La religione celtica

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La religione celtica
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La religione
celtica
in epoca
pre-cristiana
Edward Anwyl, M.A.
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Indice
Prefazione
pag.
4
I - I Celti
pag.
5
II - Le fasi principali della civilta' celtica
pag.
10
III - La correlazione tra la religione e la
crescita della civilta' celtica
pag.
18
IV - La religione celtica e lo sviluppo di Divinita'
specifiche
pag.
27
V - Gli Dei della religione celtica pag.
33
VI - Il sacerdozio celtico
pag.
39
VII - L'aldila' celtico
pag.
49
Breve bibliografia
pag.
58
3
Prefazione
Solamente grazie all’archeologia preistorica, che è giunta a
gettare sempre maggiore luce sulle antiche civiltà delle terre
celtiche, è divenuto possibile interpretare la religione celtica da
un approfondito punto di vista moderno. L’autore riconosce
cordialmente il suo debito nei confronti dei numerosi scrittori
riguardo a questo soggetto, ma le sue ricerche in alcune parti
di questo campo gli hanno particolarmente suggerito la
possibilità di fornire una nuova presentazione a certi fatti e
gruppi di fatti che le prove esistenti hanno svelato. Si spera che
da questo nasca un nuovo interesse nei confronti della
religione dei Celti.
E. Anwyl
Aberystwyth, 15 febbraio 1906
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I
I Celti
Nell’affrontare il soggetto della “religione
celtica”, il primo dovere dello scrittore è
quello di spiegare il senso in cui verrà usato
in questa opera il termine “celtico”. Verrà
usato per riferirsi a quei Paesi e zone in cui,
in tempi storici, in un’epoca o nell’altra si è
parlata principalmente la lingua celtica. Non
ne consegue che tutte le razze che parlavano
una forma della lingua celtica, lingua della famiglia indoeuropea, fossero tutti della stessa stirpe. Invero, le prove
etnologiche ed archeologiche tendono a stabilire chiaramente
che in Gallia ed in Britannia, per esempio, gli uomini hanno
vissuto per ere intere prima dell’introduzione di qualunque
varietà di lingua ariana o indo-europea e questo è
probabilmente accaduto in tutta l’Europa occidentale e del sud.
Inoltre, alla luce della filologia comparata, è divenuto ora
abbondantemente chiaro che le forme di linguaggio indoeuropee che chiamiamo celtiche sono più strettamente
relazionate a quelle della famiglia italica, di cui il Latino è la
rappresentanza più nota.
Da questo consegue che noi si debba cercare il centro della
dispersione della lingua celtica ariana in qualche zona
d’Europa che possa essere stata il naturale centro di
spargimento anche per le lingue italiche. Da questo centro
comune, tramite le conquiste e gli scambi commerciali che ne
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sono seguiti, le tribù che parlavano le varie forme di lingua
celtica ed italica si sparsero nelle zone occupate da loro in
tempi storici. Il centro comune di irradiazione per la lingua
celtica e la lingua italica fu probabilmente nelle zone di
Noricum e Pannonia, le moderne Carniola, Corinzia, ecc. e le
parti vicine della valle del Danubio. I vincitori Celti ed Italiani
che parlavano ariano formarono un’aristocrazia militare ed il
loro successo nell’estendere la gamma delle loro lingue fu
ampiamente dovuto alla loro abilità nelle armi combinata, con
tutta probabilità, ad un talento per l’amministrazione. Questa
aristocrazia militare era di tipo analogo a quella che portò la
lingua ariana in India e Persia, Armenia e Grecia, per non
parlare di coloro che in origine parlavano lingue teutoniche e
slave. In vista della necessità di scoprire un centro da cui le
lingue Indo-Europee o Ariane in generale possano essersi
irradiate verso est, così come verso ovest, la tendenza odierna è
quella di considerare che queste lingue venissero parlate in
qualche zona tra i Carpazi e le Steppe sotto forma di dialetti
affini di una lingua comune. Alcuni rami delle tribù che
parlavano questi dialetti penetrarono nell’Europa Centrale,
indubbiamente lungo il Danubio, e dalla valle del Danubio
estesero le loro conquiste insieme alle loro varie forme di
lingua ariana nell’Europa del sud ed occidentale. La
proporzione tra conquistatori e conquistati non era uniforme
in tutti i Paesi dove loro governavano, tanto che il totale di
sangue ariano nella popolazione risultante variava
grandemente. Nella maggior parte dei casi le famiglie dei
conquistatori originali, grazie alla loro abilità nell’arte della
guerra e ad un certo istinto per governare, ebbero successo nel
rendere le loro lingue il mezzo di comunicazione dominante
nelle terre da loro governate, con il risultato che la maggior
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parte delle lingue europee odierne sono del tipo ariano ed
indo-europeo. Tuttavia, non ne consegue necessariamente che
le antiche idee religione della artistica civiltà di Paesi con
attuale lingua ariana siano necessariamente giunti dai
conquistatori piuttosto che dai conquistati. Nell’ultimo secolo
si è a lungo pensato che nei Paesi di lingua ariana le
caratteristiche principali della civiltà, le loro idee religiose, le
istituzioni sociale e anche gli abitanti stessi fossero di origine
ariana.
Un’investigazione maggiormente critica, tuttavia, ci ha resi in
grado di distinguere chiaramente tra lo sviluppo dei vari fattori
della vita umana che nella loro evoluzione possono seguire, e
spesso hanno seguito, linee più o meno indipendenti. La storia
fisica della razza, per esempio, è un problema in se stessa e
dev’essere studiata tramite metodi antropologici ed etnologici.
Anche la lingua si è spesso propagata lungo linee diverse da
quelle della razza e la sua investigazione appartiene alla sfera
dei filologi. Neppure la civiltà materiale ha necessariamente
seguito le linee dello sviluppo razziale o linguistico e la ricerca
delle antiche strade di spargimento si possono sicuramente
lasciare agli archeologi. Similarmente, l’espansione delle idee
nella religione e nel pensiero è avanzata tramite linee proprie e
la sua investigazione dev’essere condotta tramite i metodi e
lungo le linee dello studio comparativo delle religioni.
Nel senso ampio, dunque, in cui useremo il termine “religione
celtica” in quest’opera, si copriranno le usanze del pensiero
religioso prevalente nei Paesi e nelle zone che, nel corso del
tempo, furono caratterizzate principalmente dalla lingua
celtica. Alla somma totale di queste idee religiose hanno
contribuito numerose fonti. Sarebbe imprudente affermare che
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i vari corsi della conquista celtica ariana non abbiano fornito
alcun contributo alle concezioni della vita e del mondo che i
Paesi da loro conquistati sono giunti a possedere (e la prova
del linguaggio punta invero verso alcuni di tali contributi), ma
la loro parte pare essere piccola in confronto a quella dei loro
predecessori; né sorprende, considerando l’immenso periodo
durante il quale le terre da loro conquistate sono state
occupate. Niente è più chiaro della meravigliosa persistenza
delle usanze di pensiero tradizionali ed antichissime, anche di
fronte alla conquista ed al soggiogamento, e, qualunque idea di
religione i conquistatori ariani delle terre celtiche possano
avere portato con loro, coloro la cui conquista era spesso solo
parziale non poterono sradicare le inveterate credenze dei loro
predecessori ed alla fine il risultato fu indubbiamente qualche
compromesso, o la vittoria della fede precedente.
Ma gli stessi conquistatori ariani della Gallia e dell’Italia non
erano uomini avanzati lungo il Danubio in una generazione.
Quegli uomini che parlavano la lingua ariana che si
riversarono nella penisola italiana ed in Gallia erano senza
dubbio di sangue mescolato con abitanti più antichi
dell’Europa centrale ed erano entrati nel corpo di idee che
formava le credenze religiose degli uomini della valle del
Danubio. Le comuni modifiche della lingua ariana, sia degli
Italiani che dei Celti comparate con il Greco suggeriscono
contatti con uomini di lingue diverse. Anche tra i nomi degli
Dei celtici, come tra quelli di altre nazioni, troviamo radici che
non sono apparentemente riconducibili ad alcuna delle lingue
indo-europee conosciute e noi non sappiamo quali lingue preariane possano avervi contribuito. A tutt’oggi gli studiosi sono
molto più vividi quanto siano mai stati di fronte alla
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complessità degli elementi di contributo che sono entrati nel
tessuto delle antiche religioni dell’umanità e, più i resti delle
religioni celtiche vengono investigati, più complessi diventano
i fattori che vi hanno contribuito. Nelle lunghe ere prima della
storia vi furono conquiste non riportate ed innumerevoli
migrazioni e le idee non hanno mancato di espandersi solo
perché non vi erano storici a registrarle.
Più si esaminano gli scarsi resti della religione celtica, più
diventa chiaro che molte delle sue caratteristiche si sono
evolute durante il vasto periodo dell’età della pietra. Durante
questi millenni, gli uomini hanno sviluppato, in concomitanza
con la loro civiltà materiale, una sorta di filosofia di vita
funzionante, tracce della quale si ritrovano in ogni terra dove
questa forma di civiltà è prevalsa. La religione dell’uomo non
può mai essere dissociata dalla sua esperienza sociale e gli
stadi dolorosi attraverso i quali l’uomo ha raggiunto la vita
agricola, per esempio, hanno lasciato la loro impronta
indelebile sulla mente dell’uomo nell’Europa occidentale così
come in ogni altra terra. Siamo perciò costretti, in base alle
indicazioni che abbiamo in merito alla religione celtica, ai
nomi delle sue Divinità, ai suoi riti ed alle sue sopravvivenze
nel folklore e nella leggenda, a giungere alla conclusione che la
sua base fondamentale sia un corpo di idee simile a quelle di
altre terre, che erano i correlativi naturali delle fasi di
esperienza attraverso cui passava l’uomo nel suo emergere
verso la vita civilizzata. La dimostrazione e l’illustrazione di
queste relazioni sarà lo scopo dei capitoli che seguono.
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II
Le fasi principali
della civilta'
celtica
Nei Paesi principali della civiltà
celtica,
la
Gallia
Cisalpina
e
Transalpina, la Britannia e l’Irlanda,
sono stati trovati abbondanti materiali
per spiegare gli stadi della cultura
attraverso cui l’uomo è passato nelle
ere preistoriche. In Britannia, per
esempio, l’uomo paleolitico ha lasciato numerosi esempi dei
suoi utensili, ma le loro stesse forme grezze suggeriscono che
anch’essi si siano evoluti da tipi ancora più primitivi. Alcuni
archeologi hanno pensato di rinvenire tali tipi precedenti nelle
pietre che sono state chiamate “eoliti”, ritrovate nel Kent, ma,
per quanto questi “eoliti” potrebbero forse dimostrare un uso
umano, la questione della loro storia è lontana dall’essere
stabilita. E’ tuttavia sicuro che l’uomo ha avuto successo nel
conservarsi per epoche in compagnia del mammuth, dell’orso
delle caverne e di altri animali ormai estinti. Se l’uomo
paleolitico sia sopravvissuto all’Era Glaciale in Britannia non è
stato ancora deciso in maniera soddisfacente. In Gallia,
tuttavia, vi sono chiare prove di continuità tra il periodo
paleolitico ed il neolitico e questa continuità deve ovviamente
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essere esistita da qualche parte. Nonostante le indicazioni di
continuità, la civiltà dell’uomo primitivo in Gallia presenta un
aspetto che non ha analoghi nella vita degli uomini paleolitici
del periodo del Fiume Drift né in quello dell’uomo della Nuova
Età della Pietra. La caratteristica in questione è la notevole
abilità artistica mostrata dagli uomini delle caverne della zona
di Dordogna. Alcuni dei disegni e delle incisioni di questi
uomini rivelano un senso della forma di cui si sarebbe fatto
credito a uomini di un’epoca molto posteriore. Una
caratteristica come questa, qualunque possa esserne stato lo
scopo, che sia sorta dallo sforzo di effettuare una “magia
simpatetica” per catturare animali – come suggerisce
M.Salomon Reinach – o dal mero impulso artistico, è un
durevole promemoria per noi sulla scarsezza dei nostri dati per
stimare le linee dello sviluppo umano, religioso e non, nelle
vaste epoche dell’era preistorica.
Sappiamo che da una vita basata sulla caccia l’uomo è passato
allo stadio pastorale, avendo imparato ad addomesticare gli
animali. Come sia giunto a farlo e da quali motivi sia stato
spinto è ancora un mistero. Potrebbe essere, come suggerito da
M.Salomon Reinach, che un qualche curioso e indefinibile
senso di affinità li abbia portati a farlo o, più probabilmente,
come pensa l’autore che sta scrivendo, un qualche senso di
bisogno dell’alleanza degli animali contro gli spiriti ostili. Con
ogni probabilità non si tratta di un motivo che noi possiamo
oggi sondare. La mente dell’uomo antico era come
l’insondabile mentre di un fanciullo. Dalla vita pastorale
l’uomo passò attraverso lunghe ere nella vita agricola ed i resti
dell’uomo neolitico in Gallia ed in Britannia ci fornisce dei
barlumi della sua vita contadina. Il bue, la pecora, il maiale, la
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capra ed il cane erano i suoi animali domestici; era in grado di
coltivare grano e lino e poteva integrare il prodotto della sua
fattoria con la caccia e la pesca. L’uomo neolitico sapeva
tessere e filare; sapeva ottenere la selce necessaria ai suoi
utensili, che costruiva scalpellando e levigando, ed era in grado
di costruire anche del vasellame di rozza qualità. Abbiamo qui
nella sua essenzialità gli inizi della civiltà agricola dell’uomo in
tutto il mondo. In vita, l’uomo neolitico dimorava talvolta in
cavità e talvolta in capanne circolari coperte da un tetto di rami
sostenuto da un palo centrale. Da morto veniva seppellito con
i suoi parenti in lunghi terrapieni chiamati tumuli, in tumuli
provvisti di camere e cromlech o dolmen. Questi ultimi
solitamente consistono in tre pietre erette coperte da una
ulteriore pietra che fa loro da cappello, formando lo scheletro
di pietra di una tomba che è stata esposta alla vista dopo che la
collinetta di terra che lo ricopriva era stato lavato via. Nelle
loro tombe i morti venivano seppelliti in posizione
rannicchiata e nuove sepolture venivano fatte in caso
l’occasione lo richiedesse. Talvolta il cromlech è doppio ed
occasionalmente vi è un foro in una delle pietre il cui
significato è sconosciuto, a meno che non fosse per l’ingresso e
l’uscita delle anime.
Le tombe del tipo dei dolmen o del cromlech si trovano in tutti
i Paesi dell’Europa occidentale, del nord Africa ed altrove,
laddove abbondi la pietra adatta allo scopo, ed in questo
abbiamo una illustrazione che colpisce in merito al modo in cui
le linee di sviluppo della civiltà materiale umana siano presto o
tardi correlate ai suoi dintorni geografici, geologici e di altro
tipo. Le idee religiose dell’uomo nelle epoche neolitiche è in
correlazione anche con le condizioni del suo sviluppo e i non
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interpretati cerchi di pietre ed i pilastri del mondo sono una
testimonianza perenne dello zelo religioso di una mente che
era ossessionata dalla pietra. Prima di procedere ad
esemplificare questa tesi, possiamo brevemente abbozzare il
trend successivo della civiltà celtica.
Tramite i pacifici rapporti commerciali, strumenti ed armi di
bronzo cominciarono a farsi strada, all’incirca intorno al 2000
A.C. o prima, dall’Europa centrale e del sud verso la Gallia, e
da lì verso la Britannia. In Britannia l’Era del Bronzo comincia
intorno al 1500 o 1400 A.C. ed alcuni archeologi pensano che
in quel periodo il bronzo venisse lavorato nella stessa Britannia
con l’aiuto di stagno locale. Vi sono tuttavia indicazioni che
l’introduzione del bronzo in Britannia non sia avvenuto solo
grazie al commercio. Si sono ritrovate prove che indicano che
verso l’inizio del periodo del Bronzo in questa isola vi era una
razza di tipo diverso da quella dell’uomo neolitico,
caratterizzata da un cranio rotondo ed una struttura potente e
da indicazioni generali di un portamento marziale. I resti di
questa razza si ritrovano solitamente in tumuli rotondi.
Questa razza, che certamente usava armi di bronzo, si crede
generalmente essere stata la prima ondata che abbia raggiunto
la Britannia di conquistatori ariani di lingua celtica provenienti
dalla parte più vicina del continente, dove devono essere
arrivati qualche tempo prima, probabilmente lungo la valle del
Reno. Siccome quel tipo di lingua celtica che è penetrato
maggiormente verso occidente è noto come Gaelico o
Irlandese, non è stato irragionevole pensare che debba essere
stato il primo tipo arrivato in Britannia. Vi sono anche
indicazioni che sia stato questo tipo a penetrare ulteriormente
nell’ovest della Gallia. La sua caratteristica più marcata è la sua
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conservazione della pronuncia della U come “oo” e di QU,
mentre la variante “Britannica” o Gallese cambiava la U con un
suono pronunciato come il francese “u” o il tedesco “u” ed
anche QU in P. Nelle lingue italiche vi è una linea di divisione
similare, laddove il Latino corrisponde al Gaelico e l’Oscano e
Umbro al Britannico. La Gallia transalpina venne
probabilmente invasa da più direzioni da Celti che parlavano
una lingua ariana e l’infiltrazione e l’invasione dei nuovi
arrivati, una volta iniziata, fu indubbiamente continua
attraverso questi vari canali. Vi sono valide ragioni per pensare
che alla fine il tipo dominante di linguaggio celtico nella
maggior parte della Gallia divenne quello della P invece di
quello di tipo QU, a causa dell’influsso da est e nordest di
un’invasione dalla valle del Reno di tribù che parlavano quel
dialetto, un dialetto che, con la forza della conquista e della
cultura, ha teso a diffondersi sempre più ad ovest.
Anche in Britannia, con il passare del tempo, venne portato il
tipo P celtico ed in Galles ed in Cornovaglia sono sopravvissute
le vestigia della lingua dell’antica Britannia. Sappiamo anche
dal nome Epordia (Ivrea) che questo dialetto celtico si deve
essere diffuso anche nella Gallia Cisalpina. Quest’ultima zona
potrebbe avere ricevuto i suoi primi invasori Celti direttamente
dalla valle del Danubio, come sosteneva M.Alexandre
Bertrand, ma sarebbe azzardato presumere che tutti i suoi
invasori provenissero da quella direzione. Tuttavia, in
collegamento alla storia della religione celtica non è
importante la diffusione dei vari tipi di dialetto celtico, ma i
cambiamenti nelle civiltà di Gallia e Britannia, che reagirono
alle idee religiose o che introdussero nuovi fattori nello
sviluppo religioso di queste terre.
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Le spedizioni predatorie e le guerre di conquista delle tribù
militari celtiche alla ricerca di nuove case per la loro
popolazione eccessiva portò alla ribalta le Divinità della
guerra, come anche accadde agli antichi Romani, razza anche
loro allo stesso tempo agricola e predatoria. L’importanza della
guerra nella vita tribale celtica di un certo periodo ci ha portato
i nomi di moltissime Divinità, che venivano identificate con
Marte e Bellona, anche se non tutti gli Dei della guerra
venivano originariamente identificati in tal modo. Nel
calendario romano vi sono abbondanti prove che Marte fosse
allo stesso tempo un Dio agricolo ed un Dio della guerra. Come
dimostreremo più oltre, la stessa cosa è probabile fosse valida
anche per alcune delle Divinità celtiche, che venivano
identificate all’epoca romana con Marte e Bellona. Cesare ci
dice che Marte fu per un periodo il Dio principale dei Galli e
che in Germania lo era ancora. Anche in Britannia troviamo
che vi erano diverse Divinità identificate con Marte,
particolarmente Belatucadrus e Cocidius, ed anche questo
punta nella direzione di uno sviluppo della religione sotto
influenza militare.
Pare che i Galli avessero grandi conflitti nelle questioni militari
e nella civiltà materiale durante l’Epoca del Ferro. La cultura
della Prima Età del Ferro ad Hallstatt è stata sviluppata in
Gallia su linee caratteristiche proprie, avendo come risultato la
forma ora nota come tipo di La Tene o Marnico. Questo tipo
deve il suo nome ai campioni impressionanti scoperti a La
Tene sulla riva del lago Neuchatel e nei vasti cimiteri della
valle del Marne, le cui sepolture coprono un periodo dal 350 al
200 A.C. Fu durante il III secolo A.C. che questa caratteristica
cultura della Gallia raggiunse il suo culmine e diede una forma
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definita ai bellissimi disegni ricurvi conosciuti come quelli
della tarda arte celtica.
Sembra che il ferro sia stato introdotto in Britannia circa nel
300 A.C. ed i disegni della tarda arte celtica qui sono
rappresentati meglio che da qualunque altra parte. Eccellenti
esempi di tarda cultura celtica sono stati trovati nello
Yorkshire ed altrove e ad Aylesford, Aesica, Limavady ed in
altri luoghi sono stati scoperti importanti collegamenti con gli
sviluppi continentali. Si crede che nello sviluppo di questa
tipica cultura gallica siano entrati degli elementi attraverso la
importante strada commerciale della valle del Rhone da
Massilia (Marsiglia), dalla Grecia (via Venezia) e
probabilmente dall’Etruria. L’archeologia preistorica fornisce
prove abbondanti che nei paesi dalla parlata celtica la
lavorazione di metalli quali bronzo, ferro e oro hanno
raggiunto un notevole ed elevato punto di perfezione e questa è
una chiara indicazione che i Paesi e le zone celtiche che erano
sulle rotte del commercio, come la valle del Rhone, hanno
raggiunto una civiltà materiale di carattere assolutamente non
dappoco prima della conquista Romana. Anche in Britannia le
zone che erano in contatto con il commercio continentale si
erano sviluppate nella stessa direzione, come ci dice Cesare.
La controparte religiosa di questo sviluppo della civiltà è la
crescita in molte parti della Gallia, come attestato da Cesare e
da molte iscrizioni e nomi di luoghi, dell’adorazione di Dei
identificati con Mercurio e Minerva, le Divinità della civiltà e
del commercio. Non è un caso che una delle zone più notevoli
in merito a questa adorazione fosse il territorio della
confederazione degli Allobrogi, dove il commercio della valle
del Rhone trovò il suo maggiore sviluppo. Da questo scorcio di
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civiltà celtica si capisce ben presto come qui, come altrove, lo
sviluppo religioso dei Celti sia strettamente collegato allo
sviluppo della loro civiltà in generale. Dobbiamo tuttavia
tenere in mente che non tutte le parti del mondo celtico erano
egualmente influenzate dallo sviluppo materiale in questione.
Parte della complessità della storia della religione celtica nasce
dal fatto che noi non possiamo essere sempre sicuri del grado
di progresso nella civilizzazione avuto da ogni distretto, delle
idée che lo pervadevano, degli interessi principali della sua
vita. Un’altra difficoltà è che i resoconti sulla religione celtica
fornitici dalle autorità antiche non si armonizzano sempre con
l’indisputabile evidenza delle iscrizione. E’ probabile che le
pratiche religiose del mondo celtico non fossero più omogenee
della sua civilizzazione generale e che le autorità antiche siano
sostanzialmente sincere nelle loro affermazioni in merito a
certe zone, certi periodi o certe porzioni della società, mentre
le iscrizioni, nate dall’influenza della civiltà Gallo-Romana –
particolarmente nella Gallia esterna e nella Britannia militare
–, ci forniscano prove supplementari più importanti per
quanto riguarda zone ed ambienti di genere diverso. Le
iscrizioni, in particolare per i nomi delle Divinità che rivelano,
sono state tra gli indizi più preziosi nella storia della religione
celtica, anche in stadi di civilizzazione precedenti a quelli cui
esse appartengono.
Nel prossimo capitolo svilupperemo ulteriormente la
correlazione delle idee religiose con gli stadi della civiltà
celtica.
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III
La correlazione
tra la religione e
la crescita della
civilta' celtica
Nell’affrontare con una visione da
lontano l’epoca preistorica è per noi
difficile, nel nostro sforzo in
prospettiva,
non
accorciare
indebitamente nel nostro pensiero le
vaste epoche della sua durata.
Tendiamo anche a dimenticare che in
questi innumerevoli millenni vi è
stato tempo in abbondanza perché
fosse possibile che in certe aree
d’Europa si evolvessero quelle che erano in pratica nuove
razze, grazie alla prepotenza di particolari gruppi ed
all’annichilimento di altri. Durante queste epoche, inoltre,
dopo che è sorto il linguaggio, vi è stato tempo sufficiente per
rimaneggiare completamente più di una lingua, perché prima
dell’alba della storia la lingua non era meno esente dal
cambiamento di quanto lo sia ora ed in queste immense
epoche, qualunque idea in merito al mondo che lo circondava
avesse vagamente concepito l’uomo preistorico e formulato dal
loro genio, vi è stato abbondante tempo per farle morire o
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conquistare la supremazia. Vi devono essere stati eoni prima
dell’alba anche dell’animismo consapevole e l’esperimento
della magia simpatetica fu, quando venne tentato per la prima
volta, probabilmente considerato come un enorme colpo di
genio.
La stessa Età della Pietra fu una lunga epoca di grande, benché
lento, progresso nella civilizzazione, e l’evoluzione delle
pratiche e delle idee che emergono in concomitanza con il suo
stadio agricolo, quando le si considera da vicino, recano
testimonianza della capacità della mente di avere un progresso
religioso alla luce dell’esperienza e della sperimentazione
intelligente ed allo stesso tempo degli errori in cui essa è
caduta. L’Età della Pietra ha lasciato il suo sedimento nel
folklore di tutto il mondo. All’osservatore casuale molte delle
idee radicate in esso potrebbero sembrare una massa di errori,
e così sono quando vengono giudicate non storicamente; ma
quando vengono considerate criticamente ed allo stesso tempo
storicamente esse forniscono molti scorci di genio preistorico
in un mondo dove la vita era necessariamente un grande
esperimento. Il folklore del mondo rivela una straordinaria
uniformità ed omogeneità negli stessi stadi di civilizzazione,
come il Dr. J.G.Frazer ha abbondantemente dimostrato nel suo
Golden Bough (trad. it. Il Ramo d’Oro, n.d.t.). Questa
uniformità non è tuttavia dovuta alla necessaria uniformità
dell’origine, ma in gran parte al fatto che essa rappresenta lo
stato di equilibrio raggiunto tra le menti ad un certo livello ed
il loro ambiente, lungo linee di pensiero dirette dall’impeto
dato dalle tradizioni millenarie e dalla sopravvivenza nella
storia umana, che le considerava con attenzione.
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Le apparenti immotivate proibizioni spesso note come “tabù”,
molte delle quali persistono ancora nella moderna vita civile,
hanno le loro radici in idee ed esperienze che nessuna
speculazione da parte nostra potrebbe ora spiegare
completamente, per quanto possiamo arguire sulla loro
origine. Molte di queste antiche proibizione sono scomparse
all’arrivo di nuove condizioni, altre sono spesso sopravvissute
grazie ad una reale o supposta armonia con le nuove
esperienze che sono sorte nel corso della storia umana. Dopo
avere passato uno stadio in cui era troppo preoccupato delle
sue necessità materiali e dei suoi bisogni per considerare se era
tormentato o meno, l’uomo primigeno del mondo celtico, così
come altrove, dopo lunghe epoche di vaga agitazione giunse a
realizzare che era in qualche modo tormentato sia di giorno
che di notte e fu questa sensazione che spinse il suo intelletto e
la sua immaginazione a cercare qualche spiegazione al proprio
sentire. L’uomo primitivo giunse a cercare una soluzione non
riguardo all’universo intero (perché di esso non aveva
concezione) ma dell’universo locale, in cui lui aveva una parte.
Nell’affrontare il folklore celtico è da notare come esso
rispecchi la caratteristica colorazione locale e il paesaggio delle
zone in cui ha avuto origine. In un paese come il Galles, ad
esempio, il folklore delle fonti, delle caverne, dei monti, dei
laghi, delle isole e le forme della sua immaginazione, qui come
altrove, riflette infallibilmente la sua terra d’origine. Laddove
esso dipinge un “altro mondo”, quell’ “altro mondo” è su
un’isola o è un’isola oltre il mare, un lago o un fiume, o
avvicinabile solo attraverso qualche caverna o apertura nella
terra. Nel terreno di caccia del mondo celtico il cacciatore
primitivo conosceva ogni buco della maggior parte del suo
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ambiente con l’accuratezza nata dalla lunga familiarità, ma vi
erano certi picchi che egli non poteva scalare, alcune caverne
in cui non poteva entrare, alcune giungle in cui non poteva
penetrare ed in queste egli non sapeva quali mostri avrebbero
potuto dimorarvi o quali sconosciute creature potevano
vivervi.
Nel folklore celtico la credenza in mostri favolosi non è cessata.
L’uomo era circondato da pericoli visibili ed invisibili e venne il
tempo in cui qualche uomo preistorico di genio propose l’idea
che tutti gli oggetti intorno a lui non fossero meno viventi di lui
stesso. Questa visione animistica del mondo, una volta
adottata, fece grossi progressi dai vari centri in cui ebbe
origine e l’uomo ne trasse un nuovo senso di fratellanza con il
suo mondo, ma anche nuovi terrori. Sapendo grazie
all’esperienza dei sogni che lui stesso pareva essere in grado di
vagare lontano da se stesso, con il passare del tempo egli pensò
che le altre creature viventi fossero in qualche modo doppie e
che il mondo intorno a lui era occupato non solo da esseri vivi,
ma da altri “sé” di questi esseri, che potevano rimanere in essi
o lasciarli a piacere. Qui questa nuova filosofia preistorica
aggiunse un ulteriore interesse alla vita, ma allo stesso tempo
una nuova fonte di terrori. Il mondo brulicava di spiriti
invisibili, alcuni amichevoli ed alcuni ostili e, considerando
questi esseri, la vita doveva essere regolata da rigide regole di
azione e proibizione.
Anche nello stadio neolitico gli abitanti delle terre celtiche
erano giunti alle idee religiose in materia, come si vede non
solo dal loro folklore e dal nome dei gruppi di Dee come le
Matres ( madri), ma anche dal fatto che in tempi storici essi
sono avanzati ben oltre questo stadio fino a quello degli Dei
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con un nome ed una individualità propri. Come in tutti i Paesi
dove gli Dei erano individuali, gli uomini delle terre celtica –
sia gli aborigeni che gli invasori – sono avanzati faticosamente
lungo la ripida salita dal primitivo vago senso di essere
tormentato ad una credenza in Dei che, come Esus, Teutates,
Grannos, Bormanus, Litavis avevano un nome con un
carattere definito.
Tra le proibizione che si sono stabilite tra le razze delle terre
celtiche, come dovunque, ve ne era una contraria allo
spargimento di sangue di un proprio parente. Vi sono anche
indicazioni che alcune delle tribù che abitavano questi paesi
stimavano la parentela dal lato materno, come in fatti continuò
ad essere nel caso dei Pitti della Scozia in tempi storici. Non
ne consegue, come sappiamo da altri Paesi, che le tribù preariane della Gallia e della Britannia considerassero i loro
antenati originali umani. Certi nomi di Divinità come Tarvos
(il toro), Moccos (il maiale), Epona (la Dea dei cavalli),
Damona (la Dea del bestiame), Mullo (l’asino), così come il
fatto che gli antichi Britanni, secondo Cesare, allevassero
galline, oche e conigli ma non li uccidessero e non li
mangiassero tutti prova del fatto che in questi Paesi, come
altrove, certi animali venivano considerati con un rispetto
supremo e venivano protetti con cura dal male.
Giudicando dall’analogia dei fenomeni di parentela in altri
Paesi, la pratica di rispettare certi animali veniva spesso
associata alla credenza che tutti i membri di certi clan fossero
discendenti dell’uno o dell’altro di essi, ma quanto questo
sistema fosse elaborato nel mondo celtico è difficile a dirsi.
Questo fenomeno, largamente conosciuto come “totemismo”,
pare essere suggerito dall’importanza attribuita al cinghiale
22
selvatico nelle monete e nelle insegne celtiche ed il luogo
assegnato in alcune iscrizioni e bassorilievi alla figura di un
serpente cornuto, così come alle effigi di altri animali che sono
state scoperte. Non è semplice spiegare gli inizi del totemismo
in Gallia o altrove, ma si dovrebbe sempre tenere a mente che
l’uomo primitivo non poteva considerare verità assiomatica di
essere superiore ad ogni altro animale. Raggiungere questa
fiera consapevolezza (parere dell’autore; la teoria
antropocentrica, cioè basata sulla presunta superiorità della
razza umana rispetto alle altre razze animali e sul resto della
Natura, è stata nel secolo XX già da molti eminenti pensatori
sconfessata come quella che sta portando alla distruzione della
Natura e del mondo su cui viviamo, n.d.t.) è un passo ulteriore
nello sviluppo della prospettiva umana e va a credito dei Celti
che, per come li conosciamo nelle epoche storiche, paiono
essere giunti a questo, in quanto alle loro Divinità viene data
forma umana. Non sempre si ricorda quanto sia grande il
passo nell’evoluzione religiosa quando gli Dei vengono rivestiti
di attributi umani. M.Salomon Reinach, nel suo resoconto
sulle vestigia del totemismo tra i Celti, suggerisce che esso
fosse la mera ipertrofia del primitivo senso sociale umano che
si estendeva dall’uomo agli animali che lo circondavano.
Questo è possibile ma non è improbabile che l’uomo abbia
anche pensato di scoprire in certi animali alleati di cui aveva
molto bisogno contro alcuni dei nemici visibili ed invisibili che
lo assediavano. Nel suo conflitto con i poteri maligni intorno a
lui, egli potrebbe bene aver considerato certi animali sotto certi
aspetti combattenti più forti contro quei poteri di lui stesso; e
laddove essi non erano fisicamente più forti alcuni di essi,
come il serpente, avevano un’astuzia ed una sottigliezza che
pareva sorpassare di gran lunga la sua.
23
Nel corso del tempo certi gruppi di uomini giunsero a
considerarsi stretti da particolare alleanza con qualche animale
e discendenti di quell’animale come loro comune antenato.
L’esistenza fianco a fianco di varie tribù, ognuna con il suo
totem definito, non è stata pienamente provata in relazione al
sistema gallico e potrebbe essere stato una disposizione sociale
sviluppata che non era parte essenziale di quello stile di
pensiero nelle sue forme primarie. Il luogo dell’adorazione
animale nella religione celtica verrà considerato ulteriormente
in un prossimo capitolo. Qua viene solo indicata come uno
stadio necessario in relazione alla civilizzazione dell’uomo
negli stadi pastorali e di caccia, che dovevano essere stati
attraversati prima che le Divinità storiche della Gallia e della
Britannia fossero venute alla luce nell’epoca Romana. Alcuni
dei nomi divini del periodo storico, come Artio (la Dea orso),
Moccus (il maiale), Epona (la cavalla) e Damona (la pecora)
recano l’inconfondibile marchio dell’essere stati un tempo di
Dei degli animali.
Vi sono opinioni molto differenti in merito a quale stadio di
civilizzazione abbia avuto origine il totemismo. Lo stadio della
mente che implica suggerirebbe che esso rifletta un periodo in
cui la mente umana era preoccupata per gli animali selvatici ed
in cui le alleanze e le amicizie, cui egli dava valore nella vita, si
potrebbero ritrovare in quella sfera. E’ molto plausibile il
punto di vista portato avanti da M.Salomon Reinach ce
l’addomesticamento degli animali stessi implichi un’usanza
totemica per mezzo dei tabù dal male e dalla morte. Potrebbe
anche essere che, dopotutto, l’utilità degli animali domestici da
un punto di vista materiale fosse solo una considerazione
secondaria per l’uomo ed una felice scoperta dopo avere dato
24
agli altri animali attenzioni di tipo totemico senza successo.
Noi non sappiamo quante creature l’uomo primitivo avesse
cercato di associare a sé, fallendo.
In tutti gli stadi della storia umana l’alternanza delle stagioni
deve avere recato nel pensiero alcune cognizioni di ordine e
sistema, anche se per un lungo periodo egli fu preoccupato
solo di riflettere sulla regolarità delle ricorrenti vicissitudini
della sua vita. Nello stadio pastorale, il senso dell’ordine
divenne più marcato che in quello della caccia e sveltì la mente
verso un pensiero fresco, nuovo. La terra giunse ad essere
considerata come la Madre da cui tutte le cose giungevano e vi
sono prove abbondanti che la terra in quanto Madre, la
Regina, la Longeva, ecc trovò tra i Celti il suo posto naturale
come Dea. I suoi nomi ed i suoi titoli probabilmente non erano
gli stessi in tutti i luoghi ed in tutte le tribù. Ma è nello stadio
agricolo che essa entrò nelle terre celtiche, come fece in altri
Paesi, nella sua più completa eredità religiosa ed affronteremo
questo aspetto della religione celtica più esaustivamente in
connessione con gli spiriti della vegetazione. Questa fase della
religione nei Paesi celtici pare sottostare ad alcune delle sue
forme più caratteristiche ed essere quella che è sopravvissuta
più a lungo nel folklore celtico. La Terra Madre, con la sua
progenie di spiriti, fonti, fiumi, montagne, foreste, alberi e
cereali pare avere fornito la maggior parte degli Dei in gruppo
ed individuali del pantheon celtico. Dis, di cui Cesare parla
come dell’antico Dio dei Galli, veniva probabilmente
considerato suo figlio, a cui i morti ritornano. Non è stato
ancora stabilito con certezza se si tratti del Dio gallico descritto
come avente un martello o di un enorme cane che inghiottisce i
morti.
25
Dragone Gallese
26
IV
La religione
celtica e lo
sviluppo di
Divinita'
specifiche
Come altre religioni, quelle delle terre
celtiche dell’Europa hanno aggiunto al
primitivo animismo la credenza negli spiriti
che erano in alberi, animali, rocce,
montagne, fonti, fiumi ed altri fenomeni
naturali e nel folklore sopravvivono tuttora
abbondanti prove che il Celta era convinto che gli spiriti
prendessero su di sé una varietà di forme, animali ed umane.
Fu questa idea degli spiriti in forma animali che aiutò a
conservare il ricordo dell’antico totemismo nelle ere storiche.
E’ così che abbiamo nomi del tipo di Brannogenos (Figlio del
Corvo), Artogenos (Figlio dell’Orso) e simili, per non parlare di
nomi più semplici quali Bran (Corvo), March (Cavallo) che
sopravvivono in ere storiche. A Neuvy-en-Sullias sono state
ritrovate anche le immagini di bronzo di un cavallo e di un
cervo (ora nel museo di Orleans) fornite di anelli che, come
suggerisce M.Salomon Reinach, venivano probabilmente usati
per trasportare queste immagini in processione. Anche il
27
cinghiale selvatico era uno dei simboli favoriti dei Galli e vi è
una figura bronzea ancora esistente della Diana celtica che
cavalca il dorso di un cinghiale. A Bolar, vicino a Nuits, venne
scoperto un mulo di bronzo. Nel museo di Mavence vi è un
bassorilievo della Dea dei cavalli, Epona (dal Gallo Epos =
Latino equus, cavallo), che cavalca un cavallo. Uno dei più
importanti monumenti di questo genere è un’immagine di
Artio, la Dea Orso (dal Celtico Artos, orso), ritrovata a Muri,
vicino a Berne. Davanti a lei vi era la figura di un orso,
ritrovato anch’esso con lei. Anche il toro del bassorilievo di
Tarvos Triganaros di Notre Dame era con ogni probabilità
originariamente un totem, così come il cinghiale che si trova
sulle monete e sulle bandiere galliche, particolarmente in
territorio belga. Vi è anche una rappresentazione di un corvo in
un bassorilievo a Compiegne. Il nome “Moccus”, che viene
identificato con Mercurio, sulle iscrizioni e che si trova
inscritto a Langres, Trobaso, nella valle dell’Ossola ed a Borgo
San Dalmazzo, è indubbiamente l’equivalente filologico del
Gallese moch (maiale). Anche in Britannia il cinghiale si trova
frequentemente sulle monete degli Iceni e di altre tribù. In
Italia, secondo Mr. Warde Fowler, il maiale era un’offerta
appropriata alle Divinità della terra, tanto che nell’uso diffuso
del maiale come simbolo nel mondo celtico vi potrebbe essere
una qualche eco antica di un collegamento tra esso e lo spirito
della terra. Anche la sua dieta a base di ghiande può averlo
delimitato, negli antichi giorni della vita nelle radure delle
foreste, quale incarnazione animale dello spirito della quercia.
Nelle leggende delle razze celtiche, anche in tempi storici, il
maiale – e particolarmente il cinghiale – ha un posto d’onore.
In aggiunta agli animali summenzionati, un tempo veniva
28
probabilmente venerato anche l’asino in uno dei distretti della
Gallia e non è improbabile che Mullo, il nome del Dio
identificato con Marte e considerato il patrono dei mulattieri
menzionato nelle iscrizioni (a Nantes, Craon e Les
Provencheres vicino a Craon), significasse in origine “asino”.
Anche la Dea Epona, la cui adorazione era largamente diffusa,
probabilmente un tempo era una Dea animale sotto forma di
cavalla ed il nome di un’altra Dea, Damona, sia dalla radice
dam = Ir. Dam (bue) che dal Gallese daf-ad (pecora) può
similmente essere quello di una pecora o una mucca totem.
Né era nel solo mondo animale che i Celti vedevano indicazioni
del divino. Mentre la caccia e la vita pastorale concentravano
l’attenzione della mente sulla vita degli animali, la crescita
dell’agricoltura fissò i pensieri dell’uomo sulla vita sulla terra e
su tutto ciò che vi cresceva sopra, mentre allo stesso tempo
veniva portata a pensare sempre più al misterioso mondo sotto
la terra, da cui giungevano tutte le cose ed a cui tutte le cose
ritornavano. Né poteva dimenticare gli alberi della foresta,
specialmente quelli come la quercia che gli fornivano i loro
frutti come cibo in tempi di bisogno. Il nome Druido, così
come quello del centro di adorazione dei Galli dell’Asia Minore
Drunemeton (il boschetto di querce), l’affermazione di
Maximus di Tiro che la rappresentazione di Zeus per i Celti era
un’alta quercia, il resoconto di Plinio sul Druidismo (Nat. Hist,
xvi. 95), le numerose iscrizioni a Silvanus e Silvana, la
citazione di Dervones o Dervonnae in un’iscrizione a
Cavalsesio, vicino a Brescia, e le abbondanti prove di vestigia
nel folklore raccolte dal Dr. J.G.Frazer e da altri, tutti puntano
al fatto che l’adorazione degli alberi, ed in particolare quella
della quercia, ha contribuito nel suo pieno potenziale allo
29
sviluppo della religione celtica, in ogni modo in alcune zone ed
in alcune epoche.
Lo sviluppo della civiltà marziale e commerciale in tempi
posteriori ha teso a restringere i suoi sviluppo tipici e
maggiormente primitivi alle parti più conservatrici del mondo
celtico. Il fatto che all’epoca di Cesare il suo centro principale
in Gallia fosse il territorio dei Carnuti, la tribù che ha dato il
proprio nome a Chartres, suggerisce che i suoi sostenitori
fossero principalmente in quella parte del Paese. Questo era
anche il distretto del Dio Esus (Dio eponimo degli Essuvi) ed in
qualche grado di Teutates, la crudeltà dei cui riti è menzionata
da Lucano. Al presente autore è venuto in mente, prima di
trovare lo stesso punto di vista espresso da M.Salomon
Reinach, che l’adorazione di Esus in Gallia era quasi
interamente a carattere locale. In merito ai riti dei Druidi,
Cesare ci dice che era usanza approntare enormi immagini di
vimini entro cui esseri umani, solitamente criminali, venivano
posti e bruciati. L’uso del vimini ed il suggerimento che il rito
servisse a purificare la terra indicano una combinazione delle
idee di adorazione arborea con quelle dell’antica vita agricola.
Quando Svetonio dice che l’imperatore Claudio soppresse il
Druidismo, intende con ogni probabilità dire che vennero
soppressi i riti più inumani, portando ad una sostituzione delle
vittime umane con vittime animali, come pare suggerire
Lucano negli Scoliasti. (Pensiero eticamente superato,
ovviamente, in quanto è ora ben ovvio – anche se a quel tempo
forse non era altrettanto ben capito – che il fare del male o,
peggio, uccidere un animale è moralmente ripugnante come
uccidere un umano, con l’aggravante che l’animale è sempre e
comunque innocente!! n.d.t.)
30
Dal lato dell’amministrazione civile e dell’educazione, le
funzioni dei Druidi in quanto successori dei primitive uominimedicina e maghi indubbiamente variava grandemente nelle
diverse parti della Gallia e della Britannia, a seconda del
progresso che era stato ottenuto nella differenziazione delle
funzioni nella vita sociale. Più investighiamo lo stato del
mondo celtico nelle epoche antiche più diviene chiaro che
quanto a civiltà esso era ben lungi dall’essere omogeneo e la
sua eterogeneità di civiltà deve avere avuto la sua influenza
sulla religione, così come sugli altri fenomeni sociali. Anche il
naturale spirito conservatore della vita agricola ha perpetuato
molte pratiche anche in periodi comparativamente posteriori e
di questi intravediamo qualcosa in Gregorio di Tour, quando ci
dice che ad Autun veniva adorata la Dea Berecyntia, la cui
immagine veniva portata su un carro a protezione dei campi e
delle vigne. Non è impossibile che con il nome Berecyntia
Gregorio intendesse la Dea Brigindu, il cui nome appare su
una iscrizione a Volnay, nello stesso distretto della Gallia.
La credenza negli spiriti delle ghiande ed altre idee collegate al
pensiero centrale della vita del contadino dimostrano, con la
loro persistenza nel folklore celtico così come in altre tradizioni
popolari, quanto profondamente esse siano entrate nel tessuto
interno della mentalità agricola, tanto da essere collegate alle
sue più vive emozioni. Qui i riti della religione, che fossero
persuasivi come nella preghiera o obbligatori come nella magia
simpatetica, che fossero associati al sacrificio comune o
propiziatorio, che fossero diretti alla terra o al cielo,
possedevano tutti un carattere intensamente pratico e
terribilmente reale, a causa della costante preoccupazione
dell’uomo relativa alla crescita ed all’immagazzinaggio di cibo
31
per uomini ed animali. Nella caccia, nella vita pastorale e
soprattutto in quella agricola, la religione non era una
questione di mera immaginazione o sentimento, ma era
intimamente associata alle pratiche quotidiane della vita e
questo interesse pratico includeva tra le sue competenze i
fiumi, le fonti, le foreste, le montagne e tutta l’ambientazione
dell’esistenza umana. E ciò che è vero in agricoltura è vero
anche, in grado maggiore o minore, nella vita del fabbro o del
marinaio celtico. Anche nelle tarde leggende gallesi Amaethon
(l’antico Celtico Ambactonos), Dio patrono dell’agricoltura
(Gallese Amaeth), e Gofannon, Dio patrono del fabbro (Gallese
gof, Irlandese gobha), non venivano dimenticati e
l’importanza dell’adorazione delle controparti di Mercurio e
Minerva in Gallia in tempi storici era dovuta al senso di
rispetto e gratitudine che ogni mestiere ed ogni località
provavano per la Divinità che aveva liberato la terra dai mostri
e che aveva portato l’uomo nella relativa calma della vita civile.
32
V
Gli Dei della
religione celtica
Uno dei fatti che maggiormente
colpiscono in relazione alla
religione celtica è il vasto
numero di nomi di Divinità che
include. Questi nomi ci sono
noti quasi interamente grazie
alle iscrizioni, per la maggior parte tavolette votive, in
ringraziamento di qualche beneficio, solitamente per la salute,
conferito dal Dio all’uomo. In Britannia queste tavolette votive
si trovano principalmente nei pressi dei muri e dei campi
Romani, ma non possiamo essere sempre certi che le Divinità
citate siano indigene. In Gallia, tuttavia, siamo su un terreno
più sicuro nell’associare certe Divinità a certe zone, in quanto
la prova dei nomi dei luoghi ci è spesso guida. Queste iscrizioni
sono distribuite in modo irregolare su tutto il territorio Gallico
e le zone ad ovest e nord-ovest sono rappresentate molto
scarsamente.
Nel presente breve abbozzo è impossibile intavolare una
discussione esaustiva sulle relazioni tra i nomi ritrovati nelle
iscrizioni in particolari località e la luce così gettata sulla
religione celtica, ma possiamo qui affermare che
l’investigazione tende a confermare il carattere locale della
maggior parte delle Divinità citate nelle iscrizioni stesse. Di
33
queste Divinità alcune, nel processo di evoluzione, è vero che
ottennero un più vasto campo di adoratori, mentre altri, come
Lugus, possono essere stati un tempo più ampiamente venerati
di quanto non siano stati in epoche successive. Talvolta un
nome come Lugus (Irlandese Lugh), Segomo (Irlandese,
genitivo Segamonas), Camulos – da cui Camulodunum
(Colchester) –, Belenos (Gallese Belyn), Maponos (Gallese
Mabon), Litavis (Gallese Llydaw), per la sua esistenza in
Britannia così come in Gallia suggeriscono che si trattasse di
una delle antiche Divinità dei Celti ariani o una la cui
adorazione giunse ad estendersi in un’area più vasta dei suoi
seguaci. Al di là di alcune considerazioni eccezionali di questo
tipo, tuttavia, il carattere locale delle Divinità è più spiccato.
Le Divinità delle fonti e dei fiumi erano in numero davvero
considerevole. A Noricum, per esempio, abbiamo Adsalluta,
una Dea associata a Savus (il fiume Save). In Britannia “la
Dea” Deva (il Dee) e Belisama (il Ribble o il Mersey), un nome
che significa “la Dea più guerriera”, sono di questo tipo. Ed
ancora abbiamo Axona, la Dea del fiume Aisne; Sequana, la
Dea della Senna; Ritona del fiume Rieu, numerose ninfe e
molte altre Divinità delle fonti. Indubbiamente molti altri
nomi di Divinità locali sono di questo genere.
I fenomeni dell’aria pare abbiano lasciato pochissime tracce
chiare sui nomi delle Divinità celtiche. Vintios, un Dio
identificato con Marte, era probabilmente un Dio del vento;
Taranucus, Dio del tuono; Leucetios, Dio del fulmine; Sulis (di
Bath), Dea solare. Ma dietro a questi vi sono poche, se non
nessuna, riflessioni sui fenomeni celesti. Degli Dei citati sulle
iscrizioni vengono quasi tutti identificati con Mercurio, Marte
o Apollo. Gli Dei che si è arrivati a considerare Divinità della
34
cultura paiono essere, secondo i loro nomi, di origini diverse:
alcuni sono totem umanizzati, altri sono in origine Dei della
vegetazione o dei fenomeni naturali locali. Come già indicato, è
chiaro che la crescita della vita commerciale e civile in certe
zone ha portato in evidenza Divinità identificate con Mercurio
e Minerva come patroni della civiltà. I guerrieri, specialmente
in Britannia, pare abbiano favorito Divinità come
Belatucadros (“il brillante in guerra”), identificato con Marte.
Nel nord dell’Inghilterra e nel sud della Scozia sono state
ritrovate circa quattordici iscrizioni che lo citano. Anche la Dea
Brigantia (Dea patrona dei Brigantes) è citata in quattro
iscrizioni: Cocidius, identificato con Marte, è citato come
tredicesimo, mentre un altro Dio popolare pare essere stato
Silvanus.
Tra i nomi più rilevanti degli Dei celtici identificati con
Mercurio vi sono Adsmerius o Atesmerius, Dumiatis (il Dio del
Puy de Dome), Iovantucarus (“colui che ama la giovinezza”),
Teutates (“il Dio del popolo”), Caletos (“il duro”) e Moccus (“il
cinghiale”). Molte Divinità vengono identificate con Marte e di
queste alcuni dei nomi più rilevanti sono Albiorix (“re del
mondo”), Caturix (“re della battaglia”), Dunatis (“il Dio del
forte”), Belatucadrus (“il brillante in guerra”), Leucetius (il Dio
del fulmine), Mullo (“il mulo”), Ollovidius (“l’onnisciente”),
Vintius (il Dio del vento) e Vitucadrus (“il brillante di
energia”). Il vasto numero di nomi identificati con Marte
riflette il posto prominente un tempo dato alla guerra nelle
idee che influenzarono la crescita della religione delle tribù
celtiche.
Tra gli Dei identificati con Ercole il nome più interessante è
Ogmios (il Dio dell’aratura), dato da Luciano ma non ritrovato
35
in alcuna iscrizione. Gli Dei che seguono vengono, insieme ad
altri, identificati con Jupiter: Aramo (“il gentile”), Ambisagrus
(“il tenace”), Bussumarus (“quello dalle grandi labbra”),
Taranucus (“il tonante”), Uxellimus (“il più elevato”).
Sembrerebbe da questo che in epoche storiche Jupiter (Giove)
non avesse un posto importante nelle idee religiose celtiche.
Rimane un’altra figura importante nella religione celtica non
ancora menzionata, e precisamente l’identificazione di diverse
Divinità con Apollo. Queste Divinità sono essenzialmente Dei
che presiedono a certe fonti e località curative e a crescita della
loro adorazione in quanto a popolarità è un ulteriore
importante indice dello sviluppo della religione fianco a fianco
con certi aspetti della civiltà. Uno dei nomi di un Apollo Celtico
è Borvo (da cui Bourbon), il Dio di certe fonti calde. Questo
nome è indo-europeo e venne dato al Dio della fonte locale
dagli invasori della Gallia, che parlavano Celta: significa
semplicemente “il bollitore”. Si ritrovano anche altre forme di
questo nome, come Bormo e Bormanus. Ad Aquae Granni
(Aix-la-Chapelle) ed altrove il nome identificato con Apollo è
Grannos. Troviamo anche Mogons e Mogounus, Divinità
patrono di Moguntiacum (Mainz) e, una o due volte, Maponos
(“la grande gioventù”). La caratteristica essenziale
dell’adorazione di Apollo era la sua associazione nella civiltà
Gallo-Romana con l’idea di guarigione, un’idea che, grazie al
revival dell’adorazione di Aesculapius, influenzò molto
fortemente le visioni religiose in altre parti dell’impero. Fu in
questa concezione degli Dei come guide della civiltà e come
coloro che restituivano la salute che la religione celtica, in certe
zone in ogni modo, si dimostra emergere in una certa luce
dopo un lungo e faticoso progresso dalle tenebre delle idee
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preistoriche. Quello che Cesare dice sulla pratica dei Galli di
cominciare l’anno con la notte invece che con il giorno e la loro
antica credenza di essere nati da Dis, il Dio del mondo
sotterraneo, viene così incarnata nella loro storia religiosa.
Nell’affrontare le Divinità del mondo celtico non dobbiamo
tuttavia dimenticare le Dee, nonostante la loro storia presenti
diversi problemi di grande difficoltà. Di queste Dee alcune ci
sono note in gruppo – Proximae (“le parenti”), Dervonnae (gli
spiriti delle querce), Niskai (gli spiriti delle acque), Mairae,
Matronae, Matres o Matrae (le madri), Quadriviae (le Dee
degli incroci). Le Matres, Matrae e Matronae vengono spesso
qualificate con qualche nome locale. Divinità di questo tipo
sembrano essere state popolari in Britannia, nei dintorni di
Cologne ed in Provenza. In alcuni casi non si è certi se alcune
di queste Dee raggruppate siano celtiche o teutoniche. Un
parallelo interessante in merito all’esistenza di queste Dee
raggruppate si palesa quando scopriamo che in alcune parti del
Galles “Y Mamau” (le madri) è il nome che identifica le Fate.
Queste Dee raggruppate ci riportano ad una delle fasi più
interessanti dell’antica religione celtica, dove gli spiriti della
terra o gli spiriti del grano non erano stati ancora
completamente individualizzati.
Tra le Dee individuali molte sono strettamente locali, essendo
il nome di fonti o fiumi. Altre ancora pare siano emerse ad
un’importanza individuale maggiore e tra queste ne ritroviamo
molte talvolta associate nelle iscrizioni ad un Dio dal nome
celtico, ma talvolta con la sua controparte latina. Non è affatto
certo che i nomi così collegati tra loro venissero allo stesso
modo associati nelle epoche antiche e questo modo potrebbe
essere posteriore e, come altre “mode”, si potrebbe essere
37
diffuso una volta iniziato. In alcuni casi la relazione è stata
considerata quella di madre – figlio, in altre di fratello e
sorella, in altre di marito e moglie; non vi sono dati sufficienti
per una decisione finale sulla questione. Di queste coppie
associate possiamo porre l’attenzione sulle seguenti:
Mercurius e Rosmerta, Mercurius e Durona, Grannus
(Apollo) e Sirona, Sucellus e Nantosvelta, Borvo e Damona,
Cicolluis (Marte) e Litavis, Bormanus e Bormana, Savus e
Adsalluta, Marte e Nemetona. Uno di questi nomi, Sirona,
probabilmente significava “la longeva” e veniva applicato alla
terra madre. In Galles sono sopravissuti uno o due nomi che,
per la loro struttura, paiono essere antichi nomi di Dee: si
tratta di Rhiannon (Rigantona, “la grande regina”) e Modron
(Matrona, “la grande madre”). Le altre Divinità britanniche
verranno trattate in maniera più completa da un altro scrittore
di questa serie in un’opera sull’antica mitologia delle isole
britanniche. Basti dire che la ricerca tende sempre più a
confermare la visione che la chiave della storia delle Divinità
celtiche sia la realizzazione del carattere locale della vasta
maggioranza di esse.
38
VI
Il sacerdozio
celtico
Nessun nome, in connessione con la
religione celtica, è più familiare al
lettore medio di quello dei Druidi;
tuttavia, non vi è sezione della storia
della religione celtica che abbia dato
origine a maggiore discussione di
quella relativa a questo ordine. Anche
l’associazione del nome con la radice
indo-europea dru- che troviamo nella
parola greca drus, quercia, è stata messa in discussione da uno
studioso competente come M. d’Arbois de Jubainville, ma su
questo punto non si può dire che la sua critica sia conclusiva.
Gli scrittori del mondo antico che fanno riferimento ai Druidi
non sempre sono sufficientemente chiari in merito a in quali
zone fossero prevalenti i riti, le cerimonie e le funzioni che essi
descrivevano. Né era la figura sacerdotale dei Druidi a
produrre la più profonda impressione sugli antichi. Per alcuni
scrittori di filosofia e teologia dell’antichità, le loro dottrine e le
loro apparenti affinità con il Pitagorismo erano molto più
interessanti delle loro funzioni cerimoniali o di altro genere.
Una cosa è certamente chiara: che i Druidi e le loro dottrine, o
supposte tali, hanno prodotto una profonda impressione sugli
scrittori del mondo antico. Se ne fa riferimento in un
39
frammento di Aristotele (che potrebbe, tuttavia, non essere
autentico), interessante in quanto assegna loro un posto in
termini chiari tra i Celti ed i Galati. La caratteristica
prominente del loro insegnamento che ha attirato l’attenzione
di altri scrittori, come lo storico Diodoro Siculo ed il teologo
cristiano Clemente di Alessandria, era la somiglianza della loro
dottrina in merito all’immortalità ed alla trasmigrazione
dell’anima con quella di Pitagora. Gli scrittori antichi, tuttavia,
non sempre ricordavano che una dottrina religiosa o filosofica
non deve essere trattata come una cosa a sé, ma deve essere
interpretata nella storia e nella vita sociale della comunità in
cui ha prosperato. Per alcuni degli antichi la somiglianza
superficiale tra la dottrina druidica del futuro dell’anima e gli
insegnamenti attribuiti a Pitagora era il punto essenziale e
questo era sufficiente per dare ai Druidi la reputazione di
filosofi, tanto che lo scrittore Clemente di Alessandria arriva
persino a considerare i Druidi dei “Galati”, insieme ai profeti
degli Egizi, ai “Caldei” degli Assiri, ai “filosofi dei Celti” ed ai
Magi dei Persiani, come pionieri della filosofia tra i barbari
prima della sua diffusione tra i Greci.
Il motivo della distinzione fatta in questo passaggio tra i
“Druidi dei Galati” ed i “filosofi dei Celti” non è chiara.
Diodoro Siculo richiama l’attenzione sulla dottrina druidica
che le anime degli uomini fossero immortali e che, dopo un
determinato numero di anni, esse tornavano nuovamente in
vita e l’anima entrava quindi in un altro corpo. Egli dice che vi
erano certi “filosofi e teologi” che venivano chiamati Druidi e
che venivano tenuti in eccezionale onore. In aggiunta a questi i
Celti, egli dice, avevano anche veggenti che redicevano il futuro
dal volo degli uccelli e per mezzo dell’offerta di sacrifici.
40
Secondo lui erano questi veggenti sacerdoti che tenevano le
masse in soggezione. Nei grandi avvenimenti essi, egli dice,
praticavano la divinazione tramite l’uccisione di una vittima
umana e l’osservazione dell’atteggiamento con cui cadeva, la
contorsione delle membra, lo sgorgare del sangue e cose simili.
Questo, egli afferma, era una pratica antica ed affermata. Era
inoltre usanza, secondo Diodoro, di non fare alcun sacrificio
senza la presenza di un filosofo (apparentemente un Druido in
aggiunta al veggente sacrificante), essendo teorizzato che
coloro che erano autorità in merito alla natura divina fossero i
comprensibili mediatori verso gli Dei delle offerte in dono e
della presentazione di petizioni.
Questi filosofi erano molto richiesti, assieme ai loro poeti, in
guerra così come in pace e venivano consultati non solo dagli
uomini della loro stessa fazione, ma anche dai nemici. Anche
quando due eserciti erano sul punto di darsi battaglia, questi
filosofi erano capaci, dice Diodoro, di mettersi nello spazio tra
di loro e impedire loro di combattere, esattamente come se
avessero incantato degli animali selvaggi. La morale che
Diodoro trae da questo è che, anche tra i barbari più selvaggi, il
principio ardente dell’anima cede alla saggezza e che Ares
stesso (il Dio della guerra) anche qui rispetta le Muse. Da
questo racconto è chiaro che Diodoro aveva in mente le tre
classi di professionisti non militari che vi erano tra i Celti ed a
cui fanno riferimento anche altri scrittori, e precisamente i
Bardi, i veggenti (Vati o Ovati, n.d.t.) ed i Druidi. La sua
narrativa è apparentemente una espansione, alla luce delle sue
letture e della meditazione filosofica, di informazioni fornite da
scrittori precedenti, principalmente Posidonio.
41
Quest’ultimo pare essere stato l’autorità principale a cui si è
rifatto Giulio Cesare, in aggiunta alle proprie osservazioni
personali, ma Cesare non pare indicare espressamente la tripla
divisione qui in discussione. Il resoconto che egli fornisce è
importante e sarebbe ancora più prezioso di quanto sia se egli
ci avesse detto quanto di ciò che descrive sia derivato da sue
informazioni personali ed il grado di variazione (se vi sia) della
pratica religiosa nelle diverse zone. Le affermazioni di Cesare,
comunque, meritano la più grande considerazione. Dopo avere
richiamato l’attenzione sulla divisione dell’aristocrazia gallica
in due sezioni principali, i Druidi ed i Cavalieri, egli continua
parlando dei Druidi. Essi, egli dice, si occupavano delle
questioni religiose, partecipavano ai sacrifici pubblici e privati
ed interpretavano i presagi. Inoltre, erano gli insegnanti del
Paese. Intorno a loro si radunavano i giovani uomini per avere
conoscenza e gli allievi avevano grande rispetto dei loro
insegnanti. Essi erano anche i giudici nelle dispute pubbliche e
private: erano loro che assegnavano liquidazioni dei danni e
pene. Qualunque non rispetto dei loro giudizi veniva punito
con l’esclusione dai sacrifici. Questa sentenza di scomunica era
la punizione più severa tra i Galli. Gli uomini così puniti
venivano trattati come fuorilegge e tagliati fuori da tutta la
società umana, con i suoi diritti ed i suoi privilegi.
Sopra questi Druidi vi era un capo, che esercitava la più grande
influenza su di loro. Alla sua morte, il più vicino tra gli altri
come dignità gli succedeva o, se molti erano uguali, l’elezione
del successore avveniva tramite votazione dei Druidi. Talvolta
il primato non veniva deciso senza l’arbitrio delle armi. I
Druidi si incontravano in un periodo dell’anno fissato in un
luogo consacrato nel territorio dei Carnuti, la zona che veniva
42
considerata essere al centro dell’intera Gallia. Questa
assemblea di Druidi formava una corte per la decisione dei casi
portati loro da ogni luogo intorno. Si pensava, dice Cesare, che
la dottrina dei Druidi fosse stata scoperta in Britannia e da lì
portata in Gallia. A quel tempo, inoltre, coloro che volevano
intraprendere uno studio più profondo di essa si recavano colà
per imparare.
I Druidi erano esenti dal servizio militare e dal pagamento di
tributi. Questi privilegi attirarono molti verso questa
professione, alcuni di loro spontanea volontà ed altri su
pressione di genitori e parenti. Mentre studiavano, veniva
detto loro di imparare a memoria un vasto numero di versi ed
alcuni giungevano fino a passare venti anni a prepararsi. I
Druidi consideravano sbagliato mettere per iscritto i loro
insegnamenti anche se, per quasi tutto il resto, che si trattasse
di affari pubblici o privati facevano uso delle lettere greche.
Cesare pensava che essi scoraggiassero dal mettere per iscritto
i loro insegnamenti da una parte per paura che divenissero di
dominio pubblico, dall’altra perché l’affidarsi allo scritto
avrebbe diminuito la coltivazione della memoria. Su questo
rischio Cesare poteva testimoniare per sua stessa conoscenza.
La dottrina cardinale era che le anime non perivano ma dopo
la morte passavano da una persona all’altra; questo essi lo
consideravano un supremo incentivo al valore in quanto, con
la prospettiva dell’immortalità, la paura della morte non
contava più nulla. Essi portavano avanti anche molte
discussioni sulle stelle ed il loro moto, sulla grandezza
dell’universo e delle terre, la natura delle cose, la forza ed il
potere degli Dei immortali e comunicavano la loro conoscenza
ai loro allievi. In un altro passaggio Cesare dice che i Galli
43
erano, come popolo, estremamente devoti alle idee ed alle
pratiche religiose. Uomini seriamente malati, impegnati in
guerra o che erano in qualche pericolo offrivano o
promettevano di offrire sacrifici umani e facevano uso dei
Druidi come agenti per tali sacrifici. La loro teoria era che gli
Dei immortali non potevano essere placati a meno che una vita
umana fosse stata data al posto di un’altra. In aggiunta a questi
sacrifici privati, vi erano anche sacrifici umani similari a
carattere pubblico. Cesare compara inoltre i Germani ai Galli,
dicendo che i primi non avevano Druidi a presiedere sulle
questioni religiose e che non si curavano di fare sacrifici.
Nella sua opera sulla divinazione, anche Cicerone fa
riferimento alla professione che i Druidi facevano della scienza
naturale ed al potere di prevedere il futuro e cita l’esempio del
caso di Aeduan Divicianus, ospite ed amico del fratello. Qui
Cicerone non dice nulla delle tre classi di cui parla Diodoro, ma
Timagene (citato da Ammiano) fa riferimento a tre classi sotto
i nomi di “bardi”, “euhages” (“vates” errato) e “drasidae” (la
parola “druidae” errata). Lo studio della natura e dei cieli viene
qui attribuita alla seconda classe dei veggenti (vati). A classe
superiore, quella dei Druidi, egli dice essere stata in accordo
alla regola di Pitagora, strettamente collegati tra loro in
confraternite e, acquisendo una certa elevatezza di mente
grazie alle loro investigazioni in cose che erano nascoste ed
esaltate, essi disprezzavano gli affari umani e dichiaravano
l’anima immortale. Vediamo qui espressa la visione che,
socialmente come intellettualmente, i Druidi vivevano secondo
la filosofia pitagorica.
Anche Origene fa riferimento alla visione che era prevalente
nella sua epoca, che Zamolxis, il servo di Pitagora, aveva
44
insegnato ai Druidi la filosofia di Pitagora. Egli afferma inoltre
che i Druidi praticavano la magia. La tripla divisione
dell’aristocrazia non militare viene forse resa meglio da
Strabone, il geografo greco, che qui segue Posidonio. Le tre
classi sono i Bardi, i Veggenti (ouateis=vates) ed i Druidi. I
Bardi erano compositori di inni e poeti, i Veggenti sacrificatori
ed uomini di scienza, mentre i Druidi – in aggiunta alla scienza
naturale – praticavano anche la filosofia morale. Essi venivano
considerati i più retti tra gli uomini e su questa base veniva
loro affidata la direzione delle dispute pubbliche e private. Essi
sono stati il mezzo che ha evitato ad eserciti di combattere
quando erano sull’orlo della battaglia e veniva loro affidato il
giudizio dei casi che riguardavano la vita umana. Secondo
Strabone, loro ed i loro seguaci credevano che le anime e
l’universo fossero immortali, ma che fuoco ed acqua talvolta
prevalessero. I sacrifici, dice Strabone, non venivano mai
effettuati senza l’intervento dei Druidi. Pomponio Mela dice
che nella sua epoca (circa 44 D.C.), anche se l’antica ferocia
non c’era più ed i Galli si astenevano dai sacrifici umani,
rimanevano ancora alcune tracce delle precedenti pratiche,
principalmente nell’abitudine di tagliare una porzione della
carne dei condannati a morte dopo averli portati agli altari. I
Galli, dice, nonostante queste tracce di barbarie, avevano
un’eloquenza propria ed avevano i Druidi quali insegnanti di
filosofia. Costoro sostenevano di conoscere le dimensioni e la
forma della Terra e dell’universo, i moti del cielo e delle stelle e
la volontà degli Dei. Egli fa riferimento, come anche Cesare,
alla loro opera nell’educazione e dice che veniva portata avanti
in caverne o in boschetti isolati. Mela parla della loro dottrina
dell’immortalità ma non dice nulla in merito all’entrata delle
anime in altri corpi. Come prova di questa credenza, egli parla
45
della pratica di bruciare e seppellire con il morto cose adatte ai
bisogni dei viventi.
Lucano, il poeta latino, nelle sue Pharsalia fa riferimento
all’isolamento dei boschetti dei Druidi ed alla loro dottrina
dell’immortalità. Le note degli Scoliasti su questo passaggio
sono nel loro stile ed aggiungono ben poco a quanto già
sappiamo. Nella Storia Naturale di Plinio (xvi, 249), tuttavia,
ci troviamo faccia a faccia con un’altra tradizione, benché forse
distorta. Plinio era un compilatore indefesso e pare che, in
parte grazie a letture ed in parte grazie ad osservazione
personale, abbia notato fasi delle pratiche religiose celtiche che
altri scrittori hanno sorvolato. In primo luogo, egli richiama
l’attenzione sulla venerazione che i Galli avevano per il vischio
e per l’albero si cui cresceva, premesso che quell’albero era la
quercia. Da qui la loro predilezione per i boschetti di querce ed
il loro bisogno di foglie di quercia per tutti i loro riti religiosi.
Plinio qui sottolinea la consonanza di questa pratica con
l’etimologia del nome Druido, come interpretata anche tramite
il Greco (la parola greca che designa la quercia è drus). Se
questo rispetto per la quercia ed il vischio non fosse stato
simile ai numerosi esempi di adorazione di alberi e piante
fornitici dal Dr. Frazer e da altri, avremmo potuto sospettare
che Plinio stesse qui citando altri scrittori che avevano cercato
di ragionare sull’etimologia del nome Druido.
Altra circostanza sospetta nel resoconto di Plinio è il suo
riferimento all’uovo di serpente composto di serpenti arrotolati
insieme a formare una palla. Egli afferma di avere visto di
persona un tale “uovo” delle dimensioni approssimative di una
mela. Plinio afferma anche che Tiberio Cesare ha abolito per
decreto il Senato dei Druidi ed il genere di veggenti e medici
46
che i Galli avevano a quel tempo. Quest’affermazione, letta nel
suo contesto, probabilmente fa riferimento alla proibizione dei
sacrifici umani. Anche lo storico Svetonio, nel suo resoconto
sull’imperatore Claudio, afferma che Augusto aveva proibito
“la religione dei Druidi” (che, egli dice, “era piena di temibile
ferocia”) ai cittadini Romani ma che Claudio l’aveva abolita
interamente. Questo significa, in merito alla descrizione da lui
fornita sul druidismo, che è indubbio che i sacrifici umani
fossero stati aboliti. Nei tardi scrittori latini vi sono diversi
riferimenti a Druidesse, ma si trattava probabilmente solo di
maghe. In Irlandese il nome drui (genitivo druad) designava
un mago e la parola derwydd nel Gallese medioevale veniva
usata particolarmente in riferimento ai vaticini che erano a
quel tempo popolari in Galles.
Quando analizziamo la testimonianza degli scrittori antichi sui
Druidi, vediamo in primo luogo che per menti differenti questo
nome connotava cose differenti. Per Cesare è il nome generale
della classe professionale non militare, si trattasse di sacerdoti,
veggenti, insegnanti, legislatori o giudici. Per altri i Druidi
sono preminentemente i filosofi e gli insegnanti dei Galli e
vengono distinti dai veggenti, chiamati vates. Per altri ancora,
come Plinio, erano i sacerdoti del rituale della quercia, da cui
derivava il loro nome. Se si guarda la varietà di gradi di
civilizzazione allora coesistenti in Gallia e Britannia, non è
improbabile che lo sviluppo della classe professionale non
militare variasse molto considerevolmente tra le diverse zone e
che tutti gli aspetti del Druidismo che gli antichi scrittori
specificano avessero trovato il loro posto nel sistema sociale
dei Celti. In Gallia ed in Britannia, come altrove, l’ufficio del
primitivo e tribale uomo-medicina era capace di uno sviluppo
47
indefinito ed è possibile che non tutte le forme della sua
evoluzione abbiano proceduto di pari passo laddove le
condizioni sociologiche hanno trovato tale opportunità di
variazione. Potrebbe essere che le cerimonie della quercia e del
vischio, per esempio, siano perdurate in remote zone agricole
per molto tempo dopo che avevano cessato di interessare gli
uomini lungo le strade principali della civilizzazione celtica. La
mente bucolica non abbandona prontamente pratiche
millenarie.
In aggiunta al termine Druido, troviamo nella continuazione
del De Bello Gallico di Cesare, ad opera di Aulus Hirtius (Bk.
viii., c. xxxviii., 2), così come in due iscrizioni – una a Le-Puyen-Velay (Dipartimento dell’Alta Loira) e l’altra a Macon
(Dipartimento di Saone-et-Loire) – un altro titolo sacerdotale,
“gutuater”. A Macon l’ufficio è quello di “gutuater Martis”, ma
nulla sappiamo delle sue caratteristiche particolari.
48
VII
L'aldila' celtico
Nel capitolo precedente abbiamo visto come
tra i Greci ed i Romani fosse largamente
prevalente il concetto che i Druidi
insegnassero
l’immortalità
dell’anima.
Alcuni di questi scrittori fanno anche notare
l’indubitabile
fatto,
attestato
dall’archeologia, che oggetti utili ai viventi
venivano seppelliti con i morti e questo veniva considerato una
conferma della visione che l’immortalità dell’anima fosse per i
Celti oggetto di credenza. Lo studio dell’archeologia da una
parte e la comparazione delle religioni all’altra portano
certamente alla conclusione che nell’Età del Bronzo e nelle
prima Età del ferro, e con ogni probabilità nell’Età della Pietra,
era prevalente l’idea che la morte non fosse la fine dell’uomo. I
cromlech forati della tarda Età della Pietra furono
probabilmente concepiti per ingresso e l’uscita delle anime. Il
cibo e le armi che venivano seppellite con il morto si pensava
fossero oggetti di cui egli avesse davvero bisogno.
Anche la religione Romana in alcuni dei suoi riti forniva mezzi
per la espulsione periodica degli spiriti affamati ed ostili dei
morti e per la loro pacificazione tramite l’offerta di cibo. Una
tomba ed i suoi accessori non avevano quale unico scopo
l’onore dei morti, ma anche la protezione dei vivi. Tra gli spiriti
soddisfatti e benefici come i Mani e quelli insoddisfatti ed ostili
come i Lemuri e le Larve veniva fatta una chiara distinzione.
49
Nella mentalità celtica, quando i suoi poteri analitici sono nati
e l’uomo è divenuto sufficientemente consapevole di sé per
riflettere su se stesso, il problema della sua natura abbisognava
di una qualche urgente soluzione. In queste soluzioni il
respiro, il sangue, il nome, la testa ed anche i capelli avevano
generalmente parte, ma in sé non spiegavano fenomeni
misteriosi quali il sonno, i sogni, l’epilessia, la pazzia, la
malattia, l’ombra umana ed i suoi riflessi e la morte dell’uomo.
Grazie ad una lunga familiarità con le spiegazioni scientifiche o
quasi di queste cose, troviamo difficile comprendere
pienamente il fascino costante che queste cose esercitavano
sull’uomo antico, che aveva i propri pensatori e filosofi proprio
come noi.
Una soluzione largamente accettata dall’uomo antico del
mondo celtico era che dentro di sé vi fosse un altro se stesso
che poteva vivere una vita propria lontano dal corpo e che
sopravviveva anche alla morte, alla sepoltura e alla
cremazione. Talvolta questo sé interiore veniva associato al
respiro, da cui per esempio il Latino anima ed il Gallese enaid,
entrambi con il significato di “anima”, dalla radice an-,
respirare. Altre volte il termine usato per definire questo
secondo sè faceva riferimento all’ombra umana: il Greco skia,
il Latino umbra, il Gallese ysgawd, l’Inglese shade.
Vi sono abbondanti prove che anche il principio della vita
veniva spesso considerato particolarmente associato al sangue.
Un’altra tendenza, di cui Principal Rhys ha fornito numerosi
esempi nel suo Welsh Folk-lore, era in merito alla capacità
dell’anima di prendere forma visibile, non necessariamente
umana, preferibilmente di una creatura alata. Negli scrittori
antichi non vi sono informazioni sulle visioni prevalenti tra i
50
Celti riguardo le forme o le dimore degli spiriti dei morti,
eccetto l’affermazione che i Druidi insegnavano la dottrina
della loro rinascita. Siamo così costretti a guardare alle prove
forniteci dal mito, dalla leggenda e dal folklore. Questi ci
forniscono buone indicazioni in merito ai tipi di credenza
popolari nell’antichità in merito a queste questioni, ma
sarebbe un errore presumere che le idee in esse incarnate
siano rimaste completamente immutate da epoche così
remote. La mente dell’uomo a certi livelli è capace di evolvere
nuovi miti e folklore sulle linee della propria psicologia e della
propria logica.
Le forme che l’anima poteva prendere variavano
indubbiamente molto nell’opinione degli uomini delle varie
zone e di diverse prospettive mentali, ma il folklore tende a
confermare la visione che l’uomo antico, nel mondo celtico
come altrove, tendeva ad enfatizzare il proprio concetto di
sottigliezza e mobilità dell’anima in contrasto con il corpo.
Prima o dopo il filosofo primitivo fu costretto a considerare se
l’anima se ne andasse durante i sogni o con la morte. All’inizio
potrebbe non aver pensato ad un’altra sfera diversa da quella
della sua vita normale ma altre domande, come se la casa degli
spiriti della vegetazione fosse nella terra o sotto ad essa,
suggeriscono, se anche questo pensiero non gli fosse giunto
prima, che anche gli spiriti umani entrino nel mondo
sotterraneo. Se questo mondo sia stato ulteriormente dipinto
nell’immaginazione dipese largamente dal genio poetico di
ogni singolo popolo. Il folklore delle razze celtiche reca
abbondante testimonianza della loro credenza che sotto a
questo mondo ve ne fosse un altro. L’annwfn dei Gallesi era
concepito distintamente nel folklore incarnato nella poesia
51
medioevale come is elfydd (sotto il mondo). Ed ancora, nella
leggenda gallese medioevale questo mondo inferiore viene
considerato essere diviso in regni, come questo mondo, ed i
suoi sovrani, come Arawn e Hafgan nel Mabinogi di Pwyll,
vengono rappresentati come creature talvolta impegnate in
lotta.
Da questo mondo inferiore sono giunte all’uomo alcune delle
benedizioni della civilizzazione e tra loro il dono molto stimato
del suino. Il mondo inferiore avrebbe potuto essere
saccheggiato da eroi intraprendenti. Matrimoni come quello di
Pwyll e Rhiannon erano possibili tra gli abitanti di un mondo e
dell’altro.
L’altro mondo dei Celti non sembra tuttavia essere stato
sempre descritto come sotterraneo. Le leggende irlandesi e
gallesi concordano nel vederlo talvolta situato su isole lontane
ed il folklore gallese contiene numerosi suggerimenti in merito
ad un altro mondo situato oltre le acque di un lago, un fiume o
un mare. Anche in uno o due passaggi della poesia medioevale
gallese le ombre vengono rappresentate come vaganti nei
boschi della Caledonia (Coed Celyddon). Si trattava di una
idea senza dubbio tradizionale nelle famiglie migrate nel Galles
a Strathclyde in epoca post-Romana. Per coloro che si
scervellavano sul fato delle anime dei morti, l’idea della loro
rinascita era una soluzione molto naturale e Mr. Alfred Nutt,
nel suo Voyage of Bran, richiama l’attenzione sull’apparire di
questa idea nelle leggende irlandesi.
Non ne consegue, tuttavia, che le anime di tutti gli uomini
godano del privilegio di questa rinascita. Come sottolinea Mr.
Alfred Nutt, le leggende irlandesi paiono considerare questa
rinascita privilegio solo dei veramente grandi. E’ interessante
52
notare la curiosa persistenza di idee simili sulla morte e
sull’altro mondo nella letteratura scritta anche in epoca
cristiana da scribi monastici. In Galles, in aggiunta all’Annwfn,
termine che pare significare il “non-mondo”, abbiamo altri
nomi per il mondo sotterraneo, come anghar, il luogo senza
amore; difant, il luogo senza bordi (da cui la moderna parola
gallese difancoll, perduto per sempre); affwys, l’abisso; affan,
la terra invisibile. Il mondo superiore viene talvolta chiamato
elfydd, talvolta adfant – questo ultimo termine significa il
luogo il cui bordo è rivoltato verso di sé. Apparentemente esso
implica l’immagine di una terra come disco, il cui bordo o
labbro è curvato verso l’interno per evitare che l’uomo cada
oltre nel difant, il posto senza bordo.
Nel folklore celtico moderno i vari aldilà locali sono dimora
delle Fate ed in queste tradizioni vi potrebbero essere, come ha
suggerito Principal Rhys, alcune mescolanze di ricordi degli
abitanti precedenti delle varie zone. Il folklore moderno, come
le leggende medioevali, ha le sue storie di matrimoni misti di
nativi di questo mondo con quelli dell’altro mondo, spesso
localizzato sotto un lago. Il lettore curioso troverà numerosi
esempi di tali storie nella raccolta di folklore gallese e dell’isola
di Manx di Principal Rhys. Nelle leggende irlandesi, una delle
più classiche di queste storie è quella del fidanzamento di
Etain, una storia che ha diversi punti di contatto con la
narrazione dell’incontro di Pwyll e Rhiannon nel Mabinogi
gallese. Anche il nome della moglie di Arthur, Gwenhwyfar,
che significa “lo spettro bianco”, suggerisce che in origine
anch’ella avesse una parte in una storia dello stesso genere. In
tutte queste ed in simili narrazioni è importante notare il modo
in cui i concetti celtici in merito all’aldilà siano stati, in
53
Britannia ed Irlanda, colorati dagli aspetti geografici di questi
due Paesi, dai loro mari, le loro isole, le loro caverne, i loro
tumuli, i loro laghi e le loro montagne. Gli aldilà (altri mondi)
locali di queste terre recano, come avremmo potuto aspettarci,
la chiara impronta della loro origine.
In complesso, le concezioni dell’aldilà che troviamo nelle
leggende celtiche sono gioiose; è una terra di giovinezza e
bellezza. Cuchulainn, l’eroe Irlandese, per esempio, viene
portato in barca ad una splendida isola rotonda dove vi sono
un muro d’argento ed una palizzata di bronzo. In una leggenda
gallese il calderone della Testa di Annwfn ha intorno a sé un
bordo di perle. In una storia irlandese vi è una ingenua
descrizione delle glorie degli Elisi in queste parole:
“Ammirevole era la terra: vi sono tre alberi sempre carichi di
frutta, un maiale sempre vivo ed un altro già cucinato.”
Occasionalmente, tuttavia, troviamo una descrizione diversa.
Nel poema gallese Y Gododin il poeta Aneirin esprime la sua
gratitudine per essere stato salvato dal figlio di Llywarch Hen
dalla “crudele prigione della terra, dalla dimora della morte,
dalla terra senza amore”. Pertanto, le caratteristiche salienti
delle concezioni celtiche sull’aldilà sono in assonanza con i
suggerimenti
provenienti
dal
paesaggio
celtico
sull’immaginazione locale, dalla vaghezza e variabilità di questi
concetti in menti diverse e diversi stati d’animo, dall’assenza di
qualunque considerazione etica oltre l’incentivo dato al
coraggio dal pensiero dell’immortalità e dal notevole sviluppo
del senso di una possibile intercorrelazione tra i due mondi,
pacifica o ostile che fosse.
Tali concezioni, come vediamo dalle leggende celtiche, si
rivelarono uno stimolo ammirevole e fornirono eccellente
54
materiale per lo sviluppo della narrativa; lo strano e romantico
effetto fu ampliato ulteriormente dalla credenza generale nelle
possibilità della magia e della metamorfosi. Inoltre,
l’associazione con innumerevoli nomi di luoghi di leggende di
questo tipo diede al bellissimo paesaggio delle terre celtiche un
ulteriore fascino, che gli venne conferito dai suoi abitanti con
un sottile e indomabile attaccamento difficilmente
comprensibile per i più prosaici abitanti di terre prosaiche. Per
il poetico Celta l’amore verso la propria terra tende a divenire
quasi una religione. A mentalità celtica non può rimanere
indifferente a terre e mari la cui bellezza costringe gli occhi
umani a fissarli fino all’orizzonte e le linee di osservazione così
disegnate all’orizzonte sono per i Celti una tentazione continua
al pensiero di un’infinità al di là. La preoccupazione della
mente celtica in merito alle Divinità di questo paesaggio, delle
sue fonti, dei suoi fiumi, dei suoi mari, delle sue foreste, delle
sue montagne, dei suoi laghi era in assoluto accordo con il
tenore della sua mente quando era in armonia con il suo
ambiente naturale.
Nell’affrontare la religione celtica, il suo mito e la sua leggenda
non è tanto la varietà delle forme temporali e locali a
richiedere la nostra attenzione quanto lo spirito onnipervadente ed animatore, che mostra il suo carattere
essenziale anche tramite le scarse vestigia dell’antico mondo
celtico. La religione celtica reca l’impronta della natura sulla
terra molto più che della natura nei cieli. Il senso del cielo
superiore è forse sopravvissuto in alcuni dei termini generali
celtici indo-europei designanti il principio divino e vi sono
alcune tracce di un interesse religioso nel Solo e nel Dio del
tuono e del fulmine, ma qualunque studioso di religione celtica
55
deve sentire che i principali elementi caratteristici sono
associati alla terra in tutte le varietà del suoi fenomeni locali.
La grande terra madre e le sue varie progenie giungono sempre
in primo piano sotto molti nomi e persino le caratteristiche
dell’aldilà non possono essere dissociate, per il Celta, da quelle
della sua madre terra.
Anche i festival del suo anno venivano associati alla decadenza
ed al rinnovamento della sua vita annuale. I fuochi di
novembre, maggio, mezza estate ed agosto erano
indubbiamente intesi come associati alle vicissitudini della vita
della terra e degli spiriti che erano i suoi figli. Per il Celta
l’anno cominciava in novembre, così che la seconda metà
dell’anno cominciava con il primo maggio. L’idea cui fa
riferimento Cesare, che i Galli si credessero discendenti da Dis,
il Dio del mondo sotterraneo, e cominciassero l’anno con la
notte, misurando il tempo non in giorni ma in notti, punta
nella stessa direzione, cioè che le tenebre della terra
avvincessero la mente più della luminosità del cielo. I termini
gallesi che indicano rispettivamente la settimana e la
quindicina (di giorni), wythnos (otto notti) e pythefnos
(quindici notti), confermano quanto asserito da Cesare.
A noi sembra oggi più naturale associare la religione alla
contemplazione dei cieli, ma nelle terre celtiche le prove
tendono a dimostrare in assoluto che la mente religiosa era
attratta principalmente dalla contemplazione della terra e della
sua varia vita e che il Celta cercava il suo aldilà o sotto la terra,
con i suoi fiumi, laghi e mari, o nelle isole del lontano
orizzonte, dove terra e cielo si incontravano. Questa
predominanza della terra nella religione era in completa
sintonia con l’intensità della religione in quanto fattore delle
56
sue occupazioni quotidiane. Fu questa intensità a dare ai
Druidi in un’epoca o un’altra della storia dei Celti occidentali il
potere che Cesare ed altri assegnano loro. L’intero popolo dei
Galli, compresa la sua aristocrazia militare, era estremamente
devoto alle idee religiose, quand’anche esse portavano alla
disumanità dei sacrifici umani. Improvvisamente il loro senso
della realtà dell’aldilà fu così grande che essi cedettero che i
prestiti contratti di questo mondo sarebbero stati ripagati
nell’altro e la credenza pratica non andava molto oltre questo.
Tutte queste considerazioni tendono a dimostrare quanto,
nello studio comparativo delle religioni, sia importante
investigare ogni religione nel suo complesso sociologico e nel
suo ambiente geografico, così come il significato etimologico
dei termini.
In conclusione, lo scrittore spera che questo suo breve
abbozzo, basato su uno studio indipendente delle prove
principale sulle idee e le pratiche religiose dei popoli celtici,
aiuterà lo studioso interessato alla religione riguardo ai modi
di pensare dominanti che da tempi immemorabili hanno
dominavano queste terre dell’Europa occidentale e che nel
folklore e nelle usanze popolari talvolta si mostrano anche
nelle nebbie della nostra odierna civiltà iper-sviluppata e
complessa. Il pensiero dell’uomo antico in merito ai problemi
del suo essere – perché, dopotutto, le sue credenze rivelano
pensiero – meritano rispetto, perché nei suoi sforzi di pensare
egli stava cercando di andare verso la luce.
57
Breve
bibliografia
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© Elfi Edizioni
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere usata o
riprodotta in alcun modo ed in alcun luogo, compreso l’uso in Internet, senza il
permesso scritto della Elfi Edizioni eccetto in caso di recensioni librarie o brevi
passaggi riportati in articoli, citando la fonte.
Titolo originale: Celtic Religion in Pre-Christian Times
Prima stampa: Edimburgo, 1906
Traduzione, impostazione grafica interna ed impaginazione: L.Milani Venturi
Copertina: G.Venturi
Immagini interne e di copertina tratte da Microsoft Office, Corel Draw,
Microforum Italia, immagini da libri del 1800 e/o medioevali
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