il gouden eeuw della cartografia olandese tra arte e industria

Transcript

il gouden eeuw della cartografia olandese tra arte e industria
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 657-667
MICHELE CASTELNOVI
IL GOUDEN EEUW DELLA CARTOGRAFIA OLANDESE
TRA ARTE E INDUSTRIA
IN MERITO A UN RECENTE ARTICOLO DI ALESSANDRO RICCI
Tra arte e industria. – Da semplice socio, nonché accanito lettore, vorrei
proporre alla comunità dei geografi una brevissima riflessione innescata dal recente e ottimo articolo dell’amico geografo Alessandro Ricci sul rapporto tra cartografia e pittura nell’età di Vermeer (Ricci, 2013).
Premetto che sono anch’io affascinato dalla forza di persuasione delle arti figurative, e non c’è dubbio che gran parte della bellezza delle carte geografiche
derivi precisamente dalla loro capacità di convincere gli osservatori, quasi ammaliandoli. Tuttavia vorrei precisare alcuni punti che permettono di discernere
più attentamente alcune caratteristiche di una fase storica che, a ben vedere, interessa molto anche il tempo presente.
La cartografia è, lo sappiamo, in parte un’arte, in parte una «industria felice» (1)
per usare le parole con cui si riferiva alla tradizione olandese il Quaini (2006, p.
97). L’arte necessita di una certa dose di genio nell’autore, e di una certa sensibilità nell’utente; invece l’industria, con le sue applicazioni tecniche di innovazioni
scientifiche ripetitive, necessita solo di coscienziosi operai e di utenti banali (ciò
non significa che non sia importante, come spiega efficacemente l’aggettivo «industrioso»). La prima brioche fu un’opera d’arte che necessitò di uno chef e di un
gourmet; la panificazione industriale, invece, soddisfa la fame distratta di qualsiasi colazionante: l’essenza della produzione industriale, com’ebbe a osservare
Andy Wahrol, è che i prodotti tendono all’omogeneità: la cola che beve il presidente è uguale a quella che beviamo noi (e il planisfero che consulta il sovrano
tende a essere identico a quello che consulta il mozzo). Secondo una famosa definizione, riferita anche da Umberto Eco, la differenza tra arte e scienza (e tecnica) si può riassumere in questi termini: «scienza è qualsiasi disciplina in cui uno
stupido della generazione successiva sorpassa un genio della generazione prece-
(1) Felice nel senso latino di fertile, produttiva. Di «industria felice» parlava, in ambito italiano
(ma forse solo a livello individuale), nel 1567 Paolo Forlani nella mappa dedicata al Piemonte.
658 Michele Castelnovi
dente» (Eco, 2006, p. 335). L’esempio classico è la chimica: la generazione successiva a Lavoisier considerava banali cose che vent’anni prima sembravano miracoli, e via esemplificando. L’altro esempio classico è la pittura, che dipende in
grandissima parte dal genio dell’autore.
Vermeer era un genio: ma i cartografi olandesi erano tutti geni? Oppure, girando la domanda, era necessario che fossero tutti geni? E contemporaneamente,
erano tutti sensibili interpreti gli utenti della cartografia in Olanda, oppure no?
Non sarebbe esagerato affermare che la cartografia amanuense è anch’essa
arte (arte del descrivere, arte del persuadere, arte del selezionare i dettagli da
enfatizzare) e che ogni carta manoscritta costituisce un pezzo unico, mentre la
cartografia a stampa – pur mantenendo almeno nelle prime fasi un forte contenuto «artistico» – tende a diventare sempre di più una tecnica: necessitando di
autori meno brillanti (2) e di utenti meno sensibili (3).
Faccio un esempio. I portolani medievali mediterranei erano copiati a mano.
Ogni singolo esemplare era diverso dagli altri, a seconda delle esigenze del
committente e della capacità del copista. In uno manca la costa africana (tanto,
il committente non prevede di recarvisi), nell’altro sono aggiunti dettagli sui
Dardanelli (là si prevede di andare, eccome!); in un altro compaiono cose accadute decenni prima ma ricopiate pedissequamente come se fossero state frutto
di personalissime esperienze autoptiche «vegiute cholli occhi» (dal portolano di
Grazioso Benincasa, 1445) (4); in un altro invece il proprietario – vero navigante
– ha interpolato glosse e aggiunte personali di proprio pugno, in ogni pagina.
Le chiose, infatti, erano l’unica maniera di aggiornare il portolano, anche se però
si poteva aggiornare solo un esemplare alla volta (in modo artigianale o se vogliamo artistico) e poi affidare alla buona volontà di altri copisti amanuensi: il figlio, il cugino mercante, il concorrente.
I portolani olandesi della prima età moderna costituiscono già un prodotto
industriale, nella misura in cui fanno appello a una massa di lettori (alfabetizzati
e realmente naviganti).
I primi portolani a stampa prenderanno il nome di wagonner da Lucas Janszoon Waghenaer (in latino: Aurigarius), non a caso un olandese di Enkhuizen,
che nel 1588 rielaborerà alcuni esperimenti fatti prima di lui da altri cartografi,
tutti olandesi. Waghenaer fu solo il più famoso, ma non il primo, a domandare
ai suoi lettori-marinai (non solo olandesi) di restituire un feed-back all’editore:
(2) Con questo naturalmente non intendo affermare che i cartografi abbiano cessato, con la
stampa, di intervenire con un personale stile e approccio manipolando le carte secondo i propri obiettivi o quelli della committenza: da Ortelio a Mercatore, ad Arno Peters.
(3) Toponimi e legende manoscritte richiedono un ruolo interpretativo nell’utente, che deve anche sciogliere le abbreviazioni tachigrafiche e talvolta anche dei veri e propri rebus figurati; nelle
carte a stampa il ruolo dell’utente è ridotto a semplice lettore.
(4) Un’edizione del testo dell’anconetano Grazioso Benincasa in Kretschmer (1909, p. 358): «i
quali porti et senbianze de terre non sonno tratte niuna da la charta, ma sonno tochate chon mano
et vegiute cholli occhi».
Il Gouden Eeuw della cartografia olandese tra arte e industria 659
chiedendo (Waghenaer, 1586, p. 3) che gli fossero segnalate per lettera gli errori e gli aggiornamenti necessari, affinché potesse inserirli nelle prossime edizioni
aggiornate. La rivoluzione implicita (5) in questo messaggio risiede nel mezzo
(come avrebbe chiosato Marshall McLuhan): Waghenaer era consapevole che
tutte le copie del suo testo in circolazione riportavano le stesse frasi nelle stesse
pagine, quindi poteva ricevere segnalazioni puntuali (pagina tale, riga tale) ed
era sicuro che eventuali errori non sarebbero dipesi dalla cattiva mano del copista o dall’occhio dell’utente.
Il trionfo della Vista sull’Udito. – L’elemento più caratteristico della lettura
medievale (ma già antica) era che, pur passando dall’occhio, si rivolgeva all’orecchio, perché era sempre compitata ad alta voce (Zumthor, 1990). Il portolano
medievale (ma anche la carta) doveva essere letto ad alta voce: legenda, ossia
cose da leggere a voce alta: come le letture del Vangelo durante la messa. Ogni
singola parola era stata scritta per innescare nella comunità dei presenti (compresi gli analfabeti!) (6) una coralità di memorie: Noli, ah certo, dove fece naufragio mio cugino; Savona, ottimo il vino bianco; Cogoleto, città dove nacquero
navigatori; a Voltri inizia la mulattiera verso nord; Sestri con i suoi cantieri navali, vedrai che lì ci aggiusteranno il timone. Una memoria collettiva che variava di
volta in volta, in base alle memorie dei presenti e ai temi più urgenti all’ordine
del giorno (l’acquata, le riparazioni, i nemici, le mutate alleanze eccetera) (7).
La carta stampata, invece, si rivolge a un lettore silenzioso, muto, che legge
solo mentalmente, quasi in meditazione, da solo (senza consultarsi se non occasionalmente con gli altri presenti, anch’essi assorti e silenziosi), a tu per tu con le
parole stampate. Codesta rivoluzione culturale inizia naturalmente nell’Europa
settentrionale, assecondata dalla predicazione luterana e calvinista che pretende-
(5) Mi permetto di essere in disaccordo, almeno per il caso specifico della cartografia, con chi
sostiene che la rivoluzione della stampa ha iniziato a essere efficace solo dopo il 1830: ad esempio
McKitterick (2003 e 2005) e Azzini (2006). Anche la definizione stessa di tipografia come «ars artium
conservatrix» (McKitterick, 2003, p. 3) mi sembra piuttosto inadeguata se applicata alla cartografia
delle grandi scoperte, e alle conseguenze – teoretiche, filosofiche ma anche nelle pratiche quotidiane – che ebbero l’improvvisa conoscenza dell’America o della Cina.
(6) Sull’analfabetismo dei piloti medievali, si vedano le considerazioni dello storico olandese
Kees Zandvliet (1998, p. 15): «these pilots were not necessarily literate men».
(7) Considerati i fulminei rovesci della geopolitica medievale, sarebbe del tutto anacronistico
cercare nelle carte del Trecento la medesima fissità che si risconterà solo dall’Ottocento in poi. Infatti, una roccaforte mussulmana inespugnabile poteva all’improvviso ospitare un emporio genovese, o
al contrario una ricca città poteva essere rasa al suolo da una scorreria o dalla peste; un porto poteva
proclamare la propria indipendenza repubblicana, mentre un altro poteva essere infeudato con un
matrimonio. Per questo nella maggior parte dei casi i portolani evitano di riferire della «schiuma della storia» (le vicende più événementielles nel senso braudeliano, come i sovrani e le appartenenze
politiche) e semmai ricordano elementi che tenderanno a restare costanti anche nel lungo periodo
(qui porto caricator di grano; qua ottima acquata; là meravigliosi velluti).
660 Michele Castelnovi
va che tutti – maschi, e addirittura (8) anche femmine! – leggessero personalmente la Bibbia e i libri di morale, mentre nei paesi cattolici si preferiva che fossero i
parroci a leggere in favore degli analfabeti. Risultato: ogni singolo mozzo su una
nave olandese sapeva leggere, o almeno compitare, mentre ancora sulle navi cattoliche leggevano solo gli ufficiali. Conseguenza: qualsiasi mozzo poteva scrivere
a Waghenaer – o a qualsiasi altro editore di carte a stampa per il libero mercato o
per la VOC – e segnalare aggiornamenti o correzioni che ritenesse opportune.
Anche in questo c’è un ingrediente rivoluzionario: silenzioso e segreto. Ogni
mercante medievale italiano viaggiava con le proprie carte, che condivideva solo con soci in affari (quasi tutti parenti) nella massima segretezza: pensiamo a
secoli di viaggi da Genova verso «la Tana» del «Gattaio» (9) – cioè la colonia di
Azov, capolinea dell’itinerario verso la Cina, nelle grafie trecentesche di un Francesco Pegolotti – senza mai lasciare la minima traccia alla «concorrenza» (10).
Età delle Scoperte e rivoluzione della stampa. – L’abbinamento delle due
grandi rivoluzioni culturali dell’Europa, ossia quella tipografica e quella esplorativa, risale come minimo a Isaac Newton nella versione enfatizzata nientemeno
da uno degli autori più citati del Novecento, Karl Marx, in un suo scritto sul sistema di produzione asiatico. A dire il vero, l’associazione tra stampa ed esplorazioni era già evidente almeno al nostro Paolo Imperiale, matematico e storiografo genovese, il quale, non a caso, aveva soggiornato a lungo nelle Fiandre.
Per i compilatori di sussidiari, è sufficiente constatare che la notizia della scoperta colombina circolava su agili fogli a stampa fin dal 1492, e che le lettere attribuite a Vespucci (vero o falso) erano diffuse appunto a mezzo stampa. Se a
ciò si aggiunge che il nome «America» è stato attribuito dal Waldseemüller proprio su una carta stampata, il cerchio sembra assolutamente chiuso: esplorazione, testo tipografico e mappa stampata appaiono coetanei e simultanei.
(8) Proprio nei dipinti di Vermeer si nota una gran quantità di donne, né ricche né altolocate, intente a leggere – a quanto pare, non raramente – proibiti messaggi d’amore (già Ovidio nell’Ars Amandi attribuiva molta importanza ai bigliettini, ma solo per le matrone dell’aristocrazia patrizia).
Dall’alfabetizzazione, come è noto, derivano grandi libertà.
(9) Tana era il nome del porto genovese alla foce del fiume Don, chiamato dagli antichi Tanais:
per inciso, fiume confine dell’Asia simmetrico al Nilo negli schemi dell’ecumene T-in-O. Gli altri empori nella Gazaria (ossia: della colonia commerciale genovese presso i Khazari di Crimea) erano allora Caffa, Soldaia, Cembalo e Caulita: le due ultime più note oggi nei loro toponimi recenziori di
Balaklava e Yalta.
(10) In un mondo mercantile basato sulla gelosa conservazione del segreto sugli affari, la loquacità di messer Polo e la diffusione del Milione sono da intendere come un’eccezione. Non è escluso
che la lunga detenzione genovese dell’anziano Polo dentro Palazzo San Giorgio fosse finalizzata
precisamente a estorcere il maggior numero di informazioni possibile, anche attraverso l’azione forse non del tutto casuale dell’altro prigioniero accidentalmente collocato insieme a lui, Rustichello. La
redazione orale del Milione, come infrazione alla regola mercantesca del silenzio.
Il Gouden Eeuw della cartografia olandese tra arte e industria 661
Per il discorso scientifico, ovviamente, non è così. Anche trascurando il fatto
che le informazioni dei sopra menzionati pamphlet spesso erano copiate, pasticciate, mal tradotte se non proprio inventate (da tipografi senza scrupoli che si
preoccupavano solo di vendere la propria merce senza nessuna finalità scientifica o didattica), per almeno un secolo la comunicazione cartografica continuerà
a essere principalmente manoscritta, se si fa eccezione per i grandi planisferi
piani o cordiformi i quali, appunto, erano stampati perché intrinseci a una «visione del mondo» e non per essere usati a bordo di una vera nave. Per la vera
navigazione nel Mediterraneo (che, con buona pace dei sussidiari, non collassa
nell’ottobre 1492 ma continua fruttuosa molti decenni dopo Lepanto) a bordo
delle navi si continueranno ad adoperare carte nautiche e portolani manoscritti,
che, come è ben noto agli studiosi, permettono un grado di personalizzazione –
oggi si direbbe: «customizzazione» – molto più alto. Tra le personalizzazioni più
estreme, persino quella di «scegliere» quale forma assegnare al Nordamerica a
seconda del gusto o delle preferenze della committenza in ambito geopolitico:
ai filofrancesi o più in generale ai non rari antispagnoli si poteva infatti proporre
un filiforme «istmo di Verrazzano», ancora alla fine del Cinquecento.
Il mercato italiano era così affezionato alla produzione manoscritta, che il
primo esperimento di commercializzare le carte olandesi fallì miseramente. Infatti nel 1664 Francesco Maria Levanto (un patrizio genovese assolutamente poliedrico: capitano di nave, ambasciatore, mercante e anche cartografo) acquistò
ad Amsterdam le lastre di rame già incise, si sobbarcò i costi della traduzione in
italiano, e tentò di vendere il suo prodotto, ma con pochissimo risultato. Nel
1640 era già stato tentato qualcosa di simile da un altro personaggio veramente
eccentrico, sir Robert Dudley: un altro buco nell’acqua nel mercato italiano. Solo alla fine del Seicento (11) Coronelli riuscirà a far prosperare un discreto commercio di carte geografiche a stampa, a patto di consentire agli acquirenti numerose personalizzazioni: scegliere quali volumi, quali carte inserire o escludere,
scegliere se inserire uno stemma dinastico o un ritratto eccetera.
Lo spirito del capitalismo, l’arte cartografica, la tecnica della stampa. – Ogni
volta che si esamina un periodo storico, bisogna sempre per prima cosa dubitare criticamente delle etichette che gli storici precedenti hanno apposto. Nella lingua inglese l’epoca pre-elisabettiana è stata definita «Dark Age»: che si adatta
(forse) in parte solo alle isole britanniche, ma che non rende giustizia alle Signorie italiane, alle repubbliche marinare, alla Lega Anseatica. Si fa presto a dire
«Secolo d’oro»: etichette di comodo, che servono ai mercanti d’arte per esagerare
i prezzi dei pittori contemporanei di Vermeer, o agli storici dell’economia per
(11) Sulla duratura persistenza, nel mercato librario della Penisola, della cartografia manoscritta
(e in latino) rispetto alle opere a stampa, si veda Valerio (1990); limitatamente al caso di Levanto, si
veda Castelnovi (2007).
662 Michele Castelnovi
sottolineare l’importanza della tolleranza e dell’istruzione, o agli storici delle istituzioni politiche per celebrare i successi e la bontà delle rare repubbliche in secoli monarchici.
Non è mia intenzione aderire alla moda filoweberiana che vorrebbe descrivere i popoli dell’Europa meridionale come irrimediabilmente «PIGS» (cioè «porcelli») (12), come talvolta mostrano di prediligere alcuni economisti delle cosiddette aree forti dell’Europa centro-settentrionale. Se ce ne fosse bisogno, si potrebbe ricordare loro che lo spirito del capitalismo era già forte e rigoglioso nelle città mercantili italiane e anseatiche del Due-Trecento ben prima dell’insegnamento di Lutero e Calvino. Senza contare che, purtroppo, le cronache riferiscono disastrose crisi economiche anche tra i protestanti nei secoli, soprattutto nelle regioni dell’estremo Nord (Scozia e Norvegia) prima che sopraggiungesse lo
sfruttamento del petrolio. Ma sicuramente il protestantesimo ha dato un forte
impulso all’alfabetizzazione delle masse (compresa quella femminile!), di conseguenza gli editori di carte geografiche olandesi sapevano di rivolgersi a un pubblico di persone mediamente capaci di leggere.
Si fa presto a dire PIGS: e la prima lettera indica proprio il Portogallo. Eppure, gli olandesi furono debitori dei portoghesi (ed entrambi debitori dei genovesi) sotto ogni punto di vista: tecniche di navigazione, cantieristica, perfino le carte geografiche. Van Linschoten visse nella lusitanissima Goa, apprendendo ogni
genere di know-how come segretario del vescovo cattolico; le proiezioni di Mercatore si basano sui calcoli di Pedro Nunes; Cornelius Hotman trascorre due anni a Lisbona in attività di spionaggio, propedeutiche al primo importante assalto
olandese ai commerci con le Indie (Seed, 1995, p. 149).
Interdipendenza internazionale. – È noto che il sociologo Max Weber, richiamato anche dall’amico Ricci nel suo articolo, aveva formulato quella sua
particolare teoria secondo cui ci sarebbe un collegamento indissolubile e generalizzato tra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber non a caso enunciava codesto suo anacronismo (valido, forse, solo in quegli anni) nel momento
in cui un certo tipo di sfruttamento coloniale imponeva, tra l’altro, anche un certo tipo di cartografia, con l’Europa settentrionale al centro trionfale della mappa.
Ma dopo decenni di decolonizzazione, forse oggi siamo in grado di comprendere che – nel bene e anche nel male (13) – lo spirito del capitalismo soffiava già
forte quando ancora gran parte dell’Olanda era coperta da paludi (così secondo
(12) PIGS, secondo quanto riferiva nel 1997 un giornalista francese (Vernet, 1997: «que l’argot
communautaire a affublés d’un sobriquet peu élégant dans sa signification anglaise: “pigs” pour Portugal, Italy, Greece, Spain»), era ed è l’acronimo palesemente dispregiativo con cui, nel gergo di alcuni economisti, ci si riferiva ai paesi più in difficoltà: non per caso tutti mediterranei (quasi «meridionali») e non-protestanti: elemento che non tardava ad assumere connotazioni al limite del razzismo.
(13) I mercanti genovesi avevano già imposto le monocolture (il mastice, la canna da zucchero)
giungendo al paradosso di affamare i coltivatori autoctoni.
Il Gouden Eeuw della cartografia olandese tra arte e industria 663
la penna di Adamo di Brema: Pagani, 1996, p. 158). Non voglio annoiare ancora
con gli esempi tratti dal medioevo genovese, che ognuno conosce dalle grandiose ricostruzioni di Lopez (1975) e di Arrighi (2008). Ma – fermo restando che
rimane ancora da esaminare quanto i geografi occidentali, e non solo olandesi,
abbiano appreso dalla tradizione cartografica cinese (14) – ci sono molti esempi
che dimostrano la forte interdipendenza tra gli olandesi e i cosiddetti PIGS.
Prendiamo il caso di Martino Martini, missionario gesuita in Cina del quale ricorre, nel 2014, il quattrocentesimo anniversario della nascita: egli si dichiara,
camaleonticamente, metà italiano e metà tedesco, sentendosi partecipe di entrambe le culture (15). Ma la sua azione e la sua formazione si svolgono tra Roma, Genova e Lisbona, frequentando solo ed esclusivamente gesuiti portoghesi
e italiani per oltre venti anni: gli sciocchi di oggi lo catalogherebbero banalmente tra i PIGS (anche se, per astuzia o per bisogno, predilige di appellarsi a ricchi
mecenati tedeschi) insieme a tanti altri cattolici provenienti dal Mediterraneo come Colombo, Vespucci e Verrazzano (percepiti tutti imbranati inadatti, immagino). Ma se si esamina nel dettaglio il ruolo avuto dall’italiano Martini nella conoscenza olandese della Cina, si scoprono elementi molto affascinanti, che vorrei
riassumere per punti.
Nel 1653, dopo che la sconfitta dei Ming ad opera degli invasori mancesi (i
futuri Qing) aveva sconvolto i progetti missionari a corte, e dopo che Martini
stesso si era improvvisato alleato dei mancesi guadagnandosi il singolare soprannome di «Mandarino Polvere di Cannone» (in virtù delle sue conoscenze sul
salnitro e la balistica), fu necessario tornare a Roma per discutere con il papa
della cosiddetta «Questione dei Riti». Con l’occasione, Martini raccolse un gran
numero di carte e di atlanti in uso presso la burocrazia imperiale e si impegnò a
tradurli intensamente. Mal sopportando i fastidi della navigazione sui galeoni
(14) Escludo di poter anche solo accennare, in queste brevi pagine, a un tema che meriterebbe
interi volumi. Sicuramente, il recentissimo ritrovamento della cosiddetta Selden Map nella Bodleian
Library di Oxford (Nie, 2014) rimette in discussione molti luoghi comuni sulla presunta ignoranza cinese sulla geografia d’oltremare e sulle rotte navali, anche e soprattutto in epoca Ming (come è noto,
la storiografia occidentale ha spesso esagerato le conseguenze della fine dei viaggi di Zheng He: Castelnovi, 2013). Ma nessuno può ignorare la forza di persuasione delle grandi mappe dell’Impero,
che fin dalla metà del XII secolo mostravano tutta la Cina con le montagne e i fiumi con una precisione quasi satellitare (Black, 1997, p. 2; Thrower, 1999, p. 27). Nessuno, nella prima età moderna,
poteva restare impassibile davanti a una mappa «a scaglie di pesce» (Brook, 1999, p. 64), composta
da tante piccole mappe quadrate predisposte appositamente (da una pletora di burocrati istruiti e
addestrati) per essere affiancate come tasselli regolari di un grande mosaico: già allora ricorrendo all’incisione per la stampa, per obbligo di legge disposto dal fondatore della dinastia Ming, imperatore
Hongwu. Resta da indagare – certo non in questo spazio – quanto l’esempio cinese abbia influenzato la cartografia occidentale (appurato che il contrario appartiene più al mito che alla realtà storica:
Yee, 1995, p. 170).
(15) In questo Martini imita il grande teologo cattolico olandese Erasmo da Rotterdam, il quale
variava la dichiarazione della propria appartenenza nazionale al variare dell’interlocutore (Scuccimarra, 2006, p. 143, nota 14) nell’ambito di una complessiva identità cosmopolita dell’intellettuale
che anticipa di secoli le idee cosiddette «nuove» degli illuministi.
664 Michele Castelnovi
portoghesi, decise di «consegnarsi» come prigioniero ai rivali olandesi. In questo
modo ottenne tutto il tempo e la tranquillità necessaria per dedicarsi alla sua
opera cartografica, ma anche la garanzia che le proprie fatiche non sarebbero rimaste chiuse in qualche archivio segreto in forma manoscritta, come era già accaduto ad altri suoi predecessori come Ruggieri e Ricci e Boym), visibili solo da
una ristrettissima cerchia di sovrani, diplomatici e vescovi (tra i quali anche un
Botero: Ravera, 2014). Martini voleva che la propria opera di mediazione culturale fosse a disposizione di tutti gli europei, e per quel motivo decise di pubblicare il suo Novus Atlas Sinensis con l’editore Joan Blaeu, il quale (oltre che grande firma di opere commerciali come l’Atlas Maior) era anche il fornitore ufficiale di cartografia per la VOC di Amsterdam, la grande Compagnia delle Indie
Orientali. Attingendo dall’accuratissima cartografia cinese, Martini fornisce le
coordinate esatte di oltre ottomila città, montagne, fortezze, fiumi; e per la prima
volta offre al lettore occidentale un disegno accurato delle Province situate nell’interno continentale, dopo che per un secolo e mezzo i marinai portoghesi e
olandesi si erano limitati a cartografare la linea di costa (imponendo toponimi
del tutto inventati – come «Formosa» – secondo un irrispettoso stile colonialista
che forse poteva essere ammissibile ai Caraibi ma certo non di fronte alle coste
di un impero millenario). Ma Martini non si limitava a tradurre dal cinese. La
lunga permanenza con gli olandesi, sia a Nova Batavia (Giacarta) sia nel lungo
viaggio di ritorno, non era stata priva di frutti. Nella sua rappresentazione cartografica del Giappone, e della Corea, Martini supera le proprie fonti cinesi e attinge direttamente alla più avanzata cartografia olandese. Il reciproco scambio
non rimase limitato alle sole biblioteche. Per i repubblicani olandesi, era fondamentale sostituire i colonialisti iberici in qualsiasi luogo ne fosse data la possibilità: una missione religiosa, per i «pezzenti del mare», ma anche una continua
occasione di guadagni (l’esempio, ancora una volta, gli era stato dato da quei
ante-PIGS della Repubblica di Genova: fin dal Duecento, infatti, i mercanti genovesi avevano «ottenuto» la concessione di fondaci ed empori nei porti mussulmani, sia attraverso il pagamento di un tributo, sia spesso attraverso l’impiego
oculato della forza militare) (16). Fino all’incontro con Martini, gli olandesi (dimostrando pochissimo spirito di iniziativa, e scarso metodo nel controllo dell’informazione) avevano creduto alla versione portoghese della concessione di
Macao, secondo cui i portoghesi stessi sarebbero stati per così dire investiti di
una sorta di «monopolio» dei commerci tra l’Impero e l’Occidente: tanto bastò
per dirottare gli olandesi verso un’altra isola, Formosa/Taiwan. In realtà, dal lontano punto di vista della burocrazia imperiale, Macao e Taiwan apparivano insi-
(16) Non a caso l’arma tipica del genovese di allora era la balestra: ossia, uno strumento tecnicamente avanzato, costoso e complicato, che però aveva il pregio di mettere un qualsiasi apprendista
artigiano in grado di abbattere un nobile a cavallo con armatura. E senza ricorrere a un gran numero
di braccianti destinati a essere macellati (con grande spreco). Banalizzando, ma non troppo, si può
dire che l’arco è arte (perché il colpo dipende dal genio individuale dell’arciere) mentre la balestra è
tecnica (perché il risultato dipende dall’applicazione meticolosa di protocolli fissi).
Il Gouden Eeuw della cartografia olandese tra arte e industria 665
gnificanti: «una pallina di fango al di fuori della luce della civilizzazione […] abitata da nudi selvaggi tatuati» (17), e i mercanti «barbari provenienti da sud» (nanban) non apparivano poi tanto differenti da altri marinai monoteisti che da secoli giungevano ai porti della Cina da sud attraversando l’Oceano Indiano, come
si legge negli scritti di Jacob d’Ancona e di Ibn Battuta. Immediatamente dopo la
pubblicazione dell’Atlas, la VOC inviò direttamente a Pechino uno dei propri
più esperti diplomatici, il patrizio Johan Nieuhof (Blussé e Falkenburg, 1987),
con un doppio incarico: instaurare una convenzione commerciale con la nuova
dinastia Qing, ma anche controllare metro per metro se le indicazioni fornite dal
quel gesuita mediterraneo fossero attendibili oppure no: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Ecco ancora una volta la dimostrazione plastica del metodo
scientifico: non bisogna accettare ciecamente come auctoritas l’autorevolezza di
un grande viaggiatore, ma bisogna sempre sottoporre alla verifica di una generazione di tecnici le informazioni fornite.
È quella, infatti, la definizione che separa arte da scienza e tecnica: l’arte è
unica e irripetibile, come una carta nautica medievale (e occorre un utente sensibile e allenato per interpretarla), la tecnica è comune e riproducibile (ed è alla
portata di tutti o quasi), come un atlante stampato dalla VOC.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ARRIGHI G., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Milano, Feltrinelli, 2008.
AZZINI E., Calligrafia e map lettering. Il peritesto per il disegno del mondo, in «Paratesto»,
2006, 3, pp. 45-60.
BALDUCCI PEGOLOTTI F., Avisamento del viaggio del Gattaio per lo cammino della Tana ad andare e tornare con mercatantia, circa 1343, a cura di A. Evans, Cambridge
(MA), The Medieval Academy of America, 1936.
BLACK J., Maps and History. Constructing Images of the Past, New Haven e Londra, Yale
University Press, 1997.
BLUSSÉ L. e R. FALKENBURG, Johan Nieuhofs beelden van een Chinareis, 1655-1657,
Middelburg, Stitching Voc, 1987.
BROOK T., The Confusions of Pleasure: Commerce and Culture in Ming China, Berkeley,
UCLA, 1999.
CASTELNOVI M., Il primo atlante dell’Impero di Mezzo. Il contributo di Martino Martini
alla conoscenza geografica della Cina, Trento, Centro Studi M. Martini per le relazioni culturali Europa-Cina, 2012.
CASTELNOVI M., I viaggi di Zheng He (1405-1433): dalla storia delle esplorazioni alla
propaganda geopolitica, in «Miscellanea di Storia delle Esplorazioni», 2013, XXXVIII,
pp. 9-48.
CASTELNOVI M., Nuova luce sulla produzione cartografica di Francesco Maria Levanto
666 Michele Castelnovi
(circa 1664), in Cartografi in Liguria (secoli XIV-XIX), Dizionario Storico dei Cartografi Italiani, a cura di M. Quaini e L. Rossi, Genova, Brigati, 2007, pp. 221-248.
ECO U., A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Milano, Bompiani,
2006.
KHANNA P., I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2009.
KRETSCHMER K. (a cura di), Die italienischen Portolane des Mittelalters, Berlino, Georg
Olms, 1909.
LENTI R., Il Nederland verso il Gouden Eeuw. I Paesi Bassi verso il “Secolo d’oro” nelle relazioni di osservatori stranieri, Genova, ECIG, 2004.
LENTI R., La colonizzazione neerlandese delle Indie, in «Miscellanea di Storia delle Esplorazioni», 2005, XXX, pp. 125-156.
LOPEZ R.S., La rivoluzione commerciale del medioevo, Torino, Einaudi, 1975.
MCKITTERICK D., Print, Manuscript and the Search for Order, 1450-1830, Cambridge,
Cambridge University Press, 2003.
MCKITTERICK D., Testo stampato e testo manoscritto. Un rapporto difficile, Milano, Sylvestre Bonnard, 2005.
NIE H.A., The Selden Map of China. A New Understanding of the Ming Dinasty, Oxford,
Bodleian University, 2014.
ONG W.J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino, 1986.
PAGANI I. (a cura di), Adamo di Brema: Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo,
Torino, Utet, 1996.
QUAINI M. (a cura di), Il Mito di Atlante. Storia della cartografia occidentale nell’Età Moderna, Genova, Il Portolano, 2006.
QUAINI M., L’età dell’evidenza cartografica. Una nuova visione del mondo fra Cinquecento e Seicento, in G. CAVALLO (a cura di), Due mondi a confronto 1492-1728. Cristoforo Colombo e l’apertura degli spazi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato,
1992, 2 voll., I, pp. 781-812.
RAVERA A., La Città ideale: Giovanni Botero e la Cina, in M. CASTELNOVI (a cura di), La
Cina come sogno e come incubo. Uno sguardo sull’immaginario onirico occidentale,
in «Sulla Via del Catai», maggio 2014, 9, pp. 41-54.
RICCI A., L’arte del rappresentare geografico. Un confronto tra cartografia e pittura nel
Secolo d’Oro dei Paesi Bassi, in «Bollettino della Società Geografica Italiana», 2013, pp.
655-677.
SCUCCIMARRA L., I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’Antichità al Settecento, Bologna, il Mulino, 2006.
SEED P., Ceremonies of Possession in Europe’s Conquest of the New World, 1492-1640,
Cambridge, Cambridge University Press, 1995.
TENG E.J., Taiwan’s Imagined Geography: Chinese Colonial Travel Writing and Pictures,
1683-1895, Harvard, Harvard East Asian Monograph, 2004.
THROWER N.J.W., Maps and Civilization. Cartography in Culture and Society, ChicagoLondra, University of Chicago Press, 1999.
VALERIO V., Mercato e cultura nella produzione di atlanti in Italia tra il XVIII ed il XIX
secolo, in «L’Universo», maggio-giugno 1990, 3, pp. 298-353.
VERNET D., L’Allemagne au coeur du débat français, in «Le Monde», Parigi, 24 aprile 1997.
Il Gouden Eeuw della cartografia olandese tra arte e industria 667
WAGHENAER L.J. (alias AURIGARIUS), (Pars Prima) Speculum nauticum super navigatione maris occidentalis…, Amsterdam, Plantin, 1586.
YEE C., Traditional Chinese Cartography and the Myth of Westernization, in J.B. HARLEY
e D. WOODWARD (a cura di), The History of Cartography, Volume 2, Book 2: Cartography in the Traditional East and Southeast Asian Societies, Chicago, University of
Chicago Press, 1995, pp. 170-202.
ZANDVLIET K., Mapping for Money. Maps, Plans and Topographic Paintings and their
Role in Dutch Overseas Expansion during the 16th and 17th Centuries, Amsterdam,
Batavian Lion International, 1998.
ZUMTHOR P., La lettera e la voce. Sulla “letteratura” medievale, Bologna, il Mulino, 1990.
THE DUTCH CARTOGRAPHY’S GOUDEN EEUW, BETWEEN ART AND INDUSTRY.
AN ANSWER TO ALESSANDRO RICCI. – A recent article by Alessandro Ricci shows the
relationship between the visual arts (such as painting) and the large cartographic production in the Dutch Golden Age (1588-1702 circa). However, we also can’t ignore the
link between cartography and industrial production both for the intrinsic characteristics
of printing and for the dissemination of geographical knowledge in many copies, primarly driven by the East India Company (VOC). Protestant culture was particularly suited to accommodate the press, while the Catholic culture continued to appreciate the
handrawn manuscript maps. One of the most interesting case study is the great Novus
Atlas Sinensis by Martino Martini, an Italian Jesuit who, after 17 years of missionary
work in China, in 1655 chose to print his own information in the typography of Joan
Blaeu, a protestant and official cartographer of the VOC in Amsterdam.
Centro Studi Martino Martini, Trento
[email protected]