Poveri noi, disperati analfabeti dell`amore
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Poveri noi, disperati analfabeti dell`amore
20 Domenica 2 Settembre 2007 Gazzetta del Sud . Cultura Un saggio dello psichiatra e sociologo Paolo Crepet Poveri noi, disperati analfabeti dell’amore Il sentimento, vero tabù del nostro tempo di facili consumi sessuali e affettivi Maria Gabriella Scuderi L’uomo di oggi sembra sempre più affogare nel pragmatismo del “fare”, nell’efficienza della produzione di “cose”, e non di “idee”. Convinto che sarebbe bastata l’innovazione tecnologica e telematica a garantire per tutti la possibilità di comunicare, l’ “homo laboriosus” ha tralasciato così di insegnare alle nuove generazioni la più elevata forma di comunicazione, quella empatica, che passa attraverso l’esercizio del sentimento. Una sorta di “analfabetismo affettivo” sembra quindi dilagare nel mondo occidentale, come visibile conseguenza di un meccanismo collettivo di rimozione, rispetto a tutto ciò che esprime l’ “amore” nelle sue varie forme: come esercizio spirituale, libertà del sentire, gusto del vivere, coscienza di sé e dell’altro, resi soggetto e oggetto di sentimenti positivi. È invece tempo di lasciarsi alle spalle l’ “homo laboriosus” e prendere lezioni d’amore dall’ “homo cupidus”, che sa concedersi il lusso di innamorarsi. L’esercizio dell’amore potrebbe così rappresentare il punto d’avvio di una nuova era, capace di sovvertire lo pseudo equilibrio dell’individua- lista, basato sull’anestesia del pensiero creativo e la mortificazione della libertà del “sentire”. In linea con tali premesse Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, affronta nel suo ultimo scritto “Sull’amore”, edito da Einaudi (pp. 231, euro 12,50), quello che forse rappresenta il vero tabù del nostro tempo; analizzando, con stile semplice ed essenzialmente narrativo, le grandi tematiche legate all’espressione amorosa, e guidando il lettore alla scoperta di ciò che, alla fine, rappresenta l’unica via per riconciliare l’uomo con se stesso e con gli altri, ovvero il coraggio dei sentimenti. Si è portati il più delle volte a identificare l’amore con il più insipido “voler bene”, in quanto si teme l’esercizio del sentimento, ignari del fatto che per vivere fino in fondo le emozioni basterebbe applicare in campo affettivo la volontà di migliorarsi che l’individuo dimostra in altri settori della vita. Ma il contatto diretto con le più intime sensazioni non è di fa- L’ “homo laboriosus” dovrebbe adesso cedere il passo all’ “homo cupidus” cile gestione, perché quelle più intense espongono il soggetto alla doppia valenza del sentire che “fa tanto bene quanto più fa male”. Si può assimilare, infatti, l’innamoramento a una “malattia” dell’anima che funziona al contrario di una patologia organica: la passione può dirsi “autentica” quando è insana e ossessiva, quando fa ammalare l’innamorato di un’attesa che sembra non avere mai fine, e rende vitale l’arrivo di una telefonata, di un sms, di qualsiasi cosa possa riproporre una presenza diventata vitale come lo stesso respiro. L’innamoramento quindi non può avere nulla a che fare con la ragione, e può emergere anche in contesti altri da quello sentimentale: nella pittura come nella musica, in letteratura e nella poesia, a testimonianza del fatto che quando una “febbre” arde da dentro trova comunque vie e modalità per irrompere, manifestarsi e successivamente placarsi. Anche l’erotismo rappresenta un’ulteriore modalità per dare felicità a se stessi e agli altri; ma non lo si dovrebbe limitare alla sola declinazione sessuale. L’eros nella sua forma più autentica rappresenta il piacere con cui si partecipa alle esperienze, la modalità at- Uno dei maggiori interpreti della moderna “anestesia del sentire”: Edward Hopper, “Hotel Room”, olio su tela, 1931 traverso la quale si riesce a godere di ogni aspetto della vita; e, come tale, coinvolge tutti i sensi: guardare, sentire, annusare, toccare, sono vie che mettono il soggetto in contatto col mondo, consentendogli di vivere una pienezza esperienziale a carattere erotico. Ciò che relega l’erotismo esclusivamente all’esercizio della sessualità è l’illusione che soltanto tale attività possa condurre al completo appagamento dei sensi. Mentre la sensualità è sempre un valore aggiunto: le persone sensuali non necessariamente sono le più felici o le più interessanti; il grande seduttore può rivelarsi, infatti, un uomo misero, al pari della mangiatrice di uomini che non riesce a godere della piacevolezza di una musica o della sugge- stione di un tramonto. L’erotismo, quello più strettamente vincolato alla pratica sessuale, per costituire un aspetto realmente appagante dell’esistenza ha bisogno di un lento apprendistato, di “esperienza”, e non necessariamente di “esperienze”. Perché in materia di sesso non sono i numeri a fare la differenza: si può imparare da un solo partner se assieme a lui si riesce a crescere, esprimendo in maniera sempre più ricca la propria capacità di amare, il personale bisogno di condividere piaceri e sensazioni; al punto da definire uno spazio comune di intimità sempre più variegato. Ma anche nel campo dell’eros la tecnologia ha fatto capolino attraverso le reti satellitari e Inter- net, dando l’avvio a un fenomeno di fruizione solitaria del piacere che non pochi problemi ha determinato alla coppia. Se i partner fanno un uso consenziente della pornografia, solitamente non nascono particolari diffficoltà; mentre se è uno dei due a navigare nottetempo attraverso siti porno, costui dimostra di non sapere utilizzare il rapporto sessuale come momento per comunicare con l’altro, per capire le sue necessità, accedere alle sue fantasie; soprattutto vietando all’altro di partecipare alle proprie. Egli diventa così colpevole di aver tenuto per sé un mondo erotico che avrebbe potuto essere condiviso; ed è una persona “sessualmente sola”, di una solitudine che incide anche sul rapporto di coppia, congelandolo su posizioni di reciproca estraneità ed incomunicabilità. L’erotismo non può essere , infatti, fruizione passiva di un piacere a disposizione di tutti: è soprattutto “impegno”, in cui il volere di un uomo e le preferenze di una donna vengono valutati, cercati, sperimentati, condivisi per creare quelle correnti di attivazione dei sensi che non hanno certo bisogno di navigazioni “particolari” per accendersi. Continuando il suo excursus attraverso i labirinti del sentimento, Crepet affronta poi altre tematiche connesse all’amore: gelosia, tradimento, abbandono, separazione, corollari di un sentire che fa soffrire, mentre consente di vivere pienamente l’emozione. Seconda classificata la “rivelazione” Milena Agus; a una ragazza di Lodi il riconoscimento dedicato ai giovani (finalista anche una calabrese) Il Campiello delle donne: vince la saga di Mariolina Venezia Paolo Petroni È Mariolina Venezia con “Mille anni che sto qui” (Einaudi) la vincitrice del XVL premio Campiello. Con 106 voti si è imposta sugli altri cinque finalisti e con trenta voti, su quasi trecento, di distanza dalla seconda classificata, Milena Agus con “Mal di pietre” (Nottetempo). Ultimo a sorpresa, dopo che molti lo davano per favorito, Carlo Fruttero col suo “Donne informate sui fatti” (Mondadori), che ha avuto solo 28 voti. Terzo si è piazzato Romolo Bulgaro con “Il labirinto delle passioni perdute” (Rizzoli) e, 41 voti, quarto Alessandro Zaccuri con “Il signor figlio” (Mondadori) e 33 voti. Il Campiello Opera prima è andato a “Fideg” di Paolo Colagrande (Ed. Alet), che ha per protagonista l’antieroe Bisi, scrittore “disorientato”. In “Mille anni che sto qui” Mariolina Venezia racconta la saga, storica e visionaria, di una famiglia di un paese del materano dall’Unità ai nostri giorni, «sperando – dice – che i lettori possano rispecchiarvisi, riflettendo sulle emozioni che provano e sulla propria vita». Sul Campiello spiega che, da quando, «ginnasta adolescente, avevo grande paura delle gare finali, sono passati 30 anni ed ho imparato a parteciparvi». Milena Agus, nel suo “Mal di Mariolina Venezia col premio pietre”, propone la storia di una stramba donna nel dopoguerra, da novella sposa a nonna, che pur tra sconfitte e insoddisfazioni trova l’amore e un modo per sopravvivere contenta. «Volevo arrivare a scoprire il segreto, di cui per prima io avevo bisogno – spiega l’autrice – per essere sereni pur avendo una vita che apparentemente è piena di infelicità». Sul premio aggiunge che le sarebbe piaciuto «poter osservare, piccola come un insetto, la serata senza essere vista: guardarmi, invece di andare in tv e farmi vedere». Romolo Bulgaro ne “Il labirinto delle passioni perdute” racconta i primi bilanci di un gruppo di ex compagni di scuola alla soglia dei 40 anni: «Una volta l’amore era associato a un’idea di stabilità – spiega – che ormai è stata smantellata. È diventato un sentimento revocabile, veloce, esperienza che i miei protagonisti hanno avuto, ma che ci riguarda ormai tutti». Un Leopardi che sopravvive al colera e fugge a Londra dove vive per la sua opera e dando lezioni di italiano, ma soprattutto esternando in lettere, firmate con uno pseudonimo, il rapporto complicato col padre, è quello raccontato da Alessandro Zaccuri, giornalista che il Campiello ha seguito per anni, in “Il signor figlio”. «La drammaticità di questo nodo irrisolto, la sua verità da scoprire, mi hanno soprattutto attratto, anche perché quello con un genitore è un rapporto che viviamo tutti», ha detto. Su Fruttero e il suo “Donne informate sui fatti” molti alla vigilia avevano scommesso, pur sapendo che la giuria del premio veneziano ha più volte sorpreso tutti. Fruttero ricorda che, «con Lucentini, ci chiamavano “La premiata ditta”, ma di premi veri non ne abbiamo mai visti. Qui invece ci sono soldi, tutti ti cercano, c'è una serata in cui il tuo nome, durante lo spoglio delle schede, viene ripetuto spesso, come in Conclave, ed è una bella emozione». Lui dà voce a otto donne, che, sovrapponendo vita personale e notizie, raccontano in otto monologhi, dal tono e sapori diversi, quel che sanno di una donna rumena uccisa. Una ragazza lombarda, di Lodi, Ilaria Rossetti, ha vinto, col racconto “La leggerezza del rumore”, il Campiello Giovani, dedicato agli studenti tra i 15 e i 22 anni, descrivendo, lungo l’intrecciarsi di due piani temporali, il rapporto tra un bambino e la madre soffocati dal dolore per la perdita in un incidente del fratello-figlio maggiore. Il premio le è stato consegnato ieri mattina dal presidente della Fondazione Campiello Andrea Riello e dal presidente dell’apposita giuria, Lorenzo Mondo, che ha fatto notare come quattro dei cinque finalisti fossero donne, «come a segnalare una ripresa di una occupazione di spazio degli ultimi anni, dopo ere di esclusione o emarginazione». Gli altri quattro finalisti erano Angela Bubba, calabrese di Mesoraca, con “Quarto di luna”; Fabrizia Conti, molisana di Campobasso, con “Irata”; Rosa Fasan, friulana di Staranzano, con “Sonata per mandolino solo”; Marco Medugno, veneto di Padova, con “Quel che resta di me”. Un segnalazione particolare è andata uno dei partecipanti esteri di lingua italiana, lo svizzero Francesco Sergi con “L'odore dei fiori recisi”. La riflessione Da Viareggio a Porto Recanati Cosa succede ai premi letterari? Roberto Pazzi Ma che succede ai premi letterari del Bel Paese? Non è bastato che la scomparsa di Anna Maria Rimoaldi, intelligente e capace erede di Maria Bellonci, sia venuta a rendere incerte le sorti del premio Strega, già decadute per la non felice scelta del peggior libro di Ammanniti. Né che il premio Viareggio sia stato praticamente sepolto nei giorni scorsi dalle polemiche, con le dimissioni di metà giuria e la pubblicazione on line delle beghe interne al premio. L’autentica bomba, la notizia che da sola basterebbe a dichiarare lo stato di salute peggio che precaria dei premi italiani, è la notizia che il premio “Giacomo Leopardi La ginestra”, che si dà a Porto Recanati, con la partecipazione del Centro studi leopardiani, sia stato assegnato all’ultimo romanzo di Federico Moccia. Il pensiero corre alla nobile grandezza del poeta più alto della nostra Letteratura, al poe- ta di “A Silvia”, de “L’infinito” e de “Il passero solitario” – le poesie che più vivono nella memoria collettiva degli italiani – associato a simile prodotto per decerebrati giovinetti. Giacomo Leopardi, che già da vivo non aveva vissuto con la sua terra un rapporto felice, da morto riceve un nuovo affronto. Ma qualcuno nelle Marche, attonite alla notizia, come il prof. Edilio Venanzoni, presente alla cerimonia della premiazione, non ha mancato di notare come strida la potenza della sua scrittura associata alla povertà del libro di Moccia, ricevendone in cambio male parole dai giurati. Quel che rattrista di più, e ci pare sintomo di vera decadenza culturale, è la manifesta tendenza di certe giurie letterarie a corteggiare attenzione mediatica, con nomi nazional popolari di immediata visibilità, quasi che la Letteratura debba mendicare udienza e consenso, dimettendo i panni della scrittura alta a cui un premio deve sempre mantenersi fedele per indicare un canone, rivestendo gli stracci delle veline, o i jeans strappati di Corona. Meglio tenerla separata dalla volgarità, dalla elementarità di un linguaggio che non ha nulla di profondo, originale, elegante, allusivo, metaforico, simbolico, che sono le armi eterne dello Stile, quel che ci delizia ancora quando leggiamo un classico moderno come la Yourcenar o Gadda o Gunther Grass. Ci sono ancora i grandi scrittori, vivono e si chiamano Saramago, Pamuk, Marquez. Una sola pagina della loro prosa farebbe capire l’abisso che separa Moccia da un grande scrittore. È il male dei nostri tempi, già denunciato da Musil, ne “L’uomo senza qualità”: sostituire la Grandezza dell’Effetto all’Effetto della Grandezza. In questo almeno almeno la giuria del Premio Porto Recanati non ha mancato il segno: far sobbalzare di vergogna per la sua scelta.