Concorso di Natale 2008 – Pavia Racconto di

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Concorso di Natale 2008 – Pavia Racconto di
N°8
Concorso di Natale 2008 – Pavia
Racconto di Antonio Catenacci
Titolo: LE MIE MEMORIE OLFATTIVE DELLA PAVIA CHE FU
Devo premettere di non essere un nostalgico del buon tempo andato, sono intimamente
convinto che la fatica di vivere nel periodo degli anni a cavallo fra il quaranta ed il cinquanta
fosse di molto superiore a quella odierna, pur ammettendo che oggi stiamo attraversando un
periodo di difficoltà. Per quanto mi ricordi, gli obbiettivi che si ponevano la stragrande
maggioranza dei pavesi di allora si riducevano al raggiungimento della certezza di avere lo
stretto necessario, tutto ciò che superava il minimo indispensabile era considerato segno di
benessere. Il possesso della casa d'abitazione di proprietà era il sogno di una ristretta
minoranza del popolo pavese ed il pensare di essere proprietari di un'automobile era
considerato dai più come indole, ad essere benevoli, a coltivare sfrenate illusioni. Ciò non
toglie che rimpianga quel popolo umile e tenace, onesto e coraggioso che nel volgere di poco
tempo seppe darci, esclusivamente con il suo lavoro, anni di ricchezza se non di vera e propria
opulenza, anni che, visto il momento critico che stiamo attraversando, sembrano
definitivamente tramontati anche se ritengo, in omaggio alla saggezza popolare, che dopo la
pioggia il sole non può mancare di uscire. In quel tempo io ero un bambino, essendo nato nel
1939 avevo una decina d'anni, e mi ricordo che passeggiando per Pavia si era colpiti da tutta
una serie di profumi e di odori che, con il tempo, si sono sempre più affievoliti sino a
scomparire del tutto, forse sono solo nascosti dalla puzza emanata dai gas di scarico delle
automobili. Sia chiaro che se questo ne fosse il motivo me ne ritengo parzialmente
responsabile essendo, anch'io, un utilizzatore di tale mezzo di locomozione. Uscivo allora in
via Cardano, e immediatamente percepivo il buon profumo di pane fresco che proveniva dalla
bottega del fornaio che si trovava proprio dirimpetto al portone di casa mia: era un profumo
penetrante, molto più intenso di quello che ancora oggi si può avvertire all'interno di quei
supermercati che cuociono questo alimento essenziale. Salivo poi per via Rezia ed arrivavo in
piazza Cavagneria che, nei giorni di mercato, ospitava una categoria di venditori ormai
definitivamente scomparsa, contadini provenienti dalle campagne circostanti che offrivano
pulcini e piccoli anatroccoli che venivano acquistati dagli abitanti della periferia che li
allevavano nei loro piccoli cortili nella prospettiva di avere, a distanza di tempo, la gallina in
pentola e l'anatra nel forno. Anche questi animaletti, spaventati dalla folla che li osservava,
visto che erano decine se non centinaia, emanavano un loro odore caratteristico. Pochi passi
più in là vi erano donne che vendevano rane; era uno spettacolo che ormai non può più
esistere… sedute su di uno sgabello, avevano da un lato un sacco contenente rane vive, che
erano state catturate nella sera e nella nottata precedente, e dall'altro un secchio. Con voce
cantilenante proponevano la loro merce mentre, senza interruzione e con abilità, con un
piccolo coltello provvedevano a decapitare ed a spellare le rane buttandole poi nel secchio. Io
le osservavo, estasiato vedere quei piccoli corpi ormai decapitati e senza pelle che ancora si
dibattevano all'interno di quei secchi! Ciò mi procurava emozioni ma, contestualmente,
sognavo di poter gustare un buon piatto di rane fritte anche se poi, a casa, mi veniva
presentata una minestra di riso e rane che, nonostante non incontrasse i miei gusti, dovevo
ingollare dato che non venivano offerte alternative. Anche da questi sacchi contenenti questi
piccoli anfibi proveniva un sottile effluvio che sapeva di acque stagnanti e di terre umide. In
quella piazza c'era un banco di vendita che mi è rimasto impresso indelebilmente nella
memoria. Si vendeva grasso di marmotta che, a detta del venditore, era una panacea per la
quasi totalità dei mali che affliggevano l'umanità. In una piccola gabbia si mostravano due di
questi animali. Si illustravano poi i poteri terapeutici del loro grasso che, spalmato sulle varie
parti del corpo, avrebbe liberato l'umanità da tutti i dolori fisici. Salivo poi lungo la via dei
Paratici e, alla metà di questa strada, vi era una piccola bottega ove venivano fritte patate e
alborelle, quei piccoli pesci allora così comuni nel nostro Ticino. Non è da credere quanto
quell'odore di buon fritto solleticasse il mio appetito allora sempre pronto a risvegliarsi ad
ogni più piccolo stimolo. Arrivavo poi nella Piazza della Vittoria "piasa dal marcà" e qui
l'olfatto aveva di che sbizzarrirsi. Si cominciava da una bottega, una drogheria che mi pare si
chiamasse Comini, che era posta sotto il portico del Broletto e tostava il caffè all'aperto, gli
effiuvi odorosi che emanavano quei chicchi, che lentamente cambiavano di colore e cedevano
all'aria tutta la loro fragranza, erano a dir poco impressionanti e rappresentavano il miglior
messaggio pubblicitario di quel negozio. Entravo poi nel mercato vero e proprio che, nella sua
parte meridionale, era consacrato alla vendita di prodotti alimentari. Qui il senso dell'olfatto
veniva colpito da profumi ed odori che provenivano da ogni lato, profumi delicati di salumi,
provenienti dalla campagna o dalle vicine colline, si mischiavano all'odore dei formaggi che,
in funzione delle loro qualità e del loro invecchiamento, rilasciavano aromi in qualche caso
penetranti. Anche la frutta e le verdure ammucchiate sui banchi di vendita giocavano il loro
piccolo ruolo, il profumo di quelle piccole mele bitorzolute che provenivano dal nostro
Appennino, mele oggi scomparse a causa del loro modesto aspetto e, probabilmente, dalla
poca redditività della loro coltivazione, era dolcissimo. Il diapason degli odori veniva
raggiunto di fronte al banco di vendita che proponeva acciughe, olive, merluzzo, baccalà,
tonno sott’olio, salacche e aringhe affumicate "l'inciuè". In questo caso più che di profumi si
sarebbe opportuno parlare di puzze e di odori acri, ma io mi estasiavo guardando quei pesci
essiccati che solleticavano la mia fantasia facendomi pensare a mari lontani e alla vita, che
credevo fosse fortunata e avventurosa, di quegli uomini di mare che avevano visto quei pesci,
che giacevano ordinatamente sistemati in rotondi contenitori di legno, vivi e guizzanti nelle
loro reti e che ora sarebbero serviti solo a condire ed a dare sapore a povere polente popolari.
Era bello questo mercato nelle gelide giornate invernali quando, agli odori delle merci
esposte, si aggiungeva quello del fuoco, ovvero della legna che ardeva entro certi bidoni di
lamiera presso i quali si avvicendavano i titolari dei banchi di vendita per poter godere di
qualche momento di tepore. Altro odore che mi è rimasto impresso nella memoria è un tipico
odore autunnale, quando dalle vicine colline arrivavano in città carri colmi di uva che si
dirigevano verso le varie osterie che avrebbero provveduto alla pigiatura ed alla produzione
del vino che, di lì a qualche tempo, sarebbe stato servito ai loro avventori. Uno di questi carri,
detti in dialetto "navasa", stracolmo di uve, approdava presso un'osteria posta molto vicino a
casa mia, chiamata in vernacolo "la curt dal navili" (attuale sede dell'archivio di Stato) e nel
cortile si iniziava il lavoro di pigiatura. Parlare di lavoro sembrava improprio, era una vera
festa e le persone che si avvicendavano all'opera dopo poco tempo dovevano smettere perché i
fumi che salivano dalle vinacce pestate li rendevano brilli e troppo allegri, diventando perciò
incapaci di proseguire nella loro attività con un minimo di serietà. L'odore o meglio il sentore
di mosto e di vino nuovo si spandeva per tutta la via creando atmosfere di soddisfazione
perché allora un buon bicchiere di vino bevuto all'osteria in compagnia di qualche sincero
amico era ritenuto giusto compenso dopo una giornata di lavoro. Questi alcuni degli odori e
dei profumi che accompagnarono la mia infanzia e che, a distanza di una sessantina d'anni,
ancora ricordo con un pizzico di nostalgia augurandomi che, fra altri sessant'anni, un decenne
di oggi possa ricordare, con altrettanta nostalgia, cose che oggi ci appaiono eterne e che
magari non ci saranno più.