Qui - Teatro Nuovo Giovanni da Udine

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Maurice Ravel, Gaspard de la Nuit
Il trittico Gaspard de la Nuit fu concepito da Ravel
nel 1908 prendendo ispirazione da un libello postumo, del 1842, dello scrittore romantico francese Aloysius Bertrand, autore riconducibile ad una
linea ideale che entro la letteratura ottocentesca
collega, nel nome dell’inclinazione ad uno horror
inquieto e visionario, molti autori minori a due personalità di primo piano come E.T.A. Hoffmann ed
Edgar Allan Poe. L’attrazione che Ravel provava per
tale tipologia letteraria ben si riflette nel sottotitolo
del lavoro, «Fantaisies a la manière de Rembrandt
e Callot», volto a suscitare un immaginario sinistrodiabolico assicurato del resto dalla riproduzione
dei tre testi ispiratori nell’edizione a stampa.
Oltreché da questa motivazione d’ordine poeticoletterario, Ravel era animato anche da un intento
più specificamente musicale, volendo intenzionalmente cimentarsi nel campo del virtuosismo trascendentale e superare le terrificanti difficoltà non
solo, genericamente, del pianismo lisztiano, ma,
specificamente, del brano pianistico ritenuto allora
in assoluto il più difficile: Islamey di Balakirev. Ciò
tuttavia vale soprattutto per il pezzo conclusivo,
che dipinge una sorta di clownesca e repellente
figura di gnomo (il titolo, Scarbo, è assonante con
escarbot, scarafaggio) che si agita e dimena «come
un fuso caduto dall’arcolaio di una strega». Come
disse Cortot, «le impressioni d’incubo, le visioni
d’insonnia febbrile contenute nel poema vengono riflesse nell’estrema mobilità dell’adattamento
musicale. Qui ogni misura volteggia, si confonde,
si contraddice, s’imbroglia in un disordine apparente, per poi coordinarsi, in definitiva, nelle forme
di uno scherzo dalla costruzione irreprensibile».
Considerato l’assunto descrittivo, va da sé che,
per Ondine, Ravel abbia fatto ricorso agli stilemi
“acquatici” maturati dal repertorio musicale e da
egli stesso in precedenza approfonditi entro lavori
quali Jeux d’eau ed Une barque sur l’océan: moti
perpetui con ambiguità ritmico-metriche, liquidi
saliscendi scalari, effetti di pulviscolare frammentazione delle idee sonore. Conseguentemente, il
virtuosismo comportato è non certo quello atleticomuscolare trascendentale, bensì quello della delicatezza leggera, del perlage, della nuance timbrica.
Relativamente a quest’ultima abilità interpretativa,
doti assolute sono richieste all’esecutore dall’orrore spettrale e livido de Le gibet (La forca), dove
un Si bemolle ribattuto dipinge il moto oscillatorio
del cadavere sospeso d’un impiccato, richiedendo,
come ha rilevato il compositore Gil-Marchex, la capacità di differenziare, per quel singolo suono, ben
ventisette livelli di tocco.
Testi di Gianni Ruffin
Behzod Abduraimov è nato a Tashkent nel 1990 e
ha iniziato a suonare il pianoforte all’età di cinque
anni. è stato allievo di Tamara Popovich al Uspenskij
Lyceum a Tashkent e studia attualmente con Stanislav Ioudenitch presso il Centro Internazionale per
la Musica alla Park University, Kansas City.
Vincendo all’età di 18 anni, nel 2009, il primo premio al London International Piano Competition con
un emozionante performance del Concerto n. 3 di
Prokof’ev, ha iniziato una brillante carriera che lo
ha portato a collaborare con direttori quali Vladimir
Ashkenazy, Krzysztof Urbanski, Vasily Petrenko,
Charles Dutoit, Vladimir Jurowski, David Zinman,
Andrey Boreyko e Pinchas Zuckerman e le orchestre Royal Liverpool Philharmonic Orchestra, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Tivoli Concert
Orchestra, Royal Philharmonic Orchestra, Sydney
Symphony, Indianapolis e Atlanta Symphony Orchestra, Tokyo Symphony Orchestra, NAC Orchestra di Ottawa, Orchestre de Chambre de Lausanne e l’Orchestre Philharmonique di Monte Carlo.
Nella primavera del 2014 Abduraimov farà il suo
debutto con la Boston Symphony Orchestra diretta
da Lorin Maazel, che sarà seguito da un tour in
Cina. In America tornerà ad esibirsi con la Kansas
City Symphony , nel Recital Series Vancouver e
debutterà nella serie Princeton University e Phillips Collection di Washington DC cui seguirà il suo
debutto con la NHK Symphony Orchestra in Giappone. In Europa Behzod Abduraimov sarà Artist in
Residence con l’Orchestra Filarmonica dei Paesi
Bassi (Marc Albrecht) e collaborerà con orchestre
come la Czech Philharmonic, la London Philharmonic e la Real Filharmonia de Galicia diretta da
Paul Daniel. Nelle prossime stagioni Abduraimov
tornerà alla Wigmore Hall di Londra, dopo il suo
Fondazione
Teatro Nuovo Giovanni da Udine
Via Trento, 4 - 33100 Udine - I
Tel. 0432 248411 - Fax 0432 248452
[email protected] - www.teatroudine.it
trionfale debutto, e sarà nuovamente ospite della
Società dei Concerti di Milano. Già in calendario il
suo debutto al Louvre di Parigi.
Artista in esclusiva Decca, Behzod Abduraimov ha
pubblicato un CD di debutto in recital nel 2012 che
ha vinto i premi Choc de Classica e Découverte
Diapason. In questa stagione uscirà il suo primo
disco con orchestra, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Juraj Val uha.
PROSSIMO APPUNTAMENTO
STAGIONE MUSICA E DANZA
giovedì 13 febbraio 2014 · h 20.45
MUSICA >Concerto plus
eská Filharmonie
Jirí B lohlávek direttore
Nikolai Lugansky pianoforte
Smetana La Moldava, poema sinfonico
Chopin Concerto n. 2 op. 21 per pianoforte e orchestra
Dvo ák Sinfonia n.8 op.88
Print: La Tipografica srl (UD)
posto in Schubert ad una semplicità d’impronta affatto contemplativa (ed altrettanto profondamente
interiorizzata). Ciò è di particolare evidenza nella
cosmica meditazione dell’Improvviso n. 3, dove
il perpetuum mobile ottempera ad una semplice
funzione d’accompagnamento, ma la cui scorrevolezza svolge un ruolo determinante nel moltiplicare l’effetto incantatorio della stupenda melodia
che accompagna, sublimandone il fascino in una
dimensione estatica e sognante.
Nell’Improvviso op. 90 n. 2, se si esclude la più
schietta ed energica sezione centrale (necessaria
proprio a fine di contrasto con la principale), il
perpetuum mobile trascorre dall’occasionale
individuazione tematica al puro e semplice
arabesco. Un po’ come nei moti perpetui d’epoca
barocca, le idee tematiche non sono perfettamente
enucleate ma affiorano qua e là, come labili
concrezioni, dai vaghi confini, del continuum di
crome terzinate. Ciò definisce un disteso idillio,
un amabile e carezzevole gioco sonoro che, nella
gradevole fluidità del proprio decorso, attenua ed
amalgama perfino le inattese deviazioni armoniche,
come nel libero ed imprevedibile svilupparsi d’una
serena fantasticheria.
© studio patrizia novajra
Behzod Abduraimov
giovedì 23 gennaio 2014 · h 20.45 MUSICA
Behzod Abduraimov pianoforte
Behzod Abduraimov pianoforte
Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Sonata n.12 in la bemolle maggiore op. 26
1. Andante con variazioni
Variazione I: Animato un pochettino
Variazione II: Un pochettino più animato
Variazione III: Tempo primo
Variazione IV: Poco più mosso
Variazione V: Tempo primo, ma un poco animato
2. Scherzo: Allegro molto
3. Marcia funebre sulla morte di un eroe: Maestoso andante
4. Allegro
Fryderyk Chopin (1810 - 1849)
Fantasia in fa minore op. 49
Tempo di marcia (Grave) - doppio movimento - agitato - Lento sostenuto
Tempo I - Adagio sostenuto - Allegro assai
Camille Saint-Saëns (1835 - 1921)
Franz Liszt (1811 - 1886), Wladimir Horowitz (1904 - 1989)
Danse Macabre op.40
***
Franz Schubert (1797 - 1828)
Improvvisi op. 90 D.899
n. 3 in sol bemolle maggiore. Andante
n. 2 in mi bemolle maggiore. Allegro
Maurice Ravel (1875 - 1937)
Gaspard de la Nuit, «Trois poèmes pour piano d’après Aloysius Bertrand»
1 Ondine
2 Le gibet
3 Scarbo
Beethoven Sonata n.12 op.26
L’espressione forma-sonata, riferita come noto
alla struttura classico-viennese per eccellenza, è
invero un po’ ambigua, riferendosi tanto all’organizzazione complessiva di una composizione, generalmente articolata in tre o quattro tempi, quanto
alla struttura interna di alcuni fra questi: senz’altro
il primo; un po’ meno frequentemente l’ultimo ed
occasionalmente anche quelli centrali. In un senso
o nell’altro, il corpus delle trentadue sonate pianistiche di Beethoven costituisce, di quella struttura, al tempo stesso una summa ed un’apoteosi.
Tuttavia la visione complessiva del grandioso monumento lascia passare in secondo piano il fatto
che la fantasia profusa da Beethoven vi si nutrì di
un’inquietudine sperimentale la quale, con tre sonate composte nel biennio 1800-1801 (la nostra,
op. 26, e le “gemelle” op. 27 nn. 1 e 2) comportò
un tentativo d’allontanamento dal modello classico. Analogamente alle due Sonate op. 27, anche
l’op. 26 avrebbe forse potuto esser definita «quasi
una fantasia»: innanzitutto perché le manca la più
vistosa caratteristica della struttura classica, il primo tempo in forma-sonata, cui Beethoven preferì
una serie di cinque variazioni su un tema originale. Notevole per originalità è, in secondo luogo,
l’inserimento d’una marcia funebre in luogo del
tempo lento: scelta che rinvia alla familiarità beethoveniana con il coevo repertorio francese. Nutrita dall’intensa ammirazione per Luigi Cherubini
e dalla conoscenza di diverse musiche pubbliche
in uso in Francia nelle cerimonie di stato del periodo rivoluzionario - fra cui le marce funebri primeggiavano-, tale familiarità pochi anni dopo l’op.
26 avrebbe prodotto il celeberrimo secondo tempo
dell’Eroica, testimoniando che, per Beethoven, la
produzione pianistica costituiva il luogo deputato
alla sperimentazione, i cui frutti successivamente
sarebbero stati esportati ai restanti generi.
Meno atipici rispetto al modello beethoveniano più
consueto risultano invece i due movimenti pari, il
primo dei quali, col suo tono giocoso alimentato da
continui contrasti, soddisfa del resto ampiamente
l’esigenza innovativa di Beethoven, condensando
con brillantezza tutte le caratteristiche dello Scherzo: la nuova forma che, egli stesso sostituì stabilmente al vetusto minuetto. Rispetto al significato
sperimentale dell’op. 26, il Finale assume invece
un senso particolare, dalle ricche implicazioni: per
una volta entro questa Sonata, Beethoven decide
di mettere a frutto caratteristici tratti della scrittura
di forma-sonata. Ma questa opzione vi appare ben
lungi dall’assumere connotati regressivi: la fluidità contrastata che ne caratterizza il perpetuum
mobile (dinamizzato e “tormentato”, appunto, con
strumenti forma-sonatistici), anticipa nientedimeno che gli omologhi tempi di due sonate - l’op.
31 n. 2 La tempesta e l’op. 57 Appassionata - i
quali figureranno quali casi esemplari del venturo
ripensamento della struttura classica.
Chopin Fantasia op.49
Nella musica per pianoforte dell’Ottocento si possono individuare due diverse accezioni del termine
“Fantasia”. Quella più nuova (ma più regressiva
nella scrittura) stava ad indicare un pezzo basato
su temi celebri e non autografi, spesso in forma di
variazioni. Assai più impegnativa sul piano compositivo fu invece la Fantasia che impiegava temi
originali e che si ritagliava uno spazio limitrofo al
genere maggiore della Sonata, al cui novero non
poteva tuttavia esser ricondotta giacché non ne
rispettava per intero i tratti canonici.
In questa seconda accezione la Fantasia d’epoca
romantica recò al repertorio pianistico una serie
di brani d’assoluto rilievo come la Wanderer di
Schubert, l’op. 17 di Schumann, la Fantasia quasi
sonata di Liszt. A tale eccelsa lista si associa di
diritto l’op. 49 di Chopin, composta nel 1841 e dedicata all’allieva principessa Catherine de Souzzo:
capolavoro fra i massimi del compositore polacco,
la Fantasia esibisce una particolare compattezza
strutturale, tale da suggerire a taluni un’assimila-
zione alla tipologia del primo tempo di Sonata che
tuttavia non regge per numerosi aspetti eterodossi,
così come del resto accade per gli altri parallelismi
tentati (con la Ballata o con la “forma ternaria di
canzone”, ABA’, tipica dei tempi lenti).
In effetti il mito della libertà creativa romantica,
tale da generare esiti incommensurabili e sempre
difformi, si nutre proprio di composizioni esemplari
come questa. Chopin vi fa convivere tratti unificanti
(la rigorosa struttura tonale) con un’ampia libertà nella gestione delle idee tematiche, della loro
distribuzione, del loro trattamento e delle connessioni fra i vari episodi allineati. Fra questi spiccano elementi di sapore operistico quali la marcia,
il corale, il recitativo; unita ad una cospicua dose
di virtuosismo e ad una scrittura che in molti ha
suscitato un’impressione orchestrale, questa “teatralità” dell’op. 49 la rende un pezzo ideale per
l’esecuzione in sede di concerto pubblico.
Saint-Saëns - Liszt - Horowitz
Danse Macabre
Due anni prima di assumere la veste definitiva di
poema sinfonico (1874), poi trascritto per pianoforte da Liszt e rimaneggiato da Horowitz, la Danse
Macabre era stata concepita da Saint-Saëns come
pezzo per voce e pianoforte, su un testo di Henri
Cazalis ispirato alla credenza diffusa fin dal Medioevo che parlava di un risveglio notturno, in occasione della festività dei morti, della Morte stessa,
la quale, chiamati a sé i defunti, intonava uno strumento e li trascinava ad una danza fino all’alba.
Nel musicare un simile soggetto, Saint-Saëns non
poteva che riallacciarsi al filone ottocentesco che,
a partire da Berlioz, aveva contaminato i codici del
comico e del sublime ottenendo una delle sintesi
espressive più originali del secolo: quella del “grottesco”. Ciò che tuttavia caratterizza in maniera
specifica il suo brano rispetto a vari altri è, a fianco
delle seriose citazioni del Dies Irae e del Requiem
gregoriano, un più deciso sbilanciamento verso il
registro comico: effigiato nella scelta - degna della
verve satirica di un Offenbach - del ritmo di valzer per accompagnare la cadaverica danza, con
effetto, al tempo stesso ossessivo ed ossimorico,
di macabra leggiadria.
La scelta però di sbeffeggiare, col valzer, oltreché i
gaudenti parigini, nientemeno che la morte è verosimilmente da ritenersi quale possibilità accessibile
solo da parte di un artista dalla fredda nonchalance
quale Saint-Saëns fu al massimo grado. Al tempo
stesso, però, tale scelta appare l’estremo e necessario esito della mitologia solipsistico-nichilista,
ottocentesca e faustiana, dell’Artista Assoluto che
si cimenta nella negazione ultima e più temeraria.
Schubert Improvvisi op. 90 D.899
è stimolante la presentazione, nel medesimo concerto, dell’op. 26 beethoveniana e degli Improvvisi
op. 90 nn. 2 e 3 schubertiani (risalenti al 1827), il
cui paragone col finale della sonata di Beethoven
consente di comprendere quanto profondamente
diverse fossero le personalità dei due giganti, che,
quasi a contatto di gomito, furono protagonisti, a
Vienna, d’un’irripetibile stagione storico-musicale.
Particolarmente significativo è il raffronto perché
la concreta affinità, il ricorso al perpetuum mobile,
concorre ad evidenziare con nettezza la radicale
diversità di concezione. Come s’è detto, Beethoven
tormenta il perpetuum mobile: gli oppone continui
fattori di contrasto drammatizzandone il decorso.
Schubert, invece, non ne ostacola la scorrevolezza
ma se ne “lascia” trasportare, sfruttandola - all’opposto di Beethoven - per attutire, ammorbidire,
omogeneizzare. In Beethoven le figurazioni a veloci
note di valore omogeneo trasmigrano continuamente dal ruolo tematico al ruolo d’accompagnamento e, intrecciandosi alle altre mutevoli opzioni
(fraseologiche, contrappuntistiche, armoniche),
definiscono un percorso sonoro estremamente attivo: energico ed inquieto. La complessità e
l’intreccio tematico beethoveniani lasciano invece