Il senso della religione nell`evento del morire

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Il senso della religione nell`evento del morire
Il senso della religione nell’evento del morire
Introduzione
La riflessione sulla morte coinvolge una molteplicità di discipline umane, in quanto
molteplici sono gli aspetti che essa condensa: da quelli medici a quelli psicologici, da quelli
sociologici a quelli dell’antropologia culturale, da quelli filosofici a quelli teologici. Tra le
ragioni di una tale complessità sta il fatto che la morte non si riduce ad essere un processo
organico, ma un evento umano. Un’azione, cioè, che pur non essendo totalmente nelle
possibilità della libertà, la provoca radicalmente, al punto tale che questa non può non
misurarsi con quel “limite dei limiti” che essa incarna nella vita dell’uomo. Ecco perché, in
questa nostra riflessione, più che sulla morte come astrazione concettuale, siamo chiamati
a soffermarci sulla sua forma verbale: il morire come evento umano.
Questa constatazione ci obbliga a riflettere sui tratti paradossali, enigmatici e
scandalosi che da sempre hanno caratterizzato l’evento del morire e che per certi aspetti
si sono particolarmente acutizzati ai nostri giorni, in cui, almeno per quanto riguarda la
cultura occidentale, la tendenza è quella ad “affrontare” la questione della morte attraverso
la cosiddetta “strategia della negazione”. Di fronte a questo enigma paradossale e
scandaloso e, più in specifico, di fronte all’ “oblio” contemporaneo della morte, cosa ha da
dire la religione? A questa domanda intende rispondere l’ultima parte della nostra
riflessione mostrando il contributo antropologico e teologico della religione.
1. L’evento del morire: paradosso, enigma e scandalo
In senso stretto potremmo dire che l’uomo è l’unico essere vivente “veramente
mortale”, in quanto vive la propria esistenza con la consapevolezza, più o meno esplicita,
di dover “fare i conti” con quell’attimo fatale che chiamiamo morte. Essa impone un “limite
insuperabile” che, come ha ben compreso Heidegger, non riguarda solo l’ultimo istante
della vita, ma costituisce una sorta di filigrana che accompagna ogni evento ed ogni
1
istante della vita e li rende unici1. Come infatti osservava acutamente Freud «il valore della
caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento ne
aumenta la preziosità»2. Visto in questa prospettiva l’evento della morte finisce per
rappresentare un’ “ermeneutica del quotidiano” che impreziosisce i singoli attimi
dell’esistenza contrassegnandoli con il marchio dell’irripetibilità. Si condensa qui un primo
aspetto della paradossalità della morte: essa è l’evento ultimo che condiziona ogni
presente.
Il carattere paradossale della morte raggiunge, tuttavia, la sua massima
espressione nella considerazione che nella vita dell’uomo nessun’altra esperienza è così
personale ed intima come quella del morire, ma, paradosso dei paradossi, questa stessa
esperienza coincide con la fine dell’uomo che la vive. Nessuno può morire per un altro e,
per quanto circondato da persone care, quell’evento resta, per certi aspetti più di ogni
altro, del tutto personale. Potremmo dire che nella drammaticità di quel momento l’uomo
raggiunge il vertice della personalizzazione della propria esistenza che ha avuto inizio con
la nascita, si è andata determinando con la crescita e con la molteplicità delle esperienze
vissute, e si è sinteticamente raccolta, appunto, nell’atto ultimo del morire. Tuttavia questo
momento così unico e così personale segna anche la fine di qualsiasi altra esperienza
personale in questa terra e rispetto alle altre esperienze manca persino della possibilità di
poterla condividere dal momento che quando è compiuta non è più dicibile.
Come se tutto questo non fosse ancora abbastanza, questa esperienza, pur
essendo così intima alla persona, non ha la forma di una scelta, ma di un “evento subito”:
l’uomo non può scegliere di non morire. L’evento che pone termine alle possibilità delle
scelte e delle azioni umane non è, a sua volta, una possibilità che l’uomo possa evitare.
1
Il tema attraversa l’intera opera di M. HEIDEGGER, Essere e tempo. L’essenza del fondamento, Utet, Torino
1969, cui pensiamo facendo riferimento a quanto scritto.
2
SIGMUND FREUD, Caducità, in S. FREUD - A. EINSTEIN, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, 1990, p. 54.
2
Oltre al carattere della paradossalità la morte riveste anche quello dell’enigmaticità.
Quanto è difficile definirla e per descriverla si sprecano le rappresentazioni artistiche e
letterarie che mai ne esauriscono la forza simbolica: “fine”, “separazione”, “liberazione”,
“solitudine”, “pace”, “giudizio”… sono solo alcuni degli aggettivi con cui l’uomo l’ha
qualificata. Il carattere enigmatico che avvolge la morte deriva anche dal fatto che
sebbene essa sia per eccellenza un evento “naturale”, cosicché ogni uomo sa di dover
morire, la certezza di questa conoscenza non basta a soddisfare l’animo umano che
vorrebbe invece conoscere cosa l’aspetta aldilà della morte.
Ma c’è di più, contraddicendo radicalmente quel desiderio di conservazione, che
nell’uomo non è solo istinto alla vita ma desiderio consapevole di infinitezza compiuta per
sé e per i propri cari, essa, insieme al tratto del paradosso e dell’enigma, assume il volto
dello scandalo. Ne è riprova il fatto che l’uomo non ha ancora trovato in alcuna “strategia
di pensiero” una consolazione capace di pacificare definitivamente il suo confronto con il
limite ultimo della morte. Di fronte ad essa non ci sono infatti argomentazioni razionali
capaci di acquietare il cuore umano: è come se tutti i percorsi della mente giungessero ad
aporie più che a soluzioni. La stessa considerazione di Epicuro, la cui ovvietà razionale è
per certi aspetti disarmante tanto da poter essere considerata rappresentativa dei vari
tentativi dell’uomo di darsi una ragione per sopportare la morte, che cioè la morte non può
spaventarci perché tra essa e noi non c’è contemporaneità, in quanto quando ci siamo noi
non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo noi, non riesce a tranquillizzarci3.
2. L’evento del morire oggi
Se in epoche in cui il pensiero filosofico era lo spazio privilegiato per affrontare e
cercare un senso alle cose, compreso la morte, oggi che la filosofia è in crisi la strategia
assunta dalla nostra cultura è, come accennavamo, quella della “negazione” del problema.
Si tende a nascondere la sofferenza, a mentire rispetto alle proprie fragilità per continuare
3
a far parte di quella «società del benessere» che non ammette debolezze. A favorire
questo atteggiamento contribuiscono una serie di fattori che si riassumono nel risultato
scientifico del prolungamento della vita, e si declinano nei continui progressi della
medicina, nel miglioramento dell’igiene ambientale, nella distanziazione del luogo di morte
(l'ospedale e non più la casa), per arrivare, infine, all’anatomizzazione del concetto stesso
di morte, declinato in morte “cerebrale”, “cardio-circolatoria”, “respiratoria”…
Tutto sembra organizzato per non parlare più del morire, e quando qualcuno
infrange il muro di omertà che la circonda, compare quello che potremmo definire un neostoicismo contemporaneo: poiché sappiamo che quella è la fine della vita l’adultità
raggiunta con l’epoca dei Lumi dovrebbe permetterci da affrontarla senza “battere ciglio”.
Chi la teme è perché è “rimasto” infantile e non può, pertanto, che essere indicato con il
marchio dell’immaturità e della debolezza. A conferma ulteriore di questo stato di cose sta
il fatto che a partire da Nietzsche, nei circoli intellettuali, si parla con più disinvoltura della
“morte di Dio”, che non di quella dell’uomo o più radicalmente ancora della propria morte.
L’effetto prodotto da questo clima di negazione, almeno per la maggioranza dei
nostri contemporanei, è quello di essere “costretti” a vivere nella solitudine la propria
angoscia ed il proprio dolore per la perdita di una persona cara: non ne parlo per evitare di
essere giudicato o di sentirmi incompreso o ancora, nella migliore delle ipotesi, per non
caricare gli altri (parenti ed amici) dei miei “fantasmi”. Questa privatizzazione
dell’esperienza del morire ha l’apparente vantaggio di nascondere la morte, ma dall’altra
attesta un isolamento estremo. Ne è riprova la pratica della cosiddetta “sepoltura anonima”
caratterizzata dall’assenza di qualsiasi comunicazione riguardo all’ora e al luogo della
sepoltura. Essa prevede, il più delle volte, la cremazione e la deposizione dell’urna nel
campo cimiteriale ad esse riservato senza alcuna cerimonia, sia civile che religiosa, e per
lo più senza partecipazione dei parenti. In genere queste tombe, prive di qualsiasi
3
Epicuro, Opere, Einaudi, Torino 1973, 108.
4
iscrizione contenete i dati biografici della persona defunta, sono provviste solo di un
tappeto erboso. Originario dei paesi scandinavi (a Copenaghen, ad esempio, il 90% delle
sepolture è anonimo), questo tipo di sepoltura, a detta di un recente documento della
Conferenza episcopale tedesca, trova un numero crescente di simpatizzanti anche in
Germania, indipendentemente dalla condizione sociale o dalla confessione4. Nella
Repubblica federale di Germania nel 1991 le sepolture anonime erano il 5,6%; oggi sono
salite al 9,1% e sono in crescita, sebbene con un chiaro divario fra la città e la campagna
e soprattutto fra il Nord ed il Sud del Paese5.
3. Religione: funzione antropologica
La religione reagisce a questo clima di silenzio imposto sulla morte ed affronta
apertamente quell’esperienza umana radicale della “separazione” e del “distacco” che
definiamo con il verbo morire. Lo aveva già fatto ai primordi dell’umanità e lo ripete oggi.
Apprendiamo infatti dall’antropologia culturale che con il progressivo processo di
consapevolizzazione della morte l’uomo, fin dai tempi dei nostri predecessori di
Neanderthal, non solo ha migliorato la pratica della sepoltura (rispetto e cura della salma),
ma ha anche introdotto i primi segni (corredi e simboli religiosi) che accompagnano la
tomba e testimoniano la convinzione di una vita dopo la morte. Ci troviamo così di fronte a
quella che Facchini giustamente definisce una svolta epocale: dal momento in cui «gli
uomini incominciano a seppellire è come se la morte avesse assunto un significato
diverso»6. Un risultato profondamente connesso, e persino dipendente, dal fatto che il
senso religioso che accompagna o costituisce tali pratiche si offre, fin dalla sua comparsa,
come una rielaborazione condivisa del morire. Contributo questo che si dimostra
particolarmente significativo in un tempo come il nostro in cui, come abbiamo osservato, il
4
Vescovi tedeschi, Seppellire i morti e consolare gli afflitti. Uno sguardo cattolico sulla cultura della sepoltura
che cambia, a cura del Segretariato della Conferenza episcopale tedesca, 20.6.2005.
5
Cfr. lo studio Aeternitas/EMNID, aprile 2004, citato dallo stesso documento della Conferenza episcopale
tedesca del 20.6.2005.
6
F. FACCHINI, Le origini dell’uomo e l’evoluzione culturale, Jaca Book, Milano 2006, 160.
5
morire è inserito all’interno di un processo generale che potremmo definire regressivo
rispetto alla direzione di simbolizzazione seguita dall’evoluzione dell’umanità fino ai nostri
giorni. Il CENSIS, nel suo rapporto del 2007 sullo stato del nostro Paese, facendo
riferimento agli studi di Melanie Klein, attesta questa tendenza ritenendo «che sia in corso
“una inversione del processo di simbolizzazione” o più esattamente un processo di “desublimazione”. Una società che si era costruita su grandi riferimenti simbolici si ritrova oggi
a doverne constatare la corrosiva desublimazione, il loro regredire di senso»7.
Di contro a questo processo il rito in genere, e quello religioso in particolare,
rappresenta la prima risposta pratica all’evento della morte. Esso contiene almeno una
triplice funzione: esprimere la pre-occupazione per la sorte futura del defunto, consolare i
familiari che restano e consolidare il gruppo sociale depauperato di uno dei suoi membri.
Tralasciando in questo momento la questione della sorte dei defunti e rimanendo
invece sulla condizione di coloro che restano, il rito, con i tempi di preparazione che lo
precedono e quelli di commiato che lo seguono, aiuta i familiari ad affrontare le varie fasi
che compongono la rielaborazione del lutto: dal riconoscimento della realtà della morte;
alla valutazione e progressiva accettazione della perdita; all’interiorizzazione dei
sentimenti nei confronti della persona defunta; fino al ri-orientamento nel contesto sociale.
Vi è infatti anche un aspetto sociale del lutto determinato dal fatto che con la morte di una
persona cambia lo status di coloro che restano nei confronti della società. Il rito mostra
simbolicamente il cammino che essi devono percorrere dalla condizione in cui si trovavano
prima della perdita del loro caro, alla nuova situazione personale e sociale in cui ora
vengono a trovarsi, e come l’ambiente sociale voglia accompagnarli e sostenerli in questo
cammino. Si tratta di una vera e propria rielaborazione condivisa e pubblica della morte
che contrasta con la solitudine denunciata e si offre alla coscienza personale di ognuno
7
CENSIS, 41° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, 2007, par. 8
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non per sostituirla e tanto meno per destituirla della sua individualità, ma per consegnarle
un orizzonte interpretativo che mentre spiega sostiene ed incoraggia.
4. Religione: teologia della speranza
Premesso che il discorso andrebbe svolto distinguendo le grandi tradizioni religiose,
in particolare quelle di origine orientale che si prefiggono la liberazione dalla rinascita per
raggiungere il nirvana, da quelle che promettono una risurrezione personale, ma
consapevoli anche che lo spazio a nostra disposizione ci costringe a fare delle scelte, ci
soffermiamo sulle religioni del secondo genere. La ragione di questa scelta è legata, tra
l’altro, al fatto che queste sono più vicine alla nostra sensibilità culturale, sebbene la
globalizzazione in atto superi tali confini.
Da queste tradizioni ricaviamo facilmente che la religione, posta di fronte allo
scandalo ultimo della morte, insieme agli aspetti antropologici di cui abbiamo scritto, offre
un suo specifico contributo: quello del riconoscimento di un senso teologico che il
cristianesimo, mutuandolo dalla tradizione ebraica, chiama “passaggio” (Pasqua). Si tratta
di una speranza che corrisponde ai desideri più intimi dell’uomo: quello di non scomparire
nel nulla e di non perdere le relazioni con le persone care costruite nel corso della propria
esistenza. Con l’annuncio che questo desiderio è appagato nella fede in Dio che si fa
garante della vita dopo la morte, la religione genera consolazione ed offre conforto.
Il suo contributo tuttavia non si limita a generare questo sollievo, ma sviluppa
contemporaneamente una rilettura del presente. Poiché in una prospettiva di vita
ultraterrena la morte non rappresenta l’ultima parola, si evita sia l’assolutizzazione del
presente, come se tutto andasse immediatamente posseduto e consumato (qualcuno
parla di “appetito onnivoro del presente”), sia la sua altrettanto assoluta svalutazione come
se nulla avesse valore ed importanza perché tutto passa e finisce. Il tempo presente ha
valore in rapporto ad una pienezza cui fa riferimento l’aggettivo greco aiónios che,
affiancandolo al termine vita, traduciamo abitualmente nel significato di “eterna”, ma che in
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realtà la qualifica, più che per la durata, per il senso compiuto che la risurrezione apporta
alla vita presente.
Con un tale “rimedio” la religione non annulla la drammaticità e la sofferenza del
momento della separazione e del distacco dai propri cari, ma le trasmette la certezza che
quell’evento non costituisce l’ultimo atto dell’esistenza umana e che quindi quella non
rappresenta una separazione definitiva, quanto invece un “addio” nel senso etimologico
del termini “a-Dio”, arrivederci a quando saremo ricongiunti con Dio ed in Dio.
Questa fiducia, fatta salva la specificità di ciascuna delle tre grandi religioni
monoteistiche rispetto alla comprensione dell’aldilà, accomuna l’ebraismo, il cristianesimo
e l’islam che si ritrovano nella fede del grande patriarca Abramo. Il padre della fede il cui
nome, non a caso è legato alla promessa. Quella che il profeta Isaia esprime
poeticamente con queste parole:
Il Signore preparerà «per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre che copriva tutte le genti.
Eliminerà la morte per sempre;
il Signore, Dio, asciugherà le lacrime su ogni volto;
farà scomparire da tutto il paese
la condizione disonorevole del suo popolo,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno:
“Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse;
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Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza!”» (Is 25, 6-9).
Conclusione
Credere nella promessa attestata dalle grandi tradizioni religiose è la scommessa di
pascaliana memoria cui la fede dispone non senza ricercarne la ragionevolezza. In essa si
condensa un’intensa esperienza di appartenenza e di protezione che contrasta quel
sentimento di solitudine e di paura che Tolstoj ne “La confessione” esprime come la
sensazione di sentirsi orfani in un mondo percepito come estraneo.
La fede religiosa rappresenta l’approdo nel quale la ricerca umana non si estingue,
né si esauriscono gli interrogativi, ma convivono con la convinzione che quella stessa
ricerca e quegli stessi interrogativi sono abitati dal Trascendente. Un’esperienza dai forti
risvolti psicologici che rivela la ricerca di una risposta esistenziale di senso e che trova,
nell’intensità del desiderio che anima quella stessa ricerca, la “prova” della sua validità e
fondatezza.
In tale esperienza di fede il Trascendente viene sperimento nella forma della
relazione tra il credente e Colui che si manifesta contemporaneamente come “Presenza”
talmente invisibile da sembrare “Assenza”, ed “Assenza” così viva ed intensa da attestare
non solo la sua esistenza, ma anche la vicinanza della sua “Presenza”. Da questa
“Presenza” l’uomo di fede si aspetta di diventare “presenza oltre il tempo” ed in Essa di
ritrovare la presenza di quegli uomini e di quelle donne con cui ha stretto legami di affetto.
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