senso del dovere e senso del peccato
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senso del dovere e senso del peccato
SENSO DEL DOVERE E SENSO DEL PECCATO Noi, “magnifici sette”, provenienti da Saronno, costituivamo la rappresentanza, per così dire, “extra comunitaria” del Liceo Classico Daniele Crespi di Busto Arsizio. Dei quattro aspiranti a superare, in quell’anno, gli esami di maturità, Giorgio Giovanni era sicuramente il più rappresentativo, vuoi per la sua eccezionale preparazione scolastica, vuoi per la stravaganza della scelta di carriera, essendo risoluto, dopo il conseguimento della laurea in scienze politiche, ad entrare nell’affascinante mondo della diplomazia, antivedendosi, con piena convinzione, ambasciatore d’Italia in qualche paese d’oltreoceano. Donata e Paola, pur essendo completamente diverse l’una dall’altra sul piano fisico, rotondetta e occhialuta la prima, più longilinea la seconda, erano, di contro, molto simili sul piano caratteriale. Consideravano, infatti, il conseguimento del diploma come un ottimo trampolino di lancio per accalappiare qualche ricco rampollo al fine di farsi impalmare e poter condurre una tranquilla esistenza casalinga. Giorgio risultava certamente il più realista di tutti per il pragmatismo che lo contraddistingueva. Fin dall’inizio del ginnasio aveva sempre sostenuto di essersi posto un obiettivo irrinunciabile: diventare, un giorno, insegnante di lettere proprio nello stesso liceo che lo aveva visto studente. Sarà l’unico di noi a realizzare positivamente il suo appassionato proponimento, divenendo professore di ruolo per Italiano, Latino e Greco, nel più importante istituto di Busto Arsizio. Per quanto attiene al ridottissimo nucleo dei tre a cui mancava ancora un biennio prima di affrontare l’esame di stato, Antonio si considerava discendente di illustri natali che avevano lasciato, in passato, una ragguardevole impronta nel provinciale paese di nostra provenienza, ma che, 1 ai tempi di questa cronaca, avevano perduto un po’ del loro potere economico. Tuttavia, per la sua erre moscia e per la sua ricercatezza nel vestire, riecheggiava un certo stile di appartenenza, per nascita o per investitura, ad una classe già considerata superiore e fornita di particolari distinzioni e privilegi. Ricordo ancora le sue meravigliose camicie bianche con colletto rotondo e doppi polsi ornati da un paio di gemelli d’oro riportanti una specie di stemma nobiliare. Franco era tra noi il più modesto e meno dotato di fantasia. Frequentava la scuola per forza d’inerzia, mentre riservava tutto l’interesse alla sua grande passione: la fotografia. Infatti, a liceo ultimato, darà sfogo alla sua attitudine, scegliendo quale professione quella del fotografo e conseguendo pure dei ragguardevoli successi in tale campo. Per quanto mi riguarda, la decisione di iscrivermi al liceo classico fu da me presa fin dagli anni della scuola media, vuoi per la mia poca propensione verso le materie scientifiche, vuoi per i discreti risultati conseguiti in Italiano e in Latino. Inoltre, la consapevolezza che gli studi classici potessero essere considerati come qualcosa di elitario, fu la non ultima vacua causa che mi orientò in tale scelta. In effetti, si trattò di un frivolo compiacimento ed ostentazione delle doti e qualità che, sia pure immodestamente, avevo la presunzione di possedere. Illusioni giovanili dalle quali, come figlio di quei tempi, mi lasciavo trascinare, soggiacendo all’immaginazione di elementi non rispondenti alla realtà oggettiva. D’altra parte, quella mia generazione viveva con la sua giovinezza spensierata un favoloso momento di promesse e di slanci come se il senso del dovere ed il senso del peccato si fondessero, spesso con esiti di netto e fasullo romanticismo. 2 Era il tempo delle prime spiders, delle canzoni di Mina e Modugno, delle rotonde sul mare. Nuovi modelli di divertimento provenienti d’oltreoceano ci facevano sognare: i flipper, le sale di bowling e le piste di go-kart. Fu in questa cornice che vivevamo quegli anni ’60. Furono realmente anni invidiabili, ricchi di emozioni, o non piuttosto un patrimonio di aneliti, di utopie, di sogni buttati al vento? Illusioni e cadute, esaltazioni e trasalimenti. Una generazione che fu forse destinata a sperimentare sulla propria pelle la grande lezione secondo cui “continuare a desiderare fosse più importante che avere”. 3