cieli di parole.indd

Transcript

cieli di parole.indd
Collana
Di Viole e d’ombre e altri racconti
A cura di Fabio Fox Gariani
Editing e Redazione:
Fabio Fox Gariani e Angioletta Storaci
Progetto grafico e impaginazione: Roberta Toresani
Stampato da: Centro Stampa Moderna
In copertina: Foto del “Chiostro dei Glicini”, Società Umanitaria
indice
Presentazione
7
Rotary International
9
Prefazione
11
Di Viole e d’ombre
15
Quel de la Mascherpa
47
Cascina Cuccagna
75
Piazza Grandi
107
Due mondi a confronto
139
La scuola dei bianchi
159
Un pò più a Nord
187
La necessità del fare
207
Le cose non sono come sembrano
239
Generale Koster
259
Bruxa
281
Postfazione
365
Biografie autori
389
Cenni storici
397
un pò più a nord
di Virginia Rosci
“Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord”
Erri De Luca
Il platano, sulla destra del prato davanti a casa, se lo ricordava molto più grande: una chioma fitta, dove d’estate si restava seduti a chiacchierare al fresco.
Niente di simile ai platani di Milano, storti e polverosi, avari di ombra.
Piuttosto come i grandi platani che troneggiano nelle piazze dei paesini in
Grecia, con i muretti bianchi e i caffè.
Adesso, più di vent’anni dopo, il giardino gli appariva più angusto, quasi soffocante. Il prato, le aiuole di rose davanti a casa, il boschetto di pini, l’orto, meno
definiti, in gran parte invasi da rampicanti e erbe matte. L’odore, però, era
uguale: terra umida, erba. Un suono, piuttosto un rumore, un ferro che batte in
un capannone, lo stesso. Il cielo, invernale, identico ai cieli della sua infanzia.
Alle sue spalle, dominava la casa della sua famiglia, la villa che il nonno di sua
madre aveva acquistato i primi anni del secolo sulle colline verdi della Brianza.
Aveva ancora un fascino freddo, silenzioso. Per tutti quegli anni era rimasta
uguale, ferma, solo un po’ più scolorita, mentre lui girava per il mondo.
E adesso era tornato. Proprio come diceva l’Aldina, la moglie del giardiniere:
“Vai vai che poi tutto torna”.
Niente finisce, prima o poi il passato torna; quello che è rimasto sotto, affiora.
La mattina Lorenzo era partito presto da Milano.
- Me ne vado per qualche giorno – aveva detto al suo amico Fabio – mi tolgo
di torno per un po’ e vediamo …Gli ultimi mesi erano stati duri. Il lavoro, prima di tutto. La banca in cui Lorenzo
lavorava con successo da un paio d’anni era stata acquisita qualche mese prima da un Istituto più grande, e la funzione di cui Lorenzo era manager, Corporate Finance, era stata fusa con quella della banca acquirente.
Risultato: il capo non era più lui, ma l’altro. Impossibile convivere con la frustrazione, avere il proprio team guidato da uno che non sei tu. A trentotto anni,
Lorenzo era “sovrabbondante”.
187
un pò più a nord
Doveva accettare di essere messo da parte, in un ruolo meno strategico, oppure poteva trovare un altro lavoro in un’altra azienda. Ma non era facile. Fino ad
ora, nella sua vita le cose gli erano semplicemente capitate, le opportunità si
erano presentate così, quasi senza sforzo. All’università aveva studiato Storia,
ed aveva approfittato di quegli anni per fare bellissimi viaggi, e per leggere
tutto quello che lo interessava.
Dopo la laurea, il Master in Business Administration negli Stati Uniti gli aveva
dato la possibilità di scegliere tra ottime offerte di lavoro. Competente, gran lavoratore, capace nelle relazioni con gli altri, Lorenzo si era imposto senza fatica
e aveva fatto carriera. Adesso il meccanismo si era inceppato: doveva proporsi,
doveva chiedere. Si scopriva timido al telefono, alle volte impacciato. Guardava
con rabbia i passanti dalla finestra del suo ufficio. Dormiva male.
- Ti ho svegliato? Dormivi? - Chiese Lorenzo a Laura, a voce bassa.
Era la notte il momento più difficile, quando era più forte il bisogno fisico di
avere lei vicino, di provare la consolazione della sua presenza familiare. La solitudine di notte diventava un peso enorme, insopportabile. Lorenzo girava per
la casa silenziosa senza uno scopo: guardava i dorsi dei libri allineati sugli scaffali, scrutava le fotografie che lo ritraevano sorridente, alto, abbronzato, apriva
il frigorifero, sceglieva un cd. Cercava un contatto, e allora il telefono diventava
l’unica risorsa.
- No, non preoccuparti, non mi disturbi. C’è qualcosa che non va? - Rispose lei.
Laura era gentile, paziente. Ma non era lì, non c’era più. Erano stati felici per
tanti anni, avevano viaggiato, avevano creato un loro mondo privato. E poi era
finita. Ognuno nella propria casa, ognuno con le proprie notti.
- Cerca di dormire, dai. Ci sentiamo domani mattina? - Disse Laura
- Penso di andare qualche giorno a Lerici. - Rispose Lorenzo, guardando la strada vuota fuori dalla finestra.
- Ci vai con qualcuno? - Domandò Laura, con sollecitudine, mista ad una punta
di gelosia.
- Ma va’, ti chiamo quando torno. - Va bene, buonanotte. - Ciao… In macchina, nell’alba di Milano, mentre aspettava che il cancello automatico
si aprisse, Lorenzo diede un’occhiata alla posta che si era accumulata nella casella: estratti conto, pubblicità di maghi, di nuovo una lettera della Rowland
Real Estate. La società immobiliare gli aveva già proposto un paio di volte di
188
vendere la villa di Alzate Brianza.“Stiamo progettando un grande Business and
Congress centre” diceva la lettera “con hotel e beauty farm annessi, e la villa può
essere una parte importante di questo development “. Lasciavano capire che
sul prezzo c’erano margini … non sui tempi però: tutto doveva essere deciso
molto velocemente, nella finestra d’opportunità lasciata dal piano regolatore.
La casa dei nonni era un ricordo indelebile nella sua memoria. Lorenzo ci passava le estati da bambino, e dopo la morte dei nonni, per un periodo ci aveva
anche abitato con i suoi genitori.
Era una villa grande e solida, con una struttura lineare ed elegante, affacciata
su una strada tranquilla del paese. Aveva un tono deciso ma al tempo stesso
armonioso: le finestre e la porta di ingresso, dipinte di verde scuro e ornate di
cornici in pietra grigia, creavano un contrasto molto piacevole con l’intonaco
bianco della facciata. Nel giardino gli alberi di alto fusto, che facevano da sfondo alle siepi, agli arbusti e alle aiuole, davano un’idea di armonia e di quiete e
inducevano alla riflessione.
La struttura della casa era ingentilita da una grande terrazza al primo piano,
dalla parte del giardino. Al pianterreno c’erano grandi stanze di soggiorno che
si aprivano sul prato con alte porte finestre.
Sulla destra, c’era una zona servizi, con la cucina, la dispensa e la lavanderia
e, appena fuori, la rimessa per gli attrezzi. Uno scalone di pietra portava dall’ingresso al primo piano, dove c‘erano le camere da letto e i bagni. Una casa
fresca, piena di luce, forse troppo silenziosa.
“Ci vediamo stasera!” diceva suo padre partendo in macchina la mattina presto
per il suo studio di architettura a Milano. Erano stati anni belli, gli anni del liceo
a Como. Poi, con Lorenzo all’università era stato più comodo per tutti ritornare
a Milano. La villa era diventata una casa da week end. Da cinque anni, dopo
l’incidente di macchina in cui erano morti i suoi genitori, Lorenzo ci andava
sempre meno, quasi mai.
Adesso, con la lettera in mano e la prospettiva di passare qualche giorno a
Lerici a guardare il mare dal suo appartamentino, per poi tornare a Milano a
lottare con l’insonnia, Lorenzo sentì un forte desiderio di essere di nuovo a
casa, circondato dalle sue cose e dai suoi ricordi. Non voleva vendere la villa.
Piuttosto, sentiva di volerla difendere ad ogni costo. La sua BMW correva, sulla
strada senza traffico a quell’ora del mattino. Puntò a nord.
La seconda notte, dormì meglio, quasi un sonno filato fino alla mattina.
La prima sera che aveva passato alla villa era stata un disastro: lenzuola fredde,
189
un pò più a nord
impianto di riscaldamento asmatico, odore di polvere e di umido, un senso
di inutilità. Con il passare del tempo, Lorenzo si sentì meno frastornato. Fece
qualche acquisto, diede una pulita, telefonò all’immobiliare per comunicare
che l’offerta non gli interessava.
Girò per le stanze vuote guardandosi attorno, e le cose che vedeva, fodere delle poltrone, appliques sui muri, interruttori della luce, tende, lo riportarono con
la memoria al tempo eterno della sua infanzia.
Si commosse alla vista di una lunga crepa sul pavimento, dove aveva infilato
dei cerini per fare un viale illuminato; ricordò la sensazione di essere immerso
nella vasca da bagno con i piedini, l’aria satura di vapore. Rivide, sulla scala che
dalla dispensa portava giù alla cantina, l’Aldina, con i suoi occhi neri e il vestito
scuro, a disegnini bianchi.
Risentì la sua voce che raccontava storie terrorizzanti.
Parlavano della Signora … la signora Olinda Bazzini, la prima proprietaria della
villa. In cantina, anelli avvitati al muro segnavano il luogo dove Olinda aveva
agganciato le catene che avevano tenuta prigioniera la cuoca e la sua bambina di quattro anni; la cuoca era colpevole di aver intrecciato una relazione
con Myro, un giovane turco che lavorava in una filanda nel paese vicino. Imbavagliate, senza forze, madre e figlia non avevano potuto farsi sentire, quando
Myro era venuto a cercarle.
“Se ne sono andate, via, partite. E tu, non farti più vedere …” .
Non si poteva discutere con la Signora.
Di Myro non si ebbero più notizie. Dei segni rosso scuro, in cantina, marcavano
il punto in cui Olinda, aiutata dal marito, aveva alla fine ucciso a coltellate le
due donne.
Una storia orribile, di intolleranza, gelosia, amarezza, invidia della donna matura per la giovinezza e la fertilità della giovane. Di un infame sodalizio tra i due
coniugi. Se ne era parlato per anni, nel paese e in tutta la regione, anche dopo
che i due assassini furono arrestati, ritenuti incapaci di intendere e di volere,
rinchiusi in un manicomio criminale.
Tutto questo era accaduto anni prima che il bisnonno Felice comprasse la
casa, ma Aldina non dimenticava, non si dava pace, sentiva la presenza nefasta
di Olinda, vedeva i suoi occhi socchiusi brillare nel buio della cantina affilati
come lame; sentiva le sue urla di rabbia in fondo al boschetto.
In certe notti, percepiva la presenza della giovane cuoca, quando questa entrava in cucina per preparare qualcosa da mangiare alla sua piccola. Lorenzo,
ancora bambino, ascoltava questi racconti senza osare muoversi.
La sera a letto pensava a quella bambina legata nel freddo umido della canti-
190
na, una bambina di cui nessuno ricordava il nome.
- C’è qualcuno? - Una voce, dall’ingresso, lo fece trasalire, strappandolo dal
suo viaggio nel tempo. Imboccò rapido le scale e vide nella penombra dell’ingresso una giovane donna alta, con i capelli scuri, mossi, e una carnagione
luminosa.
- Sei tu, Lorenzo? - Chiese la donna, guardandolo da sotto in su. Aveva un viso
carino, espressivo, che spuntava dal collo di pelo di una giacca invernale.
- Scusi, e lei chi è? - Ribatté lui, scrutandola da metà scala.
- Sono il fantasma con le mani sanguinanti … scherzo, sono Elena, la figlia dell’Aldina! Non ti ricordi di me? Ho visto la casa aperta …- Rispose Elena, arrossendo.
- Ma certo che mi ricordo! E’ che è passato tanto tempo! Ti trovo bene. Sai che
m’hai quasi fatto paura? - Esclamò Lorenzo.
- Ci vuol altro per spaventare uno come te! Ti fermi per molto? Ho sentito che
vendi la casa. - disse Elena
- Non credo, starò qui solo qualche giorno. Tu abiti ancora in paese? - Sono tornata l’estate scorsa, ho aperto un piccolo ristorante, La Sorgente, sulla strada per Orsenigo. - rispose Elena.
- E l’Aldina come sta? –
- Non molto bene, non c’è più con la testa, abbiamo dovuto ricoverarla a S.
Primo. - Mormorò Elena, triste.
- Oh, mi dispiace … - L’aria, d’improvviso, s’era fatta ancora più fredda. Elena, lo
guardò: gli stessi occhi di sua madre Aldina, scuri, diretti.
- Adesso ti lascio. Ciao. Verso sera, seduto vicino al camino che era riuscito ad accendere dopo molti
tentativi e maledizioni, Lorenzo pensò a Elena, bambina prima e ragazzina poi.
I giochi fino a tardi la sera in estate, con le ombre che avanzavano nel giardino,
mentre loro due si inseguivano un’ultima volta fino al boschetto di pini, correndo a perdifiato. Che segreti si raccontavano, nascosti nella rimessa?
Non ne ricordava neanche uno, ma risentì il respiro di Elena sulla sua faccia,
rivide le sue gambe abbronzate.
Ricordò l’emozione che provò, a tredici anni, quando prese per mano Elena,
tornando da messa, e la baciò, appoggiandosi a lei, contro il muro della villa
vicina. Poi, con il liceo, gli amici erano cambiati, e la figura di Elena, con i suoi
occhi brillanti, era scivolata sullo sfondo.
Gli tornò in mente una chiacchiera che aveva sentito qualche tempo prima in
paese: Elena aveva abitato per qualche anno a Milano, con un pittore di origini
191
un pò più a nord
egiziane, ma la storia non era andata bene. Prima d’addormentarsi, sentì un
lamento, poi un colpo sordo, provenire dalla cantina.
“Un impianto di riscaldamento proprio vecchio” pensò, appena prima di addormentarsi.
Salendo per la strada a curve che porta a nord, oltre Erba, ai Corni di Canzo, c’è
sulla destra un grande bosco di querce e carpini. Nessuno se ne occupa, ed è
completamente invaso dai rampicanti: vischio, edera, piante infestanti.
Con il suo Hummer nero, Sirio sfrecciò attraverso i piccoli paesi a gran velocità,
incurante della strada. Non poteva arrivare in ritardo: come ogni plenilunio,
l’appuntamento era fissato per mezzanotte in punto, nello spiazzo che avevano creato vicino al grande frassino. Il ricordo dell’incontro del mese precedente lo fece improvvisamente avvampare e sudare: forse s’erano spinti un po’
troppo avanti. La ragazza era giovane, bruna, e le sue urla disperate avevano
perforato la notte.
Come era iniziato tutto?
Sirio aveva sempre avuto successo negli affari: già a ventotto anni partecipò
a un viaggio premio per i migliori venditori di una grande rete immobiliare,
in Thailandia. Spregiudicato, grande parlantina, un’eleganza ostentata, era
irresistibile nei contatti di lavoro, un vero bulldozer. Non molto alto ma ben
piazzato, già un po’ calvo, viveva solo; le sue storie amorose erano di poco conto: modelle conosciute a Milano, ragazze vistose, da scarrozzare in giro per le
feste, da mettere in mostra come trofei di carne.
Quel primo viaggio in Thailandia, non se lo sarebbe mai dimenticato. In branco,
con i colleghi frequentavano i locali in cui si esibivano ragazzine giovanissime,
che poi li invitavano a rimanere con loro la notte. Impagabile, la sensazione di
potenza e di dominio che ti fa provare un corpo acerbo, di bambina.
A quel viaggio ne seguirono altri; quelle prime esperienze sbiadirono a fronte
di quelle che vennero dopo.
Se conoscevi i canali e i siti giusti, c’erano mille modi per soddisfare ogni giorno la fame di sensazioni oltre il limite.
Di recente, un “contatto” lo aveva cooptato, accompagnandolo in un vero percorso iniziatico, in un gruppo di “uomini puri” che volevano difendere la propria identità dalla contaminazione di razze inferiori, aliene.
Si sentivano degli eletti. Il loro credo toccava delle corde molto profonde in
Sirio: era sempre stato intollerante, ma di recente era diventato furioso, da
quando la sua adorata cugina Elena aveva avuto una relazione con quel pittore egiziano.
192
La cosa per lui rasentava la blasfemia.
Sirio si sentiva a tutti gli effetti uno del gruppo.
Non si sarebbe fermato davanti a nulla.
Si avvicinò a passi veloci, scostando le edere e le corolle pelose che gli si appiccicavano addosso: ansimava. Finalmente raggiunse la radura. Il rito stava
cominciando. La donna, nera e sudata, stava stesa in mezzo al cerchio degli
uomini, svenuta. Iniziarono i canti cerimoniali. Sirio e gli altri cominciarono a
dondolare, stringendosi sempre più, fino a che sulla radura ci fu solo un intrico di corpi, una massa vibrante di male percorsa da spasmi. La luna rendeva
spettrali le facce, gli occhi avidi dei membri della setta, scuro e pesante il corpo
della ragazza; la notte era ancora lunga, il rito appena iniziato.
Quando tutto fu compiuto, e l’ultimo urlo della donna si spense in un gorgoglio, Sirio seguì il sentiero per ritrovare la sua auto. Grida d’uccelli lo accompagnavano sul percorso accidentato. La luce incerta dell’alba invernale dava
forme strane ai viluppi di rampicanti parassiti. Sirio accelerò il passo.
Per un’altra luna, sarebbe rientrato nelle abitudini borghesi dell’agente immobiliare di successo, quello che trattava gli affari più importanti, l’uomo di
fiducia di una multinazionale del Real Estate, la Rowlands, che aveva grandi
progetti nella zona. La mente già correva agli impegni della settimana, alle
decisioni da prendere, alle strategie da mettere in atto per raggiungere i suoi
obiettivi. Aprendo la portiera della sua Hummer, improvvisamente si accorse
di avere una mano macchiata di sangue.
Era una ferita piccola ma piuttosto profonda: asciugò il sangue che continuava
a sgorgare, e bendò la mano con un fazzoletto. Nessun problema: si sarebbe
medicato più tardi. La ragazza, non l’avrebbero mai trovata, se mai l’avessero
seriamente cercata. Con un brivido improvviso, riprese la strada di casa.
La sera successiva, Lorenzo si trovò a passare dalla cucina, parlando tra sé e sé:
erano ormai tre giorni che viveva da solo nella villa. La mattina aveva ricevuto
un biglietto, recapitato a mano, dell’agente locale della Rowlands, Sirio Proserpio, che proponeva un appuntamento per riparlare della proposta d’acquisto.
No, anche questo poteva aspettare.
Trascorreva le giornate tutto solo, circondato da un grande silenzio. Passava in
rassegna vecchi libri, oggetti, album di fotografie e, nelle ore più calde, puliva
il giardino dalle erbacce. I suoi contatti con il resto del mondo si erano limitati
alle poche sortite per comperare qualche cosa da mangiare, detersivi, utensili,
193
un pò più a nord
candele. Erano giorni che non parlava con nessuno, escludendo il breve incontro con Elena.
Anche il telefono cellulare taceva: Milano, il suo lavoro, il suo amico Fabio, che si
stava affermando come scrittore, tutto gli pareva remoto e distante. Si sentiva
come svuotato, con in fondo all’anima una piccola fonte di energia, tutta nuova. Ma nello stesso tempo, la casa gli comunicava una sensazione di grande
inquietudine, palpabile come un’umida carezza sul viso. Passando la mano sul
freddo marmo della cucina, si rese conto che era davvero solo.
Strano, quella macchia scura sul tagliere di legno non l’aveva notata prima, e
neanche le piume vicino al lavello.
Arrivò al ristorante di Elena dopo aver camminato per più di mezz’ora, attraversando nuovi quartieri a lui sconosciuti fatti di villette, cresciute come funghi negli ultimi anni. La notte era fredda, silenziosa.
Per strada non incontrò nessuno; sentì solo due cani che abbaiavano dietro
una siepe di recinzione. E ancora, lontano, quel rumore ripetuto, come di un
ferro che batte.
Accelerò il passo, con un’ansia crescente, sperando ad ogni svolta di scorgere
la luce della Sorgente. Il ristorante di Elena lo accolse un po’ trafelato. Lorenzo si
lasciò alle spalle il buio della notte, avvolto in un abbraccio dorato.
- Buonasera, vuole accomodarsi a questo tavolo? - Lorenzo si sedette, stupito
che fosse un bell’uomo disinvolto ad accoglierlo, e non Elena. La sala del piccolo ristorante era elegante e intima, quasi piena. La luce calda delle lampade
sui muri e il bagliore delle candele sui tavoli facevano brillare le tovaglie di
fiandra, i bicchieri di cristallo, la vecchia credenza di legno lucido. “Lavarello in
carpione leggero, lasagnette di grano saraceno con casera, verze e patate, luccio
con caponata di verdure…”
Guardando il menu e la carta dei vini Lorenzo si rese conto che Elena era riuscita a realizzare un progetto di qualità: un locale semplice ma raffinato, familiare,
dove ti sentivi un po’ speciale, quasi coccolato.
- Come va? - Chiese Elena. Al momento del dolce, finalmente era venuta a salutarlo al tavolo.
- Siediti un momento dai! - Disse Lorenzo. Elena era bellissima nel suo vestito
nero con una scollatura rotonda, su cui portava un grembiule candido. I capelli
raccolti sulla nuca le lasciavano scoperto il collo.
- Solo un attimo, poi devo scappare. Allora, come hai cenato? - Molto bene, benissimo! Il cameriere mi ha consigliato un pesce straordinario
…- rispose Lorenzo.
194
- Parli di Luca? E’ il mio socio, è davvero molto bravo con i clienti. - Disse Elena
sorridendo.
- E tu? Fai l’angelo del focolare? Ti tiene chiusa in cucina, a spadellare? Sei proprio una ragazza da sposare. - Commentò in tono pungente, sarcastico.
Elena gli lanciò un’occhiata sorpresa, come rattristata.
In quel momento arrivò Luca:
- Scusi gliela porto via un momento. - Disse a Lorenzo, e circondando la vita di
Elena con un braccio, la guidò verso il bancone, dove si fermarono a discutere
qualcosa, le teste vicine. Lorenzo aspettò che Elena tornasse al suo tavolo, ma
altri clienti la chiamarono, e lei si limitò a fargli un cenno di saluto, da lontano.
Solo più tardi, tornando a casa, Lorenzo ripensò a quello sguardo, sentendosi
in colpa per averla ferita. Pensò ad Elena e al suo socio, seduti a un tavolo a
bersi un bicchiere di vino rosso dopo una giornata di lavoro, soddisfatti. Lui,
dal canto suo, non lo era affatto. La notte, intorno alla villa, fredda e silenziosa,
lo fece sentire ancora più solo.
Entrando nella villa, sentì subito l’odore. Già sulla soglia aveva cominciato a
percepirlo, e man mano che avanzava lo sentiva attorno, sui muri, sul pavimento. Era ovunque. Lo sentì addosso, nel naso, dentro la gola, sulle mani. Un miscuglio di polvere, vestiti bagnati, ruggine, muffa, vecchie bambole. Un odore
soffocante, di cantina. Arrivato in cucina, si rese conto che la porta che dalla
dispensa portava di sotto, in cantina, era aperta.
S’avvicinò all’apertura. Nero. Il buio più assoluto. Solo, guardando verso il fondo, gli parve d’intravedere dei bagliori, come degli occhi fissi su di lui. Apparivano, poi sparivano veloci. E quell’odore, così forte da sembrare quasi una
materia, che lo avvolgeva e lo stordiva. Cominciò a scendere i gradini, attratto
e insieme terrorizzato da quello che avrebbe potuto trovare in basso.
All’improvviso, sentì un fortissimo rumore dall’esterno della cucina: un crollo,
un grido, dei passi.
Corse via come un pazzo, il cuore in gola, inciampando sugli scalini che lo portavano alla sua camera da letto. Sbarrò la porta, controllò che la finestra fosse
ben bloccata, si guardò attorno, ansimante.
Le vecchie paure e le fantasie più orribili ritornarono tutte insieme nella sua
mente, travolgendolo, come i personaggi di un film horror: la Signora, la cuoca,
la bambina… ma non c’era nessuno a consolarlo. Nella tasca dei pantaloni,
trovò il biglietto da visita della Sorgente.
D’impulso compose il numero sul cellulare, per parlare con Elena.
Squillò a vuoto: nessuna risposta.
195
un pò più a nord
Era proprio solo, e la notte ancora molto lunga. Ricontrollò porta e finestra,
sdraiandosi infine sul letto.
Per tutta la notte, sentì i rami del platano che battevano sui vetri, graffiandoli.
- Ciao, cosa fai in giro? Sirio incontrò Elena che camminava svelta per strada la mattina presto, diretta
al negozio di verdura e frutta.
La piazza del paese era vuota, e lui aveva notato da lontano la cugina avvicinarsi; aveva studiato il suo passo elastico, osservato la sua figura solida ma
aggraziata, ammirato i capelli sciolti sulle spalle. Per fortuna era tornata, e la
storia con quel cane di un pittore era finita.
Sirio era stato sempre possessivo nei riguardi di Elena; fin da piccolo l’aveva
tenuta d’occhio, marcandola stretta anche perché sentiva che lei era forte e
indipendente, infastidita dalla sua invadenza.
Dal canto suo, Elena era colpita dall’eleganza costosa del cugino. Vestito grigio
scurissimo, cappotto di cachemire e sciarpa di seta.
Sembrava appena uscito da una rivista di moda maschile. Assolutamente niente fuori posto: l’uniforme del professionista lombardo di successo.
Quasi un travestimento.
- Che cosa ti sei fatto alla mano? - Elena indicò un graffio che correva sulla
mano destra del cugino – sei caduto? - Niente, niente … - Guarda che mi sembra un po’ infiammato. - Insistette Elena.
- Ma cosa stai a fare tutte queste storie, ti ho detto che non è niente! - Sbottò
Sirio.
- Hai sentito che è tornato Lorenzo? E’ venuto a cena ieri sera. - Elena cambiò
registro di conversazione. Non voleva litigare.
- Lorenzo? Cosa è venuto a fare? Nostalgia del paesello? Gli dò tempo due
giorni, e vedrai che quello stronzo se ne va. - Sibilò Sirio, stringendo i pugni.
Elena guardò il cugino, colpita dal tono aggressivo.
- Molla l’osso e torna di filato a Milano. - Ripeté Sirio, con un ghigno.
Arrivato in ufficio, Sirio salutò la receptionist, una rossa strizzata in una camicetta lucida, lanciando un’occhiata alle gambe velate che spuntavano dalla
minigonna.
Poco dopo, seduto alla sua scrivania aprì la posta elettronica.
Cristo! Ancora! Un nuovo messaggio di Bona Fide, nickname di una vecchia
conoscenza dei primi anni di lavoro, lampeggiò sullo schermo. Bona Fide!
196
Se lo ricordava bene! Aveva avuto dei guai grossi. Era stato incastrato in una
bruttissima vicenda di pedofilia, ed era anche finito in carcere.
Non aveva più niente da perdere, ed ora, alle strette e sempre più isolato, ricattava Sirio per certe foto che avevano fatto con dei fratellini brasiliani.
Minacciava di farle avere ai suoi capi della Rowlands Real Estate. Non c’era
scampo.
Doveva pagare. Altri soldi. Tanti soldi.
Quell’affare andava chiuso, ad ogni costo.
Dopo aver fatto la spesa, Elena caricò i pacchi sulla sua Vespa bianca e, sulla
strada per il ristorante, passò davanti alla villa di Lorenzo: era tutto chiuso. Decise di scendere a vedere se Lorenzo era in casa.
Si avvicinò al portone d’ingresso senza neanche togliersi il casco da cui spuntavano i riccioli scuri.
Suonò il campanello ma nessuno rispose: d’un tratto, la casa le parve disabitata, spettrale. Possibile che Lorenzo fosse già partito?
Verso l’alba, Lorenzo era riuscito ad addormentarsi un po’: un sonno intermittente, interrotto dai colpi dei rami del platano alla finestra, perturbato da fantasie sempre più terrificanti che non riusciva a controllare, incubi che sorgevano come zombi dalla terra umida.
La Signora che scendeva in cantina, la cuoca, sempre più debole, che lo guardava implorante, l’odio che era rimasto ad aleggiare nella casa, per tutti gli
anni che era stata disabitata…
Con la luce del giorno, si alzò dal letto, si guardò intorno e gli parve di vedere
le cose in una prospettiva più serena: fece la doccia, si vestì.
L’odore se ne era andato. I mobili, gli oggetti erano tutti al loro posto. Il vento
si era calmato.
Scese al piano terra, desiderando più di ogni altra cosa una tazza di caffè; aprì
la porta della cucina e sentì in tutto il corpo l’orrore della scena che si trovò
davanti: nel disordine più totale, piatti rotti, sedie capovolte, schizzi di sangue e
sporcizia sui muri e sul pavimento, tre grandi cornacchie, sopra il tavolo di marmo, stavano sbranando con i becchi duri il cadavere di un gattino. Beccavano,
saltellando e muovendo le ali nere, soddisfatte del loro orrendo pasto. Dalla
finestra aperta, entrò quel rumore metallico: colpi sordi, ritmici.
Terrorizzato, Lorenzo lanciò un urlo. Le cornacchie, disturbate, girarono per un
istante su di lui sguardi pieni di rancore e volarono fuori.
Come un forsennato, Lorenzo sbarrò tutto, prese la macchina e corse via, sgom-
197
un pò più a nord
mando e sbandando per le stradine del paese. Spinse al massimo il motore
della sua BMW, per allontanarsi il più velocemente possibile da quell’orrore.
Che cosa succedeva in quella casa? Dov’era finita la vita tranquilla, i giorni tutti
uguali della sua infanzia?
Era come se il suo ritorno avesse scatenato delle forze malvagie, scoperchiato
un verminaio di paure, segreti, delitti.
Perché proprio ora? Perché a lui?
Sulla strada per Milano, cercando di calmarsi, si fermò in un bar per prendere
un caffè. Chiese anche un whisky, per la prima volta nella sua vita di mattina.
Seduto a un tavolino, lo sguardo perso nel vuoto, cercò di scacciare dalla memoria le ultime scene che aveva vissuto alla villa. Su una sedia accanto a lui,
era appoggiata La Provincia di Como, il giornale locale, che riportava in prima
pagina:
Dopo la cingalese, scomparsa anche una colf di Capoverde.
Indiscrezioni dalla procura parlano di una setta satanica, con matrice razzista.
Ricerche in tutta la Brianza.
Che orrore! Il pensiero di Lorenzo andò alla Signora, che più di cento anni prima aveva ucciso la cuoca, colpevole di aver amato un ragazzo turco.
Anche oggi le donne impure dovevano morire. Non c’è scampo… Aveva ragione l’Adelina: “Vai vai che tutto torna!”
E il male era tornato.
Nel parcheggio, mentre andava a riprendere la sua auto, Lorenzo sentì il cellulare che vibrava nella tasca interna della giacca.
- Sono Fabio, ciao, come va? Dove sei sparito? Non ti sei fatto più sentire! Fai
l’eremita o hai trovato una bella gnocca? - la voce calda, incalzante, dell’amico
ebbe su Lorenzo l’effetto di un boccale di birra gelata in un giorno d’estate.
- Ciao Fabio, sono venuto in Brianza. No, sono solo. - disse Lorenzo.
- Vuoi che venga lì? Dai, ti faccio compagnia, sto scrivendo un nuovo romanzo
horror ambientato in Giappone. Lo sapevi che la Rowling si è ispirata alle saghe soprannaturali giapponesi? I suoi dissennatori assomigliano agli yurei, che
sono degli spettri malefici, abitanti di una terra di mezzo, né vivi né morti. La voce dell’amico riportò Lorenzo con forza nella realtà di tutti i giorni. Risentì
tutta insieme, come una canzone conosciuta a memoria, l’atmosfera di Milano,
del suo ufficio, il silenzio del suo appartamento, la palestra, le sere tardi con gli
amici. Sentì forte l’attrazione per quel mondo che conosceva, un palcoscenico
198
su cui si era allenato a recitare bene la sua parte.
- Non hai idea di quello che mi sta capitando - disse concitato - altro che horror
giapponese! - Ma proprio mentre stava per raccontare tutto al suo amico, Lorenzo ripensò a Elena, la immaginò nella cornice del suo ristorante, impegnata
nelle mille faccende di ogni giorno. Capì che era lei il centro dei suoi pensieri:
con lei voleva parlare, confidarsi. Sentì fortissimo il bisogno di vederla, toccarla.
Doveva tornare indietro.
- Scusa Fabio ora devo andare, sì, ti chiamo appena posso, ciao. - Concluse,
montando rapido in auto.
In meno di mezz’ora era arrivato alla Sorgente. C’era solo Luca che stava facendo dei conti dietro al bancone di legno, la calcolatrice al suo fianco.
- Buongiorno, Elena è qui? – Domandò ancora sulla porta.
- E’ appena uscita, andava a Carimate a ritirare delle tovaglie - Rispose Luca,
gentile.
- Peccato, quando torna può dirle di chiamarmi? E’ importante … sono Lorenzo, questo è il numero di cellulare. - Allungò il suo biglietto da visita a Luca.
A malincuore, Lorenzo uscì dal ristorante chiudendo piano la porta dietro di sé.
Non sarebbe voluto andar via: come sempre, l’atmosfera familiare che circondava Elena lo calmava e lo intrigava.
Lorenzo era di nuovo di fronte alla villa, immobile e silenziosa. Gli ritornarono,
vivide come fotogrammi di un film, le scene terribili che aveva vissuto poco
prima; la paura gli risalì le gambe, il ventre, fino alla testa. Non ce la faceva a
entrare dalla stessa porta da cui era fuggito in preda al panico.
Doveva capire: spingersi a fondo del mistero, lavare via le ombre che avvolgevano la sua casa.
Decise di passare dal giardino, scavalcando un muretto che confinava con un
prato incolto. La calma della natura invernale lo avvolse: l’odore delle siepi di
bosso, il profumo intenso del calicantus42 in fiore vicino al muro, lo scricchiolio
degli aghi di pino, morbidi sotto i piedi.
Visto da vicino, il platano non pareva tanto minaccioso: gli sembrava incredibile che quell’albero così solido e placido avesse potuto turbarlo allo sfinimento,
battendo con i suoi rami contro la finestra, come a chiamarlo fuori, per ghermirlo e risucchiarlo nella notte, stritolandolo. Lorenzo posò la mano sul tronco,
42
Calicantus: pianta odorosa che fiorisce in inverno.
199
un pò più a nord
che gli trasferì una sensazione di forza e di sicurezza. Più in là vide, appese a un
ramo, delle ragnatele che formavano uno strano viluppo. Avvicinandosi, capì
che non erano ragnatele, ma dei filamenti scoloriti, quel che restava di una
vecchia stoffa di seta, consunta dal tempo.
Lì sotto, la terra sembrava smossa di recente. Guardò più da vicino: tra le zolle rivoltate, gli sembrò di veder spuntare un osso biancastro, ancora in parte
seppellito. Cercò lì vicino un legno robusto con cui scavare; con fatica estrasse completamente l’osso: era lungo, bianco, con due grosse articolazioni alle
estremità, faceva pensare a un femore.
Forse, sotto terra c’erano altri resti, uno scheletro che premeva per ritornare
alla luce. In una specie di frenesia, Lorenzo continuò a scavare con il pezzo
di legno e con le mani, imprecando e sbucciandosi le dita, la terra umida che
emanava un odore pungente.
Poco più lontano dal femore, trovò altre ossa più piccole e fragili: delle costole.
Poi, un intero teschio umano, sporco di terra. Lorenzo, sudato per la fatica e
il disgusto, lo prese tra le mani, notando che la parte posteriore della calotta
cranica era spaccata da un lungo taglio orizzontale.
Non era stata una morte naturale.
Il cuore gli batté come un martello pneumatico. Cercò di calmarsi, di ragionare.
Un cadavere sepolto in giardino: chi l’aveva sotterrato? Quando? Apparteneva
a un uomo, a una donna? Chi, con molta probabilità, l’aveva ucciso? E ancora:
chi o che cosa aveva smosso la terra? Perché?
Per un attimo, a Lorenzo sembrò d’impazzire: sentiva intorno a sé una rete di
misteri, delitti, presagi, che stava stringendosi sempre più, fino a soffocarlo. Gli
tornarono alla mente, nitide, le parole di Aldina: “E del turco, nessuno ne ha saputo più nulla “ “Ecco - pensò Lorenzo - non bisognava cercare molto lontano …
anche Myro era stato una vittima della Signora.”
Morto orribilmente, era rimasto sotto terra per tutto quel tempo, a pochi metri
dalla casa.
Si guardò le mani sporche di terra, desiderando prima di tutto levarsi di dosso
quell’orrore. Fece scorrere l’acqua da una pompa da giardino, si lavò e bevve
avidamente per alleviare la tensione.
Non aveva mai avuto tanta sete.
Dalla finestra della cucina, lì vicino, sentì un rumore all’interno della casa: passi,
colpi e, avrebbe giurato, una voce, come il pianto di un bambino.
Il sangue gli si ghiacciò nelle vene. D’impulso, entrò in casa, dalla porta di servizio che si apriva sulla dispensa. Qui, il pianto si sentiva più forte.
200
Proveniva dalla cantina.
Lorenzo iniziò a scendere le scale, pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Tornata in paese, Elena decise di andare direttamente alla villa di Lorenzo.
- Mi è parso agitato - le aveva detto Luca. Elena sentì che Lorenzo aveva bisogno di lei. Non sapeva perché, ma era così. Lo avrebbe aiutato, fino in fondo.
Prese la sua Vespa e corse da lui. Arrivata alla villa, si stupì di trovare la porta
d’ingresso aperta. Entrò nell’atrio e si guardò attorno, smarrita. Chiamò Lorenzo a voce alta. Niente. Diede un’occhiata in soggiorno. Nessuno.
Chiamò di nuovo, verso la rampa che conduceva al piano superiore: nessuna
risposta, solo l’eco della sua voce.
Andò verso la cucina. Schizzi di sangue e fango fin sulle pareti, mobili distrutti,
piatti e bicchieri rotti ovunque, sul tavolo di marmo, un ammasso sanguinante
di carne e peli si palesarono in tutto il loro orrore.
- Lorenzo! - Gridò spaventata. La voce faticava a uscirle dalla gola.
Corse nella dispensa e vide che la porta che conduceva alla cantina era aperta:
un segno chiaro che lui era là sotto.
Scese inciampando dalle scale, e nella penombra indovinò il suo corpo steso
supino sul pavimento di terra battuta, svenuto. Gli si avvicinò, gli prese la testa
in grembo, lo carezzò cercando di svegliarlo. Aveva una brutta contusione dietro la testa. Era stato colpito? Era caduto e si era fatto male? Lo stato della casa
faceva pensare a un’aggressione: ma chi poteva essere stato?
Lorenzo gemendo riprese i sensi: la testa gli faceva un male terribile, sentiva il
cervello battere sordamente dietro, contro la scatola cranica. Ancora confuso,
percepì con sollievo la mano fresca di Elena sul viso; si accorse che lo guardava
da vicino e gli parlava.
Di colpo, gli tornò in mente l’orrore della situazione che stava vivendo.
- Elena, la Signora è tornata, ho visto gli occhi nel buio, c’era la bambina che
piangeva, fuori c’è lo scheletro del turco… tutto torna… ho sete. - balbettò,
incoerente, gli occhi sbarrati.
Elena non riuscì a capire bene di cosa parlasse.
- Stai tranquillo, salgo a prendere dell’acqua in cucina. - Rispose con il tono più
calmo possibile, accarezzandogli la fronte.
- No, aspetta! - Gridò. Elena stava già salendo le scale.
Appena rientrata in cucina le si parò davanti, massiccio, il cugino Sirio.
Lo spavento le fece fare un balzo all’indietro, ma ancor di più la colpì l’espres-
201
un pò più a nord
sione che vide dipinta nei suoi occhi: uno sguardo gelido e folle allo stesso
tempo. Anche lui non si aspettava di trovare lì Elena. Mosso dalla rabbia e dalla
gelosia che lo corrodeva da sempre, la aggredì:
- Cosa fai qui? Cosa cazzo c’entri tu? Devi stare fuori da questa storia hai capito? Fuori! - Sbraitò.
- Ma cosa dici? Lorenzo è giù in cantina, è ferito, non so cosa sia successo. - Gridò lei per tutta risposta. Notò che Sirio reggeva in mano un vecchio bastone
da passeggio con l’impugnatura d’argento, a forma di ariete.
L’uomo la allontanò bruscamente con una spinta, dirigendosi verso la cantina:
- Lorenzo è morto, finito… - sibilò. Non era più uno scherzo macabro.
Sirio, adesso, voleva andare fino in fondo.
- Fermati, dove vai? Fermati ti ho detto… - lo chiamò Elena, disperata, aggrappandosi con forza alla giacca per bloccarlo. Sirio reagì e si voltò furibondo, colpendola forte sulla testa con il bastone. Elena crollò a terra inerte; un rivolo di
sangue le imbrattò i capelli.
Rannicchiò le ginocchia al petto e, con tutte le sue forze, colpì Sirio con un
calcio all’inguine, spingendolo contro il bordo del tavolo di marmo.
Sirio con un grido soffocato cadde all’indietro, accasciandosi di peso sulla superficie insanguinata del tavolo, senza fiato per il dolore.
Lorenzo, respirando come un mantice, si risollevò da terra. Barcollando s’avvicinò alla finestra aperta sulla strada vuota. Si sporse e l’aria fredda ebbe l’effetto
di un balsamo sul viso stravolto. Si mise ad urlare con tutto il fiato che aveva:
- Aiuto! Aiuto! C’è un pazzo! Venite! Aiuto! Non riuscì a continuare. Dietro di lui Sirio si era rialzato con fatica dal tavolo,
e si stava avventando di nuovo su di lui con un coltello da cucina stretto in
mano, sprigionando tutta la sua forza nel braccio per colpirlo. La lama brillava,
in contrasto con i suoi occhi torbidi, iniettati di sangue.
Con uno scatto, Lorenzo riuscì a schivarlo, facendosi scudo questa volta con
l’anta di legno della finestra e, approfittando dello sconcerto momentaneo del
suo nemico, corse a perdifiato fuori dalla cucina.
Sulla porta della dispensa, risalito dal fondo della cantina, comparve d’improvviso Lorenzo: vide Elena a terra, gli occhi chiusi, la fronte insanguinata. Con un
ringhio di rabbia, d’istinto, si scagliò contro Sirio. Sentì dentro di sé una molla
che lo caricava, che lo fece balzare contro quell’individuo sconosciuto, di cui
percepì subito la forza animalesca.
L’impatto improvviso del corpo di Lorenzo fece perdere l’equilibrio a Sirio che
cadde sul pavimento viscido di sangue.
Ma fu solo un attimo: rapido, Sirio si rimise in piedi e fissando su Lorenzo i suoi
occhi pieni di odio, gli si avventò contro come una furia. Lorenzo, si riparò dietro il tavolo di marmo, ma l’altro con un urlo scavalcò l’ostacolo e lo raggiunse,
brandendo il bastone per colpirlo.
Lorenzo si sentì perduto, senza scampo in quella cucina devastata, dove l’aria
era pregna di male. Un colpo sferratogli alla spalla gli provocò un dolore lancinante che attraversò la spina dorsale, turbinando impetuoso fino al cervello. Non poteva finire così: scivolando sul fianco riuscì ad afferrare una delle
seggiole impagliate e con questa cercò di parare i violenti colpi di bastone.
Urlando come un ossesso, Sirio lo sospinse a furia di mazzate in un angolo.
Lorenzo percepì la forza tremenda di quell’ammasso di odio lanciato contro di
lui. I colpi del bastone distruggevano pezzo per pezzo la sedia con cui Lorenzo si faceva scudo, mortali e precisi. Presto sarebbe rimasto nudo, indifeso. Il
pensiero gli fece salire il sangue alla testa. L’odio per il nemico, di cui percepiva
l’ansimare, lo riempì fino al colmo. Non voleva morire. Voleva uccidere.
Con pochi balzi arrivò alla rimessa degli attrezzi e vi si infilò dentro, inseguito
a ridosso da Sirio, che zoppicava ansimando, spinto da una forza demoniaca.
Con una spallata, Lorenzo sbarrò il portone di legno dietro di sé, assicurandolo
con un paletto. Il suo avversario, per il momento, era bloccato fuori: lo sentì
battere colpi furiosi sulla porta.
Lorenzo si voltò: la stanza era in penombra, silenziosa.
Su un lato erano sistemati gli attrezzi da giardino: una vecchia falciatrice, badili,
vanghe, rastrelli, paletti di bambù e sacchi di fertilizzante; in fondo erano accatastate vecchie damigiane, imbuti, bottiglie coperte di ragnatele.
La luce entrava di sbieco, attraverso le finestrelle alte, e nelle lame dorate che
tagliavano la stanza si vedeva danzare la polvere.
L’odore era quello del tempo.
Uno schianto, un urlo, e la porta si spalancò di colpo.
Un fascio di luce irruppe nella stanza; Sirio nell’impatto rotolò all’interno, sul
pavimento coperto di polvere.
Niente in lui ricordava il professionista di successo, l’uomo sempre alla moda,
aggressivo alla guida del suo SUV nero. Era lacero, sporco: i pantaloni erano
macchiati; una delle tasche era strappata, e penzolava sul fianco, oscena come
la lingua di un impiccato. La camicia lurida: rossa di sangue sul davanti, aperta
sul torace di un bianco pallido, malato, striata di lunghi segni color ruggine.
La sua faccia, stravolta dallo sforzo e dall’odio, era cianotica, con gli occhi gonfi
e semi chiusi. Una volta, quando Lorenzo era piccolo, il bull dog dei vicini aveva
202
203
un pò più a nord
attaccato un bambino e lo aveva ferito gravemente. C’erano voluti quattro
uomini armati di bastoni per catturarlo e ridurlo all’impotenza.
Alla fine, lo avevano preso, e Lorenzo non avrebbe mai più dimenticato lo
sguardo della bestia: non vinta, furibonda, pronta a uccidere. Lo stesso sguardo che oggi vedeva riflesso negli occhi di Sirio.
Stremato, con i vestiti stracciati e un dolore sordo alla nuca che si propagava
fino alla spalla, Lorenzo si preparò alla lotta, afferrando un vecchio forcone impiegato per sollevare il fieno. Sirio si era rimesso in piedi: nelle mani brandiva
il lungo coltello. La lama scintillava maligna nella debole luce della rimessa.
Lorenzo, a gambe larghe per aumentare la sua stabilità, teneva a distanza il
nemico con il forcone, oscillandolo a destra e a sinistra. Colpi sordi riempivano
l’aria, satura di polvere. Lorenzo teneva gli occhi fissi, quasi ipnotizzati, sui movimenti del coltello, che si faceva sempre più vicino.
Nell’impeto di parare un colpo, il forcone gli rimase incastrato tra due assi di
legno, su di una parete. Lorenzo cercò di recuperarlo, forzando con il manico:
tirò disperato, fino a farsi scoppiare le vene, ma il manico di legno si staccò e
gli restò in mano. Con un ringhio Sirio fece un balzo su di lui, alzando il coltello
per colpirlo.
Scansandosi, Lorenzo riuscì a bloccargli il braccio, lo torse e caddero a terra
uno sull’altro, avvinghiati nell’orrenda parodia di un atto d’amore.
Sentì su di sé il fiato metallico dell’altro, bruciante sulla sua faccia; sentì la forza
della mano che reggeva il coltello. Cercò di liberarsi dalla sua morsa; percepì il
peso del corpo dell’altro sul proprio e il puro odio che scorreva tra loro come
un fiume in piena.
Rotolarono sul pavimento, aggrappati l’uno all’altro con uguale violenza, cercando l’uno negli occhi dell’avversario un segno di cedimento, di debolezza.
A Lorenzo, d’improvviso, tornò alla mente Elena, accasciata sul pavimento della cucina, come una bambola senza vita. L’immagine rese ancora più bruciante
il rancore che provava per il suo avversario: l’odio lo accecò.
Cercò di sopraffarlo, mettendosi a cavalcioni su di lui, ma Sirio fu più svelto:
riuscì a conficcargli infine la lama nel braccio, affondando nelle carni appena
sopra il gomito. Con un grido di dolore, Lorenzo finì a terra, il sangue che gli
usciva a fiotti dalla ferita, caldo.
Sirio si scagliò l’ultima volta contro di lui, la faccia stravolta dall’odio e dalla
fatica, ma, nella furia, con il braccio alzato urtò un piolo di legno su cui era
appoggiata in bilico una vecchia falce arrugginita. Perse l’equilibrio e annaspando nell’aria scivolò a terra come un fantoccio.
Sopra di lui, come in un ralenti, la falce si staccò dal muro, cadde e la punta si
204
conficcò nel collo, recidendogli di netto la grande vena pulsante. Un fiotto di
sangue schizzò fuori, copioso, quasi irreale nell’aria carica di polvere.
Un rantolo, e poi il silenzio.
Due mesi dopo…
Faceva ancora freddo, ma il cielo era più trasparente, i colori brillanti: la primavera stava per arrivare.
Lorenzo ed Elena tornarono alla villa. La casa era la stessa di sempre, difficile
credere a quello che era accaduto poco tempo prima. Camminarono nel giardino, vicini, senza toccarsi, riconoscendo con stupore i luoghi della loro infanzia, con l’emozione di ritrovarli insieme.
Da un paio di settimane, non avevano più parlato di quello che era successo.
Sirio era morto, l’inchiesta giudiziaria chiusa. Le ferite stavano guarendo.
Lorenzo aveva ripreso a lavorare come consulente per un grande gruppo finanziario; Elena, dal canto suo, era sempre molto impegnata con il ristorante,
ma ogni notte lo raggiungeva a Milano.
Arrivarono di fronte alla rimessa. Lorenzo si sentì barcollare: gli erano tornati,
vividi, i ricordi di quei momenti di puro terrore. Lì dentro c’era il suo sangue,
e il sangue di Sirio, il pazzo che lo aveva terrorizzato perché lasciasse la casa.
Che alla fine aveva tentato di ucciderlo. Sentì la mano fresca di Elena sfiorargli
il volto.
- Ci sono qui io, Lorenzo. Andiamo, vieni via. - L’accarezzò con tenerezza.
Lorenzo l’abbracciò, respirando a fondo il suo meraviglioso odore.
- No, restiamo, questa è la nostra casa. Saremo felici qui, vedrai. - Le disse, prima
di baciarla.
Di sotto, in cantina, l’oscurità era attraversata da bagliori, come occhi che si
aprivano e si chiudevano. La terra smossa, umida, si gonfiava, solcata da nuove
crepe. Lontano, si sentì un rumore ripetuto, come di un ferro che batte.
205
autori
MORGANA CISLAGHI
(Piazza Grandi),
ENRICO JESSOULA
(Cascina Cuccagna),
Nato il 1 agosto 1943 a Conegliano, in
provincia di Treviso, dove la famiglia
era sfollata durante la guerra, è cresciuto e vissuto a Milano dove tuttora
risiede. Laureato in ingegneria elettronica, è stato per molti anni dirigente di una delle maggiori società di
telecomunicazioni.
Ingegnere anomalo ed eclettico, avviato all’amore per la lettura da un
professore-scrittore (Luigi Santucci),
si è appassionato alla letteratura moderna, da Joyce a Hemingway, da Calvino a Baricco, dedicando i ritagli di
tempo a coltivare la segreta passione
per la scrittura.
Ritiene che il recente corso e
Workshop di Scrittura Creativa della
Società Umanitaria abbiano allargato
il suo orizzonte letterario, rendendolo un po’ più scrittore e un po’ meno
ingegnere.
Nel 2008 ha pubblicato con la casa
editrice Il Filo la raccolta di racconti
Defrag.
390
Nasce a Saronno (VA) il 25 Marzo
del 1978, alla vigilia di Pasqua. Sin
da bambina ha sempre subito il fascino delle lettere, l’attrazione per le
parole scritte. I temi in classe rappresentavano per lei il motivo più dolce
della scuola elementare. Crescendo,
ha tuttavia intrapreso la “strada dei
numeri” e gli studi di ragioneria, che
l’hanno condotta fino alla sua attuale
occupazione nell’ufficio commerciale di una società di produzione che
esporta all’estero. Nonostante questo, non ha mai abbandonato quel
vigoroso sentimento d’amore nei
confronti dell’arte narrativa. Lettura
e scrittura l’hanno sempre sostenuta,
placando il bisogno di una formazione letteraria, di cui avvisa tutt’ora, una
viva mancanza. Grazie alle letture,
(di cui, citando alcuni dei suoi autori
preferiti: Elsa Morante, Elena Ferrante, Andrea Camilleri, Carlo Luccarelli,
Niccolò Ammaniti, Marie Cardinal), e
grazie all’attività dello scrivere, resa
ancora più consistente a seguito del
corso tenuto dal Prof. Fabio Fox Gariani, presso la Società Umanitaria, ha
potuto conservare intatte le proprie
passioni. Tra le aspirazioni ed i sogni
per il futuro, emergono una laurea in
Lettere Moderne ed una casa sulla
costa atlantica francese, in cui ritirarsi
per scrivere i propri pensieri e le proprie emozioni.
VIRGINIA ROSCI
(Un po’ più a nord)
PAOLA FRANCAVILLA
(La scuola dei Bianchi)
Nasce a Milano nel 1976. Affascinata dalla ricca biblioteca del padre
si appassiona presto alla letteratura e decide di seguire le sue orme
frequentando Lingue e Letterature
Straniere all’università. Attraverso lo
studio arriva alla conoscenza degli
autori della letteratura contemporanea che più l’affascinano: John Fante,
Charles Bukowski, Philip Roth. Negli
anni, parallelamente all’amore per la
letteratura, sviluppa anche quello per
la scrittura, rimasto per molto tempo
solo un piacere personale, un sogno
nel cassetto. La Scuola dei Bianchi è il
suo primo racconto pubblicato.
Dopo la laurea in Inglese, ha lavorato
per società internazionali di consulenza strategica, dove ha diretto le
attività di comunicazione. Dal 2001 si
è messa in proprio, e gestisce progetti
di miglioramento della comunicazione aziendale, a sostegno di processi
di cambiamento. Svolge anche attività di docenza per executive e nell’ambito di corsi master in Comunicazione
e Marketing.
Ama viaggiare, camminare e leggere, con una predilezione per la letteratura inglese e americana, da Jane
Austen a Conrad, Poe, Edith Warton,
PG Wodehouse, Evelyn Waugh, EF
Benson, Nancy Mitford, Barbara Pym,
Muriel Spark, Harold Pinter, Alan Bennett. Adora Simenon, romanziere e
giallista, e non perde un libro di Camilleri. Legge con grande piacere libri
di viaggi, racconti di spedizioni e diari
di viaggiatori vittoriani.
Trova l’esperienza di scrivere fiction
molto difficile, stimolante: una vera
sfida dove sono ugualmente importanti creatività, metodo, esperienza.
391