertiva come un bambino.
Un pomeriggio di inizio autunno, quando le foglie, cadendo dagli alberi vengono agitate dall’aria
frizzante, Andreas venne avvicinato da un grande
signore, alto tre metri e dai lunghi capelli rossi.
- Buon pomeriggio, Andreas - disse l’uomo
con la sua voce cavernosa. Andreas rifletté
alcuni secondi e poi passò oltre dicendo:
- Mi dispiace, lei non può essere reale, le dimensioni dell’homo sapiens sapiens, al termine del complesso procedimento durante
il quale è avvenuto il differenziamento delle
strutture anatomo-fisiologiche, superano raramente i due metri in altezza; quindi lei
deve essere il risultato di una proiezione olografica della mia mente.
L’enorme uomo rise forte, facendo spaventare
uno stormo di rondini che si era appena radunato
per la migrazione. I poveri uccelli, terrorizzati da
quella risata, sbagliarono direzione e puntarono
verso nord. Metà di loro non se ne accorse e morì
di freddo e di stenti nel cortile di una acciaieria di
Rotterdam. L’altra metà fece marcia indietro ma finì intrappolata in una rete di bracconieri tra Firenze
e Roma.
Ma torniamo al nostro racconto. Il misterioso
uomo, disse ad Andreas che veniva da molto lontano per portargli un messaggio. Disse che il Principe
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di Tutti i Bambini del Mondo aveva saputo che egli
spesso si comportava male. Aggiunse inoltre che
aveva intenzione di punire il bambino, togliendo il
sorriso a tutti i suoi cartoni animati preferiti.
Andreas si allontanò di qualche metro dicendo
di non credere una parola di tutto quel discorso
strampalato e senza senso. Poiché era un bambino
molto educato, si girò per salutare quello strano signore ma, come d’incanto, egli era sparito. Andreas
si strinse nelle spalle e tornò a casa.
Come ogni tardo pomeriggio, il bambino si accomodò sul sofà del soggiorno ed attese l’inizio dei
cartoni animati.
Nel caminetto il fuoco crepitava e lanciava qualche scintilla nella stanza semioscura.
Fuori, le ombre della sera, allungandosi sempre
di più, avevano quasi terminato di tingere di nero la
grande tela del cielo.
Quel giorno successe qualcosa di strano
all’interno della temibile scatola chiamata televisione. I cartoni animati andavano regolarmente in
onda, contemporaneamente su molti canali, ma le
trame erano molto strane.
La tenera e piccola Heidi aveva messo del cianuro nella minestra del nonno e, una volta che il
vecchio aveva tirato le cuoia, aveva venduto
l’intero gregge di caprette, la baita e tutto il terreno,
e con il ricavato aveva aperto, insieme a Peter, un
locale notturno a Monaco di Baviera.
L’orso Yoghi era stato finalmente beccato in
flagranza dai Rangers con le mani nel sacco, anzi
nel cesto da pic-nic, e dopo un processo per direttissima era stato rinchiuso nel carcere federale di
Denver dove avrebbe dovuto scontare quindici anni. Il suo amico Bubu si era invece beccato otto an-
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ni per aver aperto la pelliccia davanti ad una bambina dell’Iowa.
Braccio di Ferro si era rotto le palle di mangiare
solo spinaci e per mantenersi in forma si faceva
continue iniezioni di steroidi anabolizzanti. Inoltre,
aveva fatto pace con Brutus, e insieme avevano
messo su un’organizzazione per il traffico di clandestini via mare.
Andreas iniziò a piangere e a chiamare forte la
sua mamma che accorse spaventata e stupita, poiché il suo bambino non aveva mai pianto prima
d’ora. Andreas, appoggiando la propria testa contro
il petto della madre, le raccontò tutto quello che gli
era successo, dall’incontro con quello strano signore ai terribili cartoni animati. Continuò a singhiozzare e giurò che da allora in avanti si sarebbe comportato meglio.
La madre intanto, gli accarezzava la testa e gli
sussurrava all’orecchio di non preoccuparsi, tutto
sarebbe tornato a posto.
Quella sera, nell’osteria del paese, papà Hermann ed un suo gigantesco cugino di una terra lontana, brindarono con due enormi boccali di birra
scura in mano e due videocassette sotto il braccio.
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Anna Alberico
TEMPESTE
Dopo un pomeriggio d’afa grigia, sfociato in sera
soffocante, appaiono i primi balenii al di là dei
monti. Chiarori discontinui e lontani fendono la
coltre di nubi. Si annuncia un temporale.
Pensa sia ora di rincasare. Lungo la strada le saette
solcano il cielo. Non hanno una fonte definita:
compaiono dietro i rilievi per propagarsi oltre il litorale.
Sempre più nitidi e frequenti, i fulmini assumono
un ritmo persistente. Dall’alto, al di là del nero, si
scaraventano giù, illuminando per un istante il grigiore all’orizzonte, i grevi nembi sovrastanti, le on-
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de incalzanti da est, mosse da un vento sbucato
all’improvviso.
- Non c’è pericolo – pensa – escluso per chi è
in mare.
Rare gocce di pioggia, infila la chiave nella serratura. Non accende le luci per osservare meglio la
tempesta. Ma dall’interno della casa prova disagio.
I tuoni si alternano in schianti e rimbombi facendo
tremare i vetri.
Si avvicina alla finestra. Una saetta infinita si scaglia nelle onde, per poi dissolversi in un pulviscolo
di frammenti luminescenti. Esce sul terrazzo.
Una barca naviga lungo la costa, le luci verdi e blu
tracciano l’accelerazione di una fuga troppo lenta,
un affanno palpabile contro il fronte degli elementi.
Intermittenze di nuvole cupe e cronometrie di flutti
sospinti dalla corrente. Il cimitero, a sinistra,
s’accende in flash d’architetture giallognole, che
smorzano i lumini sbalzando le tombe curate o dimenticate.
Fra tre giorni sarebbe trascorso un altro anno ancora. Da un temporale affascinante, distante, circoscritto. Certo meno violento di questo.
Inquietudine e sogno, quella fase era finita.
Un’altra, adesso, a cancellarla. Più vicina e dirompente, ci sta dentro, la vede, insieme ricorda.
No, quella tempesta non sarebbe scomparsa mai,
irreale ed esistita, non ci può tornare, non la può
annullare. In un minuscolo fotogramma s’insinua
sullo sfondo.
Guarda l’orizzonte, guarda il mare, le infiorescenze
delle canne sbattute dalle raffiche.
Non troppa afflizione, il tempo, ormai tanto, è servito. Non solo quello. Bagliori e comparse di onde
trasversali, poi sposta lo sguardo al cielo, un attimo
al cimitero.
94
Quella festa è conclusa, immagina il bosco sotto la
pioggia. È quel pensiero a evitare il rimorso del distacco. Indifferenza, una sorta di vuoto, solo onde,
tormenta, saette.
Turbamento.
Il bosco. Niente a che vedere con ciò che vede …
lo desidera, ci si rifugia, finalmente dimentica.
Si sporge oltre il muro: sotto, sulla strada, alcuni
ragazzi contemplano lo spettacolo. Un poco, poi
scappano via. La barca ha oltrepassato la scogliera.
Rimanere ancora è pericoloso. Si volta verso casa.
La sua ombra si profila sulla tenda in movimento.
Un fremito di paura.
- Finirà male.
Non sa perché quella frase sia scattata nel cervello,
senza togliersene più. Non vuole darla per scontata,
ma in ogni momento di smarrimento la ripete.
- Peggio di un corvo - si dice.
E ripensa a quante volte questi imprevisti sintagmi
mentali, avversi o propizi, si siano rivelati veri.
Tante.
- Sì, però non ci avevi riflettuto. Questa volta,
invece, l’hai fatto. O forse no? Non mi ricordo. E male per chi?
Un presagio insistente che non l’abbandona. Non si
deve andare, tantomeno restare.
Rientra, inizia a diluviare. I lampi, dopo infinite
scariche luminose e fragori di tuono, si allontanano.
Rumore di pioggia per provare a dormire.
Il bosco. Perché pioveva? Pareva quasi un dispetto.
E chi se ne frega, ci sono gli alberi. Ma poi non bastano. Piove ancora di più. Bisogna scappare.
Ma cosa importa? Mica è questo che ricorda del
bosco. Sono i colori, gli alberi e il cielo scuro al
preludio dell’estate, il nitore del verde, la luce
smorzata, l’isolamento di un’atmosfera autunnale
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… suggestiva. Un simbolo? Forse, ma non in prospettiva. Come la pioggia estiva.
Fra le reminescenze, lo scroscio della pioggia, visioni di mani e di corpi mica si può dormire …
- Quale sarà la prossima mossa? – si chiede.
Non riuscendo a indovinarla si addormenta.
Cariatitrip è un insulto alla logica, un’aporia contraria al buon senso. Le dicotomie intelligenzasensibilità, demenza-crudeltà, in lui si annientano.
Lusinga gli sconosciuti, disdegna gli amici e asseconda i nemici. Ottuso ed emotivo, non riesce proprio a mettere insieme un istinto decente. Un cervello senescente nel corpo di un giovane bastardo
pezzato, inutile e dannoso.
La prossima mossa, infatti, è un coltello e
quell’inetto cosa combina? Entra in casa scodinzolando a rincorrere una pallina. Colpi nei mobili, ticchettii di zampe sul pavimento … si sveglia.
La lama è lì, di fronte al letto. Dietro due occhi di
ghiaccio o di brace … espressione indubbiamente
folle.
Una tachicardia da panico non può mancare, ma
poi … poi chissà … rivede la trama del sogno interrotto e non prova sgomento ma rabbia, un’ira incontenibile, un grumo d’oppressione e sconfitta.
Lui è lì per uccidere, tra un attimo potrebbe essere
finita.
Un po’ di terrore, please … no.
Ce l’ha addosso, ma balza dalle lenzuola, un calcio
sleale, il tempo d’afferrare il coltello a serramanico
sempre a portata. Punta alla gola, ma lui l’afferra al
polso. Lotta e a cosa pensa? Il colpo finale
l’avrebbe sferrato al cane.
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Tutto già scritto, le leggi non cambiano, questioni
matematiche. Eppure le parallele in qualche punto
s’incontrano … è stato dimostrato? E il calcolo della probabilità contiene larghi margini d’incertezze.
E il cielo a volte scende a terra. Come la terra diventa voragine fino a un fondo che non c’è.
Stupido e insulso perdersi in vaneggiamenti pseudo
filosofici sbattendo il capo al suolo, cercando di
sferrare un morso, sputando lacrime e capelli …
Infatti non ci si perde, volteggiano in un gorgo di
sangue e colpi, buio e sudore, dolore e strette …
manco un po’ di spazio per rotolare. Il polso dolente, la testa che sbatte, il solito maledetto spigolo,
urla e insulti soffocati.
Le parallele diventano una spirale, l’equazione la
radice di una parabola infinita … una bocca, sguardi, mani … il bosco.
No, non adesso, deve tornare nel bosco.
Dimostrando l’indimostrabile, Cariatitrip s’incazza
non poco quando la pallina va a finire sotto la gamba dell’aggressore, che gli sferra un calcio.
Questo non lo tollera, la notte non vede un tubo, gli
odori si sono mischiati, il pazzo è un amico, quindi
può trattarlo da nemico.
Non che le sue meningi a moviola sappiano elucubrare un ragionamento … il tutto avviene istantaneamente, per una volta i neuroni collegano le fauci
a quell’imbastitura di cervello, insomma addenta il
polpaccio, passa alle natiche. E fine della storia.
Fine senza commenti: niente allarmi o polizia.
- Ti consiglio un’antitetanica. E preventivamente un bourbon. E cazzo non stare a
piangere che semmai dovrei piangere io …
porca … - dice riempiendo due bicchieri.
97
-
Ma non capisci che mi manchi, che senza di
te non esisto?
- Però esisto io … anzi per poco non più. La
tua è un’ossessione. Solo ossessione. Dammi una sigaretta.
- Hai una storia?
- Ora dico, tenti d’ammazzarmi e devo anche
darti delle spiegazioni?
- Ma no, non volevo ammazzarti.
- Strano, mi sembrava di sì. Senti, chiudiamola lì prima che m’incazzi. Se vuoi ti regalo
il cane, pare che andiate d’accordo.
- Io ti chiedo scusa, scusa per tutto quello che
ti ho detto, per quanto non ho capito e
nemmeno dimostrato …
Nel dirlo, cogli occhi tersi di blu, una lacrima incipiente, ricci neri e scarmigliati, bocca ad angolo
cadente, allunga una mano sulla sua spalla.
Si ritrae istintivamente. Era quasi riuscito a rendersi
credibile, come sempre, ma no, non deve sfiorare,
toccare, implorare … questo no! Dove non arriva
la mente riesce il corpo … il corpo, le labbra, le
foglie …
- Vieni, abbracciami …
- Non mi toccare!
- Maledizione, tu non capisci, non vuoi capire.
Intanto riacquista l’aspetto dominante fra i due o
più. Il viso raggrinzisce, il terso ora opaco, zanne
brillanti, sorriso da squalo … Un demone? Un pazzo? Sa cosa fare.
Cariatitrip colpisce ancora, portando un coltello
nella cuccia, l’altro in camera da letto … uno stolto
perverso.
Lui afferra il polso, strattona, immobilizza.
- Ora vieni con me.
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- Lasciami.
- Taci. Ho una sorpresa per te.
Non trovando soluzioni, lo segue, forse si sarebbe
calmato.
A spinta dentro l’auto, partenza.
Vetri bagnati, asfalto lucido, la tempesta si è placata. Qualche saetta, rimbombi remoti, pioggia sottile, deserto metallico.
- Ma non capisci che ti amo?
- Fottiti.
- Allora secondo te non ti amo? Non ti amo?
No, sei tu, tu che non mi hai amato mai!
E intanto accelera, sgomma, inchioda, su un catorcio inversamente proporzionale al cane.
- Va bene, non ti amo, non ti ho amato mai.
Allora ti togli dai coglioni? Tanto se non ti
amo cosa ci stai a fare?
- Eh no, io ti chiedo scusa, scusa per aver
cancellato il tuo amore … sono stato io …
tu sei forte, tu hai ragione.
- Ma no, figurati, ho torto marcio, un carattere da schifo, non sei tu, sono io, io su di te
… siamo noi e che cazzo di senso ha?
Fammi scendere. Rallenta maledizione, rallenta!
Una serie di tornanti e slitta, frena, stride, riparte,
pugni sul cruscotto, telepass in frantumi, oggetti
volanti, inchioda a un millimetro dall’auto davanti,
colpisce ancora e grida.
- No, no, no! Tu non hai capito un cazzo, bastava che mi abbracciassi.
- Sì, domani, così dall’abbraccio si passa al
bacio, dal bacio …
- Pensi che ti voglia scopare … è questo che
pensi? Che ti voglia scopare? Ah, è così …
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E sbatte, accelera, frena, le corde vocali al limite, la
voce gracchia, l’auto sbanda …
- Ma ora ti dimostrerò …
- Ma non dimostrarmi niente … e l’orgoglio
dove ce l’hai? Nel buco del …?
- L’amore che tutto supera, io ci credevo.
- Sei un torturatore ... Fammi scendere.
- Io ti ammazzo, lo capisci o no che ti ammazzo? Che ammazzo te, ammazzo lui, lo
faccio a pezzi, lo taglio a fettine davanti a te
… lo capisci o no che non hai scampo? Tra
un giorno, tra un anno, io sarò sempre lì …
basta che uno ti sfiori, ti prenda la mano, ti
accarezzi i capelli … e sarà dannato da te,
perché lo ucciderò. Lo capisci o no? Nessuno deve toccarti.
Le curve aumentano, la velocità pure, le ruote non
aderiscono, il terrore sale. Molto meglio il temporale. La strada è il suo incubo. Lui lo sa, ecco perché
l’ha fatto. Piange, si copre gli occhi.
- Rallenta, ti prego rallenta.
- Dimmi che hai capito, dimmi che hai capito
che ti ucciderò.
- Vai all’inferno.
Altro colpo al cruscotto, altra inchiodata, altra
sbandata.
- Allora mi sfotti! Dimmi che hai capito!
- Ho capito.
- Cosa? Dimmi cosa o mi butto nel burrone,
lo vedi lì? Mi butto.
- Va bene, mi ucciderai. Però ora portami a
casa.
- Te lo scordi. Nessuno! Nessunooooo…
Un urlo rauco, assordante, infernale, stridio di
gomme, la paranoia congela la scena.
100
Una frazione di secondo, spalanca la portiera, salta,
corre in mezzo alla carreggiata … intuisce che se
riparte l’investe … ma no, scende, l’afferra, cadono, due fari, una frenata.
- Aiuto, mi porti via – dice all’allibito guidatore.
E lui è già scomparso, inghiottito dal buio.
- D’accordo, è successo qualcosa di grave?
- Non so, vorrei dormire.
Due scatti automatici: chiusura centralizzata. Si
volta, un sogghigno. Un brivido lungo la schiena,
una mano sulla coscia …
- Oh no, no, no …
- Paura, eh? Ma dai, scherzo, anche tu mi hai
spaventato. Ti porto a casa.
Preme i comandi, i vetri si socchiudono, le sicure si
alzano.
La tempesta riprende. Lei non piange, trema tra i
singulti.
È lui il suo assassino? No, e lo sa.
Sarebbe finita? Nemmeno.
Si sdraia. E torna nel bosco, anche se dorme vicino
al mare.
Gli alberi, il verde, le mani, i corpi, le labbra, i capelli …
- Cosa si nasconde nel bosco? Piante, animali, insetti, tesori, cadaveri … chissà, è un
mistero.
Chiude gli occhi sull’oscurità per ricordare, il resto
lo avrebbe potuto inventare.
Un sipario di tenebra cala sul verde, allora capisce:
è vana fantasia. Il bosco è inesistente, nasconde solo il niente.
101
INDICE
9
Fabrizia Scipioni, L’angelo
16
Enrico Mattioli, Citofoni
26
Paolo Bocconi, L’orologiaio
29
Elettra Bianchi, Il bambino che parlava con
l’eco
33
Massimo Lencioni, Il camposanto di Maggiano
37
Fabio Altieri, Voyeur extra sensoriale
47
Franco Bomprezzi, L’ora di Timy
52
Salvatore Torchetti, Il folletto Flit
64
Emiliano Cevasco, L’alberoedio
76
Beppe Casales, Guardie e ladri
79
David Giacanelli, Tempo per me
88
Daniele Zimbelli Franz, Andreas
93
Anna Alberico, Tempeste
Prima Edizione
Luglio 2009