L`Inkiesta - 52a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema

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Protezionismo e incentivi, il cinema coreano vince
così
ANDREA GOLDSTEIN
Il Leone d'Oro al coreano Kim Ki-duc è solo l'ultimo dei tanti premi che sta vincendo il
cinema di Seoul. Parte della ragione sta negli incentivi e nelle protezioni che l'industria
del cinema ha avuto qui sin dagli anni '60. Tuttora ogni schermo deve proiettare
produzioni coreane per almeno 73 giorni all’anno. Tuttavia in patria nessun film di Kim
ha ottenuto grande apprezzamento dal pubblico e dalla critica. Forse perché, in una
società così marcata dalle credenziali educative, Kim è un autodidatta, mentre altri
registi hanno studiato in grandi università nazionali e internazionali.
Il regista Kim Ki-duc riceve il Leone d'Oro
9 settembre 2012 - 19:51
CULTURA
SEOUL - Il Leone d’Oro 2012 consacra un autore, Kim Ki-duc, ma può essere letto
anche come l’ennesima manifestazione del successo internazionale della cultura
popolare coreana. Che chiaramente non si esaurisce con la musica pop, le telenovelas
e i giochi video – insomma con la K-wave – visto che la cinematografia d’esportazione
del paese del Mattino calmo ha caratteristiche ben distinte.
È un cinema capace di vincere nei grandi film internazionali: alla Mostra, ad Oasis
andarono nel 2002 i premi delle migliore attrice e del miglior regista, oltre che il
FIPRESCI della critica internazionale, che Ferro 3 - La casa vuota vinse a sua volta nel
2004. Sulla Croisette Poetry di Lee Chang-dong ha vinto il premio per la miglior
sceneggiatura nel 2010, mentre il premio Un certain regard è andato a Ha ha ha nel
2010 e ad Arirang, anche questo di Kim, nel 2011. Film tutt’altro che semplici: Ferro 3 La casa vuota, per esempio, è estremamente lento e i due personaggi principali non
parlano mai.
L’industria cinematografica coreana ha goduto di grandi protezioni a partire dagli
anni 60. I cinema dovevano proiettare film locali per non meno di 146 giorni all’anno,
anche se la rigida censura scoraggiava l’innovazione e pochi furono i grandi successi di
botteghino. Paradossalmente fu necessaria una riforma che, nel 1987, aprì alle major
americane i canali della distribuzione diretta nei cinema perché iniziassero a fluire i
finanziamenti e migliorasse la qualità del prodotto locale. I film giapponesi furono
invece tutti vietati, fino al 1998 quando si autorizzò la distribuzione di quelli che
avevano vinto un premio in un festival internazionale – raramente quelli capaci di
attirare le folle!
All’inizio del secolo, quando finalmente i film locali arrivarono a metà del mercato, le
regole furono liberalizzate, anche se tuttora ogni schermo deve proiettare produzioni
coreane per almeno 73 giorni all’anno. Una regola che è applicata anche per i film
americani, data l’esclusione degli audiovisivi dal campo d’applicazione del Trattato di
libero scambio tra Stati Uniti e Corea – un successo di Lee Chang-dong, nel frattempo
nominato Minsutro della cultura, che la Francia, tradizionalmente difenditrice
dell’exception culturelle, ha ricompensato con la Legion d'Honneur rimessagli da
Renaud Donnedieu de Vabres.
La strategia sembra pagare. Ad agosto, le produzioni locali hanno rappresentato
quasi 70% dei biglietti venduti, un aumento straordinario rispetto al 53% d’inizio anno.
The Thieves (il furto di un diamante da 20 miliardi di euro) è bene in corsa per superare
il record assoluto per un film coreano – 13,1 milioni di entrate – stabilito da The Hos”.
Storie semplici, alla Hollywood ma con un tocco coreano, e Chungmuro, l’equivalente
coreano di Cinecittà, l’ha capito. Nei primi otto mesi dell’anno, sette film hanno passato
i quattro milioni di spettatori.
E anche chi non ha mai sentito parlare di filmografia coreana, e magari neanche
tanto della Corea, si sorprenderà a vedere Seoul nel quarto episodio della serie
Bourne, quel The Bourne Legacy che, nel suo primo weekend americano, ha scalzato
The Dark Knight Rises dal piedistallo del box office. Come ha dichiarato il regista Tony
Gilroy, Seoul è la location perfetta, ancora sconosciuta (ma chissa per quanto, dopo il
successo planetario di Gagnam Style!) ma con i requisiti di qualità per un film di grosso
budget. Dal 2007, 97 film vi sono stati girati, soprattutto asiatici ma anche americani e
francesi. Le autorità locali danno fino a 100 milioni di won (un po’ più di 70 mila euro)
per i costi di produzione locali e coprono parte dei costi di viaggio e soggiorno del team
che fa lo scouting per scegliere dove realizzare il film.
Altro elemento importante, il BIFF, Busan International Film Festival, ormai il più
importante di tutta l’Asia non soltanto dal punto di vista artistico ma anche come
occasione d’incontro tra artisti e finanziatori con l’Asian Project Market in 2011.
Dall’anno scorso il BIFF, la cui 17ima edizione avrà luogo a ottobre, ha una nuova
casa, il Busan Cinema Center. Costato più di 100 milioni di euro e disegnato dallo
studio austriaco Coop Himmelblau, dispone di un teatro all’aperto da 4 mila posti e di
quattro schermi coperti. Il BIFF ha un rapporto forte con l’Italia, simbolizzato dal
riconoscimento che ha dato a tre italiani che molto hanno fatto per il cinema asiatico in
Europa: Adriano Aprà della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro,
Sabrina Baracetti del Far East Film Festival di Udine e Riccardo Gelli, direttore del
Florence Korea Film Fest.
Invece in patria nessuno dei film di Kim ha ottenuto grande apprezzamento dal
pubblico e dalla critica. Anche quando ha lavorato con una star conosciuta, Jang Donggun, il risultato (The Coast Guard, uscito nel 2002) non è stato apprezzato. Forse
perché, in una società così marcata dalle credenziali educative, Kim è un autodidatta,
mentre altri registi hanno studiato in grandi università nazionali e internazionali; forse
perché i suoi film raccontano storie estreme – per esempio L’isola è una vicenda
sadomaso ambientata in un idilliaco villaggio di pescatori, Adirang è una specie di
regolamento di conti con un regista che di Kim era stato aiuto e che gli avrebbe
sottratto un progetto – e un mondo di vinti ed esclusi. Ma pur sempre un fatto
sorprendente perché qualsiasi successo mondiale del paese, a livello sportivo o
economico, artistico o culturale, viene invece celebrato dai media come prova ulteriore
che la Corea gioca ormai nel campo dei grandi della Terra.
In un’intervista di pochi giorni fa, Kim e il regista giapponese Takeshi Kitano hanno
detto fare cinema in Asia è assai difficile. Secondo Kim, il pubblico coreano considera i
film come semplice divertimento, senza interessarsi al loro valore artistico o alla
descrizione che fanno della società contemporanea. E anche se è ottimista sulla
possibilità di usare Internet per raggiungere direttamente i cinefili e magari aumentarne
il numero, è pessimista per quanto riguarda l’attitudine generale. Dopo aver fatto
parlare molto di Pietà organizzandone la prima alla Cattedrale anglicana di Seoul e
aver vinto il Leone, il successo in sala del film ci dirà se Kim è finalmente riuscito a fare
breccia nel cuore del suo pubblico.
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Parole chiave: cinema + corea del sud + kim ki-duc