Finding Tito - East Journal

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Finding Tito - East Journal
Finding Tito
Eredità e memoria del Maresciallo
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INDICE
Introduzione. Trent’anni fa moriva Tito, di Matteo Zola (EaST Journal)
pag. 2
È morto il compagno Tito. Era il 4 maggio 1980, iniziava la dissoluzione
della jugoslavia, di Francesca Rolandi (Peacereporter)
pag. 5
Perché una terra dimentica il suo padre-padrone,
di Paolo Rumiz (La Repubblica)
pag. 7
La storia e la beffa, di Mauro Covacich (Il Corriere della Sera)
pag. 9
Inventò la Jugoslavia e un’unità impossibile,
di Sandro Viola (La Repubblica)
pag 11
La fine del sogno e dell’incubo jugolsavo,
di Anton Sbutega (New Montenegro)
pag. 13
La jugo-nostalgia dei croati, di Drago Hedl
(Osservatorio Balcani e Caucaso)
pag. 16
Una via al maresciallo Tito, di Stefano Lusa
(Osservatorio Balcani e Caucaso)
pag. 18
Tito, torna la nostalgia anche a Trieste, di Fausto Biloslavo (Il Giornale)
pag. 20
A trent’anni dalla morte di Tito, parla un nipote,
di Franco Quintano e Dragan Petrovic (Ansa)
pag. 22
Jovanka, la vedova di Tito costretta alla fame (Il Piccolo di Trieste)
pag. 23
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Introduzione: Trent’anni fa moriva Tito
MATTEO ZOLA – EaST Journal, 6 maggio 2010
Il 4 maggio 1980, Jozip Broz, detto Tito, Presidente della Repubblica federale socialista
jugoslava, si spegneva a Lubiana. Dopo di lui la Jugoslavia ha conosciuto un periodo di
conflitti senza precedenti sul suolo europeo dalla Seconda Guerra mondiale. A
trent’anni dalla sua morte è tempo di fare bilanci sull’eredità lasciata dal Maresciallo Tito.
Josip Broz Tito ha salvaguardato l’unità della Jugoslavia, un Paese creato a tavolino nel
1918, all’indomani del disgregarsi dei grandi imperi, nato dapprima come regno poi, dal
1945, divenuta Repubblica federale. “Jugoslavia” significa, appunto, “terra degli slavi
del Sud” e davvero questo Paese ha rappresentato un mélange etnico, confessionale e
linguistico. Alla morte del Maresciallo le tensioni latenti esplosero nelle guerre
balcaniche degli anni ’90.
Quelle tensioni, dunque, erano attive già durante la dittatura socialista, una dittatura che
seppe però evitare il massacro etnico. Oppure lo generò. La figura di Tito è oggetto di
controverse analisi storiche, il suo slogan fu “fraternità ed unità” ed effettivamente, in
almeno due casi, seppe stemperare le tensioni crescenti nel Paese. Nel 1971 le prolungate
proteste degli studenti croati, nell’onda lunga del ’68, animarono quella “primavera
croata” che Tito, invece di osteggiare, fece propria rinnovando buona parte della classe
dirigente della Repubblica (tranne, ovviamente, se stesso) e garantendo maggiori libertà
civili. Del 1968 fu anche la rivolta dei kosovari che, ritenendo insufficienti le autonomie
concesse da Belgrado, ne chiedeva in misura maggiore anche per la particolare
connotazione etnico-religiosa della regione. Il Kosovo era (ed è) a maggioranza albanese e
musulmana e la Federazione offriva ampie autonomie alle minoranze.
Attraverso la politica delle autonomie, il potere centrale jugoslavo riusciva a tenere
insieme realtà eterogenee. Ma insieme alla “carota” dell’autonomia c’era il “bastone” della
dittatura. Senza la violenza la Jugoslavia difficilmente sarebbe rimasta unita. Con la
violenza, dopo la morte di Tito, si è divisa.
Eppure Tito è sinonimo di Jugoslavia, ancora oggi vive nel ricordo dei nostalgici come
il leader che ha saputo garantire la pace nella regione. E non si tratta di una minoranza di
persone: la crudeltà della guerra ha edulcorato la memoria del dittatore portandolo
paradossalmente ad evere oggi più supporters di allora. Ai suoi funerali erano presenti
tutti i maggiori uomini di stato, proprio coloro che poco dopo scateneranno l’inferno della
guerra.
Raif Dizdarević era uno di quelli. Partigiano socialista e titino della prima ora, fu
l’ultimo ministro degli esteri della Jugoslavia unita, eppure -nel criticare la riforma
costituzionale voluta dal Maresciallo nel 1974- indica in Tito il responsabile delle guerre
balcaniche degli anni Novanta. Quella riforma infatti, oltre a fare del Maresciallo il
Presidente “a vita” del Paese, garantiva maggiori autonomie agli stati membri della
fedeerazione. Questo perché in Slovenia e Croazia -i due membri più ricchi- montava un
malcontento che avrebbe potuto anche risolversi in violenza. Per scongiurarla, la pressione
fiscale nei confronti dei due Paesi diminuì ma mancarono -questa l’opinione di Didzarevicmisure a sostegno dei membri più deboli. Il divario economico presto alimentò il
nazionalismo, che portò alla guerra di cui Tito sarebbe, allora, diretto responsabile.
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Divergenze che oggi non sono solo materia per accademici. La guerra ha lasciato il suo
segno creando un nuovo equilibrio etnico, una volta terminata. Un equilibrio che non
sappiamo quanto si possa ritenere stabile. La Bosnja, che vedeva convivere all’epoca di
Tito, croati, serbi e musulmani, oggi è un Paese a maggioranza musulmana. Le
moschee di Sarajevo vengono finanziate da Teheran, con evidenti ricadute (geo)politiche.
I serbi di Bosnja vivono nel loro “stato nello stato”, quella Repubblica Srpska nata dopo
gli accordi di Dayton del 1995.
La Bosnja potrebbe dunque profilarsi nuovamente come “polveriera dei Balcani”? Mentre i
leader di Serbia e Croazia cercano di costruire una memoria condivisa, capace di
superare le barriere dei nazionalismi, facendo dell’esperienza della guerra un patrimonio
storico comune, ancora dibattuta restano la figura di Tito e le sue responsabilità
politiche.
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"E' morto il compagno Tito". Era il 4 maggio 1980:
iniziava la dissoluzione della Jugoslavia
FRANCESCA ROLANDI – Peacereporter, 6 maggio 2010
Il pomeriggio del 4 maggio del 1980, quando gli arrivò una telefonata dalla redazione che
diceva semplicemente: "Vieni e porta il vestito nero", il giornalista di Tv Beograd Miodrag
Zdravković capì immediatamente quello che era successo. A febbraio, infatti, quando al
leader 88enne fu amputata una gamba, era stato designato per dare la notizia della morte
di Tito, quando sarebbe arrivata.
Gli venne proibito di allontanarsi da Belgrado e gli fu richiesto di essere sempre reperibile
telefonicamente. Il vestito e la cravatta neri già da tempo attendevano nell'armadio. I suoi
ospiti che erano in visita nel suo appartamento quel pomeriggio capirono immediatamente
dalla telefonata che qualcosa di grave si era verificato e lui, che non poteva farne parola con
nessuno prima che l'annuncio ufficiale venisse dato, dovette chiedere alla moglie di
trattenerli nell'appartamento finché non lo avrebbero visto in televisione. "Non ho pianto"
racconta oggi Zdravković al quotidiano Danas "ma è stato toccante e difficile. Finiva
un'epoca, tutti avevamo paura, per l'incertezza. Come se in qualche modo avessimo
presentito che si sarebbe arrivati a qualche rottura". Iniziò a parlare dopo una lunga
indecisione: "E' morto il compagno Tito. Lo hanno comunicato stasera il Comitato centrale
della Lega dei comunisti jugoslavi e la Presidenza della Repubblica federativa socialista di
Jugoslavia alla classe operaia, ai lavoratori e ai cittadini, ai popoli e alle nazionalità della
Sfrj".
La salma venne trasportata sul treno presidenziale da Lubiana a Belgrado, dove fu
seppellita con un mastodontico funerale, al quale parteciparono 700.000 persone, 209
delegazioni da 127 paesi, nella Casa dei Fiori, adiacente al Museo della Jugoslavia.
Piangevano gli jugoslavi, piangeva la vedova separata Jovanka, esultavano gli oppositori, la
maggior parte dei quali era stata fino a quel momento nell'ombra. Già allora, sebbene non
si potesse prevedere il dramma che avrebbe investito il paese a poco pù di un decennio,
l'evento venne percepito come un salto nel buio. Il "più grande figlio dei nostri popoli e
delle nostre nazionalità", al quale veniva tributato un vero e proprio culto da parte
dell'establishment, rappresentava indubbiamente un collante per la Federazione.
Seguirono gli anni '80, ancora segnati da un certo benessere che però aveva i giorni contati,
poiché il paese era strozzato dai debiti. Crescevano i nazionalismi, che avrebbero
alimentato la dissoluzione violenta del paese. La figura del maresciallo venne sottoposta a
violente critiche e la storiografia iniziò una revisione della vulgata socialista cadendo
spesso nell'estremo opposto di un anticomunismo di maniera.
Secondo le dichiarazioni del custode della Casa dei fiori, negli anniversari della morte di
Tito a ridosso della sua morte un gran numero di persone (10-15.000) si sarebbe riversato
sulla tomba dell'ex presidente a vita, tale numero sarebbe calato drammaticamente negli
anni '90 e risalito fortemente negli ultimi anni. La cifra fornita dall'agenzia serba Tanjug
riporta un numero eccezionale di visitatori dal 1980 ad oggi (20 milioni) pari al numero di
abitanti che aveva il paese forgiato dal maresciallo.
Il 4 maggio del 2010 alla Casa dei Fiori si è riunita una grande folla proveniente da tutti i
paesi della ex Jugoslavia, colorata da una simbolistica - dai berretti da pioniere alle
staffette, dalle decorazioni militari alle t-shirt - che si ispira ai tempi passati. Un
rappresentante del Ministero degli Interni ha depositato una corona con dedica a Josip
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Broz Tito, è stato applaudito il nipote del leader, di recente fondatore di un rinato partito
comunista, mentre è stata fischiata la delegazione dei socialisti. La gente comune ha
raccontato ai giornalisti come è stata raggiunta dalla notizia 30 anni prima. La signora
Lucija di Travnik, Bosnia Erzegovina, ha ricordato come, mentre passava vicino a una
caserma, sentì la notizia e subito dopo tutti i soldati iniziarono a piangere e lei con loro.
Altre celebrazioni minori si sono svolte in luoghi simbolici: il villaggio di Kumrovac, dove
Tito nacque (visitato ogni anno da 70.000 visitatori), la statua del maresciallo a Sarajevo,
dove durante l'assedio furono sempre stati depositati dei fiori. La "titomania" sembra
essere più forte in Bosnia Erzegovina, il paese dove la situazione politica è più paralizzata e
i decenni del socialismo hanno rappresentato un lungo periodo di armonia tra le varie
comunità. Sul suo territorio esistono oltre 40 associazioni dedicate al Maresciallo Tito
quest'anno, per la prima volta, due membri dell'associazione mostarina si sono guadagnati
le pagine dei giornali commemorando la ricorrenza con un viaggio in motorino da Mostar a
Belgrado. Dal sito slobodnajugoslavija.com, anch'esso con base a Sarajevo, si possono
inserire i propri dati e vedere come sarebbe stato il proprio passaporto se ancora esistesse
quello rosso jugoslavo. In Serbia, invece, secondo l'ultimo censimento, ci sono 80.000
cittadini che ancora si dichiarano "jugoslavi", anche se ovviamente la nazionalità jugoslava
non è riconosciuta dalla legge. E dalla nostalgia per la Jugoslavia socialista non sono
immuni nemmeno le prime due repubbliche a staccarsi dalla Federazione, Slovenia e
Croazia, dalle quali proviene un gran numero dei pullman che ogni anno fa visita alla Casa
dei fiori.
Se nel caso dei vecchi comunisti il sentimento che li lega al defunto leader si basa su un
orientamento politico sopravvissuto ai mutamenti dei tempi, nella maggior parte dei casi la
nostalgia per la Jugoslavia socialista, la Jugonostalgija, sembra essere in primis una
nostalgia per un tempo in cui le condizioni economiche erano migliori, il prestigio
internazionale alto e il passaporto con la stella rossa era buono per attraversare (quasi)
tutte le frontiere dell'est e dell'ovest. "Stavate meglio quando eravate compagni che adesso
che siete signori" è uno slogan ripetuto, cha fa riferimento al titolo di cortesia che veniva
allora preposto ai nomi: compagno presidente, compagno maestro. A ciò si aggiunge la
nostalgia per un paese più grande nel quale le diverse repubbliche avevano un vissuto
comune condiviso. Negli anni '90 la maggioranza di queste relazioni esistenti si sono
spezzate e tornare con il pensiero alla Jugoslavia richiama uno spazio comune e una serie
di esperienze (trasferimenti di lavoro, vacanze al mare, amicizie...) al di fuori dei limiti
della propria repubblica. Per i più giovani valgono i ricordi degli altri, ma è interessante
notare che spesso proprio dai settori più liberali sono arrivate le spinte a riscoprire un
patrimonio condiviso e messo in ombra dai partiti nazionalisti giunti al potere negli anni
'90. Basti citare il progetto Ex Yugo Leksikon, che cerca di rispondere alla questione
dell'identità jugoslava attraverso il recupero della cultura pop - dal design all'iconografia
politica alla musica rock - di un paese che non esiste più. Un serio dibattito critico sulla
figura di Josip Broz è ancora ben lontano dal cominciare, ma il suo ricordo nella mente di
molti diventa un tutt'uno con quello di un periodo migliore di quello attuale, nel quale il
suo ritratto sovrastava uffici pubblici e scuole.
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Perché una terra dimentica il suo padre-padrone
PAOLO RUMIZ - La Repubblica, 7 maggio 2010
Un puttaniere, un brigante, un impostore. Il diavolo in persona. Trent´anni
dopo la sua morte - 4 maggio 1980 - Tito e ciò che resta della sua leggenda sono fatti a
pezzi. Quello che fu il suo Paese, ora diviso in nazioni sommerse di debiti, lo rinnega.
Accade persino in Bosnia, sulle montagne dove nacque il mito partigiano. Accade anche in
Serbia, pur macerata da una strisciante Jugonostalgija. E succede soprattutto a Belgrado,
l´ex capitale, epicentro della dissoluzione esplosa dieci anni dopo la morte del padre
padrone. I pellegrinaggi di massa alla tomba marmorea nella «casa dei fiori» nel quartiere
di Dedinje sono finiti, in Serbia alcune statue cominciano essere tolte dalle piazze, le vie a
lui intitolate cambiano nome e la vedova ottantacinquenne Jovanka langue dimenticata in
un condominio. Josip Broz, chi era costui? Ma ora il potere non si limita più a ignorarlo, ne
incoraggia la denigrazione.
«La lezione della guerra non è servita», sorride Milutin Jovanovic, serbo che
studia Scienze politiche in Italia ed è nato a Nis durante il conflitto balcanico. «Trionfa
tutto ciò che lui aveva bandito: vessilli, identità regressive, fascismi». Ora i giornali
dedicano paginate a Draza Mihajlovic (acerrimo nemico di Tito e capo dei nazionalisti
serbi nella Seconda guerra mondiale, ndr) e i pellegrinaggi si fanno semmai sulla tomba di
Slobodan Milosevic, l´ex leader morto in prigione all´Aja. La gente va lì, con candele
accese, nella casa di Pozarevac sul Danubio a rendere omaggio a colui che ha trascinato la
Serbia nel disastro. Ancora Milutin: «Pare quello che accade in Italia con Garibaldi. Anche
il nostro mito unitario è denigrato con argomenti clericali e separatisti… Lo accusano di
avere odiato i serbi e di aver voluto unire ciò che era impossibile tenere assieme». Sei
nazionalità, quattro religioni, tre alfabeti e una decina di lingue diverse. Tra il popolo è
facile che torni il rimpianto per i tempi «in cui Dio camminava sulla terra», quelli in cui la
Jugoslavia era l´unico Paese comunista sinonimo di pacchia. «La classe media è sparita, e i
vecchi si sono visti portar via tutto dai tempi nuovi, dunque vivono Tito con rimpianto»,
spiega lo scrittore Dragan Velikic, i cui libri (prossimamente La finestra russa) sono
entrati da un anno nel mercato italiano. «Ma per i teenager quello è solo un nome da
parole crociate».
«Frammenti da un passato migliore», così il settimanale liberale Vreme titola
un reportage sulla memoria dei vecchi tempi. Ma la denigrazione del padre fondatore della
Slavia del Sud parte dalla nuova nomenklatura e non dal popolo. «Era un croato», dicono,
e non importa se era vissuto tanto a Belgrado. Il resto discende da questo peccato etnico:
era un «satrapo pieno di ville», un adoratore dei «sigari costosi». Un amante delle
«massaggiatrici», che allora non si chiamavano ancora escort. C´è chi ne mette in
discussione persino l´anagrafe, gli imputa di essere un falsario, un mentitore. Tito non era
il figlio di un contadino croato e di una slovena, ma - dicono - un polacco immigrato che
aveva cambiato identità. A suffragio di questa ipotesi si cita la sua perfetta conoscenza
della lingua polacca, e il certificato di morte di un altro Josip Broz (quello vero) morto
impallinato nei Carpazi con la divisa austro-ungarica nella Grande Guerra. Certificato
sospetto, che pare sia stato rinvenuto nella casa di Tito solo dopo la sua morte. Nemmeno
Jovanka, la moglie, va più sulla tomba di lui, e non per questioni anagrafiche. Ha
dichiarato al giornale Politika: «Ho paura di incontrare qualche funzionario statale che mi
imponga di firmare una carta con la quale lasciare i miei ultimi averi allo Stato». Dopo
queste parole, apriti cielo: si è ricominciato a fantasticare su un tesoro di due miliardi di
dollari lasciato da Tito in una banca svizzera, e sul fatto che a Jovanka sarebbe tuttora
negato il passaporto proprio per impedirle di metterci le mani.
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Delle contestazioni serie alla figura dello statista non parla più nessuno. Della
burocrazia pletorica messa sotto accusa dal suo delfino ribelle Milovan Djilas. Del fatto che
egli accrebbe le divisioni interne della Jugoslavia per rafforzare il potere personale, oppure
dell´aberrante sistema di voto nel gioco delle sei repubbliche federate, che sembrava
costruito apposta - osserva lo storico Predrag Markovic - per paralizzare il Paese. E
nemmeno delle vendette postbelliche compiute in suo nome gettandone le vittime nelle
foibe, dalla frontiera italiana a quella greca.
Tito. La cricca che tiene la Serbia in ostaggio ha paura del suo nome e persino
della sua ombra; e da qualche tempo l´ombra si è rifatta viva proprio a Belgrado,
attraverso il nipote omonimo Josip, 63 anni, figlio di Zarko, il primogenito del maresciallopresidente. Da quando il nuovo Broz, chiamato Joska, ha deciso di entrare in politica e
raccogliere le diecimila firme necessarie a presentarsi alle prossime elezioni, è scattato
l´ostruzionismo.
Quello che Tito junior rappresenta e dice dà fastidio, in un Paese col quindici per cento di
disoccupati. La Serbia, ripete Joska, ha triplicato il debito proprio da quando sono partite
le privatizzazioni e le cosiddette riforme democratiche. «Ogni giorno ricevo
incoraggiamenti da mezza Jugoslavia - ha detto Broz a Radio Serbia - e i giovani stanno
avvicinandosi al mio partito». Nel programma, un secco «niet» sia all´Europa sia alla
Nato. Negli spazi di Facebook Tito sopravvive, ma nei dibattiti dei giovani, divisi tra odio e
amore; uno dei siti denuncia 30mila iscritti. Negli indirizzi internet la «yu» è scomparsa
solo pochi mesi fa e in Serbia ci sono ancora aziende di nome Jugoservis, Jugostroj o
Jugostil. E parecchi alberghi Jugoslavija.
A Sarajevo esiste un caffè Tito, con elmetti che fanno da portalampade, appesi
al soffitto. L´orologio è fermo sull´ora e il giorno della morte di Lui, 03.05 del 04.05.80,
ma per i ragazzi attaccati al bancone quel numero è solo una cabala del tempo che fu.
«Mismo Walter», noi siamo tutti Walter, inneggiavano solo 18 anni fa altri giovani
sarajevesi per fermare la guerra etnica in arrivo, ripetendo uno dei nomi clandestini di Tito
partigiano. Erano oltre centomila, e avevano invaso la città con le bandiere della pace. Oggi
è tutto cambiato. L´antifascismo si è ridotto a rituale ripetitivo e il bunker di Tito a sud di
Sarajevo sarà aperto ai turisti per necessità di cassa. Anche qui, celebrazioni in tono
minore per l´uomo che elesse la Bosnia a roccaforte della Resistenza.
Solo in Croazia, dove Josip Broz è nato, tira un´aria diversa. La Tv gli ha
dedicato dodici puntate con la sua storia, dalla nascita nel villaggio di Kumrovac fino alla
morte a Lubiana; poi c´è una grande rassegna retrospettiva di film jugoslavi, inclusi quelli
banditi dal regime di Tito, che ha visto un successone di pubblico e la partecipazione di
tutte le ex repubbliche federate. «Tito, wanted», stava scritto ironicamente sullo Jutarnji
List: ricercate «colui che ha dato lavoro agli operai e cultura alla gente». Le isole Brioni,
davanti a Pola, dove il Capo passava le vacanze in compagnia dei grandi della Terra o
famosi attori come Richard Burton e Liz Taylor, sono in vendita, ma il museo e la villa di
Tito rimangono monumento nazionale. A Kumrovac la casa natale del presidente resta
un´attrazione all´interno di un villaggio restaurato che Zagabria ha trasformato in museo
all´aperto. In paese le sirene sono suonate anche stavolta, alle 3.05, come trent´anni fa, a
ricordare il momento in cui la Jugoslavia rimase vedova del padre fondatore.
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La storia e la beffa
MAURO COVACICH – Il Corriere della Sera, 21 marzo 2005
Le dico: «Nonna, sai che è tornata la scritta Na Tito sul monte Sabotino?». Mia nonna
stacca un attimo lo sguardo da Domenica in e mi risponde: «E dov' è il monte Sabotino?».
Na Tito invece sa cosa significa. Lei, istriana di Orsera, sposa di un cannoniere della
Marina che si è portato il ritratto di Mussolini fino a Trieste, lei italianissima figlia di
contadini italianissimi, sa comunque cosa significa. Quell' espressione era dentro le
canzonette che cantavano i drusi quando scendevano in paese a far baldoria. Le sue figlie mia madre, mia zia - le canticchiavano anche in casa, per la felicità di mio nonno. Na Tito,
Na Tito, nostro Tito. «Tito non era nostro, ma tua zia si tirava dietro tua madre (tu mare)
alle feste, non se ne perdevano una, ballavano come matte».
I miei nonni sono partiti per Trieste nel ' 49. Non erano certo dei simpatizzanti di Tito, ma
non sono fuggiti, non sono stati scacciati. Se ne sono andati perché mia madre si era
ustionata un piede e in più di sette mesi non avevano trovato un medico in grado di
curarla. Ecco cosa ricorda mia nonna «fascista», ricorda la miseria, l' arretratezza di quei
primi anni di regime titino, non la furia genocida, non le foibe. Le foibe sono una sciagura
umana, vanno riesplorate, raccontate, analizzate nei libri di storia, ma non rappresentano
che in minima parte i rapporti tra la popolazione italiana e quella iugoslava, né dell' epoca
né di oggi. Esattamente come non li rappresenta il nostalgico revanscismo di quella
cinquantina di sloveni che notte tempo hanno ricostruito, masso dopo masso, la scritta che
grida - un po' striscione ultras, un po' HOLLYWOOD sulle colline di Los Angeles - il suo
intransigente bagliore verso Gorizia. Decine e decine di pietre del peso di cinquanta chili
l'una, ridisposte con cura certosina sulla parte meno cespugliosa della pendice Sud, per un'
estensione di venticinque metri di altezza e cento di lunghezza. Un lavoro che sa tanto di
risposta, di replica: sul monte Sabotino prima c' era un' innocua sigla SLO, composta il 25
giugno scorso per celebrare l' indipendenza della Slovenia. Ma prima non c' erano neanche
i rigurgiti pseudo-foibologisti delle fiction televisive, non c' erano neanche le
strumentalizzazioni di un dramma misteriosamente rimosso per cinquant' anni tanto da
sinistra che da destra.
Il «Cuore nel pozzo» è stato trasmesso anche dalla tv slovena. I sindaci del litorale sloveno
stanno preparando un documento di condanna per come sono stati raccontati i fatti. E'
ovvio - si tratta dell' ovvietà dei comportamenti umani - che qualche partigiano titino, di
quelli che cantavano alle feste con mia zia e mia madre senza aver mai infoibato nessuno,
finisse per alzarsi dal divano, spegnere la tv e tornare nei boschi a riscoprir vessilli. Na
Tito, Na Tito. Questa terra di tutto ha bisogno tranne che di rivangare, sarebbe bene che i
cantori della memoria (fino a ieri smemorati) lo tenessero a mente. I problemi veri sono
quelli del presente. Sono, semmai, quelli della nostra omologazione, non della nostra
diversità. Se uno si fa un giretto per i casinò di Nova Gorica, così sinistramente uguali a
una qualsiasi delle nostre aree suburbane di svago, trova i pescatori di vongole di Chioggia,
i mobilieri di Oderzo, i giocatori veneti, i poveri coi soldi, modelli di riferimento per i
giovani sloveni, che pensano alla nuova fratellanza europea come via d' accesso per quel
tipo di benessere, quel tipo di felicità. Certo, una fiction ambientata sulle Alpi Giulie di oggi
sarebbe meno eroica, gronderebbe meno sangue, risulterebbe senz' altro meno seguita, ma
magari aiuterebbe a capire di più chi siamo, cosa siamo diventati. Oggi la vanga non serve
e quella scritta sul monte sarà presto mangiata dalle piogge. Riconsegno mia nonna a
Domenica in e me ne vado con la convinzione che il monte Sabotino meriterebbe un film di
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Kusturica - con il prima e il dopo, con le scritte di pietre e il ritratto di Mussolini nel
cassetto di mio nonno, con i drusi, mia zia, mia madre che ballano in piazza a Orsera - ecco
cosa meriterebbe questo pezzettino d' Europa, più di mille ricostruzioni ad uso
propagandistico. www.maurocovacich.it Le tappe 1945 Finita la Seconda guerra mondiale,
nasce la Repubblica popolare e federale della Jugoslavia con a capo Josip Broz, detto Tito
(nella foto): la Slovenia vi aderisce come repubblica federata 1991 Nella primavera del ' 90
la Slovenia è la prima Repubblica jugoslava a indire elezioni libere e a porre fine a 45 anni
di comunismo. In seguito a un referendum, il 25 giugno 1991, proclama la sua
indipendenza. L' anno dopo il nuovo Stato è riconosciuto dalla Comunità europea 2004 Il
16 aprile 2004 la Slovenia firma ad Atene la sua adesione all' Unione europea. Il 1° maggio
ne entra a far parte a tutti gli effetti insieme ad altri nove Paesi.
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Inventò la Jugoslavia e un’unità impossibile
SANDRO VIOLA –La Repubblica, 7 maggio 2010
Quando a noi giornalisti stranieri era consentito di vederlo da vicino, in occasione della
visita d´un capo di Stato o di governo nella sua residenza del Palazzo Bianco a Belgrado, il
nostro sguardo andava subito alla sua uniforme. Pur non essendo pagliaccesche come le
"mises" di Muhammar Gheddafi, le uniformi del Maresciallo Tito non si potevano certo
dire, infatti, sobrie. Intanto erano numerose, cambiavano continuamente: e i colori, i
medaglieri, le cinture, gli stivali erano tali da stupire quasi sempre gli astanti. Per primo
Winston Churchill, quando i due s´incontrarono a Napoli nell´agosto del 1944 sul terrazzo
di villa Rosenberg, residenza del comandante alleato in Italia, il generale Alexander.
Churchill indossava un vestito di lino bianco un po´ stazzonato, Tito una delle sue prime,
pretenziose uniformi da Maresciallo.
E infatti il premier inglese chiese, dopo l´incontro, ai suoi collaboratori: «Ma non mi
avevate detto che combatte contro i tedeschi in montagna? S´è dunque portato in
montagna anche il sarto?». Milovan Djilas, il suo ex amico e compagno di lotta, che
sarebbe più tardi divenuto il critico implacabile del comunismo burocratico nella versione
jugoslava, attribuiva a Tito «una sete di decoro, lusso, pompa». E questa sete, non c´è
dubbio, fu un tratto molto preciso e ben visibile della personalità di Tito. Già negli anni
Sessanta, il Maresciallo viveva tra il Palazzo Bianco e le altre residenze ufficiali (tra le quali
c´era quella da lui più amata, la villa nell´isola di Brioni) come un sovrano balcanico del
periodo tra le due guerre. Pranzi, cacce, crociere sul panfilo di Stato. E la mania delle
uniformi pittoresche, unita ai capelli tinti d´un incredibile rossastro, facevano pensare,
quando appariva in pubblico, all´incedere d´un baritono da operetta.
Questa eccessiva, discutibile, un po´ patetica cura dell´aspetto, e i lussi di cui si
circondava, erano la sua unica debolezza. In essa entravano sicuramente la memoria della
sua infanzia povera nella campagna croata, ma forse ancora di più i ricordi degli stenti, del
carcere, dei tremendi pericoli vissuti prima da giovane rivoluzionario comunista, e dal 1941
al 1945 in montagna, a capo della resistenza jugoslava contro l´invasione nazi-fascista: la
sola resistenza in tutta Europa che combatté aspramente contro la Wehrmacht non solo
con azioni di guerriglia, ma in vere e proprie battaglie campali.
Benché con gli anni si fosse fatto molto corpulento, con i medici impegnati a controllarne
attentamente le condizioni cliniche, i suoi biografi concordano sull´eccezionale vigoria
fisica di Tito ancora dopo gli ottant´anni. Mangiava molto. C´è la testimonianza del
proprietario d´un albergo nel sud della Francia, dove il Maresciallo pernottò una volta
dopo un incontro a Parigi con de Gaulle. «Alla prima colazione servimmo - secondo le
richieste dei suoi accompagnatori - minestra di cavolo, salsicce, pollo arrosto». E
l´appetito non si limitava al cibo. Negli anni in cui i giornalisti stranieri bazzicavano molto
Belgrado (dove s´era formata, all´ombra del titoismo, una delle più esperte, intelligenti
diplomazie europee), la capitale jugoslava era percorsa da una quantità di voci sulle
capacità amatorie del Maresciallo. Giovani attrici introdotte segretamente a Palazzo
Bianco, belle segretarie che chiamate nel suo ufficio vi restavano molto più del tempo
necessario a sbrigare una pratica.
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Le donne, racconta Gilas, gli erano sempre piaciute giovani e belle. Lo era la russa
Pemagija Bjelussova, che Tito aveva sposato quando era prigioniero in Siberia durante la
Prima guerra mondiale. Lo erano Herta Hass e Davorjanka Paunovic, due giovani con cui
Tito convisse con ciascuna vari anni ma senza sposarle, e così anche l´ultima moglie,
Jovanka Budisavljevic. Su costei Djilas avanza, nella sua biografia del Maresciallo, il
sospetto che gli fosse stata messa attorno da Rankovic, il potente capo dell´Udba, la polizia
politica, con funzioni di sorveglianza e controllo. L´ipotesi è credibile? Difficile dirlo, ma è
vero che nei Paesi comunisti (e la Jugoslavia, nonostante la sua indipendenza da Mosca a
partire dal ‘48, era un Paese a sistema comunista) cose come questa potevano
tranquillamente accadere.
Ma detto delle sue debolezze e appetiti, qualcosa bisogna anche dire della grande statura
politica di Tito. Intanto l´aver dato per 35 anni una parvenza di unità, d´identità
nazionale, a un mosaico composto da sei repubbliche, cinque etnie, quattro lingue, due
alfabeti e tre religioni. Già questa fu un´opera meritoria, anche se realizzata attraverso
l´uso d´una ubiqua, possente polizia politica. Ma c´è di più: nessun Paese salvo le grandi
potenze ebbe in Europa, tra la metà dei Cinquanta e la metà dei Settanta, tanto spicco
internazionale, prestigio e peso diplomatico come l´ebbe la Jugoslavia comunista.
Agli occhi dell´Occidente, il Maresciallo appariva infatti come l´uomo che nel ‘48, d´un sol
colpo, era riuscito a fermare la spinta russo-sovietica verso l´Adriatico e il Mediterraneo,
oltre a mandare in frantumi il mito dell´unità del campo comunista. Con Tito, la
Jugoslavia non era più la marginale, pretenziosa monarchia balcanica dell´"entre deux
guerres", una pedina nel gioco delle sfere d´influenza condotto dai governi europei. Era
divenuta una nazione che svolgeva un ruolo-chiave sulla scena internazionale dominata
dalla Guerra fredda. E lo svolgeva ad ampio raggio: dall´Oriente (con lo schieramento dei
"non allineati") all´Europa dove si fronteggiavano Usa e Urss. Un varco attraverso il quale
l´Est e l´Ovest poterono osservarsi, e in molti casi mediare.
Scrive Djilas: «Nel corso d´una conversazione che aveva per oggetto le forze che plasmano
la storia, affermai che sono le idee, il popolo, le masse a costituire il fattore decisivo. Tito
mi guardò con uno sguardo impaziente, poi disse: "Macché, macché! Molte volte il corso
della storia dipende da un´unica persona". Era evidente che pensava a se stesso». Quello
cui il Maresciallo non pensava in quel momento, era a quanto sarebbe successo dopo la sua
scomparsa.
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La fine del sogno e dell’incubo jugolsavo
ANTUN SBUTEGA – New Montenegro,
Molti politici e storici continuano a considerare la Serbia il nucleo ideologico e politico
della Jugoslavia, anche se questo non corrisponde alla verità storica. L’idea dell’unione
degli slavi occidentali non è nata in Serbia ma in Croazia. Le idee slavofile croate dell'epoca
barocca ( appoggiate dalla Chiesa cattolica in prospettiva di unione con la Chiesa ortodossa
per organizzare un potente fronte in grado di liberare l’Europa dagli ottomani) si sono
trasformate nel XIX secolo nell'illirismo e in seguito nel jugoslavismo. Parallelamente nella
Serbia, che nel 1830 era diventata un principato autonomo nell'impero ottomano, ha preso
radice l’idea della Grande Serbia, la potenza egemone dei Balcani, che era nello stesso
tempo un progetto politico ( elaborato nel 1844 del ministro Ilija Garasanin, ) uno
culturale ( elaborato dal linguista e storico serbo Vuk Karadzic) e uno spirituale (elaborato
della Chiesa ortodossa serba) che ha sviluppato il mito della Serbia celeste con una
missione particolare nella storia universale dell’umanità. In questo modo il nazionalismo
aggressivo è diventato la base dell’identità moderna dei serbi, e lo jugoslavismo non ha mai
avuto molto successo. Non solo la Serbia non nutriva il sogno di unirsi con gli altri popoli
in uno stato federale, ma l’egemonismo serbo è stato la causa principale di distruzione
delle quattro Jugoslavie : Regno jugoslavo 1918-1941, Jugoslavia socialista 1945-1991 , e di
due mini Jugoslavie, quella di Milosevic 1992-2003 e della Serbia - Montenegro 20032006
La Serbia è entrata nella Prima guerra mondiale con l’idea di costruire la Grande Serbia,
con la maggioranza della popolazione ortodossa che doveva comprendere, oltre la Serbia, Il
Kosovo, la Macedonia, il Montenegro, una parte dell’Albania, la Bosnia - Erzegovina e una
parte della Croazia con l’appoggio della Russia. Crollato l'impero dello zar con la
rivoluzione d’ottobre, la Serbia ha dovuto cambiare strategia e con la dichiarazione di
Corfù del 1917 il governo serbo ha accettato la proposta del Comitato jugoslavo: ( composto
dagli slavi meridionali dell’impero austro-ungarico e sostenuto dalla Francia e
dall'Inghilterra e dalla massoneria) la fondazione dello stato jugoslavo. Ma mentre gli
sloveni, i croati e montenegrini e altri popoli jugoslavi proponevano uno stato federale o
confederale, i serbi consideravano il nuovo stato come la Grande Serbia allargata.
Questo stato fu legittimato dalla Conferenza di Versailles. Mentre la Francia e l’Inghilterra
vedevano nel nuovo stato degli slavi meridionali una barriera verso il comunismo sovietico
e verso le ambizioni balcaniche italiane, l’Italia si opponeva decisamente perché vedeva
danneggiati i propri interessi nell’Adriatico orientale, garantiti dal trattato di Londra nel
1915.
Il nuovo stato, che doveva essere la realizzazione del sogno secolare dell’ unione degli slavi
meridionali finalmente liberi dal dominio dell’impero ottomano e quello degli
Asburgo, come anche dalle pretese egemonistiche russe, si trasformò subito in un incubo
per i popoli non serbi. La prima costituzione del 1921 impose uno stato centralizzato e
unitario, dominato dai serbi che nel 1929 si trasformò in una dittatura monarchica con
un regime repressivo che provocò il malumore dei popoli non serbi e di una parte degli
stessi serbi. Lo stato instabile e debole, in permanete crisi, non era stato in grado di
opporre una forte resistenza all’attacco tedesco, italiano ed ungherese del 6 aprile 1941 e
dopo 17 gironi la Jugoslavia fu occupata e smembrata.
Cominciò subito una rivolta contro le forze nazi-fasciste, ma anche una guerra civile ed
ideologica, sanguinosa e complessa che provocò più di un milione di morti, pulizie etniche
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e orrendi crimini. Infine i partigiani di Tito, che da un movimento di resistenza si
trasformarono in una forza politica con un grande ed efficiente esercito, uscirono vincitori
e riuscirono a liberare il paese, con un marginale appoggio degli alleati occidentali e
dell’Armata rossa.
Dopo lo strappo di Tito con l’Unione Sovietica di Stalin nel 1948, la Jugoslavia divenne
essenziale per l’Occidente nell’epoca della guerra fredda come una zona cuscinetto verso
l’impero sovietico nei Balcani e nell’Adriatico.
La Jugoslavia di Tito era una dittatura comunista, ma anche una repubblica federale, che
garantiva ad ogni popolo slavo una repubblica nazionale, con un grado di autonomia che
era destinato ad aumentare fino a trasformarsi in una specie di confederazione. Il Kosovo
con la maggioranza albanese diventò una regione autonoma, come anche la Vojvodina con
una popolazione mista. In questo modo la Serbia era tenuta sotto stretto controllo, come
anche le altre repubbliche.
La Jugoslavia godeva di un forte appoggio militare, politico ed economico dell’occidente
e Tito riusciva a governarla e a superare le frequenti crisi, usando il proprio carisma, il
partito comunista, l’ideologia, la polizia e l’esercito, e concedendo ai cittadini jugoslavi un
grado di libertà e di benessere molto superiore a quelli degli altri paesi comunisti, senza
rinunciare al comunismo.
Morto Tito e crollato il comunismo, la Jugoslavia, che perse inoltre la sua importanza
strategica per l’occidente, non riuscì a superare la crisi e ad avviarsi con una transizione
morbida verso la democrazia e l’economia di mercato.
La federazione jugoslava ricevette il colpo mortale dal aggressivo nazionalismo serbo che
trovò il suo leder in Slobodan Milosevic che si oppose alle spinte lieberal democratiche
e filioccidentali e alle riforme economiche e, volendo conservare il sistema comunista
intendeva nello stesso tempo imporre l’egemonia serba, creando un ideologia nazional
comunista, con l’appoggio dell’esercito federale. L’intransigenza serba spinse la Slovenia e
la Croazia, seguite da altre repubbliche, eccetto il Montenegro, di scegliere l’indipendenza e
la Serbia rispose con un’aggressione armata e con pulizie etniche dando inizio a dieci anni
di guerre. La Serbia e il Montenegro proclamarono nel aprile del 1992 la terza
Jugoslavia con l’intenzione di unire a se gli altri territori conquistati in BosniaErzegovina e in Croazia.
Anche questa Jugoslavia era una dittatura, nonostante che salvaguardasse le apparenze
democratiche ( una democratura), fu condannata per l’aggressione, isolata dalla comunità
internazionale e colpita dalle sanzioni economiche dell’Onu. La carneficina jugoslava è
stata possibile grazie alla complicità della comunità internazionale e delle sue istituzioni,
come l’ONU e l’OSCE e soprattutto delle potenze europee, Francia, Inghilterra ed Italia, e
anche della Russia, che per diversi piccoli interessi e per mancanza di capacità e di voglia,
non fecero praticamente niente per impedire la guerra e poi per fermarla. Solo quando nel
1995 gli Stati Uniti decisero finalmente di scendere in campo usando una combinazione di
intervento armato e diplomazia coercitiva gli europei si allinearono e le guerre in Bosnia e
in Croazia furono fermate .
Dopo gli anni dello stato d’assedio imposto dai serbi agli albanesi nel Kosovo, nel 1998
cominciarono le azioni dei piccoli gruppi di guerriglieri albanesi dell’UCK e i serbi
risposero con la violenza sproporzionata e con la solita pulizia etnica. Questa volta gli Stati
Uniti , falliti i tentativi diplomatici di trovare una soluzione pacifica , reagirono presto,
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(seguiti sempre dagli alleati occidentali, anche se molti controvoglia, come l’Italia), con i
bombardamenti aerei di 78 giorni che infine costrinsero i serbi a cedere.
Nell’ottobre del 2000, grazie al lavoro accurato degli servizi segreti e dei diplomatici
occidentali , soprattutto americani, Milosevic perse il potere sostituito da Vojislav
Kostunica. Ma la Serbia non aveva rinunciato al suo nazionalismo ancestrale che ha
provocato tante tragedie . Oramai non era in condizioni di realizzare il progetto della
Grande Serbia con le armi ma l’elite serba credeva ancora di poterlo realizzare con i mezzi
politici . Il riformista fiilooccidenatle, il premier serbo Zoran Djindjic che voleva chiudere
con il passato ed attuare un cambiamento radicale , fu ucciso .
Cosi anche la terza Jugoslavia si trovò in crisi e nel 2003 fu trasformata in una specie di
confederazione tra la Serbia e il Montenegro. Neanche questo stato riuscì ad essere stabile
e funzionale: il persistente egemonismo e nazionalismo serbo ebbero come effetto il
rafforzamento della voglia dell’indipendenza nel Montenegro, e così con il
referendum del 21 maggio la travagliata e sanguinosa storia della Jugoslavia dopo 88
arrivò alla fine.
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La jugo-nostalgia dei croati
DRAGO HEDL – Osservatorio Balcani e Caucaso, 16 giugno 2004
Rimpianto di una migliore qualità della vita e espressione di appartenenza ad un comune
milieu culturale, la jugo-nostalgia esula da una sfera unicamente politica e coinvolge vecchi
e giovani. Che ora dicono: "Era meglio".Neppure un mese fa, il 25 maggio, gente comune e
ex combattenti partigiani hanno celebrato il compleanno di Josip Broz Tito, il presidente
jugoslavo morto nel 1980, a Kumrovec, suo luogo di nascita. Ora, il 22 giugno prossimo,
Zagabria ospiterà la presentazione del libro “Lessico della mitologia jugoslava”. I due
eventi, apparentemente non collegati fra loro, dimostrano che una parte della popolazione
croata continua a serbare una certa nostalgia per la Jugoslavia, il rimpianto per la vita
nell’ex Stato dei Serbi, Croati, Bosniaci, Sloveni, Montenegrini, Macedoni e Albanesi.
Mentre il raduno nella Kumrovec di Tito, luogo che una volta rappresentava la meta
obbligatoria di gite scolastiche, rappresenta una cerimonia quasi rituale dei rimanenti
antifascisti, il libro che verrà presentato a Zagabria è una vera enciclopedia della jugonostalgia. Uno degli editori, Đorđe Matić, di Zagabria, afferma che questo libro, piuttosto
corposo, con le sue 400 pagine e quasi un migliaio di note, è un promemoria di ogni cosa
che i cittadini della ex Jugoslavia ricordano ancora oggi con rimpianto a proposito dei suoi
50 anni di esistenza. Tra le mille voci del “Lessico della Mitologia Jugoslava” ci sono
notizie sulla prima macchina jugoslava, la italiana Fiat 750, costruita sotto licenza; i viaggi
a Trieste per comprare beni dell’Europa occidentale che non si potevano trovare nei negozi
della Jugoslavia; i primi gruppi rock jugoslavi; le vacanze di massa nelle residenze estive
dei lavoratori, i viaggi delle squadre di lavoro giovanili, e personalità come quella del
presidente Tito.
La nostalgia per la Jugoslavia è davvero così diffusa nella società croata odierna? La
questione è stata nuovamente sollevata quando i voti della Croazia hanno assegnato il
massimo dei punti alla canzone della Serbia e Montenegro al festival della canzone
Eurovision, che si è tenuto a Istanbul all’inizio di maggio.
Se una cosa simile fosse capitata solo 5 o 6 anni fa, durante la presidenza di Franjo
Tuđman, si sarebbero avute grandi reazioni da parte dei politici e commenti sui giornali e
le televisioni controllati dal governo, che avrebbero definito l’episodio come un tradimento.
Allo stesso tempo, si sarebbe lanciata una battaglia contro le “forze non ancora sconfitte”
che rifiutano di vedere la Croazia come un Paese autonomo, sovrano e indipendente, e che
invece cercano di restaurare la Jugoslavia. In effetti, la jugo-nostalgia era considerata più
o meno come tradimento durante il governo autocratico del presidente croato Franjo
Tuđman (1990-1999). La paranoia di Tuđman aveva portato a cambiare i nomi delle
squadre di calcio, anche se i tifosi della popolarissima “Dinamo” di Zagabria, il cui nome
era stato cambiato in “Croazia”, continuavano a gridare il “sacro nome di Dinamo” durante
le partite. Tuđman aveva detto loro che se volevano tifare la Dinamo era meglio se si
trasferivano nella cittadina jugoslava di Pančevo, che aveva una squadra con lo stesso
nome.
Ogni qualvolta ci fosse stata una espressione pubblica di rimpianto nei confronti di
qualcosa che era bello nella Jugoslavia – fossero anche state cose assolutamente non
minacciose come la musica o il cinema – lo si etichettava come jugo-nostalgia. Uno jugonostalgico era meritevole di disprezzo e persona non gradita nella società croata. E
tuttavia, il fatto che oggi i Croati abbiano attribuito il massimo dei punti proprio alla
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canzone della Serbia e Montenegro non ha causato particolare turbamento. Allo stesso
modo, ora non c’è più molto trambusto rispetto alle magliette con l’immagine di Josip Broz
Tito che vengono vendute in molti mercati in Croazia.
“Le magliette sono acquistate soprattutto dalla generazione più giovane, quelli che non
erano neppure nati quando Tito è morto - ci dice un venditore al mercato di Osijek, la
quarta città più grande della Croazia, nel nord est del Paese. Vedono queste magliette così
come noi vedevamo quelle con il volto di Che Guevara, dice il negoziante, il cui commercio
sembra andare bene.”
“I film serbi si vendono bene - dichiara il proprietario di una videoteca di Vukovar, la città
croata che ha più patito durante la guerra tra Croazia e Jugoslavia nel 1991, e che è oggi
considerata come un simbolo della sofferenza della Croazia. Io credo che si tratti di jugonostalgia. La gente si sente più vicina a questi film che a quelli stranieri. Capiscono la
lingua, e le situazioni affrontate sono simili a quelle che vedono nel proprio Paese.”
Dražen Lalić, noto sociologo di Zagabria, ha un’opinione simile: “La jugo-nostalgia è un
sentimento molto comune in un segmento della popolazione, e non solo tra i più anziani,
ma anche tra i più giovani. Questi ultimi, tuttavia, lo sentono solamente a livello culturale,
e non politico”, spiega Lalić. “Dopo una lunga insistenza sul fatto che la Croazia appartiene
esclusivamente al milieu culturale della Europa centrale e mediterranea, ora diventa
sempre più evidente che, prendendo in considerazione lo stile di vita dei propri cittadini, la
mentalità, i simboli e tutto quanto costituisce la cultura, la Croazia appartiene anche al
milieu culturale balcanico. E noi associamo questo con la Jugoslavia, così che tutti quelli
che sentono come proprio questo milieu – perché ne comprendono la lingua e la vicinanza
culturale – vengono definiti jugo-nostalgici.”.
Lalić sostiene che gli jugo-nostalgici politici comprendono un numero poco significativo di
anziani e di persone che hanno perso le proprie posizioni politiche al momento della
divisione del Paese. Oggi, ricorda Lalić, le persone di questo tipo sono molto poche. “La
jugo-nostalgia esiste, ma la gente non rimpiange la Jugoslavia come ex Stato; rimpiangono
la qualità della vita di cui lì potevano godere. Credono che la vita fosse molto migliore in
Jugoslavia – erano più sicuri, avevano uno standard di vita superiore, un lavoro sicuro e un
miglior sistema sanitario di quello che hanno ora” - afferma Milanka Opačić, 36 anni, vice
presidente del partito socialdemocratico (SDP), un partito che i nazionalisti accusavano di
tendenze pro jugoslave mentre era al potere nel corso degli ultimi 4 anni.
Le parole della nota esponente politica della giovane generazione riecheggiano in quelle di
Josip Horvat, un pensionato, che lavorava per la grande ditta di Zagabria “Rade Končar”.
“Avevo un lavoro sicuro, una cosa che i miei figli non hanno; non dovevo pagare per la
assicurazione medica addizionale, cosa che i miei figli invece devono fare; potevo
camminare per Zagabria nel mezzo della notte, senza preoccuparmi del fatto che qualcuno
avrebbe potuto derubarmi, cosa che ora invece neppure oso fare. Era meglio, la vita era più
semplice e non c’erano così tanta criminalità e furti - dice Horvat.” I politici e i media
croati non spaventano più il pubblico con la possibilità di una restaurazione della
Jugoslavia, come durante i tempi di Tuđman. La Croazia si sta avvicinando alla Unione
Europea, nella quale spera di entrare nel 2007, insieme a Bulgaria e Romania. La
Jugoslavia viene ora considerata come un qualcosa di andato per sempre, un tentativo
politico fallito impossibile da resuscitare. Questo è il motivo per cui i rimanenti jugonostalgici in Croazia sono ormai considerati come dei romantici, non dei nemici dello
Stato, come durante il periodo del governo del nazionalista Franjo Tuđman.
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Una via al maresciallo Tito
STEFANO LUSA – Osservatorio Balcani e Caucaso, 14 maggio 2009
Lubiana presto potrebbe tornare ad avere una via intitolata al maresciallo Josip Broz Tito. Sino al 1991 al presidente della federazione jugoslava era stata destinata una delle
principali strade della capitale slovena, ma nell’ottobre di quell’anno il consiglio comunale
decise di rinominare quell’arteria con ben due nomi diversi: strada di Vienna e strada
slovena. La scelta pareva più in linea con quello che doveva essere il nuovo corso della
politica nazionale.
Era quello il periodo in cui si procedeva a rapidi passi verso il riconoscimento
internazionale della Slovenia. In tutto il paese si stavano cambiando i nomi di vie e piazze.
Dalle città sparirono quelle intitolate all’Armata popolare jugoslava ed in alcuni casi anche
i nomi legati al passato regime ed in genere alla Jugoslavia. In ogni modo non furono molte
le località che cancellarono Tito dal loro stradario. I cittadini erano stati a lungo educati al
culto del maresciallo ed il suo carisma aleggiava ancora in tutta la federazione jugoslava
che si andava sfaldando.
Per Tito, oggi, non si prospetta una via del centro di Lubiana, ma una semplice bretella che deve ancora essere costruita - nella zona nord della capitale. Per ora la nuova strada
avrebbe un solo numero civico. La proposta, che ha incassato luce verde in consiglio
comunale, ha suscitato da una parte soddisfazione e dall’altra accese proteste.
Da mesi in Slovenia, infatti, si è ripresa la polemica intorno a vicende legate alla Seconda
guerra mondiale. Ad accendere la miccia è stato il ritrovamento di centinaia di cadaveri in
una miniera nei pressi di Laško. Si trattava di soldati - inquadrati nelle formazioni
collaborazioniste slovene o croate - liquidati senza troppi complimenti alla fine del
conflitto. Le immagini di quelle cataste di salme avevano sconvolto il paese.
Subito sono stati messi sotto accusa i comunisti che nell’immediato dopoguerra, con la loro
polizia politica, esercitarono un controllo assoluto ed un potere arbitrario. Il presidente
dell’organizzazione dei reduci partigiani, Janez Stanovnik, ha maldestramente cercato
scaricare le responsabilità su Belgrado precisando che quegli eccidi erano stati perpetrati
“sotto il comando di Tito”. A quel punto il partito democratico, dell’ex premier Janša,
cogliendo la palla al balzo ha subito proposto di cancellare il nome di Tito dalle piazze e
dalle vie slovene e di spostare nei musei i monumenti che gli sono dedicati. Del resto, nel
2007, un ministro del suo governo si era persino preso la briga di criticare i giovani che
portavano magliette con l’effigie di Tito e con quella di “Che” Guevara.
La risposta più significativa gli è arrivata proprio dalla capitale slovena con la decisione di
intitolare una via a Tito. Il sindaco Zoran Janković non ha rischiato molto visto che un
sondaggio, fatto alla fine di marzo, rivelava che al 59% degli interpellati piaceva l’idea di
ridare il nome del maresciallo ad una strada della città. Le petizioni organizzate
dall’opposizione di centrodestra e le minacce di internazionalizzare la questione non hanno
fatto desistere l’amministrazione comunale dai suoi propositi.
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Nella società, del resto, il giudizio su Tito è ancora prevalentemente positivo. Tra i suoi
meriti si annovera quello di aver organizzato una delle più efficaci resistenze in Europa.
Dal punto di vista sloveno, però, quello che più conta è di aver consentito il cosiddetto
“ricongiungimento del Litorale alla madrepatria”. I detrattori del maresciallo cercano di
spiegare all’opinione pubblica che senza il comunismo si sarebbe potuto anche ottenere di
più, ma d’altra parte si ribatte che senza la resistenza non si sarebbe ottenuto nulla.
Per alcuni Tito non fu altro che un sanguinario dittatore che fece i conti prima con chi si
oppose alla rivoluzione ed all’instaurazione del potere popolare e poi con i propri
“compagni di strada”. Per altri invece seppe dire no a Stalin e divincolarsi dal soffocante
abbraccio offerto dal blocco sovietico. Il suo merito sarebbe stato quello di mantenere il
paese in bilico tra occidente ed oriente e di aver dato – con il Movimento dei non allineatiai Balcani un ruolo internazionale ed un prestigio che mai prima e mai dopo avrebbero
avuto. Per gli sloveni, comunque, ancor più fondamentale sarebbe stato il suo consenso
alla Costituzione del 1974 su cui vennero poste le basi giuridiche della proclamazione
dell’indipendenza della repubblica nel 1991.
In ogni modo in Slovenia il contrasto sulla figura di Tito da tempo non coinvolge solo i
politici, ma vede roventi dispute tra storici di diverso orientamento. Lo scambio di
reciproche accuse, a volte, assume toni durissimi. La polemica, però, ha oramai coinvolto
anche l’opinione pubblica. Pochi giorni fa due gruppi hanno persino rischiato di venire alle
mani. Sul monte Sabotino a ridosso del confine italiano era stata organizzata una fiaccolata
con l’intento di far rivivere la scritta inneggiante a Tito. Subito è stata preparata una
contromanifestazione e pare sia volata persino qualche pietra.
La scritta sul monte Sabotino - oggi coperta dalla vegetazione – anni fa era stata disfatta e
poi rifatta, in varie occasioni ed era stata motivo di accese polemiche.
In ogni modo se da una parte quindi si cerca di presentare Tito come una figura
controversa dai molti lati oscuri dall’altra si sta nuovamente sviluppando il culto della sua
figura, anzi pare proprio che più feroci siano le critiche e più si vada a potenziare il suo
mito.
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Tito, torna la nostalgia anche a Trieste
FAUSTO BILOSLAVO – Il Giornale, 8 maggio 2010
«Con Tito si stava meglio», afferma convinto Igor Pacpalj, uno studente di 17 anni, bustina
partigiana in testa e stella rossa d'ordinanza. Il 4 maggio 1980, quando il maresciallo Josip
Broz Tito lasciò questo mondo, non era ancora nato. A trent'anni dalla scomparsa del
padre-padrone della Jugoslavia la Tito-nostalgia torna alla ribalta. Il giovane studente,
come tanti nell'ex Jugoslavia, ha voluto commemorare, martedì scorso, la scomparsa del
dittatore socialista. Trasmissioni televisive, convegni e tavole rotonde si sono svolti in tutte
le sei ex Repubbliche jugoslave oggi indipendenti. L'aspetto più incredibile è stato il
pellegrinaggio a Kumrovec, il paese croato dove c’è la sua casa natia, e a Belgrado dove Tito
è sepolto. I nostalgici si sono riuniti prima al museo della storia jugoslava per poi recarsi
alla Casa dei fiori, un piccolo mausoleo bianco dove le spoglie del maresciallo riposano. Il
sepolcro di Tito è stato visitato fino a oggi da 20 milioni di persone. Ben 73mila gli hanno
portato omaggio solo nel 2009.
Per non parlare della mitica staffetta per fargli gli auguri, organizzata dai giovani pionieri
del socialismo, che faceva il giro del Paese il 25 maggio, compleanno del dittatore. La
tradizione della staffetta viene tenuta in vita ancora oggi, da gruppi di nostalgici bikers.
Tito si è macchiato di crimini come le foibe, dove furono trucidati migliaia di italiani. E
costrinse all'esodo oltre 200mila nostri connazionali. Secondo alcuni storici ha massacrato
150mila persone del suo stesso popolo. Non solo chi aveva combattuto contro i partigiani,
ma pure le loro famiglie e i monarchici anticomunisti. Fino al 1980 ha governato con il
partito unico e quando scoppiavano proteste a Zagabria o in Kosovo, spediva subito i carri
armati. Non a caso dieci anni dopo la morte il suo «regno» si è frantumato in una serie di
guerre sanguinose.
A Belgrado sono andati a ruba i ricordini di Tito, dalle sue foto famose in divisa bianca
smagliante, alla bustina con la stella rossa dei partigiani. Vanno forte anche le magliette
con il faccione di Tito e le immagini del maresciallo al fianco di Winston Churchill o del
presidente americano Gerald Ford. Con l'obiettivo di cavalcare l'onda il nipote di Tito, che
si chiama Josip Broz, sta raccogliendo le diecimila firme necessarie per ricostituire il
Partito comunista. «La nostalgia per Tito è in continua crescita - spiega il parente del
defunto leader - a causa delle difficili condizioni di vita non solo in Serbia ma anche nel
resto dell'ex Federativa».
Il fondatore del movimento partigiano è stato ricordato ufficialmente da Lubiana a Skopje,
da Zagabria a Sarajevo, da Belgrado a Podgorica. Non tutti, però, amano chi si è sporcato le
mani con il sangue dei suoi compatrioti. I giovani del partito extraparlamentare Nova
Slovenija si sono rivolti alla Corte costituzionale per cancellare il nome di Tito da vie e
piazze in tutto il Paese.
Sembra assurdo, ma i nostalgici titini si annidano anche a Trieste. Nonostante
l'occupazione dei partigiani del IX Corpus nel maggio 1945. Per 40 giorni sono andati a
caccia di italiani da prelevare facendoli sparire per sempre. «Chiedo al Consiglio comunale
di commemorare il maresciallo Tito a trent'anni dalla morte» ha scritto Iztok Furlanic,
segretario provinciale di Rifondazione comunista. La proposta è stata cassata in maniera
bipartisan. Categorico il no del centro destra, che ha parlato di «vergognosa e inquietante
nostalgia».
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Però il primo maggio, festa dei lavoratori, in piazza Unità d'Italia al centro di Trieste, si
sono raccolti gli jugonostalgici con le bandiere italiane e la stella rossa in mezzo. Alcuni
portavano la bustina dei partigiani titini. Francesco Clun e Andrea Sinico hanno fondato su
Facebook un gruppo contro le bandiere rosse sul Carso. «Ogni anno - accusano -, con la
scusa del Primo maggio, in realtà si ricorda l'occupazione di Trieste da parte dei partigiani
di Tito».
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A trent’anni dalla morte di Tito, parla un nipote
FRANCO QUINTANO e DRAGAN PETROVIC – Ansa, 4 maggio 2010
A trent’anni dalla morte di Josip Broz Tito, a Belgrado e nel resto della Serbia sono sempre
vive la 'Titostalgia' e la 'Jugostalgia', con il nipote del maresciallo impegnato nella
ricostituzione del Partito comunista, unica alternativa a suo avviso alla crisi attuale e solo
modo per ritornare alla fiducia, al benessere e alla giustizia sociale della vecchia
Jugoslavia, da lui definita una 'piccola Unione Europea'. ''La nostalgia per Tito e' in
continua crescita a causa delle difficili condizioni di vita non solo in Serbia ma anche nel
resto della ex Jugoslavia, e tutti i tentativi di mettere Tito in cattiva luce non sembrano
andare a buon fine; al contrario la sua popolarita' aumenta'', ha detto all'Ansa Josip Broz,
nipote del defunto leader jugoslavo. Per far rivivere i grandi ideali incarnati da suo nonno e
condivisi da tutti i popoli della vecchia Federazione, Joshka - come viene chiamato
familiarmente il nipote di Tito - sta raccogliendo le diecimila firme necessarie alla
registrazione del nuovo Partito comunista.
''Gli obiettivi del nostro programma - che si rifa' al Manifesto comunista - sono la giustizia
sociale, la dignita' e pari opportunita' per tutti, la ripresa della nostra economia a
cominciare dal settore agricolo. Cio' che vogliamo e' una vita migliore'', afferma il nipote di
Tito. ''Vogliamo attuare veramente quello che tutti gli altri partiti promettono ma che poi
non realizzano''.
L'incontro con Joshka Broz - 63 anni, figlio di Zharko, il figlio maggiore del maresciallo
Tito - avviene nel ristorante 'Tito' che lui gestisce a Dedinje, l'elegante quartiere
residenziale sulla collina di Belgrado. Alle pareti quadri che ritraggono l'ex leader
jugoslavo, ma anche Vladimir Putin, Fidel Castro, Hugo Chavez, Aleksandr Lukashenko.
Su un caminetto vicino all'ingresso troneggia un busto in bronzo di Tito, con
accanto una sua grande foto in bianco e nero, incorniciata e adornata da una bella pianta
fiorita. ''I quadri sono tutti di autori comunisti'', ci dice Joshka, del quale colpisce subito la
forte somiglianza con Tito. E del nonno - il grande uomo di stato che guido' per 35 anni,
fino alla sua morte il 4 maggio 1980, la Federazione jugoslava multietnica da lui creata parla in termini dolci e amorevoli.
“Mio nonno non ci ha mai picchiato o messo le mani addosso. Non alzava mai la voce e
risolveva tutto in modo pacifico e tranquillo. Una volta, quando avevo sei anni, volevo a
tutti i costi una piuma di un pavone che era nel nostro parco, mi avvicinai all'animale ma
gliene tirai via molte di piu'... Quella fu l'unica volta in cui il nonno minaccio' di darmele, e
io rimasi nascosto per tre giorni''. Joshka Broz racconta quindi di aver avuto in regalo dal
celebre nonno un orologio (''durante una partita di caccia io persi il mio, e allora lui si sfilo'
dal polso il suo orologio e me lo diede''), un fucile da caccia (''per la mia laurea in scienze
forestali, visto che anch'io sono appassionato di caccia'') e una macchina Prinz Nsu 1200
(''quando sono diventato maggiorenne a 18 anni'').
''Con Tito stavamo tutti molto meglio. Sono certo che in un eventuale referendum il 60%70% dei serbi voterebbe per un ritorno alla Federazione jugoslava di Tito, che a quel tempo
era gia' una piccola Unione europea'', afferma il nipote del maresciallo. ''Che cosa hanno
guadagnato Romania e Bulgaria dall'ingresso nella Ue? Vivono forse meglio? Ai tempi di
Tito noi eravamo per loro l'Unione europea''.
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Jovanka, la vedova di Tito costretta alla fame
Il Piccolo di Trieste, 26 maggio 2009
Per lei non c’è pensione perché suo marito «non aveva stipendio» Prima di
sposarsi con Lui, il Maresciallo Josip Broz Tito, nei corridoi delle stanze del potere
belgradese era soprannominata «la puttana del presidente». Definita dallo stesso Tito
«troppo selvaggia», riusciva a silurare chiunque le fosse antipatico, non importa se
generale o ministro. «Perché - era solita dire con malcelato disprezzo - i serbi hanno
sempre trucidato i loro sovrani». Ma stavolta tocca a lei «morire», nell’impietosa agonia
dell’indifferenza. Jovanka Borz Tito, infatti, vive, o meglio, sopravvive tra le macerie della
storia. Sola e abbandonata. Dagli uomini e dal mondo. Da «puttana del presidente» a
vecchietta di 84 anni, sfrattata dalla solitaria villa in cui venne «reclusa» dopo la morte del
marito (ironia della sorte a pochi passi dal palazzo presidenziale di Dedinje, il quartiere vip
di Belgrado). All’esterno poteva e può sembrare una sistemazione decorosa. Ma al suo
interno l’umidità segnava le pareti e d’inverno alla vedova Tito veniva pure tagliato il
riscaldamento. Poi l’ulteriore sfratto in un alloggio popolare.
Così Jovanka si rivolge a un assistente sociale a chiedere aiuto, ma all’ufficio comunale il
timido funzionario si sente rispondere che «quelli non erano affari suoi». Eppure
all’Ufficio federale della proprietà immobiliare sostengono di conoscere le difficoltà in cui
versa la «signora Jovanka». «Le abbiamo più volte telefonato - dicono - ma lei non
risponde. Potremmo anche trasferirla in un altra abitazione, ma se le si nega...». E che la
situazione stia vieppiù peggiorando lo dimostra il fatto che lo scorso 4 maggio,
anniversario della morte del Maresciallo avvenuta a Lubiana nel 1980, Jovanka non si è
recata sulla tomba (peraltro restaurata di recente) del marito (meglio nota come Casa dei
fiori). «Non vado più a visitare la tomba di mio marito - ha dichiarato al quotidiano serbo
Politika - perché ho paura di incontrare qualche funzionario statale che mi imponga di
sottoscrivere la dichiarazione in base alla quale io lascio ogni mio avere allo Stato». Così la
vedova dell'ex leader jugoslavo Josip Broz Tito ha rotto un decennale silenzio per
denunciare di essere stata abbandonata da tutti dopo la morte del marito, 30 anni fa.
«Subito dopo la morte di Tito, sono stata buttata fuori casa come una valigia, in camicia da
notte, senza nulla, senza poter prendere una foto di noi due, una lettera, un libro, dei
vestiti», racconta Jovanka Broz in un'intervista pubblicata dal quotidiano serbo Politika,
che la presenta come la prima da lei concessa dopo la scomparsa di Tito, il 4 maggio 1980.
«Contro la mia volontà, mi hanno sbattuta in un alloggio, assicurandomi che sarebbe stato
provvisorio. Ma ci vivo ancora, dopo circa tre decenni», afferma la moglie del leader
jugoslavo, che ha 84 anni. Jovanka Broz oggi vive nell'isolamento, con scarsi mezzi,
evitando i contatti con i media. Due anni dopo la la scomparsa del marito fu informata che
non avrebbe ricevuto una pensione perchè non aveva una carta d'identità e perchè Tito che aveva governato la Jugoslavia dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla morte
- non percepiva un salario. Ora però il ministro degli Interni della Serbia, Ivica Dacic fa
sapere che si occuperà personalmente dello status della vedova di Tito cui dovrebbe essere
concesso finalmente il passaporto e la carta d’identità. Vedova Bros che nel 1977 ha
conosciuto anche gli arresti domiciliari con l’accusa di aver tramato con alcuni generali un
colpo di Stato dagli oscuri controni filo-sovietici. Qualcuno sostiene che sia stata anche
rinchiusa nel carcere di Spalato.
Eppure, nonostante il «de profundis», intonato dai media serbi, in Bosnia fonti sostengono
che Jovanka, appena in possesso dei nuovi documenti di identità, potrebbe rivendicare
l’eredità di 2 miliardi di dollari del marito custoditi in una banca Svizzera. I soldi
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proverrebbero dal periodo tra le due guerre mondiali, quando il futuro presidente
jugoslavo possedeva apparentemente anche il 30 per cento del lussuosissimo Hotel
Imperial di Vienna. E, in effetti, presunto colpo di Stato a parte, non c’è stato alcun motivo
giuridico per il decennale isolamento della vedova Borz, ma fonti sostengono che l’«esilio
in patria» era dovuto proprio per evitare che Jovanka entrasse in possesso del tesoro di
Tito. Oggi lei non è più la regina, è solo una strega di un regime odiato. Odiata dai serbi,
che non perdonano al defunto Maresciallo di aver tenuto lo stivale dell’ideologia
fortemente premuto sul loro capo da sempre proteso verso gli agognati lidi disegnati da un
mai sopito nazionalismo, è stata ripudiata anche dalla sua terra natia croata (è nata nel
villaggio di Pecani, nella Lika) che la considera, invece, l’ultimo totem del comunismo,
storico avversario di quello spirito secessionista che ha condotto Zagabria
all’indopendenza. Oggi Jovanka è solo una vecchietta che come tante, in Serbia, ma non
solo, non ha neppure i soldi per arrivare alla fine del mese.
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