1 Parole e immagini: un dialogo in bianco e nero. I disegni di Fred

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1 Parole e immagini: un dialogo in bianco e nero. I disegni di Fred
n. 14 Novembre 2015/ Febbraio 2016
Parole e immagini: un dialogo in bianco e nero. I disegni di Fred Charap
di Annalisa Comes
Tutti i canti si scrivono nero su bianco e bianco su nero
Talmud Bavli, Megillah 16b
1. In nero e bianco.
Quale visibilità possiede la parola e quale potenzialità dialogica possiede
l’immagine? È questa una domanda che sembra affiorare, in tutta la sua urgenza ed
essenzialità, nell’intera opera dell’artista Fred Charap, newyorchese di nascita e italiano di
adozione: riflessione filosofica non offerta a priori, ma come dato di una produzione
artistica che non a caso si situa fra arte visiva e scrittura.
Fred Charap (1940) ha cominciato a produrre quelli che poi sono diventati i suoi
caratteristici disegni in bianco e nero nel 1994, concentrandosi essenzialmente sul tema
della musica, con una particolare attenzione al mondo del jazz - che l’artista ha conosciuto
da vicino.1 Successivamente, a partire dal 2004 circa, a questa ‘tematica’ si è andato
affiancando un grande interesse per l’architettura: case, muri di piccoli mattoni poggiati in
precario equilibrio su angoli sghembi o aperti su voragini di buio o su accecanti candori,
intrighi serrati di viottoli, stradine che si fanno cunicoli, che se da un lato rimandano
all’iconografia ‘tradizionale’ dello shtetl, dall’altra rivelano l’influenza dell’architettura
italiana del Medioevo, in particolare il ‘vissuto’ del piccolo paesino toscano di Campiglia
Marittima dove Fred Charap risiede da quasi trent’anni.
Nei disegni di jazz e di architetture i personaggi sono rari. Quando sono presenti,
sembrano sfuggiti a una colorata mitologia chagalliana spogliata della sua ‘massa’,
asciugata del colore, in una visione in bianco e nero - ma verrebbe da dire in nero e bianco
- che ricorda l’essenzialità indagatoria di una lastra fotografica e rimanda certamente a una
tradizione essenzialmente scultorea, che risale a Giacometti fino a Donatello (soprattutto
il Donatello dell’ultimo periodo, autore della disseccata e ascetica Maddalena lignea), due
1 artisti molto cari a Fred Charap. Le figure sono ridotte a esili trame, presenze filiformi e
scheletriche che sembrano sfidare le leggi della gravità. Sono tanto leggere infatti da
immaginarle tutte difficilmente ancorabili alla terra, e in particolare le loro mani, talvolta
quasi sproporzionate e dall’aerea, danzante inconsistenza, ci appaiono quali inquietanti
zampe di ragno. Le dita, stilizzate, sono ricurve e prensili, colte in uno sforzo di presa,
tutto velleitario, come è evidente nel disegno Relaxing at the Bar [fig. 1]. È un’umanità che
si presenta come una trama di tessuto consumato, liso, un’umanità di sopravvissuti
scampata da una faticosa, mortifera risalita dagli inferi della Storia, dall’orrore di una
perdurante Shoah.
Fra i tanti disegni che l’autore ha prodotto in questi anni, alcuni sono stati redatti
per illustrare short stories che lo stesso autore ha scritto e raccolto (in volume inedito dal
titolo Endings). Fred Charap è infatti arrivato alla pittura e al disegno solo dopo la
scrittura, iniziando a pubblicare racconti all’età di quattordici anni nella rivista “Ellery
Queen Mystery Magazine”. L’influenza di Will Eisner è evidente; non solo l’Eisner dei
graphic novels, ma anche quello dei fumetti, in particolare la serie di The Spirit.2 Altri
disegni ancora sono nati per illustrare testi altrui (in particolare poesie), sempre in stretta
collaborazione con gli autori.3 In entrambi i casi, tuttavia, difficilmente si potrebbe parlare
dei suoi disegni come di ‘semplici’ illustrazioni o didascalie. Il disegno anticipa, segue,
prolunga o accorcia l’eco della parola, dei versi, proponendo un ritmo personale che è
contemporaneamente visionario, scarnificato, evidenziando la grande importanza, il nesso
inscindibile che per l’autore esiste fra immagine e parola, in un continuum di scaturigine di
una dall’altra.
Una parte importante della sua produzione illustra poi la parola ‘sottesa’, in
particolare nei disegni di tematica ebraica, redatti a partire dal 2013.
Sono questi i disegni che in modo molto meno esplicito, ma tuttavia fortemente
evocativo, illustrano non solo la parola umana, ma quella divina. Qui il ventaglio delle
possibilità si declina in tutte le sue più straordinarie variazioni: la parola dell’uomo è urlo,
preghiera, pianto, ringraziamento; la parola di Dio è creazione tout court, - Verbo -,
ingiunzione, minaccia, punizione, annuncio. La parola si declina altresì in dialogo - o
anche, certo, in non-dialogo - fra l’uomo e Dio e fra Dio e l’uomo. L’uomo diventa allora un
semplice, muto testimone di questo silenzio, e la sua presenza/assenza diventa l’emblema
di un mistero dell’interpretazione del divino.
2 2. “ In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.”
(Giovanni 1:1)
Nella Bibbia la relazione fra il Verbo, - la Parola - e l’immagine appare di una
grande, stupefacente chiarezza.4 Costituisce la fondazione stessa del rapporto fra l’uomo e
Dio. La parola crea, insegna, è il principio della comunicazione fra Dio e l’uomo. E
dell’uomo con Dio attraverso la preghiera. È il principio costruttivo e connettivo della
società, l’essenza stessa della sua identità. Identità collettiva, dunque, ma anche principio
di definizione, o meglio di ri-definizione dell’identità individuale. La parola, in tale
contesto, ha in sé anche il senso di autorità e autorevolezza. Autorità e autorevolezza della
parola dell’ “Uomo di Dio”, il prete o il rabbino, o di Dio stesso. La parola è legata all’idea
dell’insegnamento e insegnare rimanda al concetto di autorità, di giudizio, di ‘vigilanza,
come per esempio è possibile ravvisare in The Eye at Night [fig. 2].
In questo disegno l’uomo non è raffigurato, ma ‘parla’ la sua testimonianza di essere
al cospetto dell’autorità, dell’autorevolezza divina. Accanto all’occhio di Dio, in una
apertura sghemba, nel nero di un buio misterioso e fitto, che sembra precedere la
creazione della luce, nuotano misteriosi uccelli. Qui è la visione che parla, la visione che
ingiunge. È contemporaneamente la rappresentazione della visione di Dio (l’occhio di Dio
che vede) e la visione dell’uomo (l’uomo che vede l’occhio di Dio). Ma fra queste due
sembra esserci un incredibile, profondissimo divario. La visione e la parola di creazione di
Dio sono in un certo senso misteriose, il loro senso sembra essere precluso all’uomo e
l’uomo diventa allora un semplice testimone. Non a caso, forse, quegli uccelli rimandano ai
corvi di uno degli ultimi quadri di Vincent van Gogh (Campo di grano con volo di corvi del
1890, Van Gogh Museum, Amsterdam) e anche la ‘finestra’, che contiene gli uccelli,
sembrerebbe suggerire, nella forma sghemba e inquietante, la nube di destra dello stesso
quadro di van Gogh.
The Eye at Night [fig. 2] fa parte di un ciclo di dieci disegni (qui ne presentiamo tre)
nati dalla suggestione, dal ‘dialogo’ dell’autore con la storia del profeta Giona. Sia in The
Eye at Night [fig. 2] che in God Making a Fish [fig. 3] il riferimento alla parola della Bibbia
si arricchisce però di un ulteriore riferimento: la creazione degli uccelli e dei pesci del
quinto giorno.
«Dio disse: “Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al
firmamento del cielo”. Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano
3 e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie.
E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le
acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra”. E fu sera e fu mattina: quinto
giorno».
(Genesi, 20-23).
Nel disegno God Making a Fish [fig. 3] il pesce appare in fieri, a sinistra l’apertura
di un occhio non ancora ‘formato’ (si tratta di una ‘preparazione’ per un occhio) sottolinea
che la creazione è in atto. La tensione della creazione sembra seguire il ritmo di quell’onda
che procede, come la scrittura ebraica, da destra a sinistra e che è contemporaneamente
impulso, comando (e annuncio) e corpo del pesce. L’onda crea, dividendo. Ma l’onda è
anche, simultaneamente il corpo del pesce.
Dio pronuncerà ‘per intero’ la parola (nominerà), e, come riferisce ripetutamente la
Bibbia, alla parola che crea succederà l’annuncio della visione: «E Dio vide che era cosa
buona».
I tre disegni The Eye at Night [fig. 2], God Making a Fish [fig. 3] e Jonah in the
Whale [fig. 4] sono nati, abbiamo detto, in relazione alla vicenda del profeta Giona. Giona
è il profeta che misteriosamente scappa dalla chiamata di Dio. Il racconto è contenuto
nell’omonimo libro della Bibbia. Giona, figlio di Amittài, è chiamato da Dio a predicare
nella “malvagia” città di Ninive, ma ha paura e rifiuta e fugge a Giaffa dove si imbarca su
una nave diretta a Tarsis. Durante il tragitto però Dio scatena una terribile tempesta. I
marinai, impauriti, pregano ognuno il proprio dio mentre Giona scende nel luogo più
basso della nave e si addormenta. Inutilmente i marinai lo sollecitano a pregare per la
salvezza: «Che cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà
pensiero di noi e non periremo». Giona confessa di essere la causa dell’ira divina e i
marinai, ancora più spaventati gli domandano: « “Che cosa dobbiamo fare di te perché si
calmi il mare, che è contro di noi?” Infatti il mare infuriava sempre più. Egli disse loro:
“Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so
che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia”. Presero Giona e lo gettarono in
mare e il mare placò la sua furia». Un grande pesce lo inghiotte. Per tre giorni e tre notti
Giona rimane nel ventre del pesce da dove rivolge a Dio una fervida preghiera. Rigettato
sulla spiaggia, Giona si reca a Ninive e compie la sua missione, non senza ulteriori
perplessità e ribellioni.
Dei tre disegni, Jonah in the Whale [fig. 4] appare come il più didascalico, ritraendo
4 il profeta nel ventre del grosso pesce, quasi il fotogramma di una presa diretta, tuttavia
proprio in questo disegno i riferimenti iconografici spaziano in un vasto repertorio di
reminiscenze. Giona è colto in uno dei momenti più tragici della sua vicenda. Come
abbiamo ricordato, gettato in mare per liberare i marinai dalla tempesta che rischia di
affondare la nave, viene inghiottito da un grosso pesce nel cui ventre rimane per tre giorni
e tre notti, prima di pronunciare la preghiera/invocazione a Dio ed essere rigettato fuori.5
Giona è ritratto in sembianze profetiche ed eremitiche che sembrano ricordare
anche quelle di una certa tradizione iconografica di Giovanni Battista: una semplice tunica
stretta da un cordone avvolge il suo corpo, il volto, o quello che del volto possiamo
immaginare, perché è coperto dalla mano, è quello di un vecchio asceta dalla barba e dai
capelli lunghi e ispidi.
Ed è proprio il gesto della mano destra che si alza a coprire la fronte che colpisce
maggiormente l’attenzione e si discosta dalle consuete raffigurazioni di Giona. Il gesto
sembra rimandare infatti a quello di vergogna e desolazione dell’Adamo di Masaccio
nell’affresco la Cacciata dei progenitori dall’Eden della Cappella Brancacci della chiesa di
Santa Maria del Carmine a Firenze. Pur nella diversità della postura del volto - in Masaccio
Adamo è raffigurato nel suo profilo destro ed entrambe le mani coprono il volto che è
piegato verso il basso - la tensione emotiva è la stessa. Giona come Adamo - anzi ‘nuovo
Adamo’ - sembra sperimentare allo stesso tempo la volontà di rinuncia alla chiamata di
Dio, la vergogna per questa fuga e il terribile sentimento di lontananza da Dio che tale
fuga, tale lontananza comportano. Il palmo della mano sinistra invece è rivolto verso l’alto
e aperto, le dita sono distanziate, prive di tensione. In questa posizione ‘plastica’, il gesto
offertorio sembra ricordare un mudra6 del Buddha, come per esempio il mudra
Bhumisparsha (che letteralmente vuol dire 'toccando la terra'), uno dei più diffusi, che
rappresenta il Buddha in posizione seduta con la mano sinistra aperta ed il palmo rivolto
verso l’alto e la mano destra che quasi tocca il suolo, dove la posizione delle mani
simboleggia un episodio importante della leggendaria vita del Buddha, quando l’asceta
sedeva in meditazione sotto un albero di baniano a Bodhigaya, in India, cercando di
raggiungere l’ illuminazione. D’altronde nella lingua ebraica la radice della parola che
indica la mano (yad) è la stessa di quella che significa conoscenza (yadhà; la conoscenza è
dunque qualcosa di concreto, è toccare, plasmare e certo ha a che fare con l’atto creativo),
e, sempre nella tradizione ebraica, la mano sinistra è la mano di Dio ed è strumento di
giustizia: Giona infatti è l’uomo in attesa di Dio che chiede giustizia.
La presenza vigile e imperscrutabile di Dio è rappresentata dall’occhio spalancato
sulla sinistra. Il campo nero approfondisce la drammaticità della composizione, mentre le
5 squame del pesce diventano il reticolato di una prigione: Giona è intrappolato da quello
stesso rifugio che ha cercato, disperato e pieno di vergogna, si prepara tuttavia ad
accogliere il mistero della Parola di Dio.
3. La Parola dell’Uomo di Dio.
Il sacro non è né in cielo né in terra ma fra i due
Rabbi Nachman di Breslav
L’ ultimo disegno qui presentati illustra un altro aspetto molto interessante del
rapporto immagine/parola. Dall’illustrazione della parola e dalla parola illustrata entriamo
nel campo della raffigurazione di colui che è il portavoce per eccellenza della parola divina:
l’Uomo di Dio, il rabbino. Il rabbino è lo studioso della Torah, l’uomo saggio, ma anche il
maestro, guida spirituale della comunità, si occupa dell’educazione religiosa, predica nelle
sinagoghe, supervisiona il corretto funzionamento delle cerimonie e dei servizi rituali, ma
ha anche la funzione di giudicare (secondo la legge ebraica) ed è preposto a celebrare le
varie funzioni (come per es. il matrimonio); portavoce della comunità, portavoce della
parola di Dio.
Il disegno sembra cogliere e raffigurare un momento particolare di predisposizione
e di ‘ascolto’, evidenziato, anche, macroscopicamente, dalla predominanza di nero (Rabbi
[fig. 5]); siamo infatti alla presenza di un un rabbino, il cui senso di autorevolezza e
autorità sembrano minati dalla paura; la predominanza del nero rimanda al timore di Dio,
ma anche alla sua misteriosa, imperscrutabile minaccia. L’equilibrio della composizione
non è statico: gli angoli sghembi dell’apertura di luce, quasi a imbuto, la scala inclinata
verso destra che rompe, scardina la figurazione, nero su bianco, rinviano a un forte senso
di tensione e di attesa. Al tentativo di raggiungere Dio, all’attesa della sua Parola e anche
alla necessaria preparazione al suo ascolto. Qui l’immagine ha bisogno della Parola. La
presenza della scala rinvia certo alla vicenda di Giacobbe, così come si può leggere in
Genesi 28, 12-17:
«E sognò; ed ecco una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed
ecco gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala. E l’Eterno stava al disopra
d’essa, e gli disse: «Io sono l’Eterno, l’Iddio d’Abrahamo tuo padre e l’Iddio d’Isacco; la
terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà
6 come la polvere della terra, e tu ti estenderai a occidente e a oriente, a settentrione e a
mezzodì; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie. Ed
ecco, io sono con te, e ti guarderò dovunque tu andrai, e ti ricondurrò in questo paese;
poiché io non ti abbandonerò prima d’aver fatto quello che t’ho detto». E come Giacobbe si
fu svegliato dal suo sonno, disse: “Certo, l’Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”».
Ed ebbe paura, e disse: “Com’è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di
Dio, e questa è la porta del cielo!”».
Tuttavia sulla scala (i cui pioli sono simbolicamente dieci, numero assai importante
nella simbologia ebraica - dieci infatti sono i comandamenti, dieci le piaghe d’Egitto, dieci
le sephirot - cioè, nella Cabbala, le emanazioni della Luce divina, ecc.) non ci sono angeli e
i sassi, inseriti come i tasselli di un mosaico antico negli spazi dei pioli, ci suggeriscono la
difficoltà, la pesantezza del percorso che conduce a Dio. L’iconografia tradizionale della
scala di Giacobbe è quella di una scintillante, vasta scala di luce, simbolo di una gloriosa
ascesa a Dio, qui invece troviamo una ‘semplice’ scala a pioli che sembra rinviare a La
scala di Giacobbe di Chagall (stampa del 1956 e dipinto del 1973) e risalire alle miniature,
icone e illustrazioni bizantine della Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (monaco
siriano, teologo e asceta vissuto fra il VI e il VII secolo).7
È interessante ricordare che in un disegno dello stesso periodo, Rabbi Alone si trova
invece un rabbino, il cui senso di autorevolezza e autorità è sottolineato da una posizione
verticale fortemente ieratica, in cui la assoluta predominanza di bianco rimanda alla
presenza di Dio ed evidenzia la particolare natura di ‘vigilanza’, di ascolto della parola
divina. Qui il rabbino appare come purificato, svuotato da ogni desiderio, ogni appetito,
pronto ad accogliere e a riferire la parola e l’immagine di Dio - totalmente al servizio di
Dio, totalmente pronto per essere ‘riempito’ da Dio. L’accecante invasione della luce quasi un’immagine fotografica sovraesposta
- non solo rivela lo stato di ‘grazia’,
l’accoglienza dell’annuncio divino, già in atto (il Rabbino è già in conversazione con Dio),
ma rimanda anche, e contrario - in virtù della sua stessa vastità e possanza - a una
potenziale punizione divina nel caso di una ‘caduta’ dallo stato di grazia. L’immagine,
risplendente di una abbacinante luminosità procede dal Verbo, e nello stesso tempo, è
imago del Verbo, è essa stessa Verbo: « Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che
la luce era cosa buona » (Genesi 1, 3-4).
Didascalie immagini
7 1. Fred Charap, Relaxing at the Bar, 2010.
2. Fred Charap, The Eye at Night, 2012.
3. Fred Charap, God Making a Fish, 2013.
4. Fred Charap, Jonah in the Whale, 2012.
5. Fred Charap, Rabbi, 2008.
Il tema è stato anche recentemente ripreso dall’Autore nell’esposizione « Wine Jazz Life », Suvereto (Li),
luglio-agosto 2015.
2
Pubblicato nel 1940 fino al 1952 e più volte ristampato (cfr. anche il sito
http://www.willeisner.com/spirit/), in Italia pubblicato da Kappa Edizioni.
3 Cfr. A. Comes, Fuori dalla terraferma, Gazebo, Firenze 2011 (« Premio Nazionale di Poesia Alpi Apuane »
2011 ; in edizione bilingue : Hors terre ferme, L’Harmattan, Paris 2013) ; L. Langford Powell, One Breath At
A time, Hawk Press, Cambridge 2015.
4
Cfr.
per
esempio
R.
Fornara,
Vedere
(visione)
nella
Bibbia,
in
file:///Users/annalisacomes/Desktop/Vedere%20(visione)%20nella%20Bibbia%20(R.%20Fornara,%20DT
TB)%20(2).pdf e La visione contraddetta : la dialettica fra visibilità e non-visibilità divina nella Bibbia
ebraica, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2004; J. Cottin, La visibilité de l'Écriture (parole, images et
symboles dans la Bible), in “Autres Temps. Les cahiers du christianisme social”, n°19, 1988. pp. 34-47.
5 «Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e
tre notti. Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, e disse: “Nella mia angoscia ho invocato il
Signore/ ed egli mi ha risposto;/ dal profondo degli inferi ho gridato/ e tu hai ascoltato la mia voce./ Mi hai
gettato nell’abisso, nel cuore del mare,/ e le correnti/ mi hanno circondato;/ tutti i tuoi flutti e le tue onde/
sopra di me sono passati./ Io dicevo: “Sono scacciato/ lontano dai tuoi occhi;/ eppure tornerò a guardare il
tuo santo tempio”./ Le acque mi hanno/ sommerso fino alla gola,/ l’abisso mi ha avvolto,/ l’alga si è avvinta
al mio capo./ Sono sceso alle radici dei monti,/ la terra ha chiuso le sue spranghe/ dietro a me per sempre./
Ma tu hai fatto/ risalire dalla fossa la mia vita,/ Signore, mio Dio./ Quando in me sentivo venir meno la vita,/
ho/ ricordato il Signore./ La mia preghiera è giunta fino a te,/ fino al tuo santo tempio./ Quelli che servono
idoli falsi/ abbandonano il loro amore./ Ma io con voce di lode/ offrirò a te un sacrificio/ e adempirò il voto
che ho fatto;/ la salvezza viene dal Signore»./ E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla
spiaggia”».
6 Il mudra, letteralmente «sigillo» ma anche «gesto simbolico», rappresenta il liguaggio gestuale del Buddha.
7
Cfr.
P.
Blasone,
Iconografia
delle
scale
nella
storia
dell’arte,
in
http://www.academia.edu/5475654/Iconografia_delle_scale .
1
8