integrare la guerra giusta e le virtù per promuovere la pace
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integrare la guerra giusta e le virtù per promuovere la pace
CHRISTOPHER P. VOGT INTEGRARE LA GUERRA GIUSTA E LE VIRTÙ PER PROMUOVERE LA PACE: COMPASSIONE, RISPETTO PER LE PERSONE E MISURA DELLA PROPORZIONALITÀ Nelle ultime decadi del ventesimo secolo cè stato un dibattito significativo fra i teologi morali della Chiesa cattolica riguardante la percorribilità della dottrina tradizionale della guerra giusta1. Si discuteva se tale dottrina potesse essere sostenuta in una epoca di deterrenza nucleare e una ascesa esponenziale della capacità distruttiva degli armamenti convenzionali2. Queste controversie non sono state in alcun modo risolte, tuttavia è evidente che la dottrina della guerra giusta ha dimostrato una vitalità che lha sostenuta ben al di là dellepoca della sua profetizzata morte3. La permanente importanza della tradizione della guerra giusta fu evidente nel dibattito che ha preceduto linizio della guerra degli Stati Uniti, ed alcuni dei suoi alleati, contro lIraq nel marzo del 2003. I termini e i concetti della dottrina della guerra giusta emergevano in modo rilevante sia nei circoli politici secolari che fra i teologi morali4. 1 T. BAKKEVIG, «The Doctrine on Just War Relevance and Applicability», in Studia Theologica 37 (1983) 125-45. Non molto tempo dopo la caduta dellUnione Sovietica, J. Bryan Hehir affrontò nuovamente la questione riguardante la utilizzabilità della tradizione della guerra giusta. Egli concentrò la sua attenzione non sulla moralità della deterrenza nucleare, ma piuttosto sulla questione se i cambiamenti nel panorama geopolitico avessero superato o reso inapplicabile la teoria della guerra giusta. Egli inoltre investigò in modo completo se linsegnamento ufficiale della Chiesa cattolica avesse abbandonato la tradizione della guerra giusta in favore di un approccio più pacifista. Cf J. BRYAN HEHIR, «Just War Theory in a Post-Cold War World», in Journal of Religious Ethics 20 (1992) 237-57. John Langan esaminò quanto la tradizione della guerra giusta fosse stata utile per una riflessione morale in riferimento alla prima guerra del golfo USA - Iraq. Cf «Just-War Theory After the Gulf War», in Theological Studies 53 (1992) 95-112. Editoriale, «Coscienza cristiana e Guerra moderna», in La Civiltà Cattolica 142 (1991) 3-16. Una traduzione in inglese di W. Shannon è apparsa in Origins 21 (1991) 450-55. 2 Un eccellente testo che riprende la discussione circa la utilizzabilità della teoria della guerra giusta è in M.P. AQUINO - D. MIETH, «The Return of the Just War», in Concilium 2 (2001), SCM Press, London 2001. 3 J. LANGAN, «Should We Attack Iraq? The Simplicities of Vigilante Justice Cannot Achieve Lasting Goals», in America 187 (2002/6) 7-11. J. BRYAN HEHIR, «An Unnecessary War», in Commonweal 130 (2003/6) 7-8. E. OBRIEN, «The Questions to Ask About an Invasion of Iraq», in Origins 32 (2002) 322-23. J. BRYAN HEHIR, «The New National Security Strategy», in America 188 (2003/12) 8-14. 4 RdT 47 (2006) 195-218 195 CH.P. VOGT In diverse occasioni il presidente George W. Bush cercò di giustificare le azioni della sua amministrazione riguardo lazione militare invocando implicitamente i criteri della guerra giusta. In un discorso del 17 marzo 2003 il presidente Bush deliberatamente affermò che la sua amministrazione aveva agito per giusta causa (in una autodifesa preventiva, ed anche con lobiettivo di proteggere una pace giusta nel medioriente) e con lautorità legittima (di difendere la sua sovranità contro gli attacchi terroristici e inoltre con lautorità di fare rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite 678, 687 e 1441)5. Egli inoltre evidenziò in diverse occasioni che non conosceva altra scelta per disarmare lIraq che luso della forza militare (per es. la guerra in questo caso esprime il criterio della ultima possibilità)6. Nel frattempo negli ambienti teologici Michael Novak, intellettuale cattolico e direttore degli studi sociali e politici dellAmerican Enterprise Institute, ebbe un incontro con funzionari Vaticani per sostenere il punto di vista della amministrazione Bush sulla legittimità della guerra americana contro lIraq7. Novak affermava che la capacità dellIraq di fornire ai terroristi armi di distruzione di massa metteva in essere una imminente minaccia contro gli Stati Uniti. In una epoca in cui terrore e distruzione possono essere sferrati quasi istantaneamente in modo imponente, Novak asseriva che il possesso da parte dellIraq di armi di distruzione di massa era una minaccia così seria da giustificare un uso preventivo della forza per lautodifesa. George Weigel, giornalista ed anche intellettuale cattolico laico, usò una simile argomentazione nelle pagine della rivista popolare cattolica First Things8. Né rappresentanti ufficiali vaticani, né alcuni importanti teologi morali cattolici (a mia conoscenza) vennero convinti da questi argomenti. Ciò nondimeno luso stesso della tradizione della guerra giusta nel dibattito portato avanti sulla recente guerra in Iraq, stabilisce la necessità di una articolata riflessione morale su questa tradizione e sui modi in cui essa è applicata. Chiaramente, la tradizione della giusta guerra è la cornice operativa in cui molti popoli con potere politico e militare cercano di riflettere moralmente sulle relazioni internazionali e sulluso di una forza morta5 «Il Presidente afferma che Saddam Hussein deve lasciare lIraq entro 48 ore: Sottolineature del Presidente nel discorso alla Nazione, The Cross Hall», The White House, Office of the Press Secretary, 17 marzo 2003, Washington. Ottenibile presso http:// www.whitehouse.gov/news/releases/2003/03/print/20030317-7.html. In un discorso a Cincinnati il Presidente Bush disse «Non abbiamo voluto questa sfida, ma la accettiamo». Cf «President Bush Outlines Iraqi Threat» (Trascrizione), Washington: The White House, Office of the Press Secretary, 7 Ottobre 2002. 6 J. NORTON, «U.S. enlist Michael Novak to help defent concept of preventive war», in Catholic News Service Report (14 gennaio 2003). 7 8 G. WEIGEL, «Moral Clarity in a Time of War», in First Things (2003) 20-27. CH.P. VOGT 196 RdT 47 (2006) 195-218 le9. È importante che luso di questa tradizione da parte di accademici e dei leaders politici riceva un esame continuo, attento e minuzioso. Il fatto che la tradizione della guerra giusta sia stata usata da molti per legittimare la guerra americana contro lIraq una guerra che il Papa Giovanni Paolo II e i vescovi degli Stati Uniti quasi unanimemente considerarono ingiusta fa rinascere la domanda se la tradizione della guerra giusta sia moralmente utile e compatibile con il cristianesimo. Come Anthony Burke ha puntualizzato abbastanza provocatoriamente, «Dobbiamo rimanere sempre indifferenti al fatto che [gli effetti della retorica della guerra giusta] sono stati quelli di legittimare la guerra, discreditare la pace e identificare la giustizia con la violenza?»10. Burke conclude che la tradizione della guerra giusta non è recuperabile e incoraggia quelli che vogliono promuovere la pace ad abbandonare quel modello in favore di uno nuovo (la pace etica). Una tale drastica modifica non è ancora argomentabile. Tuttavia alcuni cristiani incluso me stesso che vorrebbero continuare ad appoggiare luso della tradizione della guerra giusta debbono fare dei passi per indicare i modi in cui essa è stata male usata e manipolata tanto da facilitare piuttosto che scoraggiare il ricorso alla guerra. In questo saggio voglio dapprima chiarire perché i cristiani che vorrebbero continuare a difendere luso della tradizione della guerra giusta debbono iniziare a prestare attenzione al problema di chi sta utilizzando questa tradizione, e quale più ampio sistema di valori viene preso in considerazione nelluso prudenziale delle categorie di guerra giusta. La mia opinione è che la stessa tradizione della giusta guerra non può essere considerata uno strumento della etica cristiana a meno che non sia radicata entro una più ampia intelaiatura morale che sia profondamente arricchita da una visione teologico cristiana. Dopo aver motivato questa affermazione, esaminerò uno dei criteri della guerra giusta (la proporzionalità) e mostrerò come tale criterio funzioni in maniera differente quando connesso a una visione cristiana, specificatamente quando collegato alla virtù cristiane della compassione e del rispetto delle persone. 1 LA TRADIZIONE DELLA GUERRA GIUSTA: UNA CORNICE PURAMENTE SCHELETRICA La tradizione della guerra giusta è stata qualche volta presentata come una teoria comprensiva, autosufficiente, che soprattutto richiede 9 J. BETHKE ELSHTAIN, «A Just War?», in Boston Globe 10 (2002). A. BURKE, «Just war or ethical peace? Moral discourses of strategic violence after 9/11», in International Affairs 80 (2004/2) 337-8. 10 RdT 47 (2006) 195-218 197 CH.P. VOGT di essere applicata ai diversi casi particolari11. Tuttavia, come Nicholas Rengger ha puntualizzato, un esame dello sviluppo storico della tradizione della guerra giusta contraddice questo punto di vista. Essa non è stata concepita per reggersi da sola, come un gruppo di principi universali, ma piuttosto si è evoluta come uno strumento della casistica che era profondamente inserito in più comprensivo approccio della moralità12. In altre parole, in qualche misura unepistemologia modernista è unimposizione estranea alla tradizione della guerra giusta e questa imposizione conduce a incomprensione sul corretto uso di questultima. Stanley Hauerwas propose una riflessione simile una decina di anni addietro. Commentando luso della tradizione della guerra giusta per difendere la prima guerra americana in Iraq, Hauerwas invitò i cristiani a rendersi maggiormente conto del fatto che i criteri della guerra giusta non sono mai usati in astratto, ma piuttosto sempre in un contesto13. La sua affermazione era che la validità morale delle conclusioni tratte dai criteri della guerra giusta dipendono pesantemente dai valori delle persone che utilizzano tali criteri. Per esempio, lapplicazione dei principi della guerra giusta assunse una connotazione cristiana nelle mani di Paul Ramsey che poté accogliere la tradizione della guerra giusta soltanto perché egli riteneva che essa sarebbe stata applicata in accordo con i vari valori non espressi che egli considerava come essenziali (ad esempio, la santità inviolabile della vita umana innocente)14. Allo stesso modo, nelle mani di cinici capi politici che hanno a cuore soltanto gli interessi della loro nazione, il criterio della guerra giusta non serve un riconoscibile proposito morale cristiano, ma piuttosto semplicemente promuove gli interessi dello Stato. Di conseguenza, non è sufficiente chiedere se sono stati applicati i criteri della guerra giusta. Ci si deve sempre domandare come essi sono stati applicati; si deve cercare di evidenziare quale impostazione morale ha informato le decisioni morali delle persone che usano la guerra giusta. Posto il significato morale dei valori e dellidentità dellagente morale nelluso della tradizione della guerra giusta, è necessario specificare più chiaramente chi potrebbe usare questa tradizione in maniera propria. George Weigel ha offerto una possibilità in merito. Egli ha descrit11 Anche la Conferenza episcopale dei vescovi americani è colpevole di ciò. Per esempio, nel Statement on Iraq quando scrive sulla difficoltà di determinare «come applicare le norme della guerra giusta in casi particolari». 12 N. RENGGER, «On the just war tradition in the twenty-first century», in International Affairs 72 (2002/2) 360-361. 13 S. HAUERWAS, «Whose Just War? Which Peace?» in D.E. DECOSSE (ed.), But Was it Just? Reflections on the Morality of the Persian Gulf War, Doubleday, New York 1992, 86. 14 S. HAUERWAS, «Whose Just War? Which Peace?», cit., 91-2. CH.P. VOGT 198 RdT 47 (2006) 195-218 to la tradizione delle guerra giusta come uno dei modi per forgiare lo Stato (statecraft). Egli scrive: «I capi religiosi e gli intellettuali più noti sono chiamati a coltivare e sviluppare le ricchezze moralfilosofiche della tradizione della guerra giusta. La tradizione in se stessa, tuttavia, esiste per servire gli uomini di Stato»15. Per Weigel, lapplicazione autoritativa della tradizione della guerra giusta è nelle mani delle autorità politiche pubbliche che egli afferma hanno uno speciale «carisma di responsabilità» e sono «più pienamente informate sui fatti rilevanti»16. Pertanto Weigel afferma che i rappresentanti ecclesiali o i teologi che propongono giudizi specifici circa la legittimità morale di un dato conflitto militare stanno oltrepassando i limiti della loro competenza ed autorità17. Weigel estende la nozione di autorità legittima, che fa senza alcun dubbio parte della tradizione della guerra giusta, per proporre unaffermazione più comprensiva che la Chiesa e i comuni cittadini alla fine debbono rimettersi ai capi in quanto concerne lentrare in guerra. Questo modello di applicazione della tradizione della guerra giusta è inaccettabile e contrario alla tradizione morale cattolica. Anche se Weigel è corretto nella sua affermazione che i capi politici hanno la responsabilità ultima nel determinare se la loro nazione dovrà entrare in guerra, questo non equivale ad affermare che dobbiamo ritenere la loro decisione come moralmente corretta. Altrimenti, ciò significherebbe dire che poiché la polizia ha legittimamente il diritto e il potere di usare la forza, qualunque uso della forza esercitato da un rappresentate della legge (o approvato dal capo della polizia) deve essere considerato come autorizzato. Weigel ha confuso lavere il potere di ingaggiare la guerra con quello di sapere se è giusto ingaggiarla. Dobbiamo soltanto pensare alla Germania nazista per vedere i pericoli che derivano da tale confusione. Su un altro importante punto Weigel è corretto, in un senso molto limitato, tecnico, ma in un modo che è fondamentalmente fuorviante. Weigel è dalla parte della ragione quando afferma che la tradizione della guerra giusta è un elemento necessario a forgiare lo stato (statecraft), ma in realtà è molto più di ciò. Come ha notato Michael Baxter, luso pastorale delle categorie della guerra giusta ha una storia molto più lunga. Dallepoca di Agostino fino alla nascita dello Stato moderno, la tradizione della guerra giusta è stata usata come mezzo per descrivere le condi15 G. WEIGEL, «Moral Clarity in a Time of War», cit., 27. 16 Ib., 27. Weigel si riferisce qui al Catechismo della Chiesa Cattolica, par. 2309, dove si afferma che è responsabilità del presidente giudicare con prudenza se sia il caso di entrare in guerra. 17 RdT 47 (2006) 195-218 199 CH.P. VOGT zioni secondo cui i cristiani possono moralmente giustificare la loro partecipazione, nella forma di azioni violente, che chiaramente si oppone alle «parole dure» del Vangelo18. Questo servì come risorsa per sviluppare linee guida per i confessori che dovevano determinare la colpevolezza di un soldato e la gravità del suo peccato quando ritornava dalla guerra; questo servì come base per proibire di combattere la domenica e presumibilmente per proibire armi barbariche (ad esempio le balestre), comè indicato nei codici medioevali di diritto canonico, e così via19. In questo modo, la tradizione della guerra giusta assunse una funzione pastorale di assistenza del popolo di Dio nel valutare i suoi obblighi morali con riferimento al comportamento in guerra; pertanto, è enormemente riduzionistico invocare la tradizione della guerra giusta come strumento per forgiare lo stato (statecraft). Si tratta di uno strumento da usare per assistere i leaders politici quando sono impegnati in affari internazionali, ma esso deve rimanere anche uno strumento che deve essere usato dagli intellettuali, dai responsabili ecclesiali e dai comuni cittadini nella valutazione delle politiche dei loro capi politici. In entrambi i casi, se i cristiani vogliono continuare a sostenere luso dei criteri della guerra giusta, essi devono insistere che chiunque usi questi criteri lo faccia in un modo che dipende dagli impegni morali cristiani fondamentali. 2 UN PRIMO MODESTO PASSO: RIPENSARE COME MISURARE LA PROPORZIONALITÀ Che differenza farebbe insistere che i valori cristiani (come laffermazione del valore universale di tutti gli esseri umani, la inviolabilità della vita umana innocente, e così via) incidono sulluso che si fa della tradizione della guerra giusta? Rispondere a questa domanda per ognuno dei criteri della guerra giusta è un impegno eccessivamente ambizioso per questo articolo. Pertanto la mia riflessione si focalizzerà soltanto su un criterio: la proporzionalità. Anthony Burke ed altri hanno individuato nella proporzionalità «il tallone di Achille della teoria della guerra giusta», argomentando che le strategie di combattimento delle forze armate americane in Iraq e in Afganistan «hanno ambedue messo a dura prova i limiti legali della proporzionalità ed evidenziato la sua totale inadeguatezza etica»20. M. BAXTER, «Just War Theory: For Statecraft or Pastoral Care?», pubblicato online da Pax Christii, USA 2004: http://www.paxchristiusa.org/news_events_more.asp?id=830. 18 19 ID., «Just War and Pacifism: A Pacifist Perspective in Seven Points», in Houston Catholic Worker 24 (2004/3). Ottenibile presso http://www.cjd.org/paper/baxpacif.html. 20 A. BURKE, «Just war or ethical peace?...», cit., 342. Burke prende a prestito la frase «tallone di Achille» da Nicholas Wheeler. Vedi N. WHEELER, «Dying for Enduring CH.P. VOGT 200 RdT 47 (2006) 195-218 Ho scelto di focalizzare il mio interesse sulla proporzionalità non soltanto perché è stata pesantemente criticata, ma piuttosto per la sua centralità nella tradizione della guerra giusta. Di fatto, senza il principio di proporzionalità come una delle sue parti costitutive, lidea di una guerra giusta cessa di avere moralmente senso. Allo stesso tempo, chiunque abbia familiarità con la tradizione della guerra giusta sarebbe daccordo nellaffermare che il principio di proporzionalità è vago, guidandoci soltanto verso un grossolano rapporto di bilanciamento tra i beni e i mali. Di conseguenza, la mia precedente affermazione che lapplicazione dei principi della guerra giusta dipende pesantemente dallabilità degli attori coinvolti di comprendere i benefici e i danni in gioco e di valutare bene quanto riguarda la loro relativa importanza, è estremamente rilevante per il criterio di proporzionalità. Nonostante il fatto che lapplicazione della proporzionalità è impossibile senza un modo di ragionare prudenziale, coloro che difendono e considerano opportuna la tradizione della guerra giusta hanno offerto una guida molto limitata circa il processo specifico di decisione che coloro che hanno ricevuto legittimamente lautorità dovrebbero porre in essere quando riflettono sulluso della forza. Nella restante parte di questo studio, inizierò con lo stabilire che la proporzionalità non può essere considerata da sola come principio. Si tratta di un principio su basi dialogiche che dipende dalla prudenza. In seguito, specificherò quali valori debbono essere alla base della applicazione prudenziale del principio di proporzionalità, se questo debba servire gli obiettivi più ampi della visione cattolica della pace e di un giusto ordine mondiale21. Ciò che si richiede qui è una riflessione su come Freedom: Accepting responsibility for civilian casualties in the war against terrorism», in International Relations 16 (2002/2) 209. 21 Per una recentissima riaffermazione del Papa su questa prospettiva vedere GIOVANPAOLO II, «Pacem in Terris: A Permanent Commitment», in America 188 (2003/4) 18. Drew Christiansen, S.I., ha scritto molto di recente su come la tradizione della guerra giusta debba essere vista come una componente di una più ricca teologia cristiana della pace. Vedere «Whither the Just War?», in America 188 (2003/10) 7-11. Altrove egli ha fornito una descrizione molto lucida degli sviluppi dellinsegnamento cattolico ufficiale sulla guerra e sulla pace, argomentando che la tradizione della guerra giusta ha ancora uno spazio sicuro nel pensiero morale cattolico sulluso della forza, ma che il Papa Giovanni Paolo II ha insistito affermando che le esigenze connesse alla promozione della pace e gli imperativi evangelici contro la guerra debbono moderare luso di questa tradizione. Linsegnamento ufficiale ha sempre più insistito sulla priorità della non violenza sia nel caso degli individui che nella politica pubblica mentre ancora permette luso della forza in casi eccezionali (specialmente dove lintervento militare sia richiesto per proteggere innocenti dal massacro certo). Vedi D. CHRISTIANSEN, «After Sept. 11: Catholic Teaching on Peace and War», in Origins 32 (2002) 33-40. Lisa Sowle Cahill ha fornito una utile analisi della relazione fra la riflessione sulla guerra giusta e i filoni più pacifisti della riflessione morale cristiana. Ella situa il Papa Giovanni Paolo II molto più fermamente entro la tradizione della guerra giusta malgrado la sua indubita- NI RdT 47 (2006) 195-218 201 CH.P. VOGT ognuno, considerando la moralità di un dato conflitto, possa raggiungere una comprensione adeguata dei costi morali della guerra. Non sto qui parlando della adeguatezza di una informazione intelligente (benché anche questo sia importante), ma piuttosto mi chiedo cosa significa conoscere veramente i costi (inflitti ai soldati ed ai civili nemici) della decisione di iniziare una guerra. Fino a che punto si può affermare che chi è responsabile di lanciare un attacco militare comprende le conseguenze della propria od altrui decisione in modo sufficiente per decidere la guerra? Cosa costituisce una sufficiente conoscenza da parte dei comuni cittadini nel loro sforzo di discernere se essi debbono opporsi alla guerra su basi morali (sia politicamente che mediante lobiezione di coscienza)? Rispondendo a queste domande proporrò due punti principali. Primo, dal punto di vista di una prospettiva cristiana, il ragionamento prudenziale sarà insufficiente a meno che il rispetto per le persone e la compassione non agiscano come virtù associate allapplicazione della prudenza. Senza il rispetto per le persone e la compassione, una vera conoscenza morale della proporzionalità è impossibile. Secondo, quando si considera la proporzionalità, luso di un modo di ragionare prudenziale deve unirsi allo sforzo di conoscere i costi della guerra a livello emotivo. Diana Fritz Cates è stata molto di aiuto esaminando limportanza del conoscere e riconoscere le emozioni nel caso del discernimento morale riguardante laborto. Propongo che una simile argomentazione possa essere utilizzata a proposito della decisione riguardante la guerra; non si può valutare in modo adeguato il criterio della proporzionalità nella guerra giusta senza prendere in considerazione le implicazioni a livello emotivo. 3 PROPORZIONALITÀ E INDISPENSABILITÀ DELLA PRUDENZA Il 13 settembre del 2002 il vescovo Wilton D. Gregory scrisse per incarico della Conferenza dei vescovi cattolici degli USA al presidente George W. Bush per esprimere le preoccupazioni del Comitato amministrativo della Conferenza sulluso della forza militare americana contro lIraq22. In quella lettera il vescovo Gregory richiamò lattenzione del presidente Bush sui criteri tradizionali della Chiesa sulla guerra giusta bile enfasi sulla priorità della non violenza attiva. Ella ritiene che il suo orizzonte complessivo nellaffrontare la questione della guerra e delluso della forza abbia una affinità molto maggiore con il pensiero sulla guerra giusta dellAquinate e di John Courtney Murray piuttosto che con il pensiero pacifista di Dorothy Day, Thomas Merton ed altri. Vedere L. SOWLE CAHILL, «Theological Contexts of Just War Theory and Pacifism: A Response to J. Bryan Hehir», in Journal of Religious Ethics 20 (1992) 259-65. 22 W.D. GREGORY, «Statement on Iraq», in Origins 32 (2002) 406-8. La Dichiarazione è ottenibile anche on line presso www.nccbuscc.org. CH.P. VOGT 202 RdT 47 (2006) 195-218 che includono la proporzionalità. Egli ammoniva che luso della forza «non deve produrre mali e disordini più gravi del male che deve essere eliminato»23. Sviluppando questo concetto, il vescovo Gregory pose una serie di domande al presidente e al popolo americano nel suo complesso (un uditorio implicito nel caso di un documento diffuso pubblicamente come questo). Egli chiese se un attacco non potesse favorire proprio il tipo di attacco terroristico che la guerra che si era iniziata avrebbe dovuto prevenire. Egli chiese se il popolo iracheno non avrebbe potuto soffrire gravemente e se un attacco non potesse distruggere la pace e la stabilità in tutta la regione. Di conseguenza, la lettera faceva emergere il problema della proporzionalità, ma non dava risposte definitive alla domanda se in una analisi finale una azione militare avrebbe prodotto mali e disordini più gravi di quelli perpetrati dal regime di Saddam Hussein. Nella lettera del vescovo Gregory appare evidente come egli e la Conferenza dei vescovi da lui rappresentata credevano che un attacco contro lIraq non superasse la prova della proporzionalità; immediatamente dopo la serie di domande succitate, il vescovo Gregory scrisse: «la nostra opinione su queste questioni ci porta a raccomandare la necessità che la nostra nazione e il mondo continuino a ricercare attivamente alternative alla guerra nel Medio Oriente»24 . Dato per scontato che una schiacciante maggioranza dei membri della conferenza episcopale aveva concluso che lazione contro lIraq non avrebbe superato la prova della proporzionalità, si deve notare tuttavia che essi scelsero di presentare le loro argomentazioni in maniera interrogativa. Questo stile indica un implicito riconoscimento del fatto che su una materia come questa, è possibile che persone di buona volontà siano in disaccordo25. Nel presentare le loro argomentazioni sotto forma di una serie di domande puntuali, i vescovi furono capaci di fare emergere problematiche morali rilevanti e sottolineare le loro preoccupazioni in modo tale da coinvolgere contemporaneamente persone con opinioni differenti a proposito di un contenzioso come quello riguardante un intervento militare26. 23 Qui il vescovo Gregory cita il catechismo. Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992, n. 2309. 24 W.D. GREGORY, «Statement on Iraq», cit. Cf il paragrafo con lintestazione «Norms governing the conduct of war». Il Vescovo Gregory fa questa esplicita affermazione in una lettera più recente. Tale lettera afferma: «Come pastori e maestri comprendiamo che non ci sono risposte facili. Le persone di buona volontà potrebbero avere opinioni diverse su come applicare le norme tradizionali in questa situazione». Cf «Statement on Iraq», rilasciata il 26 Febbraio 2003 come riportato da Catholic News Service. Per il testo completo vedere www.nccbuscc.org. 25 Questo metodo di coinvolgimento pubblico è daccordo con i principi stabiliti dai vescovi cattolici degli Stati Uniti dAmerica nel guidare il loro approccio nellaffrontare 26 RdT 47 (2006) 195-218 203 CH.P. VOGT Questo approccio interrogativo o dialogico alla proporzionalità rivela qualcosa di come le norme della tradizione della guerra giusta sono state tipicamente comprese ed applicate. Ciò significa affermare che la tradizione dipende pesantemente dalla prudenza dei capi politici. Già da vari secoli la formula grezza della proporzionalità è stata articolata consistentemente e con convinzione da diversi pensatori appartenenti alla tradizione della guerra giusta: il male della guerra non deve superare il valore e limportanza dei beni che si vogliono proteggere iniziando una guerra. Tuttavia, cosa costituisca esattamente una specifica violazione di quel principio è restato consistentemente sotto un velo di incertezza. Il lavoro di William V. OBrien fornisce un bellesempio del fenomeno: chiara formulazione e vaga applicazione. Nel suo libro The Conduct of Just and Limited War, egli definisce chiaramente i termini della proporzionalità come la necessità di assicurare che «il bene che deve essere raggiunto attraverso la guerra chiede di essere proporzionato al male che risulta dalla guerra». Tuttavia, subito dopo egli continua affermando che il criterio chiave della proporzionalità è la ragionevolezza e pertanto la sua valutazione dipenderà sempre dal contesto della specifica situazione27. Pertanto, diventa difficile fare affermazioni generali riguardanti lapplicazione del principio28. Ciò che diventa evidente è che il criterio della guerra giusta in generale e della proporzionalità in particolare non sono sufficientemente consistenti per reggersi da soli29. La grossolana veridicità del principio i problemi di pubblico interesse. Cf «Faithful Citizenship: A Catholic Call to Political Responsibility», http://www.usccb.org/faithfulcitizenship/bishopStatement.html. La dichiarazione venne scritta in occasione delle elezioni presidenziali del 2004. 27 W.V. OBRIEN, The Conduct of Just and Limited War, Praeger, New York 1981, 41. Non è solamente limportanza del contesto che rende difficile misurare la proporzionalità. La vera natura dei benefici e dei danni da valutare rende difficile misurare la proporzionalità. Brian Orend, a partire dal pensiero di Michael Walzer, coglie bene questa difficoltà quando scrive: «Non possiamo in nessun modo utilizzare la matematica nel pronunciare tali giudizi di proporzionalità. Come si può misurare il valore dellindipendenza di un paese paragonandolo al valore di sconfiggere un regime aggressivo? Come possiamo pretendere di misurare sulla stessa scala di valori e i benefici dello sconfiggere una aggressione a confronto con il numero delle perdite umane necessario per ottenerlo?». Cf B. OREND, Michael Walzer on War and Justice, McGill-Queens University Press, Montreal 2000, 100. Per la personale elaborazione del punto di vista di Walzer su questo argomento, vedere la prefazione riveduta in Just and Unjust Wars 2nd Ed., Basic Books, New York 1991, XV-XXI. 28 29 James Childress suggerisce che i criteri della guerra giusta rimangono utili come cornice per più significative discussioni su guerre particolari, ma mette in guardia sul fatto che la tradizione della guerra giusta non può funzionare da sola come una «solida» teoria morale adesso che le convinzioni condivise dai cristiani sulla giustizia che nel passato costituivano la base di tale teoria non sono più condivise universalmente. La teoria della guerra giusta dipende dalle diverse solide concezioni della giustizia presenti CH.P. VOGT 204 RdT 47 (2006) 195-218 della proporzionalità prende forma reale soltanto se combinata alla prudenza di un particolare uomo di stato e a una visione più ampia della moralità e giustizia che ne guidi il processo decisionale30. Alla luce di questo fatto, i cristiani che volessero sostenere luso prolungato del criterio della guerra giusta dovranno andare oltre la pura e semplice reiterazione della logica grossolana della proporzionalità per affrontare con maggiore profondità il problema di come quei criteri debbano essere applicati con prudenza31. È necessario specificare quali virtù e quali valori debbano permeare il processo deliberativo riguardante una guerra. 4 LE VIRTÙ CHE RIGUARDANO LOPERARE PER LA PACE: ESSENZIALI PER IL RAGIONARE CRISTIANO PRUDENZIALE Nel decimo anniversario della loro lettera pastorale, The Challenge of Peace: Gods Promise and Our Response, la Conferenza episcopale dei vescovi cattolici degli Stati Uniti pubblicò il documento The Harvest of Justice is Sown in Peace nel quale riflettevano sul loro documento precedente, su cosa era stato realizzato e su cosa richiedeva una attenzione ulteriore32. Di particolare interesse per i vescovi era ciò che essi percepivano essere un prolungato evitare sforzi positivi destinati a promuovere la pace così come un diffuso fallimento nel raggiungere quello che essi definivano «la spiritualità e letica delloperare per la pace». I vescovi citarono diverse «virtù capaci di promuovere la pace» negli agenti che applicano tali criteri. In una società pluralista ciò si traduce in un ampio spettro di opinioni su come questi criteri debbano essere prudentemente applicati. J. CHILDRESS, «Just War Criteria», in R.B. MILLER (ed.), War in the Twentieth Century: Sources in Theological Ethics, Westminster-John Knox Press, Louisville 1992, 368. Stanley Hauerwas sostiene questo argomento quando afferma che il criterio della guerra giusta non esiste in astratto ma piuttosto è sempre radicato in un particolare contesto. Questa è una delle ragioni del perché Hauerwas è molto scettico sulluso di questi criteri. Egli afferma che Paul Ramsey poteva sostenere luso del criterio della guerra giusta solo perché riteneva che gli Stati Uniti non avrebbero mai intenzionalmente preso di mira ed ucciso degli innocenti. Hauerwas si domanda implicitamente se luso di questi criteri possa essere moralmente tollerabile nelle mani di chi non riconosce la necessità di una tale proibizione assoluta. Cf S. HAUERWAS, «Whose Just War? Which Peace?», in D.E. DECOSSE (ed.), But Was it Just? Reflections on the Morality of the Persian Gulf War, Doubleday, New York 1992, 86-92. 30 31 James Childress pone questa sfida quando lamenta che i teologi e i filosofi non hanno prestato maggiore attenzione allapplicazione dei criteri della guerra giusta. Vedere J. CHILDRESS, «Just War Criteria», cit., 364. 32 USCCB, The Harvest of Justice is Sown in Peace (17 novembre 1993), NCCBUSCC, Washington. Questo documento e la precedente lettera pastorale sono rintracciabili in http://www.nccbuscc.org. RdT 47 (2006) 195-218 205 CH.P. VOGT che debbono essere perseguite da individui e da comunità se la pace deve cominciare a diventare una realtà concreta: fede, speranza, coraggio, compassione, pazienza, perseveranza, civiltà e carità. Prima di discutere ciascuna di queste virtù specifiche, è necessario innanzitutto sottolineare che i vescovi intendono le suddette virtù solo come uno sviluppo personale spirituale o una devozione privata. Nella sezione che immediatamente precede la loro discussione sulle virtù capaci di promuovere la pace, i vescovi scrivono: «Per sua stessa natura il dono della pace non è limitato ai momenti di preghiera. Esso cerca di raggiungere gli angoli più remoti della vita di ogni giorno e di trasformare il mondo»33. In altre parole, i vescovi stanno stabilendo che cè una responsabilità nel perseguire le virtù che consente di promuovere la pace non semplicemente negli affari interpersonali della vita privata di ognuno, ma anche nellarena pubblica e politica in cui il mondo viene trasformato. In seguito, la rilevanza delle virtù capaci di promuovere la pace nella sfera pubblica è ulteriormente chiarita ed enfatizzata nel documento The Harvest of Justice quando i vescovi evidenziano limportanza della non violenza. Essi scrivono che la non violenza non deve essere semplicemente vista come un impegno personale. Al contrario, essi suggeriscono che una resistenza attiva non violenta dovrebbe essere intrapresa come necessità di politica pubblica. Essi non giungono al punto di affermare che la resistenza non violenta dovrebbe sostituire luso giusto della forza militare, ma essi suggeriscono che le autorità pubbliche hanno lobbligo di promuovere mezzi non violenti di promozione della giustizia e risoluzione dei conflitti prima di iniziare a considerare il ricorso alla forza34. Quello che tutto questo rende evidente è che oggi la tradizione della guerra giusta deve essere vista entro un più ampio contesto dellinsegnamento cattolico sulluso della forza. La guerra giusta non deve essere considerata come il (solo) mezzo a cui ricorrere per portare un certo maggiore ordine nelluniverso spesso caotico degli affari internazionali35. La validità della tradizione della guerra giusta e dei suoi criteri rimane intatta, ma deve essere usata come parte di quella visione molto più ampia riguardante la necessità di promuovere la pace e la giustizia nel mondo. La tradizione della guerra giusta deve essere usata in maniera tale da integrare la comprensione cattolica della necessità di per33 Cf la sezione immediatamente precedente «A Virtues and a Vision for Peacemakers». Le esatte parole usate sono che gli impegni per perseguire mezzi non violenti «innalzano il limite per un ricorso alla guerra». Cf la sezione 5 del paragrafo appena precedente «Just war: new questions». 34 35 Ciò è contro Weigel che limita la questione a se ci trovassimo di fronte a una scelta fra caos totale e amoralità nella sfera delle relazioni internazionali o luso della tradizione della guerra giusta. CH.P. VOGT 206 RdT 47 (2006) 195-218 seguire attivamente la non violenza, promuovere la solidarietà universale e luniversalità del bene comune, e la ricerca di virtù capaci di promuovere la pace. Di conseguenza, perfino quando fanno ricorso alla tradizione della guerra giusta e considerano la possibilità di usare la forza militare, i cristiani debbono entrare in tale discernimento sotto la guida di queste virtù capaci di promuovere la pace. Le categorie della guerra giusta e dellimpegno cattolico per promuovere la pace non dovrebbero operare ciascuna in un proprio universo parallelo. Quello che voglio mettere in luce è semplicemente un modo in cui la tradizione della guerra giusta potrebbe cessare di agire in maniera indipendente da una più ampia visione cattolica di promozione della pace. Propongo che le virtù capaci di promuovere la pace, quali il rispetto per gli altri (o riconoscimento della dignità umana universale) e la compassione, devono diventare operative nel decidere sulla proporzionalità, se questa continua a rimanere un concetto od un criterio che i cristiani possono approvare. Per misurare la proporzionalità è necessario conoscere i costi della guerra e determinare se questi costi debbono essere sostenuti nel ricercare beni morali più significativi. Non possiamo conoscere veramente i costi della guerra senza le virtù del rispetto e della compassione. Naturalmente, non ho lintenzione di suggerire in nessun modo che soltanto la pratica di queste due virtù sarà sufficiente per discernere sulla proporzionalità o la complessiva giustezza di un conflitto militare. Sono essenziali tutte le virtù e di fatto la intera visione riguardante la pace che è stata sviluppata nella Dottrina Sociale Cattolica. Nella discussione che segue, presumo che considerazioni di giustizia, coraggio, pazienza, perseveranza e così via debbono essere in gioco quando si considera la misura della proporzionalità o di qualunque altro criterio della guerra giusta. Ho enfatizzato il rispetto per le persone e la compassione poiché è mia opinione che sono stati largamente ignorati. A questo articolo dovrebbe far seguito un ulteriore studio per chiarire in modo più approfondito come le virtù che qui presento debbano essere integrate con tutte le altre virtù cristiane. 5 AFFERMANDO LA DIGNITÀ UMANA UNIVERSALE: LA VIRTÙ DEL RISPETTO PER LE PERSONE Uno dei valori significativi dellinsegnamento sociale cattolico è laffermazione della dignità di ogni persona umana36. Affermare il concet36 Per un riassunto conciso delle implicazioni sociali dellinsegnamento della Chiesa sulla dignità umana ed alcuni altri pertinenti riferimenti consultare il PONTIFICIO CONSIGLIO GIUSTIZIA E PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, specialmente i numeri 105-14 e 132-34. RdT 47 (2006) 195-218 207 CH.P. VOGT to della universale dignità umana è riconoscere che ogni essere umano è titolare di diritti umani fondamentali, che ha diritto alla vita e che la sua sofferenza e la sua morte dovrebbero essere motivo di valutazione morale. Se dovessimo tradurre il sostegno al concetto della dignità umana in termini di virtù, potremmo dire che questo valore si esprime nella virtù del rispetto per le persone. Mostrare un rispetto appropriato per la ricchezza morale degli altri esseri umani significa agire virtuosamente. Diana Fritz Cates ha presentato una riflessione molto ampia e articolata sulla virtù del rispetto che vale la pena citare in modo esteso: «È una attitudine capace di riconoscere nelle persone un profondo valore morale e spirituale, e di sperimentare questo valore a livello emotivo. È unattitudine capace di avvicinarsi alle persone con cautela, ponendosi di fronte a loro con attenzione morale e forse anche a una certa distanza da loro permettendo una certa privacy ed una libertà di azione nellesercizio delle loro azioni morali, e con ciò rispettando lo spazio morale separato e inviolabile che essi occupano come soggetti personali. È unattitudine capace di bloccare i nostri impulsi ad ignorare le persone, sbarazzarsi di loro, controllarle, o in altri modi usarle come semplici mezzi per i nostri scopi. Il rispetto è, allo stesso tempo, unattitudine capace di accogliere e di rispondere alle persone che sono fondamentalmente come noi e pertanto condividono la stessa base morale. È unattitudine capace di avvicinarsi agli altri con lappassionato interesse di proteggere i diritti fondamentali e le responsabilità che appartengono a noi tutti per il semplice motivo che siamo persone»37. In poche parole, la virtù del rispetto è lattitudine morale capace di riconoscere e procurare ciò che è dovuto agli altri a partire dalla nostra comune dignità umana. Nel contesto della guerra e delluso della forza militare, luniversalità della virtù del rispetto delle persone diventa particolarmente importante. La guerra è la quintessenza delle situazioni in cui siamo tentati di ignorare le persone o disporre di loro o spesso di considerare come bene la loro eliminazione. La virtù del rispetto chiede che noi riconosciamo che tutte le persone anche i nemici sia civili che militari sono fondamentalmente come noi (cioè esseri umani) e pertanto dotate di valori morali e spirituali sostanziali. Nel momento in cui è unita alla virtù del rispetto per le persone, la prudenza non potrà perdonare un metodo di misura della proporzionalità che consideri la vita dei nemici, soldati e civili, come non rilevante. Sfortunatamente è stato evidente almeno nelle prime fasi della presente guerra in Iraq che lamministrazione Bush non era interessata ad attuare questo livello di conoscenza morale e non aveva nessun vero interesse nel determinare se la propria campagna militare potesse superare la prova di proporzionalità in bello. La strategia americana del D. FRITZ CATES, «Caring for Girls and Women Who Are Considering Abortion: Rethinking Informed Consent», in ID. - P. LAURITZEN (edd.), Medicine and the Ethics of Care, Georgetown University Press, Washington 2001, 170. 37 CH.P. VOGT 208 RdT 47 (2006) 195-218 «colpire e intimorire» destinata ad impaurire una sopraffatta forza militare irachena, inducendola a una sollecita capitolazione, richiese una massiccia offensiva militare. È discutibile o anche dubbio che questo fosse un uso proporzionato della forza militare38. Ciò che turba di più, tuttavia, è il fatto che non vi sia alcuna evidenza che lamministrazione Bush non abbia neppure preso in considerazione la domanda se il massacro dellesercito iracheno fosse un mezzo proporzionato per realizzare i propri obiettivi (o in ultima istanza se tale massacro fosse avvenuto o invece lesercito iracheno si fosse «squagliato» o scomparso come alcuni ufficiali del Pentagono avevano suggerito). Di fatto, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non fecero alcuno sforzo per accertarsi della ampiezza della devastazione dei loro attacchi iniziali. Nesssuno dei due governi ebbe la volontà di fornire anche solo stime grossolane del numero di soldati o civili iracheni uccisi durante la così detta fase attiva del conflitto militare39. I capi militari affermarono categoricamente che essi erano preoccupati soltanto dalla consistenza delle rimanenti forze attive irachene; il numero dei morti non li interessava in alcun modo40. In una guerra ad alta tecnologia come linvasione americana dellIraq, era possibile per i soldati e i comandanti militari eliminare completamente un intero esercito senza avere alcun indizio di quanti soldati nemici fossero stati uccisi nel processo41. I vescovi cattolici degli U.S.A. hanno scritto che «le strategie richieste per luso di una forza schiacciante e decisiva possono sollevare problemi circa la proporzionalità e la discriminazione [...]. Gli sforzi per ridurre i rischi che dipendono dalle forze della propria nazione debbono essere limitati da giudizi attenti alle necessità militari e capaci di non trascurare i diritti dei civili e dei militari avversari». È importante sottolineare che i vescovi considerano luso di una forza schiacciante come moralmente dannoso non soltanto perché i civili possono essere più facilmente vittime del fuoco incrociato ma anche perché esso è potenzialmente una violazione dei diritti e della dignità dei militari nemici. USCCB, Harvest of Peace, sezione 6. 38 39 J.M. BRODER, «A Nation at War: The Casualties: Number of Iraqis Killed May Never be Determined», in New York Times, 10 Aprile 2003, B1. Si dovrebbe notare che il numero dei morti era ben lungi dallessere poco rilevante. Broder riporta che un anonimo militare americano disse che «Nei bombardamenti delle differenti divisioni la distruzione era terrificante. Intere divisioni furono distrutte. Molti tornarono a casa, ma molti vennero uccisi». In un altro attacco il comando principale U.S.A. stimò che da 2000 a 3000 militari iracheni vennero uccisi in un combattimento di tre ore a Bagdad da parte di una divisione corazzata U.S.A. 40 J.M. BRODER, «A Nation at War: The Casualties; U.S. Military has no Count of Iraqi Dead in Fighting», cit., B3. Un interessante argomento, troppo complicato per essere affrontato qui, è come le armi tecnologicamente sofisticate e gli strumenti altamente tecnologici usati dagli Stati Uniti per gestire i campi di battaglia hanno avuto un profondo effetto su come i soldati americani hanno fatto esperienza delle realtà della guerra, cosa che a sua volta ha influenzato la valutazione dei capi politici e dei cittadini della nazione su come le 41 RdT 47 (2006) 195-218 209 CH.P. VOGT 6 COMPASSIONE E PROPORZIONALITÀ: CONOSCERE LA SOFFERENZA DEGLI ALTRI IN GUERRA Strettamente legata alla virtù del rispetto per le persone è la virtù della compassione. Come ha fatto a proposito del rispetto per le persone, Diana Fritz Cates ci offre una ancor più concisa definizione di questa virtù: «Compassione è lattitudine capace di accorgersi di coloro che stanno soffrendo e di avvicinarsi a loro con apertura e pienezza di attenzioni tali da renderci capaci di sperimentare elementi della loro sofferenza come parte della nostra. È lattitudine capace di rispondere, in parte a motivo della esperienza comune di sofferenza, in maniera tale da alleviarla»42. Compassione è una attitudine che chiede di imparare a vedere e sentire in modo particolare. Diventare compassionevole richiede la volontà di percepire la sofferenza che altri debbono sopportare; di fatto, è unattitudine capace di imparare attivamente a vedere la sofferenloro tattiche militari superano il test della proporzionalità. James Der Derian ha fornito una avvincente analisi degli effetti della tecnologia sui modi in cui i soldati si preparano alla guerra e fanno esperienza del combattimento. Le forze militari americane hanno ora la capacità di mettere in atto una guerra mediante un telecomando a distanza, se ciò esistesse. I comandanti di battaglia monitorizzano la situazione a distanza di sicurezza usando il rilevamento con i computer e la video sorveglianza. Le truppe coinvolte nel combattimento adesso spesso combattono a notevole distanza dal nemico. Le perdite umane non sono inflitte affrontando faccia a faccia il soldato nemico e sparandogli; al contrario, oggi si uccide da lontano per via aerea e mediante attacchi con mezzi blindati confermati da controllo remoto con i computer. Le conseguenze morali di questo metodo di ingaggio possono essere profonde. Come fa notare Der Derian, «Nella preparazione simulata e nellesecuzione virtuale della guerra, cè un alto rischio che si impari a uccidere ma non ad assumerne la responsabilità; uno sperimenta la morte ma non le sue tragiche conseguenze». Lascesa dellinsurrezione irachena è anticipata dallanalisi di Der Derian, la cui applicabilità in questo caso è discutibile. Tuttavia il suo pensiero resta rilevante per ponderare su futuri conflitti. J. DER DERIAN, Virtuous War: Mapping the Military-Industrial Media Entertainment Network, Westview, Boulder (CO) 2001. Per una più serrata presentazione su questo argomento come lho qui descritto vedere J. DER DERIAN, «Virtuous War / Virtual Theory», in International Affairs 76 (2000) 771-88. 42 D. FRITZ CATES, «Caring for Girls », cit., 170. Per una molto più profonda trattazione della virtù della compassione, vedere il libro eccezionale di D. FRITZ CATES, Choosing to Feel: Virtue, Friendship and Compassion for Friends, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1997. Per una trattazione più concisa sullargomento della compassione vedere P. WADELL, «Compassion», in C. STUHLMUELLER (ed.), Collegeville Pastoral Dictionary of Biblical Theology, Liturgical Press, Collegeville (MN) 1996, 157. Per una più ampia articolazione della mia comprensione della virtù della compassione, vedere Patience, Compassion, Hope and the Christian Art of Dying Well, Rowman & Littlefield, Lanham (MD) 2004. CH.P. VOGT 210 RdT 47 (2006) 195-218 za. Inoltre, la compassione richiede di cominciare a condividere quella sofferenza, o come sottolinea Cates di «condividerne lesperienza» («coexperience»). Nel contesto della misura della proporzionalità, perseguire la virtù della compassione richiede ben più che riconoscere semplicemente il valore morale e la dignità dei nemici, soldati o civili. La compassione richiede che uno effettivamente condivida la sofferenza di tutte le vittime di ogni guerra che si intraprenda. Per comprendere il pieno significato della mia affermazione, che le virtù della compassione e del rispetto per le persone devono guidare il ragionamento prudenziale nella misura della proporzionalità, è necessario vederle come virtù che sono operative non soltanto a livello intellettuale ma anche in quello emotivo43. Ricordo che nella definizione del rispetto per le persone citata in precedenza questa virtù richiede non soltanto il riconoscimento razionale, cognitivo che le altre persone hanno un valore non misurabile, ma anche «di sperimentare questo valore a livello emotivo». Manca qualcosa nella nostra ricerca di compassione e rispetto per gli altri se manchiamo dellessere toccati interiormente al punto di provare emozioni in qualche modo, come risultato della nostra pratica di queste virtù. Alimentare queste virtù non implica soltanto pensare ed agire rettamente, ma anche sviluppare disposizioni emotive adeguate verso gli altri. Infatti, falliremmo nellintento di pensare ed agire con compassione se perseguissimo queste virtù in una maniera emozionalmente sterile, razionalistica. Senza una componente emotiva, non si può veramente affermare di conoscere o comprendere i danni in gioco nella decisione di ognuno a favore o contro la guerra. È importante riconoscere che la virtù della compassione è non soltanto razionale ma anche emotiva, perché un crescente corpus della letteratura etica ha chiarito come lesperienza emotiva sia una dimensione chiave della conoscenza morale44. In un articolo iniziale su questo argomento, J. Giles Milhaven partì da una esperienza personale per affermare che il giudizio morale tende «ad essere incompleto, eccessi43 Permettetemi di sottolineare che non sto sostenendo un modo strettamente emotivo di prendere una decisione, ma piuttosto uno che includa ambedue: la componente razionale e quella emotiva. Ho accentuato qui la dimensione emotiva poiché i modi strettamente razionali di prendere delle decisioni hanno avuto una sproporzionata importanza nel passato. D. FRITZ CATES, «The Religious Dimension of Ordinary Emotions», in Journal of the Society of Christian Ethics 25 (2005) 35-53. M. NUSSBAUM, Upheavals of Thought: The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, New York 2001. Per unutile analisi su questo lavoro vedere D. FRITZ CATES, «Conceiving Emotions: Martha Nussbaums Upheavals of Thought», in Journal of Religious Ethics 31 (2003/2) 325-41. 44 RdT 47 (2006) 195-218 211 CH.P. VOGT vamente astratto, e non veritiero in relazione alla realtà umana» quando perde una dimensione emotiva incarnata45. Milhaven (di razza bianca) a lungo si era opposto al razzismo a livello intellettuale, ma trovò che la sua opposizione ad esso si approfondì fortemente quando cominciò a sentire compassione per una persona particolare di razza negra che aveva sofferto a causa del razzismo. Soltanto dopo aver ascoltato la storia di questo uomo e aver tentato di sperimentare personalmente il dolore di quella sofferenza, Milhaven raggiunse una piena conoscenza morale. Milhaven scrisse che fu soltanto dopo «aver condiviso a livello emotivo (co-feeling) lorrore, la repulsione, la brama, la rabbia, la disperazione e la speranza» di una persona che aveva sofferto ripetutamente a causa del razzismo che egli comprese quanto male vi fosse in esso46. La realtà della guerra e lurgenza di stabilire una pace durevole non possono essere comprese adeguatamente senza una esperienza di compassione a livello emotivo. Una analogia potrebbe essere utile per rendere più chiaro questo punto. Una decisione per la guerra è una decisione per una azione caratterizzata da ciò che si potrebbe chiamare «male pre-morale». Anche nel caso che una guerra possa essere giustificata moralmente, e pertanto distinta da unazione immorale, ciò nonostante essa causerà grandi mali. Le proprietà saranno distrutte, molte persone saranno uccise ed altre saranno menomate, lasciate orfane e rese senza tetto. La decisione sulla moralità della guerra è una decisione sul fatto se luso della violenza può essere proporzionato alla protezione di alcuni beni vitali. Da un certo punto di vista questo tipo di decisione è analogo alle decisioni riguardanti laborto prese da molte donne nel mondo intero47. Molte donne si chiedono se la violenza letale dellaborto possa essere giustificata dal fatto che potrebbe permettere loro di proteggere alcuni beni nella loro vita (ad esempio proteggere la loro reputazione, mantenere la capacità di intraprendere una carriera o un più alto livello di studi, 45 J. GILES MILHAVEN, «Ethics and Another Knowing of Good and Evil», in D. YEAGER (ed.), Annual of the Society of Christian Ethics, Georgetown University Press, Washington DC 1991, 237-48. 46 Ivi. Naturalmente la corrispondenza fra queste due circostanze è lontana dallessere esatta. Non si tratta della stessa decisione, ma di una decisione simile. Vorrei affermare chiaramente e senza ambiguità che non intendo giustificare luso dei criteri della guerra giusta come un metodo per cercare di giustificare laborto, nemmeno intendo suggerire che affermo che laborto può talvolta essere giustificato moralmente. Propongo questa analogia unicamente per fare notare che in ambedue le situazioni colui che deve prendere una decisione si trova di fronte a un interrogativo simile: in quale istante lei o lui possono affermare di conoscere e capire il male che conseguirà come risultato di una decisione a favore della violenza? Cosa costituisce una conoscenza morale adeguata? 47 CH.P. VOGT 212 RdT 47 (2006) 195-218 ecc.)48. Non sto suggerendo che la considerazione morale della guerra e la considerazione morale dellaborto siano equivalenti, ma piuttosto che fra di esse vi sono alcune somiglianze circa i modi di decidere nel caso di ciascuno di esse. Recentemente, Diana Fritz Cates ha esaminato attentamente il ruolo delle emozioni nei processi decisionali da parte di donne che considerino laborto. La sua ricerca ha cercato di rispondere a domande molto simili a quelle prese qui in considerazione: cosa costituisce una adeguata conoscenza di ciò che è in gioco nel procurare un aborto? Cosa costituisce conoscenza e comprensione sufficiente mediante cui una donna può prendere una decisione informata sullaborto49? Cates intraprese il suo studio per migliorare la comprensione tradizionale di cosa costituisce consenso informato in contesto medico. Nel suo studio sui processi di decisione di donne che stanno affrontando scelte riguardanti laborto, Cates trovò che nel caso di molte donne la conoscenza emotiva era una componente cruciale per una adeguata comprensione morale50. Ella riferì di una amica che stava decidendo, ritenendo che «stava lottando con se stessa a proposito dellaborto mancandole informazioni rilevanti che potevano essere raccolte solo provando alcune emozioni dolorose (ed allo stesso tempo riflettendo su di esse)»51. Cates sostenne che la sua amica non poteva scegliere in modo informato sulla proporzionalità della sua decisione di abortire senza aver sperimentato parte del dolore che causa un aborto. La sua abilità a ragionare con prudenza e a vedere e conoscere il prezzo e la vastità della sua decisione erano impediti nella misura in cui lei si riparava dal peso emotivo della sua decisione. Cates scrive che se la sua amica avesse sperimentato «in modo totale che la vita fetale nel suo corpo aveva un valore [ ] avrebbe sofferto molto più dolore nel suo processo decisionale. Questo in se stesso sarebbe stato triste ma [ ] la decisione di Judy sarebbe stata molto più veritiera, avrebbe rispettato maggiormente i beni differenti e concorrenti in gioco, essendo stata in parte presa con tristezza»52. 48 James Gustafson articola bene le complessità del processo di decisione ed azione morale riguardante laborto nel caso di donne che stanno cercando di decidere volendo bilanciare benefici e danni. Cf J.M. GUSTAFSON, «A Protestant Ethical Approach», in S. E. LAMMERS - A. VERHEY, On Moral Medicine: Theological Perspectives in Medical Ethics, 2d edition, Eerdmans Grands Rapids, (Mich.) 1998, 600-11. Per uno studio totalmente basato su effettivi racconti ed esperienze di donne, vedere E. KUSHNER, Experiencing Abortion: A Weaving of Womens Words, Harrington Park Press, New York 1997. 49 D. FRITZ CATES, «Caring for Girls », cit., 168. 50 Ivi. 51 Ib., 165. D. FRITZ CATES, «Caring for Girls », cit., 173. Vorrei evidenziare che la citazione riportata non è la conclusione di Cates sullargomento. In questa citazione lautrice comunica una visione della situazione (quella di unaltra amica che consigliò allamica di 52 RdT 47 (2006) 195-218 213 CH.P. VOGT Nel presentare questanalogia, il punto che vorrei esprimere in termini di criteri di proporzionalità della guerra giusta è che limmagine di un capo che cerchi di valutare razionalmente un enorme libro mastro di beni e di mali nello sforzo di misurare la proporzionalità non è sufficiente. Naturalmente, ci dovrà essere molta attenzione e decisione razionale, ma le virtù capaci di promuovere la pace richiedono che si sperimentino le realtà della guerra anche a livello emotivo. Inoltre, fino a che non si comprende a quel livello la tragedia e la realtà della guerra si fallirà nel vivere in modo incarnato le virtù capaci di promuovere la pace della compassione e del rispetto per le persone. Si fallirà nel vedere queste vittime come pienamente umane e perciò non si darà sufficiente peso alle loro sofferenze o alla loro morte nella determinazione della proporzionalità. 7 PRATICARE IL RISPETTO PER LE PERSONE E LA COMPASSIONE NELLE DECISIONI RIGUARDANTI LA GUERRA Naturalmente, esplicitare come si potrebbe praticare concretamente il discernimento morale sulla proporzionalità richiederebbe una trattazione estesa. Permettetemi di iniziare questo processo indicando un modo in cui si potrebbero tenere insieme il rispetto per le persone, la compassione e la misura della proporzionalità. Tom Beaudoin ha argomentato che la nostra abilità di agire con prudenza e giustizia nelle nostre decisioni sulla guerra dipende dalla nostra volontà di vedere i volti di coloro che soffrono in conseguenza degli atti di guerra della nostra nazione. Egli afferma che le autorità politiche e il pubblico nel suo insieme, entrambi restii a permettere che il loro sguardo si posi sui volti di coloro che sono morti in guerra o sui volti angosciati delle persone amate che sono state lasciate indietro, hanno perso la loro capacità di riflettere moralmente sulla guerra. Egli scrive «Affrontare i volti della sofferenza in Iraq è condizione necessaria per permettere alla morte, come ha proposto il teologo Johann Baptist Metz, di interrompere la nostra falsamente consolatoria distanza dalla guerra. Ci obbligherebbe a chiederci: quale tipo di esperienza cristiana ci permette di mantenere questa interruzione alla distanza di un braccio»53? abortire). La stessa Cates è più cauta sul fatto se si debba spingere le donne a fronteggiare le loro emozioni nella maniera sostenuta da «Laura»; Cates è più disposta a riconoscere che in alcune circostanze il rifiuto delle donne a impegnarsi in maniera forte è psicologicamente impossibile o non desiderabile. Parla di questo a pagina 175 del testo succitato. 53 T. BEAUDOIN, «The Iraq War and Imperial Psychology», in America 192 (2005/2) 15. CH.P. VOGT 214 RdT 47 (2006) 195-218 Beaudoin ritiene che meditare sui volti del nemico e sui volti di tutti coloro che soffrono a causa della guerra sia il modo migliore per superare la nostra tendenza a ignorare questa «interruzione». Con questa scelta egli è debitore al lavoro di Emmanuel Lévinas che ha ampiamente sviluppato limportanza del volto umano come catalizzatore per una seria riflessione morale. Lévinas chiarisce: «Il processo di riflessione generato dal volto di un altro individuo non è solo un pensiero circa qualcosa una rappresentazione ma è anche un pensiero per, un non essere indifferente nei confronti dellaltro che turba lequilibrio dellanimo calmo ed impassibile della conoscenza pura. È risvegliarsi allunicità dellaltra persona che non può essere afferrata dalla conoscenza, è un passo verso il nuovo venuto come colui che è contemporaneamente unico e compagno»54. Nel contesto della guerra un reale incontro faccia a faccia o una relazione non è generalmente possibile, ma un incontro visivo con i volti di coloro che soffrono può esserci. Lincontro faccia a faccia descritto da Beaudoin e Lévinas mostra una notevole somiglianza con la più completa descrizione di Milhaven di come ricercare una piena consapevolezza morale o quello che egli descrive come «conoscere corporalmente» e integrare tale conoscere nel processo di decisione ed azione morale. Egli ricorda di essersi imbattuto nellimmagine di un bambino sofferente del Kurdistan guardando la televisione e di cosa ha rivelato tale incontro morale con quella immagine: «a) Percepisco o immagino con i sensi del bambino sofferente. b) Percepisco il bambino come singola persona. È lei e non è stata nessunaltra, è, o sarà sempre, lei stessa. Non è nessun altra che lei. c) Percepisco o immagino che il bambino si rivolga a me. Non è forse il bambino kurdo che mi chiede qualcosa? d) La vita di questo bambino, il suo passato e il suo futuro entrano in me, per quanto in modo oscuro e parziale. e) Provo empatia. Sento qualcosa di quello che il bambino sente. Il mio stomaco sprofonda. Solo un poco, senza che io lo voglia, sprofonda. f) Riconosco i punti a, b, c, d, e, e vi rispondo. Ho espresso i miei propri sentimenti incarnati in risposta alla sofferenza del bambino, per esempio orrore, repulsione, brama, rabbia, disperazione, speranza. Perciò anche se potrebbe apparire fantastico, il fatto è che ho interagito con questo bambino»55. Se si cominciano a conoscere i veri costi della guerra i loro costi umani così da poter stabilire se lazione militare supera il test della E. LÉVINAS, «The Face of a Stranger», in The UNESCO Courier 7-8 (1992) 66. Roger Burggraeve presenta una sintesi del pensiero di Levinas sulla «epifania del volto» nel suo libro The Wisdom of Love in the Service of Love: Emmanuel Lévinas on Justice, Peace, and Human Rights, Marquette University Press, Milwaukee (Wis.) 2002, 86-93. 54 55 J. GILES MILHAVEN, «Ethics and Another Knowing », cit., 241. RdT 47 (2006) 195-218 215 CH.P. VOGT proporzionalità, è necessario seguire periodicamente il procedimento succitato impegnando limmaginazione morale ad incontrare le immagini e le storie delle vittime della guerra. A questo punto si potrebbe sollevare una obiezione: non è possibile che una persona possa utilizzare i metodi di discernimento indicati sopra sottolineati e ciononostante arrivare alla conclusione erronea che una guerra ingiusta soddisfa il criterio della proporzionalità? Stiamo vivendo durante un tempo in cui il presidente degli Stati Uniti sembra decisamente disinteressato a conoscere i costi della guerra che egli spinse con forza la sua nazione a perseguire. In tale contesto, si è tentati di pensare che se il presidente volesse soltanto aprire i suoi occhi sulla sofferenza umana in Iraq, egli potrebbe capire che la sua guerra fu un errore, sia moralmente che strategicamente. Bisogna comunque soltanto tornare indietro con la memoria al coinvolgimento militare dellAmerica in Vietnam per porre in dubbio una simile teoria. I documenti e le registrazioni audio dellamministrazione Johnson che furono rese pubbliche nelle passata decade forniscono il ritratto di un presidente che era profondamente consapevole dei costi della guerra in Vietnam; era evidente che il presidente Johnson aveva anche sperimentato la realtà di questi costi a un livello profondo, emotivo56. E tuttavia, il presidente Johnson rimase totalmente deciso a mantenere una presenza militare U.S.A. in Vietnam. Come risposta a queste osservazioni critiche permettetemi di fare due commenti. Primo, voglio essere chiaro nellaffermare che il metodo di applicazione dei criteri della guerra giusta che ho tratteggiato in precedenza non intende trasformare la teoria cattolica sulla guerra giusta in una etica cristiana totalmente pacifista. Riconosco che a volte i capi politici e il pubblico in generale possano assumersi limpegno di una seria riflessione morale a riguardo della moralità della guerra e concludere che un certo conflitto è giustificato. Allinterno della teoria della guerra giusta ciò è legittimabile ed è necessario lasciare spazio per tale possibilità. Voglio ricordare questo soltanto per onestà morale e intellettuale. Secondo, debbo ripetere che tutto ciò che ho dichiarato qui deve essere collegato e integrato, in futuro, a una visione più comprensiva riguardante come applicare tutti i criteri della guerra giusta. In altre parole, sarebbe errato pensare che anche una completa considerazione della proporzionalità emotivamente fondata possa sussistere da sola quale strumento adeguato di deliberazione sulla moralità di ogni guerra. 56 Per la trascrizione di passaggi scelti da queste registrazioni, cf http://americanradioworks.publicradio.org/features/prestapes/d1.html. CH.P. VOGT 216 RdT 47 (2006) 195-218 8 UN RUOLO PER LA CHIESA NEL DELIBERARE SULLA PROPORZIONALITÀ Permettetemi di concludere brevemente offrendo una trattazione schematica di quale sia il ruolo che la Chiesa potrebbe giocare per promuovere il tipo di decisioni sulla guerra e i suoi costi che ho descritto. Il principale compito che la Chiesa dovrebbe assumere è catechizzare i suoi stessi membri circa il processo di discernimento della proporzionalità nel modo particolare che ho descritto. Questo comporterebbe per prima cosa rendere evidente che è necessario per tutti i cittadini responsabili impegnarsi in questo tipo di decisione morale. Come ho chiarito in precedenza, discernere sulla moralità della guerra non è compito da lasciare alle autorità politiche. In una democrazia questa è una responsabilità universale. Rendere realtà questa responsabilità condivisa è il compito più pressante per i cattolici che sono membri delle forze armate, perché, come ha fatto notare Baxter, «I giudizi sulla guerra sono responsabilità dei membri dei servizi armati, degli ufficiali e dei soldati, dei loro leaders pastorali, dei loro vescovi e preti. Lobbligo di eseguire gli ordini non scusa nessuno nel caso egli trascuri lobbligo di non cooperare con il male partecipando a una guerra ingiusta, come è stato stabilito dai padri del Concilio Vaticano II: le azioni che deliberatamente sono in contrasto con questi principi (della guerra giusta) così come gli ordini che comandano tali azioni sono criminali. Lobbedienza cieca non può essere motivo di scusa per quelli che vi si sottomettono»57. In questo modo la Chiesa ha lobbligo pastorale verso quelli che servono nelle forze armate di chiarire come formare le loro coscienze e come utilizzare in modo appropriato la tradizione della guerra giusta. Quantunque la formazione del personale militare sia indispensabile, lo stesso compito di formazione è necessario per ognuno nella Chiesa. Laccusa di Beaudoin di un voluto accecamento e indifferenza morale non è più diretta al personale militare o verso il presidente Bush che al popolo americano generalmente apatico (che include milioni di cattolici). Sono i normali cittadini che a volte passivamente, a volte volutamente, permettono che i corpi dei soldati americani morti vengano nascosti ai loro occhi insieme alle centinaia e centinaia di perdite di cittadini iracheni. Per ambedue questi gruppi, la Chiesa deve impegnarsi in uno sforzo maggiormente condiviso non soltanto per rendere i criteri della guerra giusta più conosciuti, ma per formare lintero popolo di Dio alle virtù capaci di promuovere la pace e ad altri impegni morali cristiani vitali che essi debbono vivere per ben deliberare sulle questioni relative alla guerra. Non bisogna attendere che la guerra sia allorizzonte per inizia57 M. BAXTER, «Just War and Pacifism », cit., punto 6 (le pagine non sono numerate). RdT 47 (2006) 195-218 217 CH.P. VOGT re il lungo processo di coltivare la compassione e il rispetto per tutte le persone. Come tutte le virtù, queste non possono essere semplicemente attivate; devono essere sviluppate per mezzo di una pratica coscienziosa, attiva nel tempo58. A meno che non si coltivi la compassione e il rispetto per la dignità di tutte le persone (vicine e lontane) in tempo di pace relativa, sarà quasi impossibile sviluppare adeguatamente queste virtù in tempo di guerra. Alcuni anni or sono Drew Christiansen scrisse che «la sfida che cè per noi tutti è sviluppare per noi stessi una comprensione contemporanea di guerra e pace che vada ben oltre la guerra giusta e integri la tradizione della guerra giusta con gli impegni che caratterizzano gli elementi della contemporanea visione cattolica della pace, quali i diritti umani, lo sviluppo e la giustizia negli affari internazionali, insieme a nuove considerazioni come la non violenza e il perdono. Il tempo in cui soltanto la guerra giusta poteva definire il pensiero cattolico sulla guerra e sulla pace è passato da tempo»59. Christiansen chiamò i cattolici ad accorgersi delle connessioni fra lo sviluppo e la riduzione dei conflitti internazionali, perché nella sua valutazione (e in quella di molti altri) essi possono essere soltanto risolti insieme. Finché le ingiustizie fondamentali non sono affrontate, non ci sarà pace. Spero di avere offerto un ulteriore motivo del perché il pensiero cattolico sulla guerra giusta debba essere più deliberatamente collegato a una più ampia struttura di valori e virtù cristiani, includendo la compassione e il rispetto per le persone, ma anche il perdono e la non violenza. Realizzare questo legame non è richiesto semplicemente per bilanciare luso della tradizione della guerra giusta. Si debbono sostenere gli sforzi di aiuto e sviluppo internazionale non semplicemente perché facendolo si ridurranno le ingiustizie e perciò si riduce anche la probabilità della guerra. Si debbono perseguire tali sforzi perché essi sono buoni in se, e perché facendolo diventeremo persone che provano compassione, persone che riconoscono la dignità universale degli esseri umani, persone che conoscono la tragedia di vite perdute in remoti angoli del mondo, persone che possono ragionare bene in materia di guerra e di pace. La natura scheletrica della tradizione della guerra giusta richiede a coloro che cercano di usare con prudenza la tradizione di riferirsi ad impegni morali spesso non esplicitati. Nella misura in cui i cattolici falliscono nellintegrare la guerra giusta con la attuale visione cattolica delle virtù, della pace e dei diritti umani, il nostro reale uso della tradizione della guerra giusta risulterà moralmente manchevole. 58 Sulla necessità dellabituarsi a sviluppare le virtù morali cf J.J. KOTVA, The Christian Case for Virtue Ethics, Georgetown University Press, Washington DC 1996, 17-26. 59 D. CHRISTIANSEN, «After Sept. 11 », cit., 40. CH.P. VOGT 218 RdT 47 (2006) 195-218