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Il pesce e la pietra
I. La psicoanalisi e gli uomini di Dio
Sigmund Freud, padre fondatore del movimento psicoanalitico, così come
Carl Gustav Jung, suo discepolo prediletto prima della rottura fra i due, si
sono soffermati sull’importanza del ruolo della religione interpretata come
produzione umana densa di fondamentali contenuti psichici e archetipici.
Entrambi, nonostante le loro divergenti e spesso contrastanti opinioni al
riguardo, hanno avvertito il ruolo della religione e delle sue espressioni
come un momento indispensabile di riflessione, di analisi e di confronto
personale e professionale. Basti pensare che sia Freud che Jung hanno concluso la loro carriera, e con essa la loro esistenza, portando a termine un
lavoro psicoanalitico su tematiche di carattere spirituale e religioso: il primo
nel persistente confronto con la figura di Mosè, da cui nacque il suo saggio
L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938), e il secondo nel costante e
approfondito esame delle forme archetipiche presenti nelle tradizioni religiose orientali e occidentali, da Giobbe a Cristo passando dai più importanti
trattati sull’alchimia – dei quali il Mysterium coniunctionis (1956) costituisce
l’ultimo grande lavoro della sua vita – fino agli studi sul Ku%(alin) yoga e
sul Buddismo.
Com’è risaputo, Freud aveva una considerazione della religione che
proveniva dal suo impianto teorico di orientamento positivista, pur discostandosi da quest’ultimo sotto altri aspetti. Per lo psicanalista austriaco la
religione rappresenta in ultima istanza un’illusione, corrispondente al trattenersi del genere umano in una condizione di minorità, o più precisamente in
una condizione d’infantilismo psichico. Il fedele continua, come appreso da
bambino, a delegare ad altri – figura paterna, materna o Dio che sia – il ne-
!
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Niccoló Cappelli
cessario soddisfacimento dei propri bisogni di accudimento, anziché approdare
alla condizione di autonomia comunemente denominata maturità e consistente in una gestione responsabile ed autosufficiente della propria bisognosità.
Questo giudizio è ancor più vero per le religioni monoteistiche, in cui alla
sopravvalutazione del Dio-padre corrisponde in maniera proporzionale una
svalutazione del proprio sé.
Proprio per la sua visione per certi versi affine alle tematiche del positivismo, Freud scorge nella religione un passaggio inevitabile e indispensabile
nell’evoluzione e nella civilizzazione del genere umano. La sua funzione sarebbe stata quella di provvedere, attraverso dettami etici e morali, nonché
attraverso la sua fede in un Dio giusto e ordinatore del mondo, a quella
rinuncia pulsionale egoistica, quel contenersi dell’umana ricerca di un soddisfacimento immediato dei bisogni, che sarebbe il presupposto della nascita
di una società civile. Il suo limite sarebbe invece quello di attuare tale rinuncia
pulsionale attraverso un’emotività primaria dalla tinte ancora fortemente primitive. L’impotenza avvertita dall’uomo di fronte alla sua condizione di essere
mortale ha generato una traslazione compensatoria nella figura di un Dio
onnipotente capace di colmare la propria finitudine e di donare senso a ciò
che la morte con la sua presenza rischia di compromettere senza via d’uscita.
Se il bambino avverte questa onnipotenza nelle figure genitoriali, l’uomo
adulto psicologicamente infantile, tradite le sue aspettative nei confronti dei
genitori, continua a proiettare la sua emotività su un costrutto concettuale
chiamato Dio. La condizione di beatitudine provata dal bambino e assicurata
dai genitori viene ricostituita adesso dalla credenza in un Dio e in un paradiso
che accoglie i fedeli in una nuova condizione caratterizzata da un infantile
senso d’appagamento.
Questa infanzia che non conosce vergogna appare più tardi al nostro sguardo
retrospettivo come un paradiso, e il paradiso stesso non è altro che una
fantasia collettiva dell’infanzia del singolo. Ecco perché anche in paradiso gli
uomini sono nudi e non si vergognano l’uno di fronte all’altro, finché giunge
un momento in cui la vergogna e l’angoscia si destano, avviene la cacciata,
cominciano la vita sessuale e il lavoro della civiltà.1
!
#!Freud S., L’interpretazione dei sogni, in Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 228.!
18 !
Il pesce e la pietra
La cacciata dal paradiso rappresenta metaforicamente l’entrata nell’età
adulta, dove il bambino viene messo di fronte alle condizioni costituzionali
della propria esistenza, quali il dolore (“con dolore partorirai figli”2) e la
fatica (“con il sudore del tuo volto mangerai il pane”3), fino ad allora rimaste
parzialmente inconsce grazie allo schermo filtrante dei genitori. Il ritorno a
tale stato di beatitudine rimane però impresso in maniera indelebile nell’adulto che non diviene sufficientemente cosciente dei contenuti rimossi
della propria condizione infantile. Da qui l’emergere di un’inconscia necessità psichica da cui prenderà forma il materiale religioso.
Una grande importanza al riguardo, secondo Freud, rivestono le fantasie
di vita intrauterina riscontrate nei suoi pazienti durante il lavoro psicoanalitico:
Soltanto tardi ho imparato a valutare l’importanza delle fantasie e dei pensieri
inconsci sulla vita nel ventre materno. Essi racchiudono sia la spiegazione
della strana angoscia che molti uomini hanno di venir sepolti vivi, sia anche
la più profonda motivazione inconscia della credenza nella sopravvivenza
dopo la morte, che rappresenta soltanto la proiezione nel futuro di questa
misteriosa vita prima della nascita.4
Un parallelo a nostro avviso interessante si può trovare nelle ricerche di
Stanislav Grof e Carl Sagan sulle cosiddette NDE – near-death experiences
– le esperienze di pre-morte che ormai contano migliaia di testimonianze in
tutto il mondo. Le incredibili similitudini presenti nei racconti dei testimoni
hanno aperto non pochi interrogativi. Nonostante certi fenomeni connessi
alle NDE rimangano insoluti (come ad esempio la descrizione di colori e
forme confermate dai presenti da parte dei non vedenti al momento del loro
decesso, o l’impossibilità finora riscontrata da parte di colui che compie l’esperienza di trovare nell’“aldilà” una persona non ancora defunta), lo psichiatra
Grof e il professor Sagan hanno formulato una suggestiva ipotesi che permetterebbe di comprendere come sia possibile che persone completamente
diverse abbiano potuto sperimentare esperienze tanto simili. In un articolo
ripreso dal Reader’s Digest del giugno 1980, il professor Sagan scrive:
!
2
3
4
Bibbia, Genesi 3, 16.
Ivi, Genesi 3, 19.
Freud S., L’interpretazione dei sogni, op. cit., pp. 367-368.
!
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Di simili esperienze oggi ampiamente documentate da medici e studiosi si
ha notizia in ogni parte del mondo. Personalmente sarei felicissimo dell’esistenza
di una vita dopo la morte, specie se assicurasse la possibilità di continuare a
imparare cose nuove su questo e gli altri mondi. La mia qualità di scienziato
mi porta tuttavia a valutare tutte le possibili spiegazioni e a chiedermi innanzitutto come possa accadere che persone delle più diverse età, estrazione
culturale e formazione religiosa abbiano sulla soglia della morte lo stesso
tipo di esperienza. È noto che anche società non omogenee dal punto di vista
culturale possono ottenere effetti analoghi ricorrendo alle droghe psichedeliche:
le esperienze extracorporee possono per esempio essere prodotte da anestetici
come le chetamine, l’illusione del volo dalle atropine, il senso di comunione
con l’universo, simile all’identificazione di Brahman con "tman nell’Induismo,
dall’LSD. Potrebbe darsi che le esperienze legate alla droga, come pure le
visioni di chi è in punto di morte, siano dovute unicamente a una disfunzione
cerebrale che per un puro caso provoca di tanto in tanto percezioni alterate
del mondo? Trovo che una simile eventualità sia assai poco plausibile,
null’altro, forse, che un disperato tentativo di evitare un serio incontro col
misticismo. Rimane una sola alternativa, a mio parere: che ogni essere umano
abbia già fatto un’esperienza simile a quella di coloro che sono tornati dalla
terra dei morti. L’impressione di volare, di emergere dalle tenebre alla luce
e la vaga percezione di una figura eroica avvolta da un alone abbagliante
possono essere riportate ad un'unica esperienza comune: la nascita.
In questo articolo i due professori sosterrebbero dunque che lo stato di
pace e benessere riferito da coloro che hanno sperimentate una NDE, sarebbe
una reminescenza della beatitudine del bambino nel grembo materno, un
luogo felice nel quale il piccolo si sente tutt’uno con l’universo. Il processo
della nascita riecheggerebbe il passaggio attraverso il tunnel e l’entrata nella
luce la condizione più appariscente della nuova condizione extrauterina, fino
all’apparire di un essere luminoso e amorevole in cui è possibile riconoscere
la figura del medico o dell’ostetrica, e le prime cure prestate al nascituro.
La determinante e per certi versi sconvolgente esperienza della nascita rimarrebbe impressa nella nostra memoria prenatale e rivissuta, in circostanze
prossime alla morte, sotto forma di visioni di carattere religioso. Tutte le
principali religioni, conclude Sagan, sembrano riecheggiare implicitamente,
e persino inconsapevolmente, l’esperienza perinatale. Una concezione,
quindi, quella dei professori Grof e Sagan, che come abbiamo visto richiama
con forza le idee proposte da Freud sulla genesi dei fenomeni religiosi.
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Di diverso tenore, almeno in parte, è il contributo in materia fornito
dall’esperienza di Carl Gustav Jung, in un tempo in cui tali studi erano lontani
dall’essere intrapresi in modo sistematico. All’inizio dell’anno 1944, Jung
si fratturò una gamba, evento a cui seguì un infarto miocardico. Jung racconta di aver percepito chiaramente che la sua vita stava giungendo al
termine e improvvisamente ebbe delle visioni. Si ritrovò sospeso nello
spazio, sotto di sé l’immagine del pianeta Terra avvolto in una splendida
luce azzurra. Poteva distinguere i continenti, circondati dallo scuro azzurro
del mare. Riconobbe l’India, il deserto rossastro dell’Arabia e le cime innevate
dell’Himalaya. Improvvisamente, sospeso nello spazio, apparve un enorme
blocco di pietra. Jung ricordò di aver visto delle pietre simili nel Golfo del
Bengala. Sono blocchi di granito di colore grigio scuro, che talvolta servono
come materiale di costruzione per i templi. Anche la pietra che si trovava di
fronte a Jung era un tempio, con un ingresso che conduceva a un piccolo
atrio. Proprio di fronte all’entrata si trovava un indù, seduto nella tradizionale
posizione del loto, in uno stato di completa rilassatezza. La porta era circondata
da tante piccole nicchie, all’interno delle quali si trovava una coppa riempita con olio di cocco e dei piccoli lucignoli accesi. Jung ricordò di aver
visto qualcosa di simile nell’isola di Ceylon, durante la sua visita al tempio
del Santo Dente. Ma nel momento in cui si accinse a varcare la porta del
tempio cominciò ad avvertire delle strane sensazioni.
[…] ebbi la sensazione che tutto il passato mi fosse all’improvviso tolto violentemente. Tutto ciò che mi proponevo, o che avevo desiderato, o pensato, tutta
la fantasmagoria dell’esistenza terrena, svanì, o mi fu sottratto: un processo
estremamente doloroso. Nondimeno qualcosa rimase: era come se adesso avessi
con me tutto ciò che avevo vissuto e fatto, tutto ciò che mi era accaduto intorno.
Potrei anche dire: era tutto con me, e io ero tutto ciò. Consistevo di tutte
quelle cose, per così dire; consistevo della mia storia personale, e avvertivo
con sicurezza: questo è ciò che sono. […] Non vi era più niente che volessi o
desiderassi. Esistevo, per così dire, oggettivamente; ero ciò che ero stato e che
avevo vissuto. Dapprima certamente prevalse il senso dell’annientamento, di
essere stato spogliato, saccheggiato; ma poi tutto ciò perse importanza. […]
Non sussisteva più il rimpianto che qualcosa fosse scomparsa o fosse stata
sottratta. Al contrario, possedevo tutto ciò che ero, e solo questo.5
!
5
Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2004, pp. 345-346
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Jung avvertiva che all’interno del tempio avrebbe avuto risposta a tutte
quelle domande che erano rimaste insolute. Ma prima che potesse accedervi, la
figura del suo medico, con le sembianza di un Basileus di Coo, apparve
dalla Terra per comunicargli che il suo tempo non era giunto al termine e
che avrebbe dovuto fare ritorno nel suo corpo.
Ero profondamente deluso, perché ora tutto sembrava essere avvenuto invano. Il penoso processo di “sfondamento” era accaduto inutilmente, e non mi
permetteva di entrare nel tempio, per unirmi a coloro che mi appartenevano.6
Dovettero passare ben tre settimane prima che Jung avvertisse nuovamente
l’importanza di vivere in questa dimensione dove tutto appare rinchiuso nel
sistema delle cassettine, un mondo tridimensionale dove ognuno è separato
da tutto il resto. Jung avvertiva la condizione tridimensionale come una prigione e inizialmente provò rancore nei confronti del medico che lo aveva
riportato indietro. Ecco come infine descrive le sue considerazioni su questa
incredibile esperienza:
Rifuggiamo dalla parola “eterno”, ma posso descrivere la mia esperienza solo
come la beatitudine di una condizione non-temporale nella quale presente,
passato e futuro siano una cosa sola. Tutto ciò che avviene nel tempo vi era
compreso in un tutto obiettivo, nulla più era distribuito nel tempo o poteva
essere misurato con concetti temporali. Tale esperienza potrebbe semmai
essere definita come una certa condizione del sentimento, che non si può
però immaginare. Come posso immaginare di essere contemporaneamente
così come ieri l’altro, oggi e dopodomani?7
Quel che avviene dopo la morte è qualcosa di uno splendore talmente indicibile,
che la nostra immaginazione e la nostra sensibilità non potrebbero concepire
nemmeno approssimativamente. […] Prima o poi, i morti diventeranno un
tutt’uno con noi; ma nella realtà attuale, sappiamo poco o nulla di quel modo
d’essere. […] La dissoluzione della nostra forma temporanea nell’eternità non
comporta una perdita di significato: piuttosto, ci sentiremo tutti membri di
un unico corpo.8
!
6
7
8
Ivi, p. 347.
Ivi, p. 351.
Cfr. Jung C. G., Lettere, Edizioni Magi, Roma 2006.
22 !
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Sotto altri aspetti, Jung si era già accostato a problematiche simili allorché
prese in considerazione la possibilità di ipotizzare una sorta di sapere assoluto
caratterizzante certi fenomeni dell’inconscio collettivo. Per sapere assoluto
si intende in questa sede un sapere non dipendente dalle percezioni di senso,
dalla facoltà cognitiva o dall’attività cerebrale. Jung menziona, ad esempio,
i risultati delle ricerche di H. Jantz e K. Beringer su persone colpite da
sincope profonda causate da attacchi cerebrali acuti. Tali risultati dimostrarono che i soggetti in questione potevano osservare con chiarezza il mondo
circostante e avere profonde esperienze psichiche pur essendo a occhi chiusi.
Jung aggiunse che una sua paziente, pur non avendo subìto danni cerebrali,
ma trovandosi in uno stato di deliquio profondo, poté elaborare chiare percezioni del mondo esterno. Queste esperienze sembrerebbero indicare che
negli stati di deliquio, nei quali, stando al concorde parere umano, esistono
tutte le garanzie che l’attività della coscienza e soprattutto le percezioni
sensoriali sono sospese, possono invece sussistere, contro ogni aspettativa,
coscienza, rappresentazioni riproducibili, atti di giudizio e percezioni.
La questione fondamentale sollevata da esperienze di questo tipo potrebbe
essere espressa in questi termini: è la psiche un fenomeno che trova la sua
causa ultima nell’attività del cervello o è il cervello a essere un mezzo
grazie al quale si manifesta in questo spaccato di realtà un fenomeno psichico
che perlomeno in parte trascende l’attività neuronale? Il dibattito rimane
aperto. Tuttavia per Jung, da un punto di vista analitico, non è la psiche a
essere dentro di noi, ma noi dentro la psiche, com’era solito ripetere.
L’esperienza dell’oggettività provata durante la sua NDE, inoltre, è un chiaro
effetto di una individuazione compiuta. Affrancarsi da ogni valutazione, così
come da ogni legame affettivo, è una prerogativa essenziale per la realizzazione di se stessi. I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, proiezioni
viziate da costrizioni e mancanza di libertà. Per Jung la conoscenza obiettiva
sta al di là della relazione affettiva, ed è solo grazie ad essa che è possibile
attuare una vera coniunctio oppositorum.
Ma torniamo adesso alle opere del padre della psicoanalisi. Nel saggio
Totem e tabù (1912-1913) Freud intraprende una ricostruzione etnopsicologica dello sviluppo della società civile e dell’idea del divino in seno alle
prime comunità primitive. Partendo da un’indicazione di Charles Darwin,
Freud suppone l’esistenza di piccole orde capeggiate da un maschio do-
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minante attorno alle quali si sarebbero raggruppate le prime conformazioni
comunitarie dei futuri esseri umani. Questo capo era signore indiscusso
della comunità, esercitava il suo potere attraverso un uso violento della
propria forza e le sue leggi non conoscevano restrizioni di sorta. Le femmine presenti nel gruppo – le donne e le figlie della propria orda, così come
quelle che probabilmente venivano rapite da altre orde – erano tutte sotto il
suo dominio, patrimonio esclusivo di sua proprietà. In tale compagine ai
figli maschi toccava una sorte avversa: quando entravano in competizione
col padre venivano cacciati dalla comunità, evirati o brutalmente uccisi. Quelli
che sopravvivevano ricreavano un piccolo gruppo senza autorità, fin quando
a uno di essi riusciva di imporsi quale nuovo capo dell’orda. Diverso era il
destino dei figli più piccoli: accuditi dalle donne e avvertiti come inoffensivi dal padre, crescevano in sicurezza fino al sopraggiungere della morte
paterna, a cui potevano sostituirsi una volta rimasti i legittimi eredi.
Ma non sempre le cose andarono secondo questo schema. Il motivo
principale del cambiamento di questo primo assetto sociale pervenne nel
momento in cui i fratelli maggiori riuscirono a unire le loro forze per sopraffare il padre. Lo uccisero, ponendo fine al suo dominio e, secondo il costume
del tempo, lo divorarono crudo. È probabile che dopo il parricidio sia
seguito un lungo periodo di tempo in cui i fratelli disputarono fra loro per
l’egemonia del clan. In alcuni casi qualcuno di essi riuscì a imporsi quale
nuovo capo, ma è possibile che in altre circostanze i fratelli siano giunti a
una consapevolezza di tipo diverso. Consci dei pericoli e dell’infruttuosità
di queste lotte intestine, accomunati dal ricordo del parricidio – di quell’atto
liberatorio perpetrato unendo le loro forze – è ipotizzabile che i legami emotivi che vincolavano gli uni agli altri ne siano usciti rinsaldati e che questi
siano valsi come base di un nuovo sentimento comunitario, da cui in
seguito sia emerso una sorta di primigenio contratto sociale. Conseguentemente, scrive Freud,
nacque la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale
[Triebverzicht], il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di
determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della
morale e del diritto. Il singolo rinunciò all’ideale di acquisire per sé la posizione
24 !
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del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Di qui il tabù
dell’incesto e l’imposizione dell’esogamia.9
Due fra i più comuni e prioritari tabù presenti in ogni cultura tribale
vengono così spiegati alla luce delle loro implicazioni sociali originarie. Il
terzo – gli obblighi e il rispetto nei confronti del totem – sarà a sua volta
interpretato come una reminiscenza cultuale della figura paterna. La memoria
del padre verrà a lui sostituita da una figura animale, forte e temuta, in
ricordo delle caratteristiche che emotivamente sopravvissero nei primigeni
parricidi. Da qui l’istituzione del totem.
È interessante ricordare come Otto Rank, celebre psicoanalista “eretico”,
abbia richiamato l’attenzione su quello che lui ha definito complesso dell’orda
primitiva. Riprendendo le tesi del suo vecchio maestro, Rank sostenne che
lo stesso Freud fosse il tipico portatore di questa tipologia di conflitto
nevrotico. Rank identificava Freud con il padre dispotico dell’orda che
tiene sottomessi i suoi figli per paura di essere detronizzato. Come Crono
mangiò i suoi figli, così Freud avrebbe fagocitato ogni pretesa di fuorviare
dall’unica linea psicanalitica ritenuta ortodossa, chiaramente coincidente
con il proprio pensiero. Di questo complesso nevrotico erano chiari segnali
i ripetuti svenimenti di Freud, che si presentavano in circostanze particolari,
laddove il suo inconscio percepiva un forte desiderio legato al parricidio.
Uno di questi episodi avvenne a Monaco nel 1912, quando le tensioni
tra Freud e Jung si erano ormai rese evidenti. I due avevano intrapreso una
discussione sul saggio di Karl Abraham relativo alla figura del faraone
Amenofi IV. Racconta lo stesso Jung:
[…] la questione era imperniata sul fatto che, come conseguenza del suo
atteggiamento negativo verso il padre, questi aveva distrutto i cartigli di suo
padre sulle steli, e che dietro la sua grande creazione di una religione
monoteistica si nascondeva un complesso paterno. Irritato da queste affermazioni, tentai di stabilire che Amenofi era stato un uomo dotato di capacità
creativa e profondamente religioso, le cui azioni non si potevano spiegare
con un’opposizione personale al padre. Al contrario, dicevo, aveva tenuto in
onore la memoria del padre, e il suo zelo distruttore era diretto solo contro il
nome del dio Amon, che aveva cancellato dovunque, e perciò anche dai
!
9
Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica, in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri,
Torino 1989, p. 404.
!
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cartigli di suo padre Amonhotep. Inoltre anche altri faraoni avevano sostituito
i nomi dei loro antenati effettivi o divini su monumenti e statue col loro
proprio, ritenendo di avere il diritto di farlo dal momento che erano incarnazioni
dello stesso dio. Ma essi non avevano inaugurato né un nuovo stile né una
nuova religione. A questo punto Freud cadde dalla sua sedia privo di sensi.10
Jung interpretò lo svenimento di Freud come una fuga e una resa:
nonostante Freud fosse suscettibile alle critiche e alla messa in discussione
della sua autorità, allo stesso tempo evitava di sostenere uno scontro diretto.
Una possibile chiave di lettura potrebbe pervenirci dagli scritti dello stesso
Freud, in cui esprime un suo giudizio psicoanalitico sui sintomi di cui soffriva Dostoevskij.
Conosciamo il significato e l’intenzione che si celano in questi accessi simili
alla morte. Essi significano un’identificazione con un morto, con una persona
realmente morta oppure ancor viva ma della quale si desidera la morte.11
In questo caso il suo timore che Jung avesse un inconscio desiderio di
morte nei suoi confronti sarebbe stato pienamente corrisposto. Lo svenimento
era la risposta di Freud a quei sentimenti criminali che si agitavano in lui
come reazione ai desideri di morte che avvertiva nei suoi confronti. In altre
parole si tratta di quello che oggi viene definito ritiro primitivo, un processo
difensivo primario con cui l’Io tenta di allentare l’angoscia. Una tale forma
di difesa è osservabile nei bambini, specie se molto piccoli. Il bambino sovrastimolato o preda di forti tensioni spesso si addormenta, avviando in tal
modo una risposta autoprotettiva automatica che permette il ritiro psicologico
in un diverso stato di coscienza. Se nel neonato questa risposta porta naturalmente a dei vantaggi, nell’adulto può creare un deficit relazionale che
inficia la risoluzione di problematiche interpersonali. Potrebbe essere questo
il caso di Freud e di quel senso di solitudine di cui spesso si è lamentato
nell’arco della sua vita.
Ma torniamo adesso all’interpretazione del totem. Esso rappresentava da
una parte il progenitore carnale e lo spirito protettore del clan – e a cui per
questo motivo erano dovuti rispetto e venerazione – e dall’altra la fonte
!
10
Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., pp. 198-199.
Freud S., Dostoevskij e il parricidio, in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1989,
p. 527.
11
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primaria di forza che veniva acquisita dai membri del clan attraverso la sua
assunzione. Scrive Jung:
La comunione significa mangiare un complesso, originariamente un animale
sacrificale, l’animale totemico, la rappresentazione degli istinti di base di
quel particolare clan. Si mangia il proprio inconscio o i propri antenati e
così si accresce la propria forza. Mangiare l’animale totemico, gli istinti,
mangiare le immagini, significa assimilarli, integrarli. […] È un processo di
assimilazione psicologica.12
Questo pasto totemico ripropone secondo Freud l’atto cannibalesco originario, comprensibile come tentativo di realizzare l’inconscia identificazione
col padre attraverso l’assunzione di una parte del suo corpo. La stessa eucarestia cristiana non sarebbe altro che l’atto finale di un lungo processo di
sublimazione del pasto totemico.
Il totemismo rappresenta la prima apparizione della religione nella storia
umana, a cui fece seguito la venerazione di figure antropomorfe sostituite a
quella zoomorfe raffigurate nel totem; da questa fase politeistica si tornò
infine alla credenza e alla venerazione dell’unico Dio, trasfigurazione metafisica dell’antico padre-padrone. Con il figlio di Dio che scende sulla Terra
si compie quel movimento inconscio che conclude il cerchio psichico
aperto dal primigenio parricidio: il figlio di Dio si lascia uccidere nella sua
innocenza e con questo gesto prende su di sé le colpe di tutti. Ma in che
senso “di tutti”? Per Freud, Cristo simboleggia la sublimazione del contenuto
rimosso del parricidio originario. Cristo, figlio innocente di Dio, riscatta la
colpa di tutti i figli parricidi, di tutti gli uomini che portano in sé il germe di
tale senso di colpa. In tale ottica deve essere vista anche la motivazione che
sottostà al trionfo del Cristianesimo sul Mitraismo.
Quando il Cristianesimo cominciò la sua penetrazione nel mondo antico, si
scontrò con la concorrenza della religione di Mithra, e per un certo periodo fu
dubbio quale divinità sarebbe riuscita a spuntarla. Nonostante la sua figura
fosse circonfusa di luce, il giovane dio persiano ci è rimasto oscuro. Possiamo
forse dedurre dalle raffigurazioni di uccisioni di tori compiute da Mithra che
egli rappresentava il figlio che eseguì da solo il sacrificio del padre liberando in
!
12
Jung C. G., Analisi dei sogni. Seminario tenuto nel 1928-30, Bollati Boringhieri, Torino 2003,
p. 59.
!
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tal modo i fratelli dall’opprimente correità derivante dal comune misfatto.
C’era un’altra via per alleviare questo senso di colpa, e fu la via che imboccò
per primo Cristo. Egli venne e sacrificò la propria vita, redimendo così la
schiera dei fratelli dal peccato originale.13
Mithra è il dio persiano che compie la tauroctonia, l’uccisione rituale
del toro. Sappiamo che per Freud gli animali forti e pericolosi sono una
metafora della figura paterna; questo è facilmente riscontrabile nei contenuti
onirici infantili, dove questi animali rappresentano spesso la temuta aggressività del padre in relazione ad un desiderio incestuoso. Così l’atto rituale
di Mithra corrisponderebbe all’uccisione dei fratelli maggiori ai danni di
loro padre: il dio persiano assumerebbe su di sé il senso di colpa del parricidio liberandone i fratelli. Addirittura, come ipotizzato da Ernest Jones,
potrebbe vantarsi di questo gesto liberatorio e rappresentare di conseguenza
il simbolo dell’emancipazione dall’autorità paterna.
Con Cristo avviene invece qualcosa di diverso. Egli sacrifica se stesso,
facendo coincidere sulla propria persona il padre ucciso e il figlio innocente. La liberazione dall’autorità paterna avviene in questo caso senza la
compresenza del senso di colpa e del peccato originale. Il motivo della
vittoria storica del Cristianesimo sul Mitraismo sarebbe quindi per Freud di
carattere prettamente psicologico: con Cristo l’inconscio umano avrebbe
trovato la formula per emancipare se stesso. Come il Giudaismo era stato la
religione del Padre, Mitraismo e Cristianesimo divennero la religione del
Figlio. Ma mentre Mithra simboleggia la vittoria del figlio sul padre –
liberando i suoi fedeli dal senso di colpa ma non dal peccato – Cristo
appariva all’inconscio il padre-figlio che sacrifica se stesso, colui che è
capace di emancipare l’uomo sia dal senso di colpa che dal peccato originale.
La presa di coscienza del contenuto inconscio rappresentato dalla figura
di Cristo, e la conseguente emancipazione da esso, è un passo decisivo che
l’umanità dovrà compiere in vista di una nuova e più profonda maturità
psichica. Da un altro punto di vista, d’altronde, ogni sacrificio è sacrificio
di sé, di una parte di sé rappresentata dal sacrificato, e quindi sacrificio del
Sé, in quanto istanza transpersonale che s’impone sulle rivendicazioni dell’Io.14
!
13
Freud S., Totem e tabù, in Opere, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pag. 156.
Cfr. Jung C. G., Il simbolo della trasformazione nella messa, in Opere, vol. 11, Bollati
Boringhieri, Torino 1979.
14
28 !
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Di conseguenza, nel Mitraismo ad esempio, il toro, in quanto originariamente
toro cosmico, s’identifica con Mithra stesso. Questo il senso dell’iscrizione
presente nel mithraeum di S. Prisca a Roma: “Anche noi hai salvato, quando
hai sparso il sangue eterno”.
Non sarebbe più naturale scorgere in tutte queste rappresentazioni di autosacrificio, che nel caso di Mithra risalgono con particolare evidenza all’uccisione dell’io animale da parte di quello umano, la proiezione mitologica
della rimozione, in occasione della quale la parte sublimata dell’uomo sacrifica (con dispiacere) le sue vigorose pulsioni? In fondo un aspetto del
complesso d’evirazione.15
È chiaro, a ogni modo, che in una certa misura la capacità di sacrificarsi
dimostra un più o meno elevato grado di padronanza di sé ed è quindi un
atto di conoscenza di se stessi.16 L’Io si pronuncia contro se stesso, in quanto
sacrificando le sue pretese egoistiche si subordina a un’autorità superiore, il
principio d’individuazione o Sé. Grazie a questo sacrificio, l’Io ha la possibilità di sperimentare la presenza e la realtà superiori del Sé, mentre allo
stesso tempo il Sé ha la possibilità di passare dallo stato inconscio a quello di
coscienza, da un essere potenziale a uno reale. È questo l’attimo in cui “il dio
inconscio diventa conscio in noi e diventa, al tempo stesso, uomo”.17
Il rapporto di Freud con l’Ebraismo è stato al contempo profondo e
complesso. A dispetto delle numerose intimidazioni subite dalla polizia
nazista, che lo porteranno a fuggire dall’Austria nel 1938 diretto verso
l’Inghilterra dove morirà l’anno seguente, Freud non ha mai né occultato né
tantomeno rinnegato la propria appartenenza ebraica. Fin dal 1897 entra a
far parte della loggia Wien del B’nai B’rith, un’associazione culturale ebraica
all’interno della quale troverà occasione di tenere una serie di conferenze
divulgative sulla psicoanalisi. Freud si sente debitore nei confronti dello spirito
che caratterizza l’atteggiamento dell’ebreo di fronte alle sfide della vita. In
occasione dei festeggiamenti per il suo settantesimo compleanno, al cospetto
dei confratelli della loggia ebraica, dichiarerà:
!
15
Freud S., Jung C. G., Lettere tra Freud e Jung, 199 a F., Bollati Boringhieri, Torino 1990,
p. 359.
16
Cfr. Jung C.G., Il simbolo della trasformazione nella messa, in Opere, vol. 11, op. cit.
17
Franz M.L. von, Il mito di Jung, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 217.
!
29
Niccoló Cappelli
[…] devo solo alla mia natura di ebreo le due caratteristiche che si sono
rivelate indispensabili nel duro percorso della mia vita. In quanto ebreo, ho
constatato di essere libero da molti dei pregiudizi che limitano, negli altri,
l’uso dell’intelletto, e sempre in quanto ebreo, sono pronto a mettermi all’opposizione.18
Le capacità che si sono rivelate imprescindibili nel tortuoso percorso
intellettuale ed esperienziale della sua vita sono per Freud caratteristiche
della sua razza. Per sua natura, sostiene, l’ebreo è predisposto all’indagine
speculativa libera il più possibile da pregiudizi e pronto a difendere le proprie
idee nonostante le sprezzanti critiche che possono investirlo. Un quadro che
senz’altro si adatta al famoso psicoanalista. Come si evince dai suoi scritti
sulla religione, l’identificazione di Freud con l’Ebraismo è squisitamente
laica: “Freud è in egual misura ebreo e ateo”.19 Queste parole sintetizzano
la sua posizione emotiva, da una parte, e intellettuale dall’altra. Perché se i
legami con l’Ebraismo non possono essere quelli della fede e della confessione religiosa, per Freud
rimangono elementi sufficienti a rendere irresistibile l’attrazione del giudaismo
e degli Ebrei, molte oscure forze emotive, tanto più potenti quanto più difficile è
racchiuderle in parole, come pure la chiara coscienza di un’identità interiore,
il segreto di una medesima struttura mentale.20
A supportare questa tesi sono le stesse parole di Freud in una lettera
inviata alla fine degli anni Venti ad Arthur Schnitzler, in cui scrive: “Il
giudaismo ha tuttora per me un grande significato emotivo”.21
Si tratta quindi di un rapporto difficile quello tra lo psicanalista e la sua
appartenenza razziale, che da una parte muove sentimenti atavici radicati
nelle zone più profonde della sua interiorità, dall’altra si oppone alla tradizione,
alla sua concezione fideistica della vita, dell’uomo e della storia, e lo fa con
i mezzi che gli sono più propri, ossia leggendo la Torah, il testo sacro, alla
luce della nuova scienza psicoanalitica. La costellazione edipica e il complesso
paterno con le sue movenze omicide/compensatorie, rimangono il nucleo
!
18
19
20
21
Cfr. Gay P., Freud. Una vita per i nostri tempi, Bompiani, Milano 1988, p. 542.
Ivi, p. 543.
Ivi, p. 546.
Cfr. Meghnagi D., Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo, Marsilio, Venezia 2002, pp. 27-8.
30 !
Il pesce e la pietra
centrale di quel romanzo psicoanalitico che è possibile scorgere persino al
di sotto del racconto biblico. Non vi è insomma in Freud la presenza di nessun
recinto sacro che la profana scienza non possa oltrepassare. Questo è il
limite di fronte al quale il giudeo presente in lui si arresta per far spazio al
moderno uomo di scienza.
Ma vi è ancora un altro significato che potremmo scorgere nell’interesse di Freud per l’Ebraismo. Questa prospettiva, stavolta, è di carattere
meramente psicoanalitico. Neanche il padre della psicoanalisi può d’altronde
esimersi dall’essere osservato attraverso la lente che egli stesso ha creato.
Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se nella sua riflessione finale sull’Ebraismo e sulla figura di Mosè in particolare, lo stesso Freud non abbia
messo in atto, a livello inconscio, proiezioni e razionalizzazioni; ossia se in
definitiva non abbia figurato un’immagine idealizzata del suo popolo e di
Mosè, quale appassionato condottiero dell’umanità, al fine di potervi proiettare l’immagine idealizzata che aveva di se stesso. Prendiamo ad esempio
un passo del suo saggio Il Mosè di Michelangelo (1914):
[…] Michelangelo ha posto nel mausoleo del Papa un altro Mosè, che va al
di là del Mosè storico o tradizionale. Elaborando il motivo delle tavole della
Legge infrante, egli non le lascia spezzare dalla collera di Mosè, ma fa
acquietare quest’ira attraverso la minaccia ch’esse possano rompersi, o
perlomeno la frena mentre sta per passare all’azione. Così facendo egli ha
impresso nella figura di Mosè qualcosa di nuovo, di sovraumano, e la possente
massa corporea e la muscolatura formidabile del personaggio diventano il
mezzo d’espressione fisica della più alta impresa psichica possibile all’uomo:
soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale
ci si è votati.22
Molti studiosi del pensiero freudiano hanno visto in questo saggio la
messa in opera di una profonda proiezione del padre della psicoanalisi sulla
figura del patriarca fondatore della nazione ebraica. E se consideriamo la
situazione psicologica di Freud negli anni che precedettero la composizione
del saggio, vediamo che parlare d’identificazione e proiezione diviene onestamente legittimo. Non poteva Freud sentirsi, al pari di Mosè, una guida
per i suoi adepti e discepoli nelle nuove terre dell’inconscio? Un condottiero
!
22
Freud S., Il Mosè di Michelangelo, in Opere, vol. 7, op. cit., p. 322.
!
31
Niccoló Cappelli
che difendeva senza sosta la psicoanalisi da critiche, avversità e resistenze
di tutti coloro che si opponevano alla nuova scienza?
Anche Freud si trova a dover fare i conti con coloro che lo tradiscono,
che tornano ad adorare un vitello d’oro, contravvenendo ai suoi ordini: prima
Adler, poi Stekel e infine Jung, il prescelto, l’eletto, l’erede al trono. Anche
Freud si vede costretto a temperare la sua ira, nel tentativo di mantenere delle
solide basi per la fondazione e lo sviluppo di quella disciplina alla quale
aveva dedicato tutta la sua vita. Non poteva permettere alle sue emozioni di
prendere il sopravvento, distogliendo la sua attenzione dallo sviluppo del
movimento psicoanalitico. E, a tale scopo, sentirsi incoraggiato dall’eroico
atto del conseguimento della più alta realizzazione psichica sembra una tentazione fin troppo umana.
E pensare che Freud un’associazione del genere l’aveva già compiuta
nella sua interpretazione di un sogno che Bismarck riporta in una lettera da
lui scritta all’Imperatore Guglielmo I nel 1881, nella quale leggiamo:
Sognai […] di cavalcare per uno stretto sentiero alpino, a destra l’abisso, a
sinistra le rocce; il sentiero si faceva sempre più stretto, tanto che il cavallo
rifiutava di proseguire; impossibile voltare o scendere per mancanza di spazio:
allora, con il mio frustino nella mano sinistra picchiai contro la liscia parete di
roccia e invocai Dio; il frustino divenne infinitamente lungo, la parete di
roccia cadde come una quinta, dischiudendo una via larga con vista su poggi e
terreni boschivi, come in Boemia, e truppe prussiane con bandiere, e in me,
ancora in sogno, il pensiero di come potessi rapidamente farlo sapere a Vostra
Maestà. Il sogno si avverò e io mi svegliai contento e rinfrancato.23
Concentrandoci solo sulla parte dell’interpretazione che a noi interessa
in questa sede, Freud vede un esplicito parallelo nella scena biblica in cui
Mosè, mediante un colpo del suo bastone sulla roccia e l’invocazione di
Dio, fa uscire l’acqua per gli assetati figli di Israele.
Nel periodo del conflitto, Bismarck poteva paragonarsi facilmente con il
condottiero Mosè, ricompensato da quello stesso popolo che intendeva
liberare con ribellione, odio e ingratitudine. In questo modo risulterebbe
anche stabilito il collegamento con i desideri attuali [del sognatore].24
!
23
24
Freud S., L’interpretazione dei sogni, op. cit., pag. 347.
Ivi, pag. 349.
32 !
Il pesce e la pietra
Come sappiamo, i nostri occhi vedono le sopracciglia degli altri, ma non
le proprie, ed è forse per questo motivo che l’analisi didattica diverrà, grazie
all’intervento di Jung, condizione primaria e indispensabile per chiunque
voglia intraprendere la professione di psicoanalista.
Mosè, inoltre, rappresenta forse l’ultima e allo stesso tempo la più antica
figura paterna sotto cui rifugiarsi dai pericoli e dalle frustrazioni del vivere.
Dopo Breuer, dopo Fliess, e soprattutto dopo quella sorta di padre-figlio
che rappresentava Jung, Freud torna al passato, a un passato senza tempo,
al mitologico. La ben nota passione di Freud per l’antico, testimoniata dalla
sua collezione di circa duemila esemplari archeologici, mette in risalto il
suo bisogno di solide basi. Come l’albero che vuole ergersi alto immerge le
sue radici nelle profondità del terreno, così Freud – uomo del futuro e per il
futuro – si sente attratto dal passato, un tempo e un luogo in cui trovare la
necessaria solidità per avventurarsi nelle terre ignote del tempo avvenire. E
chi per l’ebreo Freud, meglio di Mosè, poteva rappresentare allo stesso tempo il padre forte e rassicurante, e il tempo passato ai confini della storia?
Tuttavia, la concezione freudiana della figura di Mosè si discosta totalmente da quella tramandata dalla tradizione.
Mosè fu un Egizio, mutato in Ebreo per sovvenire al bisogno di un popolo.25
Questa frase riassume la conclusione dei suoi studi sul principale profeta
d’Israele. Ma come arriva Freud a formulare un tale giudizio che sovverte
in modo quasi blasfemo la credenza diffusa dalla Torah su colui grazie al
quale fu possibile stabilire la grande alleanza fra Dio e il suo popolo? Le
motivazioni offerte dallo psicoanalista partono dall’etimologia del nome.
Mosè in ebraico si traduce “Mosheh”. Secondo il racconto dell’Esodo,
la principessa egizia che salva il neonato dalle acque del Nilo gli dà un
nome che possa ricordare la circostanza del suo ritrovamento: Mosè
significherebbe dunque “colui che è stato tratto dall’acqua”. Secondo il
Jüdisches Lexikon, questa traduzione risulta però piuttosto forzata, non
essendo possibile accordarla neanche con la forma attiva del verbo ebraico
Mosheh, che tutt’al più significa “colui che trae fuori”. Ma al di là di questo
Freud si avvale di altre motivazioni. È assurdo pensare, dice, che una
!
25
Freud S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica, op. cit., p. 346.
!
33
Niccoló Cappelli
principessa egizia abbia scelto un nome di origine ebraica per chiamare
quello che presto sarebbe divenuto suo figlio adottivo. Un nome da schiavo,
oltretutto appartenente a un'altra etnia, per chiamare un figlio che avrebbe
di fatto ereditato il sangue dei faraoni? Effettivamente risulta un’ipotesi
improponibile, specie se constatiamo un altro fattore che riduce il dilemma
a qualcosa di straordinariamente semplice: “mosè”, in egiziano, significa
“bambino”, ed è una abbreviazione della forma più estesa di nomi come
“Amen-mose”, che vuol dire “Amon ha dato un bambino”. Ma chi era
allora quest’uomo di nome Mosè, che ha sentito il bisogno di mettersi a
capo di un popolo che non era il suo, e perché, a sua volta, quel popolo si è
adoperato con tanta sollecitudine per rivendicare i suoi natali? Per trovare la
risposta a tali interrogativi dobbiamo contestualizzare il periodo in cui
possiamo far risalire la nascita e la giovinezza di Mosè.
Intorno all’anno 1375 a. C., un giovane faraone di nome Amenofi IV
sale al trono. Questo re tentò di imporre ai suoi sudditi una nuova religione,
spazzando via la moltitudine di dei che formavano il pantheon egiziano e
sostituendoli con l’adorazione di un unico dio solare, Atòn. Questa riforma
fu caratterizzata da una tenace intolleranza religiosa. In tutto l’impero furono chiusi i luoghi di culto e confiscati i loro beni. Dagli antichi monumenti
venne cancellata la parola “dei” e i seguaci delle altre confessioni furono
perseguitati. Questo, come c’era da aspettarsi, creò un forte malcontento sia
tra i membri del clero che tra la maggior parte della popolazione. La religione di Atòn rimase confinata presso una ristretta cerchia di persone che
gravitavano attorno al faraone. Il regno di Amenofi, tuttavia, ebbe vita breve.
Dopo diciassette anni il faraone morì, la sua religione fu spazzata via e il
suo ricordo proscritto.
È ipotizzabile, a questo punto, che Mosè facesse parte di quella cerchia
ristretta di persone che avevano abbracciato il nuovo culto di Amenofi,
fattosi chiamare poi Ekhnatòn. Fedele al suo dio, Mosè si adoperò per ristabilire il suo culto, ma essendogli ormai impossibile farlo attecchire tra la
sua gente, si mise a capo degli schiavi ebrei, convincendoli a liberarsi dal
giogo delle loro catene e ad abbandonare l’Egitto per muovere verso nuove
terre. Uniti sotto il culto dell’unico dio, posti al seguito di un condottiero
valoroso e audace, il futuro popolo d’Israele ebbe il coraggio di unire le sue
forze e di affrontare il grande faraone. Se Mosè fu veramente egizio, evi-
34 !
Il pesce e la pietra
dentemente non trasmise la religione ufficiale egiziana, ma una religione
che poneva come fulcro principale del suo credo il monoteismo più assoluto,
ossia la religione di Atòn. Di questo fatto, secondo Freud, potrebbe rimanerne traccia perfino nella professione di fede ebraica, che suona: “Shemà
Yisrael Adonay Ellohenu Adonay Echod”. La parola “Adonay”, “mio
Signore”, ha una significativa assonanza con “Atòn”, che farebbe tradurre
la formula ebraica testè menzionata “Asolta Israele, il nostro dio Atòn
(Adon) è l’unico dio”. Ma un altro particolare di capitale importanza si
trova nell’uso della circoncisione da parte degli ebrei.
Nonostante quelle che Freud definisce deformazioni bibliche – introdotte per occultare la reale provenienza di Mosè – la risposta che la Storia
fornisce su dove sia possibile rintracciare la nascita dell’usanza della circoncisione da parte degli ebrei è soltanto una: in Egitto. Queste deformazioni
(Ent-stellungen) si trovano nella Bibbia, ad esempio, quando si fa risalire
l’uso della circoncisione ai tempi dei patriarchi, come segno dell’alleanza
tra Dio e Abramo, oppure quando Dio, infuriatosi con Mosè per aver questi
trascurato tale pratica, decretò la sua morte, scampata grazie al celere
intervento di Sara, moglie del profeta.
Secondo Erodoto, la pratica della circoncisione era una consuetudine
seguita fin dal lontano passato presso gli egiziani. Al contrario, nessun altro
popolo del Mediterraneo orientale aveva questo costume, né i Semiti, né i
Babilonesi, né i Sumeri. Per gli egizi essere circoncisi rappresentava un
segno di nobiltà e di purezza. E così è stato per ogni popolo che ha praticato
questa usanza. La circoncisione divideva coloro che si erano purificati da
coloro che erano rimasti immondi; per molto tempo i musulmani turchi,
volendo offendere un cristiano, lo appellavano col titolo di “cane
incirconciso”. Ora, se Mosè fosse stato ebreo – si chiede Freud – che motivo
avrebbe avuto di introdurre un’usanza gravosa che in qualche misura
rendeva l’ebreo un egizio, e che vivificava in lui il ricordo di una schiavitù,
perpetuando quella memoria che proprio Mosè cercava con ogni mezzo di
obliare nel passato? Se invece Mosè era egizio, avendo imparato dalla sua
cultura il valore della circoncisione, introdusse tale usanza al fine di nobilitare e purificare ai suoi occhi quello che sarebbe ben presto diventato il
popolo eletto.
!
35
Niccoló Cappelli
Interessante risulta anche la tradizione che vede in Mosè un levita. I
Leviti risalgono, così si narra, a una delle dodici tribù d’Israele: la tribù di
Levi. Essi occupavano i più importanti uffici sacerdotali pur differenziandosi
dai sacerdoti, dal momento che un levita non era necessariamente un sacerdote.
Secondo Freud, i Leviti erano la gente di Mosè, ma non nel senso che Mosè
appartenesse alla tribù dei Leviti, ma nel senso che i Leviti erano quel
gruppo di accompagnatori – adepti, scrivi, servi – che normalmente accompagnano un uomo di alto rango come Mosè; non è credibile che un nobile
signore si fosse unito a un popolo straniero senza un seguito di servitori e di
persone fidate. Queste erano appunto i Leviti, che non a caso possedevano in
taluni casi dei nomi egizi. Ed è grazie ai Leviti se il culto monoteista potè
sfuggire alla catastrofe che colpì Mosè e la religione da lui rifondata. Mosè
fu infatti tradito dagli ebrei che tornarono a forme di religiosità più primitive e naturalistiche. In particolare essi si volsero al culto, assunto dalla
tribù araba dei Madianiti, di un dio vulcanico di nome Yahweh, che probabilmente veniva fatto risiedere sul monte Sinai.
Yahweh era per Freud una divinità sinistra e sanguinaria, gelosa e
collerica, il Signore degli eserciti, come lo definisce la stessa Torah.
Soltanto attraverso il susseguirsi di molte generazioni, dopo la conquista
della terra di Canaan, quel dio mosaico che richiedeva una vita vissuta
secondo verità e giustizia riemerge in una sorta di ritorno del rimosso
grazie proprio ai Leviti che, rimasti fedeli al loro signore, ne tramandarono
la memoria e l’insegnamento. La successiva storia, una storia che deformandosi diverrà leggenda, si occuperà di erigere Mosè quale patriarca del
popolo d’Israele, di farne un ebreo che libera il suo popolo dalla schiavitù;
la stessa figura di Yahweh porta testimonianza di questa lenta trasformazione. Quel dio che aveva caratteristiche fin troppo umane – geloso e
vendicativo – diviene pian piano sempre più misericordioso, sempre più
moralmente, se non anche ontologicamente, trascendente; non più dio degli
eserciti ma dio buono, arrivando infine a coincidere col bene stesso e
inaugurando, di conseguenza, lo spinoso problema dell’origine del male e
della teodicea.
Sulla tematica dell’ingiustizia divina presente in Yahweh si è interrogato
per tutta la vita il padre di quella che in seguito prenderà il nome di psicologia analitica: Carl Gustav Jung.
36 !
Il pesce e la pietra
Rimasi sconvolto la prima volta che, ancora bambino, lessi il libro di Giobbe:
dunque Yahweh è ingiusto, pensai, un malvagio. Infatti si lascia persuadere
dal demonio, accetta di infliggere orribili torture a Giobbe su istigazione di
Satana. Nella sua onnipotenza, non gli importa della sofferenza umana.26
Così ricorda Jung la sua prima esperienza con la lettura del famoso
episodio biblico. A far indignare il futuro psicoanalista è la constatazione
che Dio si sia lasciato tentare da Satana per mettere alla prova la fede di
Giobbe, uomo onesto e retto a cui la vita aveva tributato onori e fasti. Per
Satana si trattava tuttavia di una fede fin troppo facile. Giobbe era sempre
rimasto fedele a Dio, ma a quale prezzo? Di quanta buona sorte aveva
bisogno la fedeltà di Giobbe per continuare a rimanere tale? E così Satana
installò il dubbio in Yahweh, quello stesso dubbio da cui, secondo la tradizione persiana, Ahriman prese forma per la prima volta nella mente di
Ahuramazda. Questa scommessa divina, o per meglio dire luciferina, costò
davvero cara al povero Giobbe: egli si vide rubare le sue greggi e i suoi
servitori, la sua prole, figli e figlie, vennero brutalmente massacrati, ed egli
stesso fu colpito da una malattia che lo condusse a un passo dalla tomba. E
per privarlo anche della pace morale si vide schernito e additato da sua
moglie e dai suoi amici, che cominciarono a sospettare della sua integrità di
fronte a Dio, adesso che Dio lo puniva così spietatamente per qualche motivo
ignoto. E così Giobbe si rivolse a Dio, al suo Dio, che egli aveva così diligentemente servito per molti anni. Ma di fronte al Giusto, egli non trovò
giustizia, affinché Satana fosse lasciato libero di agire a suo piacimento.
Tutto questo darà adito in Jung a una profonda riflessione sul bene e sul
male in seno al concetto di Dio. Ma a questo punto è doverosa un’importante precisazione. Come afferma lo stesso Jung:
Io non scrivo quale studioso delle Scritture (cosa che non sono), ma nella
veste di un laico e di un medico al quale è stato concesso di gettare uno
sguardo nel profondo dell’anima di molti esseri umani.27
E ancora:
!
26
27
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi Edizioni, Milano 1995, p. 292.
Jung C. G., Risposta a Giobbe, in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 343.
!
37
Niccoló Cappelli
Io parlo da psicologo, e soprattutto mi riferisco all’immagine antropomorfica
di Yahweh e non alla sua realtà teologica. E come psicologo affermo che
Yahweh è contraddittorio e inoltre che questa contraddizione può essere interpretata psicologicamente.28
Ed è proprio quello che interessa anche a noi. D’altronde non dobbiamo
dimenticare che Jung aveva abbracciato il principio kantiano che distingue nettamente la conoscenza che possiamo acquisire del noumeno e del fenomeno in
quanto esseri razionali finiti. Il noumeno, la cosa in sé, è inaccessibile alla
nostra conoscenza; dovremmo limitarci quindi alle sue manifestazioni fenomeniche, senza pretendere di oltrepassare queste colonne d’Ercole che ci proteggono da quella che i greci chiamavano hybris, una tracotante presunzione.
Questi [gli archetipi], come la psiche stessa, o come la materia, sono inconoscibili in sé e di essi si possono solo abbozzare modelli di cui conosciamo
l’insufficienza; cosa che viene riconfermata ogni volta dai principi religiosi.29
È possibile, tuttavia, asserire l’esistenza di una verità che non si presta a
essere spiegata, dimostrata o discussa sul piano del mero fatto fisico. Non
si tratta in questa sede di muoversi sul terreno di una presunta realtà oggettiva, misurabile, quantificabile e indagabile con gli strumenti della sola
ragione, ma di prestare ascolto a una realtà meno evidente, ma non per
questo meno determinante, sulla nostra vita, una realtà che potremmo
definire psichica. E per dirla con Freud: “L’inconscio è lo psichico reale nel
vero senso della parola.”30
In quanto vera realtà psichica, l’inconscio è anche sede della verità,31
come ha precisato il celebre psicanalista francese Jacques Lacan, per quanto
il linguaggio e il sapere si trovino nell’impossibilità di una presa esaustiva
o di un possesso ultimo di essa. Partendo dalla lezione freudiana per cui
!
28
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 293.
Jung C. G., Risposta a Giobbe, in Opere, vol. 11, op. cit., p. 341.
30
Freud S., L’interpretazione dei sogni, op. cit., p. 557.
31
Cfr. Lacan J., La scienza e la verità, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 872: “La
verità si fonda sul fatto che parla, e non ha altro modo per farlo. Ecco pure perché l’inconscio,
che dice il vero sul vero, è strutturato come un linguaggio, e perché io, quando insegno questo,
dico il vero su Freud che ha saputo, sotto il nome di inconscio, lasciar parlare la verità”.
29
38 !
Il pesce e la pietra
“l’Io non è padrone in casa propria”,32 Lacan ribalterà il cogito cartesiano
riformulandolo come: “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”,33
arrivando a sostenere che in definitiva
l’Io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo
privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la
malattia mentale dell’uomo.34
Lacan riprende una tesi dai chiari contorni nietzschiani, laddove per il
filosofo tedesco
soggetto è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi
siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’uguaglianza di questi stati […].35
Da qui una rilettura del famoso aforisma freudiano che recita: “Là dove
era l’Es, deve venire l’Io” come “l’Io deve avvenire là dove era”,36 ossia
compiere un viaggio a ritroso lungo il sentiero che porta all’inconscio quale
sede della verità e matrice dell’essere dell’Io.
Lacan, fin dal Congresso di Marienbad del 1936, aveva proposto la sua
concezione sullo spinoso problema della genesi dell’Io quale costrutto di
natura paranoide, attraverso la sua celebre formulazione che prenderà il
nome di stadio dello specchio. Non soltanto infatti l’Io del paranoide, come
aveva già sostenuto nella sua tesi di dottorato in psichiatria, è caratterizzato
dall’identificazione con un’immagine ideale di sé, ma è l’Io di ogni persona
in generale a seguire il medesimo destino, costituendosi all’origine tramite
un’identificazione di questo tipo. Se osserviamo, dice Lacan, un bambino
di età compresa tra i sei e i diciotto mesi, noteremo che, posto davanti a uno
specchio, il bambino manifesterà il suo giubilo nell’osservare la sua immagine riflessa.
!
32
Freud S., Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino
1989, p. 663.
33
Lacan J., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, op. cit., p. 512.
34
Lacan J., Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 1978, p. 20.
35
Nietzsche F., Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, Adelphi, Milano 1971, vol. 8, 2,
fr. 10 (19), p. 116.
36
Lacan J., L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, op. cit., p. 519.
!
39
Niccoló Cappelli
Il perché di un tale sentimento è spiegato da Lacan partendo dalla condizione propria in cui si trova un bambino di quell’età. Immerso in una
frustrante impotenza motrice (tesi avanzata tra l’altro anche da alcuni biologi
che hanno parlato a riguardo di una vera e propria prematurazione specifica
della nascita dell’uomo), il bambino giubila di fronte a quella che avverte
come una visione di unità e di padronanza del corpo, contrapposto a quel
corpo-in-frammenti (corp morcélé) che è il suo corpo di appartenenza. Questo
corpo-in-frammenti sarà la causa scatenante di quello che Lacan chiamerà
complesso di svezzamento, il complesso specifico che ruota attorno all’imago
della madre e che porta seco l’angoscia di una frammentazione organica che
per il bambino coincide con la frantumazione di quell’unità intrauterina tra
sé e il corpo materno. Questa angoscia è la vera e propria radice di quell’istinto
di morte di cui parla Freud, ma che a differenza di quest’ultimo Lacan vede
non come un istinto biologico, quanto come una aspirazione mai totalmente
sopita nell’uomo a perdersi nuovamente nel corpo materno.
Non bisogna esitare a considerare l’uomo come un animale dalla nascita prematura. Questo modo di vedere le cose spiega la generalità del complesso e il
fatto che esso sia indipendente dagli accidenti dello ‘slattamento’. Quest’ultimo
– lo svezzamento vero e proprio – offre un’espressione psichica, la prima e
la più adeguata, all’imago più oscura di uno svezzamento più antico, più
doloroso e di una maggiore importanza vitale: quello che, alla nascita, separa
il bambino dalla matrice, con una separazione prematura, che scatena un
malessere cui nessuna cura materna potrà mai rimediare.37
Per compensare l’angoscia del suo corpo-in-frammenti, il bambino proietta nell’immagine dello specchio l’ideale del suo Io unificato. La fase dello
specchio rappresenta “la matrice simbolica in cui l’io si precipita in una
forma primordiale”,38 e ciò che il soggetto saluta nella sua immagine riflessa è “l’unità mentale che vi risiede […], l’ideale dell’imago del doppio”,39 dapprima nello specchio e poi nell’altro.
!
37
38
39
Lacan J., Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 34.
Lacan J., Lo stadio dello specchio, in Scritti, vol. I, op. cit., p. 88.
Lacan J., Autres écrits, op. cit., p. 42.
40 !
Il pesce e la pietra
L’Io è quindi per Lacan un oggetto, e a questo proposito occorre distinguere nettamente l’Io (moi) dal soggetto (je).40 A essere considerata paranoica
non è più solo una certa personalità, ma la personalità in quanto tale, che
scinde inevitabilmente durante il suo sviluppo un io privo di unità (je) e
un’immagine idealizzata di se stesso (moi) con la quale si identifica. Per
Lacan non vi può essere alcuna distinzione tra coscienza e autocoscienza,
poiché l’identificazione dell’Io (moi) coincide con la nascita della coscienza,41
e la nascita della coscienza coincide a sua volta con l’identificazione dell’Io.
Ma se non è coscienza, allora cos’è il soggetto (je)? Il soggetto, per Lacan, è
l’inconscio.
Il nostro campo d’azione si trova dunque nel regno dell’inconscio e, in
termini junghiani, in quella parte di inconscio definita collettiva. Sarà questo
il terreno su cui ci muoveremo e che costituirà la base della nostra interpretazione psicologica in campo religioso.
Per quanto tutto il mondo della nostra immaginazione religiosa consista in
figure antropomorfe che, in quanto tali, non potrebbero mai reggere a una
critica razionale, non ci si deve dimenticare che esso è basato su archetipi
numinosi, vale a dire su di un fondamento emotivo che si dimostra inattaccabile alla ragione critica […] Questi entia sono gli archetipi dell’inconscio
collettivo, che danno origine a complessi rappresentativi sotto forma di motivi mitologici.42
Molti simboli, i più importanti, non sono individuali, ma di natura e origine collettive: si tratta prevalentemente di forme e immagini religiose. Il
credente dà per scontato che siano di origine divina, che siano stati rivelati.
Lo scettico pensa che siano stati inventati. Entrambi hanno torto. Da un lato
è vero che, come i dogmi, questi simboli sono stati oggetto, per secoli, di
una elaborazione e differenziazione accurate e del tutto coscienti. Dall’altro,
però, sono reprèsentations collectives risalenti a epoche remote, che si per-
!
40
Cfr. Lacan J., Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, vol. I, op. cit., p. 172: “La storia
del soggetto si sviluppa in una serie più o meno tipica di identificazioni ideali che rappresentano i
più puri fenomeni psichici, in quanto rivelano essenzialmente la funzione dell’imago. E non
concepiamo l’Io altrimenti che come un sistema centrale di queste informazioni".
41
Cfr. Lacan J., Il Seminario. Libro II: L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1991, p. 62: “La coscienza si produce ogni volta che è data una superficie
tale da poter produrre ciò che si chiama un’immagine. È una definizione materialistica”.
42
Jung C. G., Risposta a Giobbe, in Opere, vol. 11, op. cit., pp. 341-342.
!
41
Niccoló Cappelli
dono nella notte dei tempi, e “rivelazioni” solo nel senso che sono immagini
originate da sogni e fantasie creative. E questi ultimi sono manifestazioni
involontarie, spontanee e non invenzioni arbitrarie, intenzionali.43
L’archetipo è, in un certo senso, una forma a priori di apprendimento
psichico, allo stesso modo in cui un istinto è una forma a priori di comportamento. Erich Neumann li ha definiti forme immaginifiche degli istinti.44
Questi entia, che come abbiamo detto sono inconoscibili in sè, si manifestano nelle produzioni di carattere onirico, artistico o religioso sotto forma
di motivi mitopoietici, e si caratterizzano quali
disposizioni inconsce a produrre rappresentazioni mitiche organizzate intorno
a un particolare nucleo di significato.45
Quindi, quando Jung indaga problemi attinenti all’ambito religioso, non
indaga altro che i contenuti comuni alle diverse forme rappresentative,
ossia gli archetipi. Affermazioni sul noumeno vengono lasciate ai teologi. I
noti accostamenti di Jung a una sorta di santone sono quindi tanto famosi
quanto impropri.
Io sono e rimango uno psicologo. Ciò che trascende il contenuto psicologico
dell’esperienza umana non mi interessa; non mi chiedo nemmeno se una
tale trascendenza sia possibile, perché comunque i fenomeni transpsicologici
non sono più nel raggio d’azione dello psicologo. Ma anche sul piano propriamente psicologico, ho a che fare con esperienze religiose la cui struttura e il
cui simbolismo possono essere interpretati. Per me, dunque, l’esperienza religiosa ha una realtà, è vera.46
D’altronde è opinione dell’autore che lo stesso Freud abbia intuito la
presenza di tali entia. La storica diatriba e la conseguente divisione tra la
concezione freudiana e quella junghiana non appare ai nostri occhi così
manichea come sovente viene presentata. Diamo un’occhiata, ad esempio, a
questo brano di Freud:
!
43
Jung C. G., Il linguaggio dei sogni, in Opere, vol. 15, Bollati Boringhieri, Torino 1979,
pp. 252-253.
44
Neumann E., Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1978, p. 13.
45
Cfr. Romano A., Chiudete gli occhi, e vedrete, in Jung C. G., Analisi dei sogni. Seminario
tenuto nel 1928-30, op. cit., p. 12.
46
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 296.
42 !
Il pesce e la pietra
Dietro quest’infanzia individuale, poi, ci è promesso uno sguardo sull’infanzia
filogenetica, lo sviluppo del genere umano, di cui quello del singolo è in
verità una ripetizione abbreviata, influenzata dalle circostanze fortuite della
vita. Si intuisce l’esattezza delle parole di Nietzsche: nel sogno “sopravvive
un antichissimo brano d’umanità, che non si può quasi più raggiungere per
via diretta” e si è indotti a sperare di arrivare, con l’analisi dei sogni, a conoscere l’eredità arcaica dell’uomo, a riconoscere ciò che è in lui psichicamente
innato. Sembra che sogno e nevrosi ci abbiano conservato, delle antichità
psichiche, più di quanto fosse lecito supporre, così che la psicoanalisi può
pretendere ad alta dignità fra le scienze che si sforzano di ricostruire le fasi
più antiche e più oscure dei primordi dell’umanità.47
Come dichiara lo stesso Freud, siamo in presenza di forme a priori di
apprendimento psichico, ossia di ciò che psichicamente è innato in noi. Ed
è così strano accostare ciò che a livello psichico è in noi innato a ciò che
Jung definisce archetipo, ossia l’immagine, il modello originario (arché,
origine; tipos, modello)? Personalmente direi di no. E non a caso Freud,
citando Nietzsche, indica nell’esperienza onirica l’accesso privilegiato a
questa eredità arcaica dell’uomo, quella stessa esperienza che tradizionalmente
la psicoanalisi indica come via regia per la conoscenza dell’inconscio. Più
che di una divisione manichea si dovrebbe parlare, a nostro avviso, di un
possibile sviluppo delle principali conquiste freudiane, uno sviluppo ritenuto
fuorviante da Freud e indispensabile da Jung.48
Se consideriamo libido, inconscio e archetipi alcuni tra i tratti essenziali
della psicologia junghiana, possiamo facilmente vedere come questi si configurino quali sviluppi di tematiche psicoanalitiche già note. Se è vero che
Jung allarga il concetto di libido intesa adesso come energia psichica generale, non è vero che per Freud quest’ultima fosse completamente di natura
sessuale, ma preminentemente di natura sessuale; se è vero che Jung allarga
il concetto di inconscio includendovi la sua componente collettiva, non è
vero che per Freud l’inconscio coincidesse con il rimosso personale; e infine, se è vero che Jung ha individuato e trattato esaurientemente un gran
numero di archetipi, facendone un asse indispensabile della sua concezione
psicologica, non è vero, come abbiamo visto poc’anzi, che Freud non abbia
!
47
Freud S., L’interpretazione dei sogni, op. cit., p. 501.
Cfr. Trevi M. e Trevi E., Invasioni controllate, op. cit., p. 67: “Jung non ha mai voluto
sostituire Freud, semmai integrarlo”.
48
!
43
Niccoló Cappelli
mai parlato di contenuti psichici innati, di cui lo stesso Edipo potrebbe rappresentare un aspetto. Il merito che a nostro avviso ha avuto Jung è stato
piuttosto quello di incamminarsi coraggiosamente e con successo all’interno
di quelle poche e oscure brecce che Freud aveva già aperto senza farvi luce,
e di averlo fatto nonostante il biasimo di quello che per anni era stato il suo
maestro. Inoltre, come apprendiamo dalle pagine dedicate a Freud nella sua
autobiografia, Jung aveva da sempre nutrito delle riserve sull’atteggiamento tenuto dal suo maestro nei confronti dei fenomeni religiosi e, più in
generale, di ogni espressione di spiritualità, anche solo nell’accezione intellettuale del termine.
Ogni qual volta, afferma Jung, una persona o un’opera d’arte manifestasse
un’espressione di tal sorta, Freud ne diffidava immediatamente, definendola
nient’altro che sessualità rimossa. Se poi non era possibile etichettarla direttamente come sessualità, allora la definiva, usando un suo neologismo,
psicosessualità. Jung protestava che così facendo saremmo giunti all’estrema
conseguenza di considerare l’intera civiltà una forma morbosa di sessualità
rimossa, e Freud consentiva che purtroppo è questa una maledizione del
destino contro la quale siamo impotenti. Ma l’episodio che segnerà in maniera definitiva la rottura fra maestro e discepolo avvenne nel 1910, durante
una conversazione tenutasi fra i due a Vienna.
In quell’occasione Freud chiese a Jung di promettergli che in futuro non
avrebbe mai abbandonato la teoria della sessualità, definita quale l’incrollabile
baluardo di cui fare un dogma contro la nera marea di fango dell’occultismo.
Queste parole scoppiarono come una bomba nell’animo di Jung. Perché un
dogma? Un dogma, ossia un’incrollabile dichiarazione di fede, è la manifestazione di un dubbio inconscio che nulla a che fare col giudizio scientifico, ma
solo con un impulso di potenza volto a soffocare i dubbi una volta per sempre.
Fu un colpo che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia. Sapevo che
non avrei mai potuto accettare una cosa simile. Ciò che Freud pareva
intendere per occultismo era praticamente tutto ciò che filosofia, religione e
anche la scienza allora nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’anima. Secondo me la teoria sessuale era occulta, e cioè un’ipotesi non
provata, esattamente allo stesso modo di molte altre concezioni. […] Avevo
la netta sensazione che per lui la sessualità fosse un numinosum […] Senza
che allora lo capissi bene, avevo osservato in Freud l’insorgere di fattori
religiosi inconsci. Evidentemente voleva che lo aiutassi a erigere una barriera
44 !
Il pesce e la pietra
contro tali minacciosi contenuti inconsci. […] per Freud la sessualità significava
di più che per gli altri, era una res religiose observanda.49
Secondo Jung, nonostante avesse sempre sottolineato la sua irreligiosità,
Freud aveva sostituito il dogma del Dio geloso con quello della sessualità,
finendo così per sostituire l’immagine del Dio perduto con un’altra immagine
ugualmente esigente, dominate e moralmente ambivalente di quella originaria. In quanto agente psichico avvertito come dominante rispetto agli altri,
Freud aveva dotato la libido di attributi allo stesso tempo divini e demoniaci, il vero deus absconditus della sua teoria psicoanalitica. Il vantaggio
che aveva ricavato da questa sostituzione era formalmente enorme, ma
psicologicamente insignificante.
Se da un lato, infatti, era riuscito a mantenere il numinoso privandolo di
ogni impronta religiosa, e così facendo rientrando a pieno titolo in quella
prospettiva scientifica a lui tanto cara, dall’altro non aveva che sostituito un
nome con un altro nome, laddove le conseguenze psicologiche rimanevano
invariate. Il problema di come arginare l’ansia, la colpa, la coercizione e
l’istinto rimaneva lo stesso. Non essendoci riuscito dal lato luminoso e
ideale, Freud ha tentato la strada del lato oscuro e biologico. Ha cercato, per
così dire, in basso ciò che aveva perduto in alto.
Freud non si chiese mai, continua Jung, perché fosse costretto a parlare
continuamente della sessualità, perché questo pensiero lo dominasse talmente.
Non si rendeva conto del fatto che la sua monotonia d’interpretazione
esprimeva una fuga da se stesso, o da quell’altro lato di lui che potrebbe
forse essere definito mistico. Era cieco di fronte ai paradossi e all’ambiguità
dei contenuti dell’inconscio, e non sapeva che tutto ciò che emerge dall’inconscio ha un vertice e una base, un dentro e un fuori. Quando noi parliamo
dell’esterno – ed è ciò che Freud faceva – consideriamo solo una metà, e per
conseguenza emerge dall’inconscio un’azione opposta.50
Dopo questa lunga ma a nostro avviso doverosa digressione epistemologica, torniamo al nostro tema. Scrive Jung:
!
49
50
Jung C. G., Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., p. 192.
Ivi, p. 194.
!
45
Niccoló Cappelli
Il problema centrale della psicologia è l’integrazione degli opposti.51
Come abbiamo visto, il giovane Jung rimase interdetto di fronte alla
malvagità di Yahweh, proprio da colui che veniva sovente magnificato nella
Torah come “il Giusto”. Questo disappunto non era esclusivo di Jung.
Nella tradizione ebraica è celebre la storia di un pio rabbino che non sopportava di leggere il Salmo 89, in cui avvertiva un lacerante conflitto causato
dall’immoralità di Yahweh. Dio infatti così aveva giurato al fedele Davide:
[…] e alla mia fedeltà, non verrò mai meno. Non violerò la mia alleanza, non
muterò la mia promessa. Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre:
certo non mentirò a Davide.52
E tuttavia Yahweh, custode dei giuramenti, venne meno proprio a quello
che egli stesso aveva pronunciato al suo servo Davide. Il dio ebraico, agli
occhi di Giobbe, doveva apparire incomprensibile. In esso vivevano allo
stesso tempo il bene e il male. Egli rappresentava quello che Cusano definirà
coincidentia oppositorum, dimora degli opposti che convivono insieme.
Yahweh non è diviso in due, egli è un’antinomia, una totale opposizione
interna, l’indispensabile presupposto della sua mostruosa dinamica, della
sua onnipotenza e della sua onniscienza.53
A questo punto subentra un problema di carattere morale. Perché Yahweh
ha nei confronti di Giobbe un atteggiamento che potremmo definire, secondo i parametri umani, come immorale? Ha senso parlare della moralità
di Dio? Se considero la coscienza il presupposto della morale, devo concludere che Yahweh vive in una condizione di divina incoscienza.
[…] può darsi che ciò che chiamiamo l’ingiustizia o la crudeltà di Yahweh
siano solo formule approssimative e imperfette per esprimere l’assoluta trascendenza di Dio. Yahweh è “Colui che è”, dunque è al di là del bene e del male.54
!
51
52
53
54
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 293.
Bibbia, Salmo 89, 34-36.
Jung C. G., Risposta a Giobbe, in Opere, vol. 11, op. cit., p. 347.
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 292.
46 !
Il pesce e la pietra
Se Yahweh, come ci si potrebbe attendere perlomeno da un essere umano
capace di autopercezione, fosse realmente cosciente di se stesso, dovrebbe,
tenendo conto della situazione reale, perlomeno porre un freno a questa sua
pretesa di lodi al suo senso di giustizia. Ma egli è troppo incosciente per
essere “morale”. La morale presuppone la coscienza.55
Viene qui delineandosi un quadro piuttosto singolare. L’essere umano,
capace di autopercezione, è cosciente di se stesso a un livello superiore
rispetto a quello dello stesso Yahweh, che trovandosi in una condizione di
incoscienza derivante dalla sua natura trascendente, diviene per questo
inferiore dal punto di vista morale, non propriamente perché immorale, ma
perché amorale.
L’essere umano ingiustamente tormentato era stato infatti, senza saperlo né
volerlo, innalzato silenziosamente e progressivamente a un livello della conoscenza della divinità che Dio stesso non possedeva. […] Giobbe individua
l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale
raggiunge essa stessa una numinosità divina. […] L’incoscienza è uno stato
vicino all’animalità e alla natura. Come tutti gli antichi dei, anche Yahweh
ha la sua simbologia animale innegabilmente vicina alle molto più antiche
figure teriomorfiche delle divinità egizie, particolarmente a quella di Hor e
dei suoi quattro figli. Dei quattro animalia di Yahweh solo uno ha un volto
umano. Si tratta ben di Satana, il padrino dell’uomo sul piano dello spirito.56
Giobbe è di nuovo portatore di quella primigenia conoscenza che Satana,
suo padrino spirituale, aveva offerto all’essere umano nel giardino dell’Eden:
la conoscenza del bene e del male. Egli rinnova, suo malgrado, la consapevolezza dell’antinomia divina, di quella compresenza contraddittoria che
rende incapace Dio di rendersi un essere morale e che avvicina l’uomo ad
una conoscenza sacra e potente, o come dice Jung, ad una numinosità divina.
Sono questi i presupposti che in ambito cristiano conducono alla formulazione
del concetto del Dio-uomo, un aspetto particolare dell’archetipo dell’eroe.
Il tema del Dio-uomo è ricorrente nella letteratura a carattere mitologicoreligioso di tutto il mondo. Come scrive Jung,
!
55
56
Jung C. G., Risposta a Giobbe, op. cit., p. 350.
Ivi, p. 355 e 362.
!
47
Niccoló Cappelli
Non è stato l’uomo Gesù a creare il mito del Dio che si è fatto uomo: esso
esisteva già da diversi secoli […].57
In Occidente basti pensare al mito egizio di Osiride-Horus, mentre una
delle più significative rappresentazione orientali è costituita dalla dottrina
dell’avatar, presente nella Bhagavadg!t", che possiamo far risalire al III-II
secolo a.C.. Il termine deriva dalla radice del verbo avat#, con il significato
di “discendere in” (accusativo o locativo) oppure “discendere da” (ablativo),
“arrivare a” (accusativo) o “essere al posto giusto”, “essere adatto” e infine
“incarnarsi” (nel caso di una divinità). Gli avatar, secondo l’Induismo, hanno la funzione di proteggere e ristabilire la corretta dottrina, il santo Dharma.
Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza,
io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi,
per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.58
Ecco dunque che la figura archetipica del Dio che si fa carne è di origine
molto più antica di quella forma particolare storicamente pervenuta fino a
noi: la generazione divina di Cristo. Ma quale funzione particolare riveste
Cristo all’interno dello sviluppo teologico proprio delle prime due forme di
religioni abramitiche? E quale necessità psicologica riesce a ottemperare?
Secondo Jung, dal Dio veterotestamentario a quello neotestamentario
avviene un passaggio fondamentale. Come abbiamo visto, Yahweh è contraddistinto da un’inconscia coincidentia oppositorum, che lo rende psicologicamente e moralmente inferiore a quell’essere umano che, come
Giobbe, si risveglia all’antinomia divina e che, operando secondo giustizia
anche in mezzo a lutti e sventure, si forma quale essere cosciente e morale.
Il Dio neotestamentario, invece, comincia a perdere questo carattere marcatamente totalizzante. Egli è sì il tutto a livello ontologico, ma in realtà è un
tutto di natura particolare, di natura positiva, che grazie all’influsso dello
zoroastrismo sulla teologia ebraica si identifica sempre più con il Bene.
Vi è quindi una scissione importante all’interno della divinità, una
scissione che riguarda in primis la sfera psicologica più che quella teologica.
Dal punto di vista teologico, infatti, la divinità rimane sempre totalizzante,
!
57
58
Jung C. G., La funzione dei simboli religiosi, in Opere, vol. 15, op. cit. p. 287.
Bhagavadg)t", IV 7-8.
48 !
Il pesce e la pietra
anche se si viene ad acuire così il problema della teodicea, che colpisce inesorabilmente tutti coloro che alla figura di Dio, e quindi alla concezione del
“tutto”, attribuiscono una qualità di natura morale quale la bontà. Se il tutto
è buono, da dove il male? Sant’Agostino, riprendendo fondamentalmente le
concezioni di Plotino, tenterà di rispondere a questa cruciale domanda, così
come avevano fatto e avrebbero fatto numerosi teologi prima e dopo di lui.
È evidente che questa domanda deriva dall’attribuzione di una natura morale
in Dio. Se, come Yahweh, viene riconosciuto che Dio è al di là del bene e
del male, la questione morale sparisce e con essa la problematica della
teodicea. Dio è il tutto e il tutto contempla l’incessante interrelazione di
bene e male, così come avevano capito i saggi d’Oriente nella loro formulazione delle dottrine del Dharma e del Tao, e che quest’ultimo rappresenta
graficamente in maniera così appropriata.
Questo “decentramento” della divinità a favore di una parte è riscontrabile,
secondo Jung, anche nel passaggio dalla croce greca a quella romana. Lo
spostamento verso l’alto del braccio orizzontale della croce simboleggia
l’ulteriore cacciata nell’inconscio del lato oscuro di Dio, di quella che in
termini junghiani si definisce Ombra.59 Se in Yahweh la scissione era interna
al Dio stesso, nel Dio neotestamentario la scissione viene spostata su un altro
piano: la contrapposizione tra Cristo e Satana.
Quando Dio rivela il suo essere e diventa qualcosa di determinato, cioè un
uomo determinato, allora i suoi contrari devono scindersi: qua il bene, là il
male. Così i contrari latenti nella divinità si sono separati nella generazione
del Figlio e manifestati nell’antitesi cristiana Cristo-diavolo. Alla base
avrebbe potuto trovarsi, come sottinteso, l’antitesi persiana Ormuzd-Ahriman.60
Come Cristo viene equiparato a Dio, così Satana viene equiparato all’Ombra e a tutto ciò che in essa man mano confluisce; il corpo, il femmineo, il male morale. L’incarnazione di Cristo sembra quindi svolgere tre
importanti funzioni:
!
59
La croce greca ha i bracci equidistanti dal centro, mentre la croce latina ha il braccio
orizzontale più alto rispetto al centro del braccio verticale.
60
Jung C. G., Il problema del quarto, in Opere, vol. 11, op. cit., p. 172.
!
49
Niccoló Cappelli
1. Dal punto di vista morale, facendosi uomo in Cristo, Dio può adesso
operare nel mondo della dualità, affrontando scelte e conseguenze, e spostandosi in tal modo dal piano divino a quello umano, e quindi morale.
2. Dal punto di vista ontologico, la proiezione del dualismo interno alla
divinità nella contrapposizione Cristo-Satana permette quella fondamentale
scissione affinché in Dio non vi sia né presenza del male né lotta contro
di esso. Dio è adesso considerato solamente come il Bene e l’Onnipotente.
3. Dal punto di vista psicologico, attraverso l’incarnazione Dio acquisisce
coscienza di se stesso, mettendo in atto quello che Jung definirebbe il
suo “processo d’individuazione”.
Scrive Jung:
Giobbe è indubbiamente cosciente dell’ingiustizia divina e dunque è più
conscio di Yahweh. C’è una forma di superiorità nel progresso dell’uomo
quanto a coscienza morale, a fronte di un Dio che è meno conscio. È questo
il motivo per cui ci sarà l’Incarnazione.61
L’opposizione di cui abbiamo parlato tra la figura di Cristo e quella di
Satana è, per Jung, di capitale importanza. Possiamo collegare questa opposizione al problema della quaternità. Jung era del parere che la trinità
eludesse un quarto elemento. Questo elemento è esattamente quello che la
scissione operata nel concetto neotestamentario di Dio aveva cercato di
eclissare, ossia il problema dell’Ombra.
Il diavolo, come persona autonoma ed eterna, corrisponde alla sua parte di
avversario di Cristo e alla realtà psicologica del male. […] In ogni monoteismo tutto ciò che contrasta a Dio non può essere ricondotto a null’altro
che a Dio stesso; cosa almeno scandalosa e perciò da eludere. Qui sta la
ragione più profonda per cui il diavolo, questa istanza influentissima, non
ha un giusto posto nel cosmo trinitario. Non si può determinare in quale
rapporto egli stia con la Trinità. Come avversario di Cristo, dovrebbe assumere
una posizione antitetica equivalente ed essere parimenti un “figlio di Dio”.
Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le
quali il diavolo come Satanael era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo.
!
61
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 293.
50 !
Il pesce e la pietra
[…] Quest’opposizione alla quaternità è piuttosto strana, in quanto il simbolo
centrale cristiano, la croce, è inequivocabilmente una quaternità.62
Il quarto elemento sarebbe quindi il diavolo. Avremmo di conseguenza
il Dio-padre, il Cristo-figlio, lo Spirito Santo e l’Ombra-diavolo. La funzione
dello Spirito Santo sarebbe quella di conciliare l’opposizione Cristo-Satana,
adesso che questa conciliazione, a causa della scissione di Dio, non è più
riscontrabile all’interno di Dio stesso.
Lo Spirito Santo è in una visione quaternaria una riconciliazione degli opposti.63
Questa riconciliazione incompleta, perché assente, del quarto elemento
in seno alla concezione cristiana, fa assumere a Jung una posizione ambigua
nei confronti della figura di Cristo. Da una parte Jung identifica Cristo con
l’archetipo del Sé nella psiche dell’uomo occidentale:
Il Sé è un cerchio il cui centro è in ogni punto e la cui circonferenza è in
nessun punto. E sa chi è il Sé per l’uomo occidentale? È Cristo, perché Cristo è
l’archetipo dell’eroe, colui che rappresenta la più alta aspirazione dell’uomo.
[…] Il simbolo di Cristo riveste la massima importanza per la psicologia, nel
senso che, fatta eccezione per la figura del Buddha, esso è forse il simbolo del
Sé più altamente sviluppato e differenziato. Lo si può capire dalla portata e
dalla sostanza di tutte le affermazioni che sono state fatte su Cristo: esse concordano in grado eccezionalmente elevato con la fenomenologia psicologica del
Sé, anche se non esauriscono tutti gli aspetti di questo archetipo.64
Sotto un altro aspetto, dunque, Cristo è un archetipo del Sé incompleto,
proprio perché scisso dalla sua Ombra:65
!
62
Jung C. G., Il problema del quarto, op. cit., pp. 166-167.
Ivi, p. 172.
64
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., p. 493 e Jung C. G., Problematica
psicologico-religiosa, in Opere, vol. 12, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 23.
65
Per un confronto tra ciò che Jung attribuisce a una mancata integrazione dell’Ombra e
Lacan a una mancata presa di responsabilità nei confronti dell’inconscio, vedi Recalcati M.,
Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, Mondadori, Milano
2007, pp. 32-5: “Fintanto che la difesa proiettiva dal reale pulsionale rigetta sull’Altro il
Male identificando il soggetto con il Bene, non c’è possibilità di rendere flessibili e convergenti i confini tra l’io e il desiderio inconscio e al posto di questa mediazione appare uno sdoppiamento effettivo del soggetto, un suo essere imbalsamato in un’immagine falsa e stereotipata di se
stesso (ciò che Winnicott definiva come falso Sé), che può generare, sul lato opposto, scom63
!
51
Niccoló Cappelli
Psicologicamente il Sé è definito come la totalità psichica dell’uomo. Può
diventare simbolo del Sé tutto ciò in cui l’uomo presuppone una totalità più
comprensiva che in se stesso. Quindi il simbolo del Sé non sempre possiede
quella totalità voluta dalla definizione psicologica: neppure la figura di Cristo,
poiché a essa manca la faccia notturna della natura psichica, la tenebra dello
spirito e il peccato. Ma senza l’integrazione del male non c’è totalità.66
A indicare la via per l’integrazione dell’Ombra e avviare così quel processo d’individuazione che Umberto Galimberti definisce felicemente come
quell’aprirsi all’altro da noi che è dentro di noi, sarà per Jung la dottrina
alchimista. L’alchimia, lungi dall’essere l’ascientifico predecessore della chimica, illustra il processo che porta al ritiro delle proiezioni e alla conseguente
integrazione della nostra personalità inferiore, quella che in linguaggio alchemico viene definita nigredo.
Finché Satana non viene integrato, il mondo non è risanato né l’uomo redento.
Ma Satana rappresenta il male: come può il male venire integrato? C’è una
sola possibilità: assimilarlo, vale a dire sollevarlo al livello della coscienza.
Questo si compie per mezzo di un processo simbolico molto complicato,
che coincide grosso modo con il processo psicologico dell’individuazione.
In alchimia questo processo si chiama congiunzione dei due principi [coniunctio].
In realtà l’alchimia si assume e prosegue l’opera del Cristianesimo; per gli
alchimisti, il Cristianesimo ha redento l’uomo ma non la natura, e il sogno
dell’alchimista è di salvare il mondo nella sua totalità: la pietra filosofale era
concepita come il filius macrocosmi, che redime il mondo, mentre Cristo, il
filius microcosmi, ha redento l’uomo soltanto. Il fine ultimo dell’opus alchemico è l’apokatàstasis, la salvazione cosmica.67
Sulla salvazione cosmica hanno invero speculato a lungo anche alcuni
cristiani, soprattutto i primi Padri della Chiesa, tra cui Origine, che in tal
senso interpretava il passo degli Atti degli Apostoli che recita:
!
pensazioni brusche, passaggi all’atto, apparizioni sregolate della pulsione, come espressioni
di un mondo soggettivo caotico. In questi casi non c’è alcun contatto del soggetto col proprio
inconscio, ma scissione, differenziazione rigida, proiezione difensiva. […] Alla proiezione
paranoica, che non tollera di fare i conti con lo straniero che abita in noi, l’etica della psicoanalisi
oppone il movimento dell’introiezione o, se si preferisce, della soggettivazione”.
66
Jung C. G., Interpretazione psicologica del dogma della trinità. Le tre persone alla luce
della psicologia, in Opere, vol. 11, op. cit., p. 155.
67
Jung C. G., Jung parla. Interviste e incontri, op. cit., pp. 293-294.
52 !
Il pesce e la pietra
Egli [Cristo] dev’essere accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di
tutte le cose […]68
Allo studio di tutti i più importanti trattati d’alchimia Jung dedicherà
quindici anni di lavoro ininterrotto e silenzioso. Racconta, infatti, che preferì
non farne parola con nessuno, al fine di non influenzare pazienti e colleghi,
fin quando arrivò alla sua conclusione definitiva: le operazioni alchemiche
sono reali, ma non sul piano fisico, bensì su quello psicologico. Non sorprende, dunque, che in ambito cristiano Jung abbia salutato con entusiasmo
la dottrina dell’Assumptio Beatae Mariae Virginis, che implica l’assunzione
in cielo dell’anima di Maria col corpo. Questo significa che è iniziato un
processo d’integrazione dell’Ombra nelle sue manifestazioni della fisicità e
del femmineo.
Meno ottimista a riguardo è l’opinione di James Hillman. Sebbene sia
d’accordo con Jung riguardo alla necessità di un’integrazione del femmineo,
e con esso del materiale e del male, il problema è a suo avviso più profondo
di quello delineato dallo psicoanalista svizzero. Affinché vi sia una reale integrazione, a cambiare dev’essere la base stessa su cui poggia la visione della
psicoanalisi riguardo alla coscienza e al divenire coscienti, che lo sguardo
trasparente della psicologia archetipica non fatica a identificare con una visione apollinea.
La psicologia del profondo descrive la coscienza in una maniera che è strettamente apollinea. […] Ciò che in tutti questi anni abbiamo chiamato coscienza
è in realtà la modalità apollinea che l’eroe ha indurito in un Io forte e che ha
predeterminato la natura del dionisiaco secondo il proprio pregiudizio. […]
Una psicologia terapeutica che trasformi l’inconscio (il dionisiaco) in coscienza
(l’apollineo), per quanto raffinato sia il suo metodo dal punto di vista immaginativo, continua a muoversi lungo la linea principale della nostra tradizione.
Anche laddove tenda a incoraggiare l’esperienza dionisiaca, essa è in funzione
della coscienza.69
Riprendendo una terminologia cara a Nietzsche, Hillman vede nella psicoanalisi del profondo un’intrinseca contraddizione: la sua sostanza è dionisiaca,
ma il suo metodo rimane apollineo. L’unus mundus che la psicoanalisi si pre-
!
68
69
Bibbia, Atti degli Apostoli, 3. 21.
Hillman J., Il mito dell’analisi, Adelphi, Milano 2009, pp. 296-298.
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Niccoló Cappelli
figge come suo fine – quell’integrazione di contenuti psichici apparentemente
in opposizione – si rivela essere una chimera irraggiungibile perché perseguita
con modalità inadeguate. Il fare luce, il portare alla coscienza, il delineare
confini precisi, quel riordinare che è proprio dello spirito apollineo e maschile, è in contrasto con l’esperienza dionisiaca che nasce dall’incontro con i
contenuti dell’inconscio. Questi ultimi rivelano la loro natura vaga, incerta,
non strettamente delineabile né totalmente comprensibile dalla sola ragione;
una natura numinosa.
A impedire l’integrazione tra contenuti coscienti e contenuti inconsci
sarebbe, secondo Hillman, la base archetipica stessa della psicoanalisi, che
fonda il suo metodo su un atteggiamento maschile della psiche.
La trasformazione della nostra visione del mondo presuppone la trasformazione
della visione del femminile. […] Quanto più il materiale è femminile, tanto
più sarà male; quanto più il femminile è materializzato, tanto più sarà oscuro.
[…] L’analisi non può avere fine sino a che non abbandona la propria base
archetipica, la propria visione delle cose basata sul prima-Adamo-poi-Eva,
che richiede un apollineismo interpretativo analitico […] un egocentrismo
obiettivo e distaccato, un percorso eroico di sviluppo e di ricerca e, soprattutto, la coscienza come luce, l’Io-Sé come suo portatore e l’analisi come
suo strumento. Se il nostro scopo è il più luce, possiamo mai raggiungere il
fine che è implicito nell’Assunzione di Maria, l’unione con l’oscura materialità
e con l’abisso?70
Di questa contraddizione doveva essersene a suo modo accorto anche
Freud che, ormai vecchio, rifletté sul problema di quando e come sia possibile dichiarare conclusa un’analisi.
Nel suo famoso scritto intitolato Analisi terminabile e interminabile
(1937), Freud conclude che, se vi può essere fine a un’analisi, essa può
essere fatta coincidere con la presa di coscienza e la successiva integrazione
di quel fondo roccioso presente nella psiche umana rappresentato dal ripudio
della femminilità. Questo vale tanto per gli uomini che per le donne: i primi
con il loro complesso d’inferiorità nei confronti degli altri esseri umani di
sesso maschile, e le donne con la loro intrattabile invidia del pene. L’analisi
sarà quindi giunta a buon termine quando, maschi o femmine dal punto di
!
70
Ivi, pp. 229, 232, 300-301.
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Il pesce e la pietra
vista biologico, non saremo più soltanto maschili in senso psicologico. Per
Hillman dunque
la fine dell’analisi coincide con l’accettazione della femminilità, […] quando
Eva viene riassunta nel corpo di Adamo”71.
Come abbiamo potuto riscontrare finora, le tematiche religiose, quali
manifestazioni degli archetipi dell’inconscio collettivo da una parte, o semplicemente quali potenti fonti d’illusione che attingono il loro materiale fin
dalla condizione intrauterina dall’altra, sono di fondamentale importanza
nello studio della psiche e delle sue configurazioni più arcaiche. Sarebbe
quindi a nostro avviso auspicabile che ricerche in tal senso continuino a
progredire e a sottolineare come, che siano le illusione dell’io o le verità del
Sé, ognuno di noi sia accomunato da una psiche – da un’anima psicologica
– che fa sì che gli uomini, prescindendo dai gretti fanatismi, abbiano il diritto (e forse il dovere) di percorrere la strada che porta a “fuggire da soli
verso il Solo”.72
!
71
72
Ivi, pp. 300-301.
Plotino, Enneadi, VI 9, 11, 50.
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