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Introduzione
Il libro unico, che contiene il tutto, non potrebb’essere altro che il testo sacro, la parola totale rivelata.
Ma io non credo che la totalità sia contenibile nel
linguaggio; il mio problema è ciò che resta fuori, il
non-scritto, il non-scrivibile. Non mi rimane altra
via che quella di scrivere tutti i libri, scrivere i libri
di tutti gli autori possibili.
I. Calvino
Una tragedia, un melodramma, un film: Macbeth. Tre autori: William
Shakespeare, Giuseppe Verdi, Orson Welles. L’elenco dei testi e dei
nomi potrebbe essere ampliato a dismisura: potremmo partire dalla
cronaca storiografica (Holinshed) che fornisce le coordinate materiali
all’intreccio del testo tragico (Shakespeare), per accostare poi le sue
traduzioni più o meno letterali in altre lingue (Leoni, Rusconi, Hugo
ecc.) e le sue riscritture più o meno capillari (Garrick, Ducis ecc.),
fino ad arrivare ai coreodrammi (Le Picq, Clerico, Galeotti, Henry),
ai melodrammi (Chélard, Verdi, Bloch) e ai film (Welles, Kurosawa,
Visconti, Polanski) che si propongono come sue trasposizioni ad altri
codici, alla grande quantità di composizioni musicali (Locke, Leveridge, Zumsteeg ecc.) e figurative (Füssli) ad esso esplicitamente ispirate, per finire col tentativo velleitario di censire il numero dei testi in
cui si sono più o meno silenziosamente depositati frammenti del suo
contenuto o schegge della sue strutture formali.
Quella che si profila sotto i nostri occhi è una vera e propria costellazione di opere, linguaggi e codici, un estesissimo «intertesto», un
apparato proteiforme in cui testi germinano da altri testi, in cui ogni
testo ospita, in forme più o meno riconoscibili, i testi della cultura
precedente e quelli della cultura circostante, presentandosi come un
«nuovo tessuto di vecchie citazioni», come un crocevia di «frammenti
di codici, formule, modelli ritmici, frammenti di linguaggi sociali ecc.,
perché c’è sempre linguaggio prima del testo e intorno ad esso». Le
relazioni tra i testi non seguono solo la logica semplice della derivazione e dell’influenza, perché l’intertesto è anche un «campo generale
di formule anonime, la cui origine è raramente localizzabile, di cita9
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zioni inconsce o automatiche, date senza virgolette», è una dimensione che «apporta alla teoria del testo il volume della socialità: è tutto
il linguaggio, anteriore e contemporaneo, che giunge al testo, non secondo la strada di una derivazione localizzabile, di un’imitazione volontaria, ma secondo quella di una disseminazione – immagine che
assicura al testo lo statuto non di una riproduzione, ma di una produttività» 1. Più del fatto che un testo riproduce un altro testo, dovrà
essere considerato rilevante il fatto che ogni testo produce un senso
relativamente autonomo nel momento in cui riattiva in tutto o in parte il senso dei testi che sono in esso disseminati, prima di innestare a
sua volta del senso nei testi in cui viene successivamente in tutto o in
parte disseminato.
Se proviamo a distinguere la nozione di «testo» da quella di
«opera», considerando quest’ultima come un «oggetto finito, computabile, che può occupare uno spazio fisico (prendere posto ad esempio sugli scaffali di una biblioteca)», mentre diamo a quello il valore
di un «campo metodologico», dovremo concludere che all’interno
della costellazione intertestuale non è così facile censire (almeno regolarmente) dei testi: «tutto ciò che si può dire, è che in questa o quell’opera c’è (o non c’è) del testo». L’opera – il Macbeth di Shakespeare, di Verdi o di Welles – può essere definita in «termini eterogenei
rispetto al linguaggio» (si va dal formato del supporto – il libro, lo
spartito, la pellicola – alle determinazioni socio-storiche che lo hanno
prodotto), mentre il testo resta «da parte a parte omogeneo al linguaggio: non è che linguaggio e non può esistere che attraverso un
altro linguaggio». In altre parole, «il testo non si mette alla prova che
in un lavoro, in una produzione», attraverso la significanza, che «richiama l’idea di un lavoro infinito (del significante su se stesso)» 2. Le
nostre tre opere saranno dunque altrettante epifanie di un unico testo, il cui significante, al di là delle metamorfosi che lo investono (dal
linguaggio verbale a quello musicale a quello cinematografico), lavora
incessantemente attorno a un numero relativamente ristretto di nuclei
semantici, prevalentemente organizzati – lo vedremo – in strutture
antitetiche: realtà vs desiderio, coscienza vs incoscienza, lucidità vs
follia, naturale vs sovrannaturale ecc.
Il lavoro di significanza che attraversa le tre opere prescelte del
nostro intertesto, isolate secondo criteri consapevolmente arbitrari, risiede a tutti i livelli di ognuna di esse:
a) a livello dei suoni, non più considerati solo come «unità adatte a
determinare il senso (fonemi)», ma anche come «movimenti pulsionali» 3, portatori di quell’«irrazionalità segreta e veramente biologica» 4
delle forme che riflette l’inconscio (lo vedremo nei calembours del te10
INTRODUZIONE
sto shakespeareano, nella scrittura musicale di Verdi e nell’onomastica della cinematografia di Welles);
b) nelle unità semantiche, considerate non tanto in se stesse (monemi), quanto nel loro essere riunite in «alberi di associazioni» e trascinate dalla connotazione, cioè dalla loro «polisemia latente, in una
metonimia generalizzata», ovvero in un meccanismo semantico che
allo stesso tempo apre, sottraendole allo schematismo, le antitesi su
cui si fonda il senso e che, rendendo talvolta sostituibili elementi contigui, regola l’interazione del senso e della forma di ognuna delle opere col senso e con la forma delle altre (lo vedremo nelle associazioni
di parole nella tragedia, di frasi musicali nel melodramma e di inquadrature nel film);
c) nella concatenazione di quelle unità semantiche in sintagmi, di
cui, più del «senso schietto», importa «l’azione, la risonanza intertestuale», innescata sia dal concatenarsi compiuto di unità testuali all’interno di una sola opera, sia dal concatenarsi aperto e sempre rinnovato di unità testuali all’interno dell’intero intertesto (per cui ci saranno unità comunicanti da un estremo all’altro del nostro corpus);
d) infine nelle strategie discorsive implicate dai diversi media: siamo
così sollecitati a superare la «leggibilità» seria e intransitiva che, con
la sua «semplice logica predicativa» 5, regola la lettura dei testi «classici» o «moderatamente plurali» 6, mediante una «pluralità di logiche» incondizionata e in grado di avviare un’«interpretazione» del testo che non pretenda di «dargli un senso» univoco e definitivo, ma
piuttosto valuti «di quale pluralità sia fatto» 7: pluralità di sensi, di
rapporti, di attraversamenti possibili.
In questa prospettiva, che tende peraltro ad attenuare la separazione dei generi e delle arti, le opere non appaiono più come semplici «messaggi» o «enunciati» (cioè prodotti finiti, il cui destino sarebbe chiuso una volta trasmessi), ma come «produzioni perpetue,
enunciazioni, attraverso le quali il soggetto continua a dibattersi: questo soggetto è certo quello dell’autore, ma anche quello del lettore» 8.
I nostri tre Macbeth sono allora altrettanti duplicati di quel portentoso «anello di Möbius in cui la faccia interna e la faccia esterna, faccia
significante e faccia significata, faccia di scrittura e faccia di lettura
girano invertendosi di continuo, in cui la scrittura non cessa di leggersi, in cui la lettura non cessa di scriversi e d’inscriversi» 9. Il nostro plurimo autore-lettore (Shakespeare, Verdi, Welles) allo stesso
tempo codifica, decodifica e surcodifica, cioè scrive, legge e attraversa
continuamente la frontiera tra scrittura e lettura, portando a compimento «qualcosa che non è affatto l’una o l’altra, qualcosa d’instabile,
di fuggitivo, pronto a oscillare da una parte o dall’altra» 10, qualcosa
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che riunisce in sé i tratti dell’interpretazione, della citazione e della
trasposizione. Così l’autore-lettore non solo decifra, ma «produce,
ammucchia linguaggi, si lascia instancabilmente traversare da essi»,
divenendo egli stesso la figura e il luogo di questo «attraversamento» 11.
Il testo, non più concepito come un «tessuto» finito, come un
«velo» dietro il quale occorre «andare a cercare la verità, il messaggio
reale, in breve il senso», ma percepito come «tessuto nella sua tessitura, nell’intreccio dei codici, delle formule, dei significanti», si rivela
finalmente come uno spazio «in seno al quale il soggetto si sposta e si
disfa, come un ragno che si dissolva nella propria tela» 12. Il suo incanto si rivela nell’eccedenza (o nell’eccessività) del senso, in uno
spazio creativo inconsapevole, dove il soggetto-ragno si muove registrando immagini come se fosse «umano» e allo stesso tempo catturando messaggi sulle prime indecifrabili, guardando non tutto ciò che
vede e vedendo non tutto ciò che guarda, svolgendo e avvolgendo
talvolta compulsivamente la trama del testo. L’opera si costituisce in
questo modo come un supporto su cui si depositano la materia ovvia
del notevole e la materia proliferante del notato, dell’inconscio, di
tutto ciò che può essere oggetto di un processo conoscitivo reso possibile da una temporanea distrazione del soggetto da sé, dalla chiusura dell’occhio sensibile dell’io e dalla contemporanea apertura dell’occhio disumano del testo.
Il flusso ininterrotto di parole, suoni e immagini alimentato dal
nostro triplice testo sembra spingersi talvolta a declinare un linguaggio altro, risalente alla «relazione simbolica» 13, a condizioni che sono
esistite prima dello sviluppo del linguaggio concettuale e che sembrano avere un carattere fortemente regressivo. Un linguaggio in cui il
referenziale e il fittizio, il verosimile e il fantastico, l’estetico e l’indicibile si mescolano impercettibilmente. Un linguaggio che, lo vedremo,
appare regolato dalla legge neoplatonica della coincidenza degli opposti, per cui i mondi altri (il fittizio, il fantastico, l’indicibile) sono
tutti rovesci dello stesso, e dunque identici. Un ingegnoso sistema di
antitesi compreso nel paradosso dell’immaginazione barocca che condiziona la fisionomia dei tre diversi volti del nostro autore plurimo: la
coscienza dell’alterità, intensa quanto più saltuaria, convive con l’impulso a neutralizzarla nell’immagine di un’identità mascherata, risolvendosi in un’acrobatica «felicità d’espressione» 14.
Una felicità che si rivelerebbe fittizia se il lettore del nostro (triplice) testo, come la donna immaginata da Silas Flannery nel suo diario, non resistesse alla tentazione di pensare che quello che sta leg12
INTRODUZIONE
gendo è il libro «vero» e definitivo dell’autore (plurimo), quello che
l’autore avrebbe voluto scrivere senza riuscirci, e che quel libro è là,
sotto i suoi occhi, parola per parola, per una sorta di vantaggio conferito al lettore dalla posterità rispetto a ognuna delle incarnazioni
dell’autore. Una felicità che si dissiperebbe se l’autore, spiando il lettore da lontano, vedesse quel libro, il suo vero libro, nel fondo del
cannocchiale del tempo, senza poter leggere quello che c’è scritto,
senza sapere ciò che ha scritto quell’io che non è riuscito né riuscirà
mai a essere, e finalmente convincendosi che sarebbe inutile mettersi
alla scrivania, sforzarsi d’indovinare, di copiare quel libro vero letto
dal lettore («qualsiasi cosa io scriva sarà un falso, rispetto al mio libro
vero che nessuno tranne lei leggerà mai»). Una felicità che si interromperebbe se, così come l’autore guarda il lettore mentre legge, il
lettore puntasse un cannocchiale sull’autore mentre scrive e lo scrutasse con presuntuosa invadenza:
Siedo alla scrivania con le spalle voltate alla finestra – direbbe lo scrittore –
ed ecco sento dietro di me un occhio che aspira il flusso delle frasi, conduce
il racconto in direzioni che mi sfuggono. I lettori sono i miei vampiri. Sento
una folla di lettori che sporgono lo sguardo sopra le mie spalle e s’appropriano delle parole man mano che si depositano sul foglio 15.
Una felicità che tuttavia riprenderebbe intatta nel momento in cui
l’autore si convincesse di essere una formidabile «energia grafica,
pronta a trasportare dall’inespresso della scrittura un mondo immaginario che esiste indipendentemente da lui» 16 e che il lettore non è
che una proiezione di quell’energia, il punto di arrivo transitorio che
rende possibile il passaggio del senso, il miracolo dell’espressione, l’istituzione stessa della felicità testuale.
Note
1. Barthes (1998a), p. 235. Cfr. anche Kristeva (1978) e Genette (1997).
2. Barthes (1998a), p. 236.
3. Ivi, p. 237.
4. Agosti (1972), p. 43.
5. Barthes (1998a), p. 237.
6. Barthes (1973), p. 12.
7. Ivi, p. 11.
8. Barthes (1998a), p. 239.
9. Genette (1985), p. 17.
10. Barthes (1998b), pp. 287-8.
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11.
12.
13.
14.
15.
16.
Ivi, pp. 289-90.
Barthes (1998a), p. 236.
Freud (1976), p. 368.
Genette (1988), p. 18.
Calvino (1979), pp. 170-1.
Ivi, p. 190.
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