SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI 5 racconti
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SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI 5 racconti
SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI 5 racconti selezionati e curati da Alberto Grandi firmati da Diego Castelli Andrea Bompresso Alberto Pancaldi Jason Violenza Daniele Gabrieli Prefazione del curatore Nelle intenzioni originali questa raccolta non avrebbe dovuto essere composta da cinque racconti, ma almeno venti, perché venti, se non più, sono i racconti postati su Penne Matte che io consiglierei di leggere a un amico, a prescindere dal fatto che sono l'amministratore del sito. Come mai, allora, solo cinque? Per problemi tecnici e di tempi. Partiamo dai problemi tecnici. Gli autori di questi cinque racconti hanno firmato una delibera regolarmente redatta da un avvocato dove mi autorizzavano a compiere eventuali modifiche contenutistiche e formali ai loro lavori, laddove ne avrebbero necessitato, e a metterli online a pagamento, senza avanzare alcun compenso economico. Non avevo la speranza di diventare ricco con la pubblicazione dei suddetti racconti, ma di guadagnare quanto basta per coprire parzialmente i costi del sito, di cui sono unico proprietario e amministratore, sì. Dopo aver riflettuto, ho deciso di rilasciare gratuitamente in versione pdf la raccolta su Penne Matte; per chi, invece, desideri leggerla su supporto ereader scaricando il file da uno store digitale, il prezzo sarà inferiore a 1 euro. E ora i problemi di tempi. Molti autori avevano risposto alla mia richiesta di essere pubblicati con entusiasmo, a patto che avessero l'ultima parola sull'editing. Era una richiesta legittima ma che avrebbe rallentato i tempi di messa online. Ad oggi sono unico amministratore e redattore di Penne Matte. Contrattare eventuali modifiche di contenuto e forma con ciascuno, per giunta via email, sarebbe risultato un lavoro troppo lungo. Ecco spiegato perché delle 453 opere postate su Penne Matte, ne trovate solo cinque. E ora veniamo a questi cinque racconti e al titolo della raccolta. Tutti i racconti che leggerete, Il custode, Massimo rispetto per Don Zauker, Il punto di vista dei giocattoli, Unione ragazze dell'Est e Dungeon Boy, Dungeon Girl, hanno in comune una caratteristica non so quanto pianificata, non so quanto inconscia: l'uso della narrativa per ibridare. L'elemento costante è quello fantastico che viene poi associato a diverse tematiche; quella del precariato (lo stagista de Il custode), la condanna a non crescere mai, a rimanere bamboccioni calati in una perenne adolescenza (il ragazzo allucinato e l'eroinoname di Massimo rispetto per Don Zauker e Il punto di vista dei giocattoli) e la confusione tra gioco e realtà (i giocatori di Dungeon Boy, Dungeon Girl). In Unione ragazze dell'Est, l'elemento fantastico non spicca come negli altri, ma c'è comunque un senso dell'assurdo che sfiora il bizzarro e, in un passaggio del racconto, viene inscenato un incubo dai contorni a dir poco surreali. L'impressione generale che si ricava leggendo questi racconti è la stessa che si ha sfogliando distrattamente tutte le anteprime postate su Penne Matte: gli autori (per lo più emergenti - non dico "giovani" perché questa parola, in tempi di crisi economica, è ingannevole oltre che mortificante) tendono a mescolare, ibridare, a usare la letteratura per condensarvi gli infiniti livelli comunicativi di cui ci dispone la società odierna. Se la pagina bianca è una stanza immacolata, ecco che loro la riempiono di mille colori, tanti quanti sono gli elementi che inscenano. Siamo lontani dalle introspezioni psicologiche de Il giovane Holden e anche dagli scorci quotidiani e minimalisti alla Raymond Carver. Uno scrittore contemporaneo si collega a Facebook, guarda alla tv True Detective, clicca freneticamente su YouTube per selezionare le scene preferite dei film, digita sms sul cellulare... quando si ritrova davanti al foglio bianco la storia che si sente spinto a raccontare non può riguardare il suo disagio individuale nei confronti della società, né limitarsi a cristallizzare il vissuto quotidiano. Per forza di cose, deve sfogare i tanti input narrativi, alti e bassi, che il mondo gli scaglia contro. Ecco perché ho usato la parola "sporcare" e "mille colori". Ed ecco perché leggere questi cinque racconti è divertente nel senso più genuino del termine. È un po' come salire a bordo di una giostra e girare circondati da prostitute in cerca di vendetta, spettri in grado di conferire poteri speciali, nani, elfi, giocattoli che hanno segnato la nostra infanzia e ritornano come un incubo nella vita adulta eccetera. Una volta scesi vi sentirete un po' frastornati, ma secondo me avrete voglia di farvi un altro giro e quindi... alla prossima raccolta! Diego Castelli IL CUSTODE Era entrata, ma non sapeva come uscire. Guardare in una direzione o nell'altra non faceva differenza. Tutto bianco, accecante. Annaspando senza meta nella luce violenta sbatteva contro barriere trasparenti oltre le quali c'era solo il buio. Il bagliore la confondeva, cancellando sagome e contorni. Il pavimento scottava. Non riusciva a stare ferma in un punto per più di pochi istanti. Ognitanto, senza preavviso, colpi vigorosi rimbombavano nello spazio ristretto, e mentre fuggiva in preda al panico riusciva a intravedere un'ombra gigantesca che calava sulle pareti invisibili. Bum. Bum. Tic. Tic. «Rossi! Mi dici cosa stai facendo?!» Il ragazzo barcollò e quasi cadde. Stava in piedi sulla scrivania, la gambe larghe ai due lati della tastiera, e picchiettava col dito sulla luce al neon. La voce a quell'ora l'aveva colto alla sprovvista. Abbassò le mani lungo i fianchi con aria colpevole. «Dottor Fasci, chiedo scusa... Stavo... Ehh... Una mosca è finita nel... stavo cercando di farla uscire.» Seguì un silenzio imbarazzato. Fasci rimase immobile, grigio, una specie di grossa lapide incorniciata dal cappotto scuro. I baffi neri erano piegati in una smorfia di blanda irritazione, mentre la mano destra stringeva impaziente la maniglia della valigetta. «Vieni giù di lì, la roba che stai calpestando la pago io.» Il ragazzo si affrettò a scendere, spazzolando con la mano quel poco di polvere lasciata dalla suola delle scarpe. Si voltò di nuovo verso Fasci, rimanendo in attesa. «Domattina presto mi serve il rapporto Johnson & Peer.» Il ragazzo provò a nascondere lo sconforto, ma i suoi occhi corsero al computer ormai spento. «Ma dottore, non si era detto domani sera? In tutta onestà stavo per...» Fasci sollevò la mano libera e lo interruppe. «Ti devo ancora spiegare queste cose? L'hai avuto il contratto, no? Quant'è ormai, due mesi?» «Cinque...» «Benissimo», continuò Fasci, «e allora su, non farmi lo stagista arrivato ieri. Domattina lo devo avere subito. Oppure puoi parlare tu con la Johnson...» Il giovane deglutì le ultime proteste e abbassò lo sguardo. «No dottore, certo che no.» «Bravo ragazzo. Dario, giusto?» «Davide...» «Davide!» ripeté quasi istantaneamente Fasci, fingendo spudoratamente di saperlo benissimo. «Certo che anche tu, già fai Rossi di cognome, ti potevano dare un nome più riconoscibile no?» Evidentemente era una battutona, perché sorrise di gusto. Davide annuì, stiracchiando un ghigno di circostanza. Fasci era ormai fuori dalla porta quando si fermò e tornò indietro rapidamente. «Ah, una cosa. Prenotami un tavolo per due al Gambero per domani sera alle otto. Cecilia è già andata via.» Cecilia era la segretaria. Era del tutto incapace, però aveva le tette molto grandi. Rimasto solo, Davide lasciò passare qualche secondo di stanca immobilità prima di riaccendere il computer. Pensava a Wolverine che lo aspettava a casa affamato, ma pensava soprattutto al fatto che ormai mancava solo un giorno. Due ore dopo, in sella alla bici, Davide sfrecciava solitario nella luce giallastra dei lampioni. Inspirava l'aria fresca della sera, e a poco a poco il suo umore cambiò. Mancava un giorno. Ventiquattro ore. Non ci poteva credere. In fondo non sapeva cosa sarebbe effettivamente successo, ma sapeva che sarebbe stato incredibile. E mentre ci pensava, senza quasi più il coraggio di fare previsioni precise, calde ondate di entusiasmo cancellavano il freddo e la fatica. Il ricordo di quel giorno era vivo, netto, preciso. Era stato un pensiero fisso per cinque anni. Mamma e papà erano morti da otto giorni. Il conducente dell'altra auto gli aveva già mandato una lettera piena di colpa, inconsolabile, ma Davide non ce l'aveva con lui: era buio, e la pioggia scendeva a secchiate, poteva capitare a chiunque. All'epoca aveva ventun'anni. Era un adulto, dicevano, ma lui avrebbe dato un braccio per avere una vecchia zia che lo prendesse con lei preparandogli la cena e sorridendogli a colazione. In quel momento, tutto solo in una casa troppo vuota, Davide stava cercando di studiare per un esame di cui gli sfuggiva l'importanza. Sotto la luce della lampada da tavolo fissava il foglio con gli appunti, scritto in un'altra vita, e cercava di capire cosa ne sarebbe stato di lui. In quel preciso istante era comparso l'Ambasciatore. Pedalando con foga nelle vie semi-deserte, Davide ricordò per l'ennesima volta il terrore di quel momento. In un angolo vuoto della stanza, a mezz'aria, aveva cominciato ad addensarsi una nuvola di fumo nero. Davide aveva pensato a un incendio ed era schizzato lontano dalla scrivania, un grido d'aiuto pronto in gola. Ma poi c'era stato lampo, un silenzioso abbaglio di luce che l'aveva buttato a terra, sgomento. Il fumo vibrava e si contorceva irrequieto, fluttuando verso Davide e acquistando una forma via via più precisa. Un busto, due braccia lunghe e nere, affusolate mani a tre dita, e infine una testa coperta da un cappuccio. Sotto il cappuccio, nell'oscurità più nera, la sagoma appena accennata di un volto azzurro. Lì in mezzo, da qualche parte, due luminosi occhi viola. Davide era ben oltre il panico, ma furono quegli occhi a impedirgli di urlare. Grandi, ipnotici, diversi da qualunque cosa avesse mai visto. Eppure, in qualche modo, per nulla minacciosi. Freddi e sinceri, privi di reale espressione, fissavano il giovane a terra con sobrio interesse. Erano passati diversi secondi, senza che succedesse niente. Davide troppo preso a rimanere immobile, la creatura persa in qualche suo pensiero millenario. «Salute a te, Custode» aveva detto infine, senza che si vedesse alcuna bocca. Il suono era profondo, rassicurante, ma anche vagamente metallico e dall'accento impersonale. La risposta di Davide era stata un sospiro, più che una parola. «Eh?» «Siamo consci del fatto che questa forma può infondere inquietudine in voi, ma è la più simile alla vostra natura che possiamo riprodurre.» Davide non riusciva a capire. Le parole non gli sembravano singolarmente difficili, ma era tutto il resto a non tornare per niente. «Che... succede?» era riuscito a bofonchiare subito dopo. «Sono un Ambasciatore» aveva sentenziato l'apparizione. «Sono qui per consegnarti il Potere.» Davide scuoteva la testa, tenendo gli occhi spalancati a intercettare qualunque movimento. «Non capisco. Che cosa vuoi? Non ho fatto niente!» «Non conta ciò che hai fatto» aveva ribattuto l'Ambasciatore, «ma ciò che farai. Ora possiedi il Potere. Dovrai custodirlo per cinque dei tuoi anni. Senza mai utilizzarlo. Passato questo tempo, il Potere sarà tuo. Ma se lo userai anche solo una volta prima del tempo dovuto, lo perderai per sempre.» Non erano moltissime informazioni, come Davide riuscì a realizzare in seguito, ma in quel momento sembrava di dover memorizzare un'intera enciclopedia. Aveva scosso di nuovo la testa, confuso. Le gambe appesantite dalla paura, il sudore gelato sulla fronte. «Il... Potere? Non voglio niente.» L'Ambasciatore non si era scomposto. «Non puoi rifiutare ciò che già possiedi. Ma puoi abbandonarlo. Crediamo tu sia uno dei Giusti. Ma nemmeno il nostro giudizio è infallibile. Usa il Potere prima del termine stabilito, e lo perderai.» Davide ricordava chiaramente che, se avesse saputo cosa fare per mettere subito fine a tutto, l'avrebbe fatto. Ma in quel momento sentiva di non avere alcun controllo sulla situazione. Potere. Il Potere. Una specie di alieno mi consegna un Potere. Nemmeno la paura che in quei minuti impantanava la sua mente poteva ostacolare i pensieri da appassionato di fumetti. «Ho dei poteri? Dei superpoteri? È questo che stai dicendo?» Nessuna emozione traspariva della figura sospesa dell'Ambasciatore. Si limitava a fluttuare, appeso alla sua stessa volontà. «Il Potere sarà tuo, e tu sarai del Potere» era stata la sua criptica risposta. «Ma...» la voce di Davide era un sussurro, «ho... ho una missione? Devo fare qualcosa?» «Custodisci il Potere per cinque dei tuoi anni, senza usarlo. Poi sarà tuo. E solo tuo.» «Cosa sarò in grado di fare?» «Ognuno è diverso.» L'Ambasciatore credeva che lui fosse "uno dei Giusti". C'era dietro qualcosa di enorme. Davide si era sforzato di pensare. «Potrò avere un mantello?» Arrivato a casa, Davide parcheggiò la bici nella rastrelliera arrugginita del condominio, poi salì con l'ascensore cigolante fino al quarto piano e armeggiò con la serratura difettosa finché gli fu finalmente concesso di entrare in casa sua. Prima ancora che avesse appeso la giacca, una paffuta pallotta di pelo trottò verso di lui, sfidando le articolazioni doloranti col solo obiettivo delle coccole. Davide si chinò, fece scivolare le dita sotto la morbida ciccia e si portò il gatto al petto. «Mamma mia Wolverine, la dobbiamo fare sul serio, la dieta.» Poco dopo, mentre Wolverine mangiava piano i suoi croccantini, nel lento ruminare dei suoi diciassette anni, Davide rimase a fissarlo, sorridendo, mentre gli grattava il retro delle orecchie. Tornò con la mente a cinque anni prima. L'Ambasciatore non aveva aggiunto altro. Era svanito nel nulla da cui era venuto, perdendo i propri contorni, sfumando nell'aria. La stanza era tornata com'era prima, silenziosa e immobile. Wolverine non l'aveva visto, era rimasto tutto il tempo a russare sulla sedia in cucina. A Davide erano serviti molti minuti per alzarsi in piedi, e molte ore per addormentarsi, mentre pensava alle principali cause cliniche di allucinazioni. La mattina dopo aveva creduto di aver sognato tutto. Ma quel pomeriggio, in università, aveva già cambiato idea. C'era qualcosa, dentro di lui. Un calore, un'energia. Una consapevolezza che partiva dal cuore e si irradiava nel resto del corpo a ogni battito, come se il suo sangue fosse stato sostituito con della benzina, i ventricoli con dei pistoni. Intorno, tutto sembrava uguale. Ma lui era diverso. Un nuovo se stesso gli covava dentro, già pronto a mostrarsi. Le prime settimane furono le più dure. Percepiva il bisogno quasi isterico di far esplodere il Potere, qualunque fosse la sua forma. Ma l'Ambasciatore era stato chiaro: aspetta cinque anni o lo perderai. E Davide aveva atteso. Teneva a bada il desiderio con la fantasia e le domande. Perché avevano scelto lui? Forse perché era orfano e solo, meno ricattabile, come un Batman solitario. Quali sarebbero state le sue abilità? Qualcosa di distruttivo, magari, una forza di cui avere paura e che avrebbe dovuto usare saggiamente. Forse sarebbe stato in grado di volare o sollevare interi camion, o ancora muoversi a velocità supersonica. Sarebbe diventato un eroe? Un acerrimo nemico del crimine? In quel caso avrebbe dovuto capire dove andare per essere più utile. In vita sua non era mai incappato in un rapinatore nascosto in un vicolo, né in un edificio in fiamme pieno di innocenti. Come faceva l'Uomo Ragno a essere sempre al posto giusto al momento giusto? Oppure, anche se l'Ambasciatore non glielo aveva confessato, c'era una qualche minaccia spaziale in attesa, orde di mostri succhia-anime appostati appena oltre Plutone e pronti a conquistare la Terra, a meno che qualcuno non fosse stato abbastanza forte e coraggioso da fermarli. E poi perché cinque anni? Dovevano testare la sua pazienza, la sua forza d'animo, la sua disciplina? Be', quale che fosse il motivo, si sarebbe fatto trovare pronto. Quando Wolverine finì la sua cena, alzando gli occhi umidi per chiederne un altro po', Davide si accorse di essere troppo stanco - e insieme eccitato - anche solo per prepararsi un pasto al volo. Mangiò una mela e andò a letto, aiutando il vecchio micio a salire insieme a lui e a sistemarsi in un angolo tra il muro e le coperte. Rimase così a lungo, la mano delicatamente appoggiata al muso fresco, mentre fuori dalla finestra una falce di luna sbirciava tra le nuvole. Non aveva mai mollato, dopo le notizie portate dall'Ambasciatore. Non se n'era andato su una spiaggia caraibica a fare l'animatore in attesa di diventare una specie di Superman. Aveva finito l'università, come mamma e papà avrebbero voluto. E si era trovato un lavoro, anzi parecchi lavori, uno meno pagato dell'altro. Per essere come tutti gli altri, per non abbandonarsi alla pigrizia, per non cedere al lato oscuro. E per pagare la luce e internet, man mano che i soldi rimasti in banca dopo l'incidente diventavano sempre meno. Obi Wan Kenobi sarebbe stato orgoglioso di lui, anche se il suo Obi Wan sembrava un pacato demone uscito dall'inferno. L'Ambasciatore non si era più fatto vedere, ma Davide continuava a sentire il Potere gorgogliare dentro di sé. Un bisogno primitivo di liberazione, tenuto a bada da una volontà simile a quella di un alcolista in riabilitazione. Dopo aver fatto il cameriere e il commesso, il cuoco e il ragazzo delle consegne, aveva iniziato uno stage alla Megaself, la ditta di consulenza del dottor Fasci. Neanche due settimane dopo si era accorto che i conti erano truccati, che Fasci sovrafatturava, che era tutto un magheggio per portare soldi in Svizzera. Quando infine Fasci gli aveva offerto uno striminzito contratto di un anno, con l'espressione scocciata di chi ti sta facendo un favore controvoglia, Davide aveva pensato che in parte lo facesse perché aveva capito che sapeva. Per tenerlo buono, in qualche modo. Non gli importava. A quel punto mancavano pochi mesi, poche bollette, poche liste della spesa. Poi il Potere si sarebbe rivelato, e la sua vita sarebbe cambiata. Aveva anche pensato di smascherare Fasci, il cui arresto per frode sarebbe stato il primo passo nella sua carriera di difensore dei deboli. La moglie e le tre figlie del dottore non sarebbero state contente, e nemmeno Cecilia, che non sarebbe più andata a fare quei lunghi week end di "aggiornamento professionale" nei migliori alberghi sulla costa. Ma sarebbe stata la cosa giusta da fare. Lui sarebbe stato uno dei Giusti. Non aveva identità da nascondere, affetti da proteggere. Avrebbe fatto tutto alla luce del sole. Niente maschere, magari solo il mantello. Sarebbe stato un'ispirazione, un esempio. Avrebbe inondato di luce e sorrisi la sua vita fatta di solitudine e oscurità. Quello che c'era da fare, l'avrebbe fatto. Quali che fossero i suoi poteri, quali che fossero le sue nuove responsabilità. Era pronto. Quando si svegliò, la mattina del Giorno, un freddo sole d'autunno filtrava tra la polvere dei vetri. Wolverine non era più sul letto, forse era andato a bere, o a caccia di ragni. Davide si alzò e si vestì, in preda all'aspettativa, cercando invano di rallentare il battito del cuore. Quanto mancava? Dodici, tredici ore? Mezza giornata, prima di un'intera vita. Trovò Wolverine in cucina. Non stava bevendo, e nemmeno cercando ragni. Era sdraiato su un fianco, in mezzo alla stanza, a metà strada tra l'ingresso e la sua ciotola d'acqua. «Wolverine?» sussurrò Davide, sbattendo le palpebre. Ma Wolverine non rispose, non si mosse, non respirò. Ammutolito, immobile a piedi nudi sulle piastrelle della cucina, Davide pensò subito al Potere. Ma non aveva idea di quali fossero le sue capacità. E comunque, qualunque risultato avesse prodotto in quel momento, poi sarebbe sparito per sempre. Improvvisamente, il giorno rovinò in una mattina banale, triste e grigia. Arrivò al lavoro con due ore di ritardo. Aveva chiamato il veterinario, che era venuto a prendere Wolverine trattandolo con gentilezza e rispetto. Quando entrò in ufficio, Cecilia pigolò spaventata, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi malferma sui tacchi troppo alti. «Ha detto di farti andare subito da lui.» Davide riusciva quasi a sentire l'aria smossa dalle lunghissime ciglia. «Non è contento.» Una decina di ore, pensò Davide, niente di più. Bussò, ottenne un grugnito ed entrò, trovando Fasci impegnato a scrollare pagine di excel. «Dove cazzo eri?» «Il mio...» non era tenuto a dirglielo, «ho avuto un problema a casa.» Fasci artigliò una risma di fogli stampati alla sua sinistra. «Mi dici cosa cazzo è questo?» Davide allungò leggermente il collo. «Il... rapporto?» «Magari lo fosse», ribatté Fasci. «Doveva essere il rapporto. E invece è un pila di fogli senza senso. Dove sono i grafici con le stime trimestrali? Dov'è il riassunto dei conti del cantiere? E la formattazione? Cristo Santo, sembra disegnato con le tempere da mia figlia di quattro anni!» Fasci era rosso in viso, gli occhi stralunati, e aveva un piccolo filo di bava che gli spuntava all'angolo della bocca. «Dottor Fasci, mi dispiace» sbiancò Davide. «Non avendo avuto la giornata di oggi non ho potuto rifinirlo, speravo che anche quelli della Johnson avrebbero capito che...» Fasci sbatté un pugno sulla scrivania, con violenza. «Ma allora non hai capito proprio un cazzo di cosa vuol dire stare nel mondo del lavoro! Questo non è un esamino della tua università da quattro soldi, questi sono squali della finanza che stamattina mi hanno chiamato perché volevano il loro rapporto e io non ho potuto darglielo. Certo, avrei potuto fartelo correggere appena arrivato, ma tu eri solo Dio sa dove!» Davide rimaneva in piedi, stringendosi le mani, battendosi con l'istinto di abbassare la testa e guardarsi le scarpe. Una decina di ore. Sembrava il traguardo tremolante di qualcuno che ha già corso centinaia di chilometri. «Dottor Fasci, mi scuso ancora, è che... be' questa mattina il mio gatto è... sì ecco è morto e ho dovuto chiamare qualcuno. Non ho avvisato, ma in quel momento...» Davide si interruppe. Fasci aveva staccato le mani dalla scrivania e aveva allargato le braccia, stagliandosi contro la luce fredda della finestra dell'ufficio. L'espressione sul suo viso era sgomenta, ma la bocca e gli occhi erano tirati in un abbozzo di sorriso folle. «Un gatto?» domandò, retorico. «Mi stai dicendo che sto rischiando qualcosa come trecentomila euro perché il tuo cazzo di gatto è morto? Ma dico, stiamo scherzando? Ma si può sapere chi ti credi di essere?» Davide rimase impietrito, trattenendo il fiato. Fasci si portò una mano alla fronte e scosse la testa, sconfortato. «Un gatto, sant'Iddio... Tu sei fuori di testa, Rossi... fuori di testa. E dire che mi ero pure informato prima di prenderti. Sembravi uno capace di lavorare, di impegnarsi, diverso dagli altri della tua età.Single, senza genitori, sembravi preciso. E poi riesci comunque a rovinare il lavoro di mesi per colpa di una merda di gatto.» Ormai ridacchiava, isterico. «Stasera te ne vai, lo sai, sì? Anzi, te ne vai adesso. Prendi il tuo ciarpame e ti levi dai coglioni. Dio mio, che spreco di tempo. Siete una generazione persa, vi hanno allevati a Nutella e abbracci, e sietevenuti su senza spina dorsale. Un gatto, ma è possibile... Cosa fai con quella mano, che vuol dire?» Davide aveva alzato la mano destra. Il palmo puntava verso Fasci. «Cos'è, un gesto di sfida, una roba da hip hop?» E poi lo liberò. Il Potere si manifestò come un fascio di luce bianca, limpida e netta, che raggiunse Fasci in pieno petto. Nel giro di un secondo l'intero corpo bruciò interamente. Quando Davide chiuse il pugno, soffocando la luce, la sagoma annerita di Fasci era ancora in piedi, le mani sui fianchi. Rimaneva intatto solo l'orecchio destro, un lembo di carne rosata debolmente attaccato a un ammasso di cenere. Pochi istanti e l'ex dottor Fasci crollò su se stesso, accumulando un mucchietto di polvere sulla moquette. L'orecchio, come un impiccato a cui taglino la corda, cadde roteando nell'aria e atterrò in cima alla montagnola grigia, ciliegina di carne su una macabra torta. Davide rimase a guardare per un minuto, forse due. Poi, nell'angolo a sinistra della stanza, una nuvola di fumo si addensò dal nulla. L'Ambasciatore non degnò di uno sguardo il mucchietto di cenere e si avvicinò a Davide. Non si vedevano da cinque anni. Anzi, quattro anni, undici mesi, trenta giorni e quattordici ore circa. «Hai fallito, Custode. Il Potere non ti appartiene più.» Davide non rispose. Rimase immobile, privo di espressione, a fissare la polvere per terra. L'Ambasciatore attese a lungo. «Perché?» chiese infine. Per la prima volta, forse, nella sua voce c'era curiosità. «Potevi essere uno dei Giusti.» Davide alzò lo sguardo, fissò gli occhi viola e sorrise appena, mestamente. «Lo sono.» ______________________________________ Andrea Bompresso MASSIMO RISPETTO PER DON ZAUKER Luca si accese una sigaretta e fissò il tipo seduto sul divano. Era un ciccione enorme. Sembrava una mongolfiera sul punto di scoppiare. Aveva una voce trillante che gorgheggiava cazzate ininterrottamente, senza nemmeno turare il fiato. In quel preciso istante parlava di una barca che aveva appena comprato e teneva ormeggiata al porto di Sestri Levante. L'ormeggio gli costava una cifra. «Ma prendere il largo è una sensazione che non ha prezzo. Sciogli le cime, vai di bolina e molli tutto, ti lasci la terra alle spalle con i suoi problemi.» Luca avrebbe voluto chiedere al ciccione come faceva a comandare una barca a vela senza rischiare di affondarla, ma lasciò perdere, non erano fatti suoi. E poi un po' invidiava il ciccione. Era ricco e aveva una barca a vela di cui poteva discorrere polarizzando l'attenzione di chi gli stava intorno. Luca, invece, non aveva niente. Una volta, però, ci era stato in barca a vela. Era successo un'estate. Era salpato con degli amici e dopo nemmeno dieci minuti di navigazione aveva cominciato a provare nausea e a vomitare. Era stato imbarazzante, anche perché a bordo c'era una ragazza che gli piaceva. Una tipa carina, con i capelli rossi e un sacco di lentiggini in faccia. Luca non ci aveva fatto una bella figura a vomitare davanti a lei, no di certo. Tornando alla festa: Luca stava bevendo da quando era arrivato. Bere era l'unico modo per sentirsi protetto. L'alcol era per lui ciò che il mantello invisibile è per Harry Potter, gli permetteva di passare inosservato in un mondo che percepiva ostile quanto una selva di lupi affanati. Sì, il mondo era un luogo nemico, un territorio estraneo dove aggirarsi con la massima cautela e mantenendo un profilo basso. Luca aveva avuto questa sensazione fin da piccolo, sensazione confermata da quella festa bazzicata da tipi col sorriso da squalo e tipe dallo sguardo perfido e altezzoso. «Cristo», pensò, ad un certo punto «mi sento male, ho bevuto troppo» ed esplorò nervosamente l'appartamento alla ricerca di un bagno. Lo trovò, si chiuse dentro a chiave e vomitò nella tazza come aveva fatto in mare, quella volta. Svuotato di tutto l'alcol, rimase qualche secondo intontito, abbracciato alla tazza del cesso, finché non udì una voce alle sue spalle. «Ehi, Lucabello.» Si voltò e allora vide, in piedi, davanti a lui, un enorme pupazzo di peluche bianco. Sopra le gambe tozze e a tubo portava una maglietta a righe gialle e rosse e. oltre il collo della maglietta, sbucava una grande faccia da gatto. Il pupazzo piegò il capo di lato e disse: «Come stai Lucabello?» «Tu... co... cosa sei?» balbettò Luca. «Come cosa sono? Gattomatto, il tuo pupazzo preferito. Non ti ricordi di me? Eravamo amici per la pelle. Lucabello e Gattomatto. Dai, cazzo, non puoi esserti dimenticato tutto!» «Sto avendo un'allucinazione!» Gattomatto ridacchiò. «Può darsi, Lucabello. Sei sempre stato uno un po' fuori di testa. Per questo mi piacevi. Per questo eravamo amici. Abbiamo fatto un sacco di giochi assieme.» «Tu... tu... non puoi esistere...» «Esisto eccome. Sei tu che mi hai inventato. Tuo padre e tua madre mi comprarono e mi regalarono a te per il tuo quinto compleanno, ricordi? Tu mi scartasti dal pacco in cui ero avvolto e guardandomi negli occhi, pensasti: "Io e te diventeremo grandi amici, Gattomatto". E così è stato. La nostra amicizia è durata anni. Anni di giochi stupendi, di profonde conversazioni telepatiche, anni incredibili, poi ad un certo punto le cose cambiarono tra di noi, una sera decidesti di violentarmi.» «Io cosa?» Gattomatto ripeté: «Decidesti di violentarmi. Avevi già una certa età, dodici anni, se non ricordo male. Avevi passato il pomeriggio con quel tuo amico con l'apparecchio ai denti e la faccia massacrata dall'acne, Enrico mi sembra che si chiamava. Enrico ti aveva fatto vedere un fumetto porno. Il fumetto mostrava come uomini e donne fanno sesso. I disegni di quelle cosce spalancate, di quei seni disponibili, di quelle fessure umide e pronte a essere penetrare ti avevano eccitato. Così a casa avevi deciso di provare cosa si sente quando si penetra una donna e per farlo avevi usato me. Mi avevi fatto un foro tra le gambe, ricordi? Scucendo il tessuto con delle forbici, mi avevi tagliato per creare qualcosa il più possibile simile alla figa, guarda -, il pupazzo aveva indicato il mezzo delle sue gambe, segnato da un piccolo sbrego della fodera di peluche attraverso il quale s'indovinava la presenza della gommapiuma interna. - Poi mi avevi portato in bagno e avevi chiavato me, Gattomatto, il tuo migliore amico, come fossi una donnaccia qualunque disponibile alle tue voglie. Avevi sborrato dentro di me e, nello sfilare il cazzo, avevi imbrattato un po' anche il peluche fuori, ricordi?» Luca ricordava, sì. Era vero: Gattomatto era stato il suo gioco preferito per diversi anni, poi lo aveva abbandonato, chissà dove, forse in soffitta. «Comunque non me la prendo, tranquillo» riprese Gattomatto «Non me la prendo se mi hai imbrattato col tuo seme. Se mi hai usato un paio d'altre volte per masturbarti, fino a quando, grazie a dio, non hai capito che usando la mano destra sarebbe stato tutto più semplice e piacevole. Non me la prendo se dopo avermi scucito e schizzato mi hai abbandonato. La vita è fatta così. Il mondo gira, le stagioni passano e i bambini crescono. I peli spuntano sulle palle, prima piccoli e diritti poi lunghi e ricciuti. E' nell'ordine delle cose che un bambino si disfi dei suoi vecchi giochi, però, come dice il titolo di quel film, a volte ritornano, i giochi voglio dire, e io sono ritornato e dunque eccomi qua.» Luca si prese la testa tra le mani. «Io... io... sto diventando pazzo... mi sento male...» Gattomatto ridacchiò. «Tranquillo, stai bene, invece. Cioè, non sei al massimo della forma, ma ti sei solo sbronzato, tutto qua. E dato che non reggi l'alcol hai vomitato. Niente di eccezionale. Sul fatto che tu stia diventando pazzo, beh, sei sulla buona strada. Lo sai qual è il tuo problema, Lucabello?» Luca sedette sulla tazza del cesso fissando quel gigantesco pupazzo bianco che gli parlava senza muovere le labbra, ma gli parlava, non c'erano dubbi. «No, qual è?» disse. «Il tuo problema è che non sei mai cresciuto» rispose Gattomatto. «È un probelma comune a quelli della tua generazione. Bamboccioni nati tra gli anni Settanta e Ottanta. Ragazzi e ragazze cresciuti a pane, nutella e cartoni animati. Avete avuto tutto dalla vita, tranne quel senso di privazione, quell'appetito sociale che è alla base di ogni ambizione e impresa. Vi siete rincoglioniti di programmi tv e giochi in scatola. Avete galleggiato come stronzi al liceo e all'università facendovi bocciare e laureandovi fuoricorso e al momento di trovare un vostro posto nel mondo, non ci siete riusciti. Continuate a vedere puntate di vecchi cartoni e telefilm su YouTube e organizzate raduni tra amici per giocare a Monopoli, Risiko o altre stronzate. Siete patetici.» Luca chinò lo sguardo. Quello che stava dicendo Gattomatto era vero. «Però, devo rivelarti una cosa importante» disse il pupazzo. «Che cosa?» domandò Luca. «Riguardo a questa festa... non hai tutti i torti a sentirti a disagio, a bere pur di non avere a che fare con gli altri.» «Ah, no?» «No perché devi sapere che tutti quelli che vedi a questa festa, tutti i ragazzi e le ragazze che bazzicano in salone e nelle altre stanze, quei ragazzi vestiti eleganti e sicuri di sé e quelle ragazze ultrafighe, non sono quello che sembrano.» «Cioè? Non capisco.» Prima di continuare nelle proprie spiegazioni, Gattomatto si accese una sigaretta. Parrà impossibile che un pupazzo di peluche si mettesse a fumare, ma così andarono le cose. Gattomatto s'infilò una Marlboro in quella linea nera che aveva al posto della bocca, se l'accese e cominciò ad aspirare e a soffiare fumo. «Ora ti spiego, Lucabello. In verità è tutto molto semplice. Tutte le persone che vedi, incluso quel ciccione che se la tira perché ha la barca a vela, non sono esseri umani.» «Ah, no?» «No, che non lo sono. Sono meganoidi.» «Mega-che?» «Cazzo, meganoidi! Lucabello, non dirmi che in tutti questi anni ti sei così rincoglionito che ti sei scordato dei meganoidi! Luca pensò che la parola "meganoidi" suonasse decisamente familiare, ma non riusciva a ricordare quando l'aveva sentita. Ci pensò Gattonatto a rinfrescargli la memoria.» «I meganoidi sono i nemici di Daitarn III!» «È vero!» disse Luca, battendo le mani. Gattomatto sorrise soddisfatto. «Daitarn III era il tuo cartone animato preferito, ricordi? Il padre del giovane Haran Banjo, su Marte, aveva creato i meganoidi, degli ibridi tra uomo e macchina, che volevano conquistare la Terra e Banjo li combatteva con il Daitarn III, un robottone che funzionava a energia solare. A capo dei meganoidi c'era Don Zauker, una specie di Dart Vader col cervello chiuso in un'ampolla e gli occhi da mosca che quando parlava faceva dei versi tipo catena del cesso tirata. Un vero capo, Don Zauker. Massimo rispetto per lui. Il suo braccio destro era la perfida Koros, il Comandante Supremo dei Meganoidi, ti ricordi Koros? Ti ricordi quant'era figa con quella pelle bianca e perfetta come porcellana e quei capelli rosso sangue raccolti a treccia?» Sì, ora Luca ricordava. Ricordava tutto. I pomeriggi, dopo pranzo, a guardare l'ennesima puntata di Daitarn III alla tele, seduto sul divano con accanto Gattomatto; i meganoidi comandati da Don Zauker, quel pauroso frankestein meccanico avvolto in un mantello rosso e col cervello chiuso in una boccia trasparente, e Koros, l'amica di Don Zauker, pallida e perfida, una vera mistress sadomaso su cui lui si era anche masturbato, ricordava ogni cosa! «I meganoidi sono tornati sulla Terra,» riprese Gattomatto con tono improvvisamente serio, «vogliono concquistarla. Don Zauker è morto. Haran Banjo lo ha fatto fuori, ma Koros è risorta.» «Com'è possibile?» chiese Luca, «nell'ultima puntata, veniva fatta fuori anche lei dal Daitarn III.» «Tu dici il giusto, Lucabello, ma i meganoidi rimasti, prelevando campioni di dna dal suo cadavere, l'hanno ricreata in laboratorio. E ora Koros è qui, sulla Terra, per organizzare la grande invasione. Si trova a questa festa!» «Si trova alla festa?» Gattomatto annuì. «È la padrona di casa, la festeggiata. Silvia Marelli in realtà è Koros.» «Mi stai prendendo per il culo?» Gatto matto si mise una mano sul petto e alzò l'altra. «No, bello, te lo giuro. Magari ti stessi prendendo per il culo. La Marelli è Koros al cubo. Se la guardi lo capisci anche te. Stesso sguardo da stronza algida, stessi capelli rosso sangue, stesse labbra piccole e morbide. Non si scappa. Questa festa è un ritrovo di meganoidi. Prima che tu arrivassi stavano brindando tutti alla memoria di Don Zauker.» «Dici sul serio?» «Mai stato più serio in vita mia, fratellino. Se esci da questo bagno e ti guardi intorno, lo capirai anche tu. Ti accorgerai al volo che tutti quelli che ti circondano non sono umani, ma dei meganoidi. Anzi, perché non lo fai? Esci, fai un giro per l'appartamento. Osserva gli invitati, ma senza farti notare, mantenendo quell'aria da sfigato che ti porti appresso da quando sei nato, poi torna qui.» «Ok, farò come dici tu, uscirò.» «Ti aspetto, non mi muovo. Appuntamento in questo stesso cesso tra 5 minuti.» Dunque, Luca aprì la porta e uscì in perlustrazione. Percorse il lungo corridoio dopodiché sbucò in salone. Il ciccione era sempre seduto sul divano che pontificava, circondato da quattro o cinque individui. A un angolo stavano sei ragazze che chiacchieravano a voce bassa come se stessero tramando qualcosa. Due ragazzi, al tavolo del buffet, si versavano da bere e parlavano di calcio. Luca li osservò e capì che era tutto vero: erano meganoidi. Meganoidi che fingevano di essere uomini e donne normali e in realtà meditavano di invadere la Terra. I loro sorrisi erano così... metallici... sembravano tagliole... e i loro occhi, dei congegni infilati nelle orbite per vedere, registrare, monitorare, scannerizzare... Luca provò un senso di soffocamento. Il cuore prese a battergli all'impazzata. Un meganoide, guardandolo in faccia, gli chiese con voce fintamente preoccupata: «Ti senti bene? Hai bisogni d'aiuto?» Luca balbettò: «Sto bene, sto bene, grazie» rapidamente attraversò il salone e raggiunse il balcone. Fuori, all'aria fresca, riprese a respirare. Si deterse il sudore della fronte col dorso della mano e si appoggiò a un vaso da cui spuntavano fiori bianchi. Sollevò lo sguardo e osservò la luna e le stelle. Per la prima volta considerò la notte non come una prerogativa dei terrestri, un grazioso involucro che avvolgeva la Terra come la carta stagnola un cioccolatino, ma per quello che era, una parte dello spazio. Un frammento di infinito, lo stesso infinito dalle cui amene profondità erano giunti i meganoidi. D'un tratto una voce domandò: «Hai da accendere?» Luca si voltò e vide una ragazza minuta, alle sue spalle, il corpo esile, il viso perfetto e bianco come un ovale entro cui erano iscritte labbra morbide e rosee, gli occhi neri e di una fissità quasi catatonica. Era la padrona di casa, Silvia Marelli. O meglio, Koros. Sì, non c'erano dubbi, quella donna pallida ed esangue come una bambina spettrale era il comandante dei meganoidi. «Sì, ecco...» Luca estrasse l'accendino. Koros chinò il capo sulla fiamma, poi, sollevandolo, fissò Luca negli occhi. «Chi sei?» domandò, soffiandogli il fumo in faccia. «Luca» rispose lui, tossendo. «Luca chi?» «Luca Carrisi.» Koros scrollò le spalle. «Non ti conosco. Chi ti ha invitato alla mia festa?» «Martina.» «Martina Lorelli?» Luca annuì. In realtà non era stato invitato. Si era imbucato da solo a quella festa dove non conosceva nessuno se non una ragazza brutta e antipatica che si chiamava Martina Lorelli. Per diversi secondi lui e Koros non dissero altro. Terminata la sigaretta, il capo dei meganoidi la spense in un posacenere di cristallo. «Ci vediamo» e rientrò in salone. Dopo alcuni secondi, Luca la seguì e, dal salone, imboccando il corridoio, tornò in bagno. Gattomatto era lì ad aspettarlo, seduto sulla tavoletta del cesso con le gambe a tubo accavallate. «Allora?» domandò. «Avevi ragione, questa casa è piena di meganoidi» disse Luca. «E c'è anche Koros, l'ho appena vista in balcone.» Gattomatto rimase alcuni secondi in silenzio. «Bisogna agire» disse poi, in tono risoluto. «E cioè?« «Devi ucciderli tutti.» «Tutti chi?» Gattomatto allargò le braccia. «Ma come chi, i meganoidi! Li devi fare fuori. Anche Koros.» Luca era disorientato. «Ma come farò ad ammazzarli tutti? Loro sono in tanti e io uno solo. E poi non so se ho il coraggio di fare una cosa simile, mi stai chiedendo di commettere omicidio.» «Lucabello, io non ti sto chiedendo di commettere omicidio, ma di salvare la specie umana. Non scordare cosa sono realmente i meganoidi: un esperimento di laboratorio del dottor Haran Sozo, più robot che uomini.» «Anche ammesso che trovi il coraggio di uccidere, come ci riuscirò? Non sono armato...» Gattomatto si alzò dalla tavoletta del cesso e cominciò a camminare in cerchio. Stava riflettendo. «In effetti questo è un probloema non da poco, che va considerato... Secondo me, però una qualche arma dovresti trovarla...» «Tipo?» «Un coltello da cucina dalla lama grossa, di quelli che si usano per tagliare la carne, o un bastone di legno particolarmente robusto che il padre o la madre della Marelli si è portato dall'ultima camminata in montagna... in una casa, qualcosa che si possa usare come arma, la si trova sempre... esci, perlustra le camere, trova ciò che fa al caso tuo e poi agisci.» «E tu... tu... che farai?» Gattomatto sorrise. «Io sarò al tuo fianco, Lucabello. Non ti abbandonerò come tu hai fatto con me. Sarò la tua ombra. Siamo amici noi due, ricordi? Due fratelli che nessuno potrà mai separare.» «Gesù!» sospirò Luca, portandosi le mani al volto. Gattomatto gli si avvicinò. «Fratello, tranquillizzati, noi siamo dalla parte dei buoni, capito?» Luca scostò le mani, fissò il suo pupazzo negli occhi e annuì. «Ora vai» disse il pupazzo. «E come direbbe il vecchio Banjo, che la forza del sole sia con te! Attacco solare! ENERGIA!» Luca uscì dal bagno. Si ritrovò nel corridoio di prima, lungo, buio, spianato da un tappeto di velluto rosso. "Devor trovare un'arma", pensò, e cominciò ad aprire porte e a perlustrare stanze alla ricerca di qualcosa che facesse al caso suo. Non ci mise molto a scovarla. Entrò in una stanza dal soffitto a cassettoni, occupata da una scrivania in mogano e da un'enorme libreria piena di testi antichi. Era lo studio di Gualtiero Marelli, padre di Koros, stimato avvocato dalla élite milanese. A un angolo, tra due muri, era appesa una bacheca di vetro e dentro la bacheca si trovava un fucile col caricatore a tamburo. Usando un pesante portacenere di cristallo, Luca spaccò il vetro e prelevò il fucile. Aveva il calcio in legno, la canna in carbonio ossidato ed era carico. Luca uscì dalla stanza e, lungo il corridoio, incrociò un tipo, il ciccione che diceva di possedere una barca a vela. I due si osservarono alcuni secondi, poi il ciccione abbozzò un sorriso e disse: «Che ci fai con quel fucile?» D'istinto, Luca sollevò la canna e premette il grilletto. La detonazione fu secca e potente. Il ciccione si guardò la pancia: un alone rosso si stava allargando al centro della camicia. «Cazzo... mi hai sparato!» Lo sparo aveva attirato l'attenzione degli altri invitati. «Ma che cos'è successo?» «Chi è stato a sparare?» «Da dove proveniva?» «Mi hai sparato!» ripeté urlando, il ciccione «mi hai sparato! Questo stronzo mi ha sparato! Tu mi hai...» Prima che potesse pronunciare per l'ennesima volta la parola "sparato", Luca premette il grilletto, centrandolo in fronte. Il ciccione stramazzò a terra per non rialzarsi più. Una ragazza che aveva assistito alla scena si mise a urlare. Luca sparò anche a lei, strappandole via una guancia. Altre teste sporsero dal fondo del corridoio per vedere cosa stava succedendo. Luca, sentendosi come Terminator, scavalcò la montagna di lardo e puntò il fucile verso gli altri. Premette il grilletto diverse volte, senza concentrarsi troppo sui singoli bersagli. Un paio di meganoidi li ammazzò al primo colpo, altri li ferì più o meno gravemente. I più svegli si chiusero a chiave nella prima stanza che incontrarono. Quando arrivò in salone, Luca sparò i colpi che gli rimanevano sui pochi rimasti. Finite le munizioni, gettò il fucile a terra, andò in cucina e prese da un ceppo di legno un lunghissimo coltello. Tornò in salone e, affondando la lama nelle loro carni, terminò gli invitati che aveva solo ferito e si trascinavano disperatamente sul pavimento. «Aspetta, non mi uccidere, ti prego!» implorò una ragazza bionda, piuttosto carina, che era stata messa ko da un proiettile alla clavicola. Luca le sollevò il capo per i capelli raccolti a treccia e passò la lama sulla gola. La bionda non implorò più. Luca si alzò e si guardò intorno: il salone era un mattatoio. Il sangue macchiava le pareti. I corpi giacevano un po' ovunque. "Bene", pensò, "li ho ammazzati tutti, rimane solo Koros". E cominciò a urlare: «Koros, dove sei? Vieni fuori, lurida cagna! Mostrati! Cos'è, ora che Don Zauker non ti protegge più, te la fai sotto? Avanti, perdio! Fatti vedere, affrontami a viso aperto! Koros! Maledetta!» Per cinque minuti, vagò per la casa urlando come un folle il nome della sua nemica, poi udì una voce, da dietro una porta, una voce resa rauca dal pianto, ma comunque decifrabile. «Vattene, ho chiamato la polizia, stanno arrivando! Vai via!» Era lei, Silvia Marelli, cioè Koros. Luca cominciò a tempestare di calci e pugni la porta. «Apri, maledetta! Apri questa porta! Puttana! Ti ammazzo! Ti trancio come un pollo! Ti arrostisco con l'energia solare! Uso la fimma ossidrica!» Sotto l'ennesimo colpo, la porta cedette. Con un ultimo calcio, Luca la spalancò. Era completamente stravolto, la maglietta sporca di sangue, i capelli scomposti e il coltello della cucina stretto nella mano destra. «Squartala» sentì la voce di Gattomatto sussurrare alle sue spalle. «Squarta quella puttana e salva l'umanità!» Luca varcò la soglia. Si ritrovò in una grande stanza con un enorme letto matrimoniale a ridosso di una parete. Schiacciata a un angolo, ripiegata in se stessa, c'era Koros. Il comandante dei meganoidi. Tremava e delirava. Diceva: «Ti prego... ti prego... non mi uccidere... ti prego... che t'ho fatto io? Ti scongiuro, vattene via...» A Luca, quasi fece pena, ma poi si ricordò di quant'era perfida quella donna e allora sollevò la lama su di lei. Stava per calarla quando udì una voce: «Fermo là!» Luca si voltò in direzione della porta e allora vide un meganoide travestito da poliziotto che gli puntava contro una pistola. Calò la lama rapidamente, ma non abbastanza. Prima che potesse affondare nella testa di Koros, il poliziotto premette il grilletto. Il proiettile, viaggiando alla velocità di 1400 metri al secondo, attraversò il cranio del bersaglio da tempia a tempia, trascinandosi, in uscita, un fiotto di sangue misto a materia cerebrale. Luca cadde a terra con la testa spappolata. Koros cominciò a urlare. Un'ora dopo, la scientifica caricava il corpo dell'assassino, chiuso in un telo, nel retro di un furgone. «Ma che è successo?» domandò l'agente al volante. «Una strage» rispose un altro, salendo a bordo. «Un tizio, a una festa, così, senza un motivo apparente, si è messo a sparare con un fucile.» «Un fucile?» «Già. Una vecchia arma da caccia che il padre della festeggiata teneva nel suo studio. Terminati i proiettili, lo psicopatico ha usato un coltello da cucina per sgozzare chi era rimasto a terra ferito.» «Pazzesco!» «Eccome! Ne parleranno i giornali di questo stronzo, puoi scommetterci, e anche la tv. Faranno fior di programmi con lo psicologo di turno che spiega come mai i trentenni di oggi sono allo sbando. Prepariamoci. Dai, ingrana la prima che sono stanco.» Il mezzo si mise in moto. Gattomatto, appoggiato a un muro, lo vide sparire, svoltato un angolo. «Così impari a sporcarmi il pelo di sborra, stronzo» disse. Poi, buttò la sigaretta per terra e se ne andò nella notte che già impallidiva. ___________________________________________________ Jason Violenza IL PUNTO DI VISTA DEI GIOCATTOLI Mi chiamo Mazinga e sono un piccolo robot giocattolo. Andavo di moda negli anni Ottanta, quando alla tele trasmettevano un cartone animato su di me. Il mercato dei giocattoli, per approfittare del momento di popolarità, mi lanciò. Per diverse settimane le cose andarono bene. I negozianti non facevano in tempo a mettermi su uno scaffale che subito qualcuno mi prelevava per comprarmi. Io venni comprato da un bambino di 11 anni. Questo bambino si chiamava Giacomo. Dopo avermi comprato, giocò con me per circa un annetto. Poi, si stufò. Mi posò su un ripiano della libreria. Lì rimasi per circa dieci anni, poi un giorno la mamma di Giacomo prese un sacco e mi ci ficcò dentro insieme ad altri giochi, tipo il Big Jim, il robottino di Goldrake (altro cartone che andava alla grande negli anni Ottanta), un esercito di soldatini di gomma, qualche Master of the Universe eccetera. La mamma di Giacomo ci portò tutti in soffitta e lì siamo rimasti fino ad oggi. Sapete, non è male essere un giocattolo. Voglio dire, vieni a sapere un sacco di cose, di segreti. Ad esempio, io fui il primo, credo, a sapere che Giacomo si faceva le pere. Lo venni a sapere quando lui mi aveva già mollato da un pezzo, dimenticandomi sul ripiano della libreria. Un giorno che i suoi se n'erano andati per il weekend, che fa? Tutto trafelato entra in camera, si toglie la giacca e, da una tasca, tira fuori delle cose. Tira fuori un cucchiaio, un limone, una pallina di stagnola con dentro della polverina, un accendino e una siringa chiusa in busta. Scarta la pallina, mette la polverina sul cucchiaio, l'allunga con un po' d'acqua e la scioglie col limone, poi riscalda, mettendo la fiamma dell'accendino sotto il cucchiaio. Quando la polverina è diventata una pappetta, la risucchia con la siringa, tirando indietro lo stantuffo, e poi se la spara tutta in vena. Poi, che fa? Si rilassa tutto. Si allenta come un biscotto Plasmon pucciato nel caffelatte. Si sdraia sul letto e con due occhi da cernia sul tavolo del buffet parte per il suo viaggio nel magico villaggio dei Puffi. Sì, fui il primo a sapere che Giacomo era un drogato. Un eroinomane. Che quel ragazzino così vivace che mi faceva volare sopra il tappeto del salone per lanciarmi in picchiata contro i robot nemici, si bucava. Poi, lo vennero a sapere anche i genitori, ma era già troppo tardi. Era già guasto, Giacomo, quando suo padre si accorse che si faceva. Difatti è durato poco. Lo hanno mandato in comunità. Poi, lui è tornato a casa per qualche giorno, ma non stava bene, anche se dicevano che si era ripulito. Difatti dormiva male. Io, che vedevo tutto dal ripiano della libreria, accanto al letto, lo capivo. Lo vedevo che dormiva un sonno breve e distratto e poi si svegliava. Si svegliava, Giacomo, con un'angoscia che gli stringeva lo stomaco e allora si rannicchiava tutto sul letto, si raccoglieva come se volesse entrare nel ventre materno e scordare di essere nato, risalire all'origine delle cose fino a scomparire. Ve la farò breve. Un giorno scappò di casa. Rimasi lì, solo nella stanza, per una settimana, senza sapere nulla. Finché una mattina non ci entrò sua madre, nella stanza, e si mise a guardare gli abiti nell'armadio, i libri, i giocattoli, me compreso. E poi scoppiò a piangere. Allora capii che Giacomo era morto. Morto di eroina, ci scommetto il mio pugno atomico rotante. Pochi giorni dopo, la mamma di Giacomo ci raccolse tutti, ci ficcò in un sacco e ci portò in soffitta. Sapete, non si sta poi male, in soffitta. Ogni tanto io e gli altri giochi usciamo dal sacco, ci disponiamo in cerchio sul parquet e ce la raccontiamo. Parliamo molto di Giacomo. Di che bravo ragazzo fosse e della brutta piega che presero gli eventi. Sul perché sia finito così male, abbiamo pareri diversi. Secondo Big Jim, la colpa è del padre. «Il padre era un tipo severo,» ha detto, l'altra sera, «lo caricava di responsabilità. Lo schiacciava con la sua autorità. Giacomo ci stava male. Per questo si è bucato. Non ha retto il confronto con la figura paterna.» Secondo Barbie un po' di colpa ce l'aveva anche la madre. «Non faceva altro che viziarlo.» ha spiegato mentre sedevamo in cerchio sotto una finestra; attraverso i vetri filtravano i raggi della luna e i capelli di Barbie sembravano bianchi «Gli diceva sempre di sì. Lo coccolava. Lo viziava. Per lei, suo figlio non aveva mai colpe. E poi era troppo seduttiva. Una madre non può essere così seduttiva.» «Cosa intendi per seduttiva?» ha domandato una bambola di pezza. «Intendo che si vestiva sexy, con gonne corte e scollature. Insomma, sembrava più una ragazzina che una mamma. E una mamma, passata una certa età, quando ha un figlio per cui essere un esempio, deve abbandonare certe pose. Non si può giocare alle bambole per tutta la vita, no?» A questo punto è intervenuto Skeletor, l'acerrimo nemico dei Masters of the Universe. «Secondo me, il padre e la madre non c'entrano più di tanto. È lui, Giacomo, che alla fin fine era una mezza sega.» «Non ti sembra di essere un po' drastico nel giudicare?» ho domandato. «No, per niente» ha risposto lui. «Giacomo era umo smidollato, diciamocelo. Non aveva nerbo. Non era fatto per sopravvivere. Non funzionava a livello strutturale. I suoi genitori non hanno colpa.» «Era un tipo sensibile, più sensibile degli altri, ecco qual era il guaio,» ha detto un micronauta della Gig di colore nero e con i razzi arancioni dietro la schiena, «sentiva tutto in maniera troppo esagerata. Era un poeta.» «Oh, per cortesia, lasciamo stare la poesia ora!» ha ribattuto Skeletor. «I poeti non si fanno necessariamente di eroina, non tutti. E poi, dei bambini difficili e degli adolescenti problematici, si dice sempre che sono sensibili, che sono dei poeti. La sensibilità è il grande alibi dei fancazzisti. No, no, quale poeta, Giacomo era uno che non aveva voglia di impegnarsi, eccolo il vero problema!» «Però un po' è vero che sua mamma era seduttiva» ha detto una voce, ad un certo punto. A chi apparteneva? «Chi ha parlato?» ho chiesto. «Io ho parlato.» Una scatola, su una mensola, ha preso a scuotersi, il coperchio si è ribaltato e dall'interno è saltato fuori un oggetto stranissimo. Un giocattolo che non avevo mai visto. Sembrava una zucchina o una banana, solo che era di plastica e di colore rosa. Alla base aveva una specie di impugnatura con una rotellina tipo quella che regola il volume negli stereo; sulla cima, invece, quella specie di zucchina, si allargava leggermente, come un fungo. L'oggetto si è seduto accanto a noi. Lo abbiamo guardato perplessi. «E tu che roba sei?» ha chiesto Big Jim. «Sono un vibratore» ha detto l'oggetto. «Vibratore? Non ho mai sentito di un gioco che si chiami così» ha detto Skeletor. «Non sono un gioco, o meglio, sono un gioco per adulti» ha spiegato Vibratore. «Che tipo di gioco?» ho chiesto. «Un gioco che si usa per provare piacere. O, almeno, la mamma di Giacomo mi usava per questo.» «E cioè, come funzioni? spiega» ha domandato He-Men. «È molto semplice,» ha risposto vibratore, «si sposta questa rotellina che ho in basso e si decide l'intensità di vibrazione». Vibratore ha spostato la rotellina su "1" cominciando a vibrare, poi su "5" e ha preso a vibrare ancora più forte. «Tutto qui?» ha chiesto Barbie. «Non sei molto divertente.» «Eh, non è mica finita, 'spetta» ha detto Vibratore. «Poi, mentre vibro vengo ubicato nel condotto sessuale femminile, la vagina, cioè. Le vibrazioni prodotte, facendo ruotare la mia massa eccentrica di forma fallica, stimolano e procurano piacere sessuale.» «La mamma di Giacomo ti usava così? Cioè, lei t'infilava nella sua e... ti faceva vibrare?» Vibratore ha annuito ronzando. «Che baldracca!» ha sussurrato con aria estatica Big Jim. «Eh, in effetti non era esattamente una santerellina, la signora. C'è da dire che anche il marito era piuttosto malizioso» ha detto Vibratore. «Perché, anche lui ti s'infilava nel suo buco?» ho chiesto. Il vibratore ha smesso di vibrare. «Cristo, no! E meno male! Non avrei sopportato di essere infilato nel sedere floscio e peloso di quell'uomo! No, non mi ha mai usato su di sé, il papà di Giacomo. Però gli piaceva vedermi infilato dalla signora nel proprio lato b. "Ficcalo fino in fondo!", le diceva. "Metti la vibrazione 10, dai! Guarda, guarda come vibri! Sembri un budino!", così diceva il signore, mentre io vibravo come un dannato nel sedere della signora.» «E la signora apprezzava?» ho domandato. «Un po' sì» ha risposto Vibratore. «Un po' le piaceva questo giochetto, alla signora. Insomma, io penso che a ogni donna non dispiaccia sentirsi un po' zoccola, ogni tanto. E forse io, in quanto corpo estraneo e artificiale, totalmente alieno al concetto di riproduzione e dedicato unciamente a quello di piacere, facevo sentire la mamma di Giacomo particolarmente zoccola.» «E perché adesso ti ha messo in soffitta e non ti usa più?» ha domandato Barbie. «Beh, ad un certo punto si è stancata, sia di me, sia del marito. A me mi ha messo in soffitta, al marito, invece, ha chiesto il divorzio. Poi se ne è andata di casa.» «La mamma di Giacomo non abita più qui?» ho chiesto, questa sì che era una notizia! «Esatto e nemmeno il padre,» ha detto Vibratore, «dopo la morte del figlio, sia lui che lei non ne hanno più voluto sapere di abitare in questa casa e l'hanno venduta.» «E chi ci abita adesso?» ha chiesto Skeleton. «Una coppia gay» ha risposto Vibratore. «Una coppia gay?» «Già. Spero che non mi trovino. Non ho nulla contro i gay, ma non mi piacciono i culi degli uomini. Mi piacciono quelli delle donne, morbidi, rotondi, fragranti come delle ciambelle.» Per un po' nessuno ha detto nulla. Tutti noi giocattoli avevamo gli occhi puntati su quello strano oggetto che si chiamava Vibratore. «Comunque, avevo ragione,» ha detto Barbie, ad un certo punto, «la mamma di Giacomo era troppo seduttiva. Troppo audace. Lui si è drogato anche per questo. Perché si vergognava.» «Uhmmm» ha ronzato Vibratore. «Che c'è, la pensi diversamente?» sono intervenuto io. «Se hai qualcosa da dire, dilla. Si sta dialogando liberamente qui.» «Ok, vi dirò come la penso io;» ha detto Vibratore, «io che ho passato anni nascosto in un cassetto della camera da letto e ho sentito quei due parlare e quindi li conosco bene, la mamma e il papà di Giacomo, intendo. Secondo me, quei due erano adulti per finta, ecco perché Giacomo ha cominciato a bucarsi.» «Che significa che erano adulti per finta?» «Significa che fisicamente erano cresciuti, ma mentalmente no, erano ancora bambini, o al massimo adolescenti. Invece che con me avrebbero dovuti giocare con voi altri robot e bambolotti e andare a scuola e studiare e imparare a vivere. Erano totalmente irresponsabili e incapaci di gestire una cosa come un figlio. Erano due egocentrici che pensavano solo al proprio piacere e non riuscivano a concepire l'idea di sacrificarsi. Erano, passatemi il termine, due cazzoni. Non avrebbero mai dovuto essere genitori.» «Già, perché un figlio non è un gioco» ho detto io. «Bravo,» ha detto Vibratore, «giusto. Un figlio non è un gioco. Oppure, se vogliamo considerarlo tale, allora si tratta di un gioco maledettamente complicato, sofisticatissimo, che va trattato con cura, preparandosi, leggendo bene il manuale delle istruzioni, altrimenti si rompe e fa dei danni. Non puoi far nascere un bambino e lasciare che cresca da sé, non esiste.» «Verissimo.» «Hai ragione.» «Povero Giacomo.» Eravamo tutti d'accordo con Vibratore. «Secondo voi dove sarà, adesso, Giacomo?» ha domandato Skeletor. «In Paradiso,» ha risposto Barbie, in tono ispirato, «nel Paradiso delle anime innocenti, dei figli vittime di genitori immaturi. È la che corre tra le nuvole, quel frugoletto, in mezzo a tanti giocattoli-angeli che lo riempiono di letizia!» «Io non penso che sia in paradiso» è intervenuto Vibratore. «Per me è in una tomba, quella dove l'hanno seppellito, ridotto un mucchio di cenere, dopo che i vermi se lo sono mangiati a sbafo!» Tutti abbiamo taciuto. Ogni tanto io guardavo la luna, le stelle, per capire se c'è un paradiso oppure no, lassù, oltre lo spazio e i pianeti. Oltre ogni cosa. Poi, improvvisamente, abbiamo sentito dei rumori provenire dal basso. «Chi si muove? Chi è?» ha domandato la bambola di pezza. «I due padroni di casa! Stanno salendo!» ha sussurrato Vibratore. «Presto, ognuno torni dov'era!» Così abbiamo fatto. Io e gli altri giochi siamo ritornati nel sacco e Vibratore nella sua confezione. Io sono rimasto con la testa fuori per vedere i due che stavano salendo, che faccia avevano. E così li ho visti, i nuovi padroni della casa che un tempo era stata di Giacomo e dei suoi genitori. Erano uomini di età compresa tra i 40 e i 45 anni. Uno era basso e pelato, l'altro biondo e più aitante. «Da quant'è che non saliamo in soffitta?» ha chiesto il biondo. «Eh, da sempre mi sa. Da quando abbiamo comprato questa casa, io personalmente penso di non esserci mai venuto» ha risposto il nano stempiato, muovendo una torcia. I due si sono guardati intorno con l'aria di valutare. «Potremmo ridipingere il soffitto di bianco. Mettere qua un bel divano a fiori. Dare un tocco provenzale a questa soffitta, tu che dici? Verrebbe fuori una bella stanza...» «Sì, perché no? L'unica cosa è la luce, ce n'è poca.» «Magari possiamo ampliare il vano della finestra e appendere qualche tendina...» «Gesù, che discorsi da froci!» ha sussurrato Big Jim, alle mie spalle. «Arredamento e taglio di capelli, non sanno parlare d'altro questi ricchioni.« «Ssst! Potrebbero sentirci!» «Ehi, guarda qua!» ha detto il nano stempiato. «Che c'è?» il biondo si è avvicinato al compagno. «Che cos'è questa scatola rosa? C'è scritto Sexy Shop... Proviamo ad aprirla.» «Uh, ho quasi paura!» Cautamente il pelato ha aperto la confezione. «Un vibratore! Non ci posso credere! Un vibratore! Un vibratore! Quei due balordi tenevano un vibratore in casa!» «Fammi vedere!» Il biondo ha strappato l'oggetto dalle mani dell'amico, lo ha osservato divertito, poi lo ha fatto vibrare. Lui e il suo amico hanno urlato dalla sorpresa! «Ahhhh!» «Dobbiamo assalutamente usarlo!» ha detto il pelato. «Sì, ma non prima di averlo disinfettato. Non voglio infilarmi quest'affare nel culo con tutti i germi che gli hanno trasmesso il signore e la signora che l’hanno comprato!» «Beh, non penso che i germi siano sopravvissuti per tutto questo tempo.» «È lo stesso. Prima lo disinfettiamo, poi lo collaudiamo.» «Ok, dai, scendiamo, useremo dell'alcol!» Tutti eccitati i due gay hanno sceso le scale. Nella soffitta è tornato il silenzio. Poi, He-Man ha detto: «Poveraccio. E' successo proprio quello che non voleva.» Si riferiva a Vibratore, ovviamente. Quella specie di zucchina aveva sperato di rimanere lontano dai buchi degli uomini e invece, quella stessa notte, avrebbe iniziato una nuova avventura nel fantastico universo anale degli omosessuali. E' proprio ingiusta la vita, ho pensato, fissando la luna, le cose non vanno mai come vorresti. Io avrei voluto continuare a planare sopra tappetti e pavimenti e ad abbattermi contro mostri e nemici robot, He Man avrebbe desiderato continuare a combattere per il bene dell'universo contro Skeletor, la Barbie avrebbe desiderato una bella storia d'amore con Big Jim e Vibratore avrebbe desiderato continuare a ronzare nell'ano di una signora, e invece com'era andata a finire? Tutti chiusi in un sacco, in soffitta, e vibratore a letto con due ricchioni. Il povero Giacomo, invece, nella tomba. Ho sospirato e guardato la luna. Per un attimo ho provato l'irrazionale desiderio di saper volare veramente, di avere autentici motori propulsori dietro le spalle che mi proiettassero nello spazio, oltre le stelle. Poi ho smesso di desiderare cose ridicole. Mi sono tranquillizzato e non ho più pensato a nulla. Così dovrebbe fare un bravo giocattolo. _________________________________________________ Alberto Pancaldi UNIONE RAGAZZE DELL'EST Ascoltate. Io donna rumena. Io donna bellissima perché rumena. Tutte noi rumene bellissime. Italiane sfigate. Italiane grasse, culo flaccido e tette molli, ma donne rumene fantastiche. Donne rumene eternamente giovani. Ecco perché uomini italiani pazzi di donne rumene. Io arrivata in Italia mattina di maggio 2009. Era primavera. Sole giallo e rotondo come limone. Io pensavo di essere arrivata in paese dei balocchi. In paradiso terrestre. In terra di pizza, canzoni d’amore, mare e uomini gentili che sapevano amare. Io pensavo tutto questo di Italia, poi scoperto che Italia è paese di merda che non vale un sasso di Romania. E scoperto un’altra cosa: uomo italiano peggiore del mondo. Uomo italiano falso, perverso, maiale, impotente, ipocrita e ricattatore. Uomo italiano pappone nato. Primo uomo italiano in cui mi imbatto è signore alla stazione dei treni. Io arrivata a stazione centrale di Milano alle sette di sera. Io stanca dopo viaggio che sembra non finire più. Mio culetto bellissimo e rotondo e duro come granito, tutto dolore. Ho fame. Ho sete. Ho sonno. Se io non trovo immediatamente posto dove dormire io crollo, lo sento. Dunque scendo da treno. Mio viso bellissimo esprime mia situazione dentro di momento: sono disperata. Non ho nessuno. Non so cosa fare, dove andare, a chi chiedere aiuto. Io ho con me valigia con tutta mia roba, ma no soldi. Uomo distinto in giacca e cravatta si avvicina me. Vede mio bello culo di granito e poi mia faccia stanca e fare due più due uguale quattro. Questa ragazza giovane, rumena disperata, pensa uomo distinto in giacca e cravatta, questa avere bisogno di aiuto, di casa, non avere nessuno, forse io posso approfittare. Così uomo distinto in giacca e cravatta avvicinarsi a me. «Signorina, cosa c'è, lei bisogno di qualcosa? Io posso aiutare?» Io diffidente. A me in Romania hanno detto che uomo italiano è uomo maiale. Ma io disperata come ho detto prima. E poi signore distinto in giacca e cravatta sembra persona gentile. Ha viso lungo e magro. Ha capelli neri tirati indietro con gel e un po' bianchi ai lati. A me ricordare Riccardo Fogli cantante di canzone anni Ottanta Che ne sai. Io alla fine decido di fidare di lui. «Io mi chiamo Marina. Io vengo da Romania. Io non so dove dormire. Non avere amici qui. Appena arrivata a Milano.» Signore distinto in giacca e cravatta sorride. Mi dice che no problema. Capisce situazione molto bene. Io ricordo sua figlia che ora studia a New York. E per questo fatto, che ricordo figlia sua, lui vuole aiutare me. «Conosco posto dove tu puoi dormire notte» dice. «Io però no soldi» dico. «No bisogno soldi. Tu dormire gratis notte» dice. Io lo guardo con sospetto. Poi dico me che lui persona gentile. Si vede. Somiglia troppo a Riccardo Fogli e così lo seguo. Lui mi conduce fuori da stazione dei treni. Entriamo in sua auto che è auto bella ed elegante. Bmw nera con dentro sedili di pelle verissima. Lui molto galante. Aprire portiera me e fa accomodare me, poi ci allontaniamo da stazione. Mentre guida dice che lui imprenditore. Lui a stazione treni perché appuntamento con amico, ma appuntamento saltato. Io chiedo lui, se moglie sua no gelosa di sapere ragazza rumena in macchina con lui. Lui dice che sua moglie non è problema. «Tu divorziato?» chiedo. «No. Mia moglie morta. Io vedovo. Tu capire morta e vedovo?» Certo che capire. E mi dico dispiaciuta per lui. «Anch'io avere morto in famiglia. Mio padre morto» dico. «Ah, sì?» dice lui, e si mostra dispiaciuto di cosa. Allora io racconto di mio padre. Che è morto per disgrazia. Per incidente stradale. Evito di dire che mio padre morto mentre guidava sua auto ubriaco ed è passato rosso e ha preso pieno altra auto uccidendo a tutta velocità lui stesso, i suoi tre amici in auto con lui e tutti passeggeri di altra auto che passava verde. Evito di dire che mio padre pezzo di merda. Che picchiava sangue mia madre e le mie due sorelle e mio fratello. E che poi non ha più picchiato mio fratello a sangue perché mio fratello ucciso se stesso, buttato giù da scarpata. Evito di dire che ho ringraziato Dio con lacrime di felicità che scendevano giù su mio viso quando saputo di morte sua perché cosa bella lui morto. Evito. Signore distinto e in completo si mostra molto colpito per mia situazione. Mi chiede cosa ho intenzione fare io qui in Italia, ora. Io dico: «Trovare lavoro. Italia paese bello. Paese di sole e gente simpatica. Italia piena di amore. Gente qui sorride e muove mani mentre parla perché felice. Io, qui meglio che Romania.» Così dico. Io scema. Io non capire proprio niente. Signore distinto e in completo dice che lui forse per me trova lavoro, ma ora importante è che io dormo perché ho faccia molto, ma molto stanca. Così signore distinto e in completo mi porta in un appartamento di palazzo, poco fuori Milano. Appartamento dice essere suo, ma non devo preoccupare affitto. Lui tanti appartamenti. Uno più uno meno con ragazza rumena dentro non può fare differenza. Entriamo. Appartamento essere non tanto grande ma per una persona bene. Tipo, 35 metri quadri, non più. C'è letto rotondo al centro di stanza, piccolo frigo bar e un tv. Le finestre sono abbassate. Uomo distinto si allenta nodo cravatta e si toglie giacca. Mi dice di mettermi comoda e rilax. Fare come se fossi casa mia e io faccio. Poi mi dice che mette un po' musica e inserisce CD di Laura Pausini in lettore. Note di La solitudine subito riempiono appartamento. Uomo distinto siede su bordo letto e facendo pat-pat su materasso invita a fare lo stesso me, così io siedo accanto a lui. Sono stanca. Mi sembra di essere risorta da tomba quando io preferivo stare morta in tomba tanto sono stanca. Vorrei che uomo distinto ora non più in giacca e cravatta, ma in camicia e cravatta da nodo allentato, se ne va via. Vorrei così non perché io ingrata. Vorrei così perché io stanca, tanto stanca. Io sul punto di crollare a letto e dormire sonno profondo come abisso di Mare Nero. Ma uomo in camicia e cravatta allentata non vuole che io dormo. Vuole che io gli parla ancora un po' di me e mi offre da bere. Da piccolo frigo bar tira fuori bottiglia spumante e due bicchieri. Riempie uno bicchiere e lo da a me e uno bicchiere e lo tiene per lui. «Brindiamo a tuo arrivo in Italia» dice. Io per non fare cafona, brindo e bevo. Poi lui riempie bicchiere di nuovo e io - che devo fare? - bevo di nuovo. Poi lui chiede me di continuare a raccontare mia vita in Romania. Allora parlo di mia vita. «Che vuoi tu sapere di mia vita? Non c'è molto da sapere di mia vita. Io nata in un piccolo paese vicino a Bucarest. Mio padre contadino. Mia madre tenere la casa. Noi fare fame per tutta vita. Io mangiare tanta polenta e tanto riso. Ogni tanto mio padre pescare e portare a casa pesce. Allora mangiare pesce. Poi bere acqua e qualche volta vino. E guardare tv.» «E cosa di bello guardare tv?» domanda signore in camicia e cravatta da nodo allentato. E mentre fare questa domanda prende a carezzare miei capelli lunghi e biondi. Cosa un po' strana che uomo appena conosciuto a stazione treni, nemmeno una ora prima, prende così a carezzare mia testa. Ma io penso a frase che lui aveva detto prima in BMW e cioè che io somigliare a sua figlia ora a New York. Così mi dico che forse lui carezzare mia testa biondissima come Barbie come papà che accarezza figlia e non come uomo che vuole mettere cazzo in figa. Così io lascio lui carezzare me. Ma ad un certo punto, mentre beviamo e io mi sento tanto stanca e lui continua a carezzare me, succede cosa brutta e cioè che lui abbassa capo di me con forza. Abbassa verso mezzo sue gambe e allora io scopro che mezzo a sue gambe cerniera è aperta e da cerniera sbuca cazzo. «Cosa fare, cosa tu fare? Tu detto che io come tua figlia di New York!» dico e cerco di alzare mia testa, ma sua mano più forte di mia testa. «Non rompere le palle, rumena del cazzo» dice lui, ora con voce cattiva, non più come carezza di Riccardo Fogli. «Vuoi dormire qui o in mezzo a strada? Se tu non vuoi dormire in mezzo a strada devi pagare affitto. E affitto si paga in pompini. Capito? Avanti. Tu pompa se non vuoi dormire in strada sotto portico dove tossico o negro extracomunitario ti stupra!» A quel punto io che potere fare? Cosa fare voi al posto mio? Fuori è buio e freddo. Fuori da appartamento città che non conosco. Uomo che tiene sua mano su mio capo per abbassarmi ha mano molto forte. Io paura di lui. Io paura di notte fuori. Io paura di tutto! Io povera ragazza rumena sola, da culetto bello e sodo come granito e cuore disperato. Così io alla fine lasciare che lui abbassi mia testa e mentre lacrime scorrono giù da mie guance, lasciare che suo cazzo entri in mia bocca. «Brava, brava!» dice uomo in camicia, cravatta allentata e cerniera abbassata «Pompa, pompa! E manda giù tutto con ingoio! Non ti azzardare a staccare labbra prima che io vengo, capito?» Suge. Che in mia lingua significa succhio. Suge, come ho fatto con mio cugino più grande quando avere dodici anni e noi due soli in fienile e lui costringere me a succhiare lui. Suge, come ho fatto con mio primo findanzato che pensavo anche lui dolce e gentilomo come Riccardo Fogli e invece era maiale. Suge, come ho fatto una volta con mio padre che ubriaco aveva preso me a cinghiare e poi vedendo me rannicchiata e in lacrime in angolo stanza si era eccitato e aveva costretto me a prendere suo cazzo in mia bocca. Suge e prendo tutto in bocca. Tutta sborra. E quando signore italiano che ho succhiato finalmente lascia mio capo, io rannicchiata sul letto che continuo a piangere. «Ora io vado via» dice signore che ho succhiato, rimettendosi giacca e salendo cerniera. «Io domani torno. Tu ora stare con me. Tu lavorare per me. Domani io ti spiego. Non fare cazzate e dormi, zoccola rumena.» Signore che ho succhiato se ne va. Io sento porta chiusa a chiave da fuori. Io quindi chiusa dentro e non potere uscire. Ma a me non importa uscire. Non importa più nulla. Ascoltate, uomini italiani tutti maiali e donne italiane così cesse che si fanno scopare uomini italiani ricchi e maiali da donne rumene belle e povere. Ascoltate. Io, la notte, sprofondare in sonno pieno di cose brutte. Fare incubo terribile. Prima di raccontarvi mio brutto sogno, voi dovete sapere che io in Romania, su mia televisione, cresciuta con vostri programmi Rai. Tipo telenovela Un posto al sole, Gigi Proietti in Commissario Rocca, Pippo Baudo a Festival della Canzone Italiana Sanremo e poi Raffaella Carrà. Io adoravo Pippo Paudo. Io sognavo in Italia di trovare principe azzurro come Pippo Baudo ovviamente più giovane e più capelli. Io amavo Raffaella Carrà. Io sognavo in Italia farmi amiche italiane simpatiche e sorridenti come Raffaella Carrà. Ma dicevo di mio sogno. Io dormo e sogno di essere concorrente in programma tv di Rai tipo Affari Vostri o Pacchi. Programma tipo così. Presentatore di programma è mostro e ora io vi spiego perché mostro: è alto e grosso come uomo, ma lui no uomo visto che ha tette. Ma nemmeno donna visto che sotto giacca e camicia lui non ha pantaloni, ma calze a rete tirate su su gambe pelose e uccello di fuori. Ma cosa più mostruosa di lui è che su spalle due teste, non una, e una testa è testa di Raffaella Carrà e l’altra testa è testa di Pippo Baudo. Mostro mezzo Carrà e mezzo Baudo avvicinarsi me. Mi presenta a pubblico. Dice che sono concorrente di serata. Dice di fare applauso a me. E il pubblico applaude me e allora io mi guardo intorno spaventata e vedo che pubblico è fatto di vecchi che cadono a pezzi, è fatto di zombie. Uomini e donne italiani con pelle tutta aperta e pus che cola da orbite. Uomini e donne che mentre applaudiscono me gli si staccano dita. Io terrorizzata. Io volere fuggire, ma su poltrona su cui io siedo succede che spuntano specie di manette che si chiudono su mie gambe e mie mani e immobilizzano me, così io non potere fuggire. Io imprigionata mentre presentatore mostro dice che ora si farà gioco. Uno gioco a cui devono partecipare tutti italiani e gioco si chiama Facciamoci la rumena. Cari spettatori, caro pubblico da casa, dice testa di Pippo Baudo venite qui in studio, fatevi questa bellissima ragazza rumena. Toccate culo e tette. Chiavate lei in tutte posizioni. Venite addosso lei. Fatevi rumena. Avanti, voi amici in sala, cominciamo! Mentre dice questo, testa di Raffaellà Carrà ride. Io sempre più paura. Vedo pubblico di zombie alzarsi e venire verso me, centro di studio, e toccarmi e sporcarmi con loro corpi pieni di pus e di sperma. Mi sveglio di colpo col cuore che batte veloce come treno che mi ha portato qui da Romania. Vorrei urlare, ma nessuno mi sentono. Vorrei tornare in mia casa, in mio paese, ma non possibile. Io non ho soldi nemmeno per biglietto ritorno. Allora guardo fuori da finestra. Appartamento di signore uguale a Riccardo Fogli è ultimo piano di palazzo. Se io scavalcare da finestra faccio volo, mi spiaccico su cemento e finisce tutta questa sofferenza. Io tentata di buttarmi, ma alla fine non lo faccio. Alla fine istinto sopravvivenza ha meglio su me. Crollo di nuovo su letto per addormentarmi. Questa volta senza sognare. Mattino dopo porta si apre. Signore uguale a Riccardo Fogli ma più cattivo entra in appartamento accompagnato da due uomini. Questi due uomini molto grandi. Sembrano armadi di mia casa in Romania. Riccardo Fogli fare le presentazioni. «Allora, troia rumena succhia cazzi, voglio che tu conosci i miei cuginetti» dice lui. «Si chiamano Thomasz e Ugo.» Tomasz è polacco. Sembra maiale palestrato. Ha capelli biondi e cortissimi e collo largo e gonfio di vene. Ugo è italiano. È alto, bruno, scuro con faccia piena di buchi. «Ugo e Tomasz fanno tutto quello che io dico loro di fare» dice Riccardo Fogli cattivo. «Se dico di sputarti in faccia, loro sputano te in faccia. Ugo: sputa in faccia a troia rumena!» Vedo Ugo fare un passo avanti. Poi le sue guance gonfiarsi raccogliendo tutto muco e saliva in sua gola. Poi labbra aprirsi e sparare in faccia me sputo. «Vedi? Lui fa esattamente come io dico. Anche Tomasz. Tomasz: brucia sigaretta che hai in mano su faccia di rumena succhiacazzi.» Tomasz si avvicina. Sorride alzando sigaretta tra dita. Scatto fuori dal letto spaventatissima. Tomasz mi afferra per polso. Io grido pietà, di non fare, pietà per me! Lui sta per usare mia faccia belissima come posacenere, quando Riccardo Fogli Cattivo dice: «Ora basta, Tomasz. Troia rumena servirci bellina com'è, altrimenti non valere una sega.» Tomasz mi guarda e sorride. Poi, torna a suo posto. «Capito? Questi due fanno tutto quello che voglio io. Loro mio braccio destro e mio braccio sinistro. Loro miei. Anche tu mia, rumena succhia cazzi. Tu mia proprietà. Tu non hai speranza di sopravvivere fuori di qui. Tu ora farai tutto come io ti dico. Unica tua speranza è saltare fuori da finestra, capito?» Dato che io tardo un po' a dire che ho capito, Riccardo Fogli cattivo ordina a Tomasz di tirarmi sganassone in faccia, cosa che lui fa lasciando me come morta. Quando io riprendermi, Riccardo Fogli cattivo torna a spiegare. «Ora, voi rumeni siete popolo di merda. Non valete un cazzo. Non sapete cucinare. Non sapete vestire. Tutto quello che si conosce di vostra cultura è conte Dracula. Di voi non si sa niente a parte che avete Transilvania regione dove nato questo stronzo di vampiro. Però voi donne rumene una dote avete, io devo ammettere. Voi donne rumene brave e fare puttane. Avete bocca buona a pompare e figa giusta per sborrarci dentro. Tu da oggi essere mia puttana, capito?» Io sto per dire che col cavolo faccio puttana per lui quando vedo Tomasz sorridere, pronto a spegnere sigaretta in mia faccia e allora dico: «Capito.» «Bene» dice Riccardo fogli cattivo. «Brava. Se tu ubbidisci vedrai che tu più felice.» Poi mi spiega. Mi spiega quale sarà mia vita da ora in avanti. «Vivrai qui dentro» dice. «Non uscirai mai, a meno che non decidere io. Prenderò io appuntamento per te. Farai tutto quello che miei clienti ti chiedono. Ti farai scopare avanti e dietro, farai pompini, farai orge. Non dirai mai no. Ti farai pagare. Se uno di loro non pagare, tu chiamerai Tomasz o Ugo e loro fare culo a chi non pagare. È tutto chiaro?» Dico di sì, che è tutto chiaro, che altro posso dire? «Bene, in questa valigia trovi mutandine e giarrettiere, roba porca per presentare te in modo porco davanti a miei clienti quando bussano a porta. Il primo cliente bussa oggi pomeriggio. E' commendatore. Uomo importante. Se dopo che uscito di qui lui dice me che è felice e ha goduto, tu brava e io verserò te piccola percentuale di guadagno. Se lui dire per niente contento, Tomasz ti brucerà capezzolo. Capito?» Ascoltate italiani, popolo di merda, senza cervello e con solo voglia di scopare figa. Io dunque nemmeno 48 ore che arrivata a Milano e già mi trovo a fare puttana. Primo cliente è commendatore. Uomo grasso e orribile di circa 60 anni. Commendatore dice che io sono bellina come letterina. Commendatore ha mani piccole e grassocce che muove su tutto mio corpo. Io vorrei scappare da lui, ma poi penso a cosa capaci Tomasz e Ugo se io scappare da lui e così io ci sto. Commendatore chiavare me a pecorina. Per chiavata, commendatore sborsa 200 euro. Se ti chiedono anche culo, fai tariffa extra di 50 euro, quindi 250 euro, mi aveva detto Riccardo Fogli cattivo, ma meno male commendatore no anale. Dopo commendatore arrivano altri due clienti, poi per quel giorno finito. Entra Ugo e mi dice che porta me fuori cena perché anche se io troia rumena succhia cazzi che prendo tanto sperma in bocca io comunque mangiare per non crepare. Prima di portarmi fuori a cena, Ugo però violenta me. «Mio capo ha detto che io posso» dice. Dopo mi porta fuori a cena. Mangio pizza e birra. Poi torno a casa. Igor violenta di nuovo, poi dice buonanotte. Mia vita va avanti così per un mese buono. Io tutto il giorno faccio puttana poi a pranzo e cena vengo portata a mangiare in pizzeria o portano a me spesa per farmi da mangiare in casa. Non è possibile che io fuggo perché Ugo o Tomasz fuori da palazzo che fanno guardia. Mia unica consolazione è tv. Guardo tanta tv tra scopata e altra scopata. Ma ora guardo tv con anima diversa di prima. Prima amavo Raffaella Carrà, Pippo Baudo, Gerrri Scotti eccetera, ora li odio tutti. Li odio tutti perché dato che sono italiani loro tutti porci e ipocriti. Continua tutto così e forse io stava prendendo seriamente idea di uccidere me quando una sera conosco ragazza albanese. Anche lei puttana. Lei chiamarsi Adania. Io conosco lei una sera che io e lei dobbiamo lavorare insieme perché venditore di auto vuole fare cosa tre. «Tu e Adania dovete fare lavoro bello con questo signore. Questo signore non solo mio cliente, anche mio amico, capito, troia rumena pigliainculo?» spiega Riccardo Fogli cattivo. Dico che ho capito. «Mi raccomando. Fate anche cose lesbo.» Spiego che io no lesbo. Riccardo Fogli cattivo spiega che lui no frega un cazzo se io lesbo o no lesbo. Indifferente. Lui deciso che io fare lesbica e io fare lesbica, inteso? Dico che ho inteso. Così sera stessa vengo caricata su auto guidata da Tomasz. Su auto già ragazza albanese. E' prima volta che vedo lei. Deve avere mia età, non più. E' bionda, ha viso rotondo, duro, labbra spesse e occhi piccoli e neri come bottoni. Veste minigonna, sandali e camicia di seta traverso cui si vede capezzoli duri e puntuti come chiodi. Tomasz fa presentazioni. «Troia rumena Marina ti presento troia albanese Adania. Adania no guarda me. No dice piacere. È muta. Veniamo portate in appartamento di venditore auto. Venditore auto è forse uomo più brutto che ho mai visto in vita mia. È piccolo con pelle tutta unta. Ha orecchie piene di peli. Ha capelli in testa che sembrano quelli di suo scroto. Ha voce roca come rana. Porta me e Adania in camera sua dove c'è letto enorme. Si spoglia, poi dice di spogliare noi e di fare cose sporche tra noi per poi farle con lui. Così io e Adania cominciamo a fare le lesbiche. Ad Adania la cosa piace, a me così così. Forse Adania lesbica veramente. Quando finito con venditore d'auto, mentre siamo in auto guidata da Tomasz in viaggio di ritorno, Adania mi mette sua mano in mia e ci lascia foglietto tutto piegato. Poi, con sguardo mi fa intendere di non dire niente e aprire foglietto quando io in mio appartamento. Così quando io in mio appartamento leggo foglietto. Ormai conosco memoria parole scritte. Ecco, ve le riporto qui: "Ciao, io mi chiamo Adania. Io ragazza albanese di 19 anni. Io non so come te chiama, ma so una cosa: tu puttana dell'est come me. Forse rumena, forse ungherese, forse albanese, ma donna dell'est venuta in Italia pensando di fare soldi e diventata puttana. Come si dice in questo paese di merda: siamo tutte due in stessa barca. "Barca in cui siamo chiamarsi Marco Fumagalli. Questo nome di uomo schifoso bastardo italiano che ha fermato me a stazione dei treni e convinto a salire in macchina con lui. Scommetto che ha fatto stessa cosa con te, vero? "Fumagalli è uomo peggiore che io incontrato in mia vita. Non ha cuore. Lui spreme noi ragazze, poi quando spremute ci butta in strada e noi morire di fame. Io conosco ragazza che è capitato questo prima che tu arrivi. Io no voglio fare questa fine. Io voglio vivere. Io voglio vivere per solo piacere di vendicare e metterlo in culo a tutti questi italiani di merda, a cominciare da Fumagalli. Scommetto che anche tu volere mettere in culo a italiani di merda. Bene, ora sai che non sei sola. "Ci sono io e poi ci sono altre due ragazze albanesi e una altra rumena che sono schiave di Fumagalli ma che vogliono ribellione. Io e queste ragazze abbiamo fondato società clandestina per rivoluzione. Società segreta si chiama URDEMDUIDM che è sigla che sta per Unione Ragazze Dell'Est Motivate Di Uccidere Uomini Italiani Di Merda. "Se anche tu volere essere parte di società segreta tu ora spegni la luce poi riaccendi poi spegni e poi riaccendi di nuovo. Io prigioniera in palazzo accanto a tuo. Io vedere da mia finestra segnale che significa che tu hai accettato. "Se non volere essere parte di società segreta tu veramente, come dicono italiani, povera succhiacazzi senza speranza. "Ciao e buona notte". Io finito di leggere foglietto copita fino a lacrime. No credevo cose stare così. No credevo che ci fossero più ragazze slave sotto Riccardo Fogli che ora so chiamare Fumagalli. E no credevo che queste ragazze fondato società chiamare URDEMDUIDM. Io, dopo essere ripresa da choc, faccio come chiesto Adania: spengo luce, poi riaccendo, poi spengo di nuovo e poi riaccendo. Noto che una finestra del palazzo davanti fa stessa cosa. Io piango per felicità. Due settimane dopo io e Adania trovarci di nuovo per nuova cosa lesbo da signore che vende auto. Durante viaggio di ritorno Adania passa me foglietto che leggo a casa. Foglietto dice cose grosse. Sentite qua. "Ciao Marina. Io contentissima quando tu ha spento e acceso e spento e poi riacceso luce come avevo chiesto di fare te. Ora tu delle nostre. Domenica notte decisiva. Domenica Fumagalli porta noi a orgia. Gruppo di politici e dirigenti italiani vogliono noi ragazze est in villa con piscina per fare grande orgia insieme loro. Uomini in questa villa tutti potenti. Noi uccideremo loro. Ascolta bene. Io so che due notti fa Tomasz cambiato te materasso perché sfondato da troppe scopate. In cerniera di materasso io nascosto piccola pistola carica. "Domencia porterai tua piccola pistola carica. Io porterò mia pistola e altre ragazze la loro. Piano è questo: non appena entriamo in villa e vecchi di merda potenti italiani immersi in piscina noi sparare loro. Noi fare fuori come tanti tonni. Acqua piscina sarà rossa del loro sangue. Mi raccomando. Tieni pistola nascosta fino allora. "Domenica ha inizio grande vendetta di URDEMDUIDM". Con mia mano che trema apro cerniera di federa materasso e dentro, messa molto nascosta io trovo pistola di argento. Io carezzo pistola e sfioro canna con labbra. Poi rimetto pistola in suo posto e penso che è solo inizio. Questo è solo inizio, capito uomini di merda italiani, porci, falsi, papponi che non meritate di vivere. Domenica primo massacro, poi seguiranno altri massacri. Noi donne rumene bellissime infinitamente più belle di vostre donne cesse. Noi donne rumene e donne est in generale belle, giovani e cattive. Noi fregare voi vostro paese. Viva Romania! Viva URDEMDUIDM! ___________________________________________ Daniele Gabrieli DUNGEON BOY, DUNGEON GIRL "Credere che l'amicizia esista, è come credere che i mobili abbiano un anima" Marcel Proust 1 - Giovedì Era il terzo giorno del nono mese del diciottesimo anno dalla caduta dell’Impero Maebita quando Gretznor Cuordifalce, Paladino di Tutti i Confini e Difensore della Fede di Luminus, e il suo fedele compagno d’armi Kazumani, nano scassinatore del clan delle Ombre Corte, discesero i 5555 gradini che conducono in fondo al Pozzo Senza Fondo di Wallapurgan. 5555 gradini più in alto, il sole delle pianure di Wallapurgan era piccolo come un doblone d’oro. Nelle viscere dell’abisso giungeva a malapena la luce necessaria a scorgere sette sarcofagi disposti in cerchio. D’un tratto il frammento di corindone incastonato nell’elsa di Scassaserpi, la spada incantata di Gretznor, prese a sfolgorare come una stella di sangue. «La mia spada avverte un grande male in questo luogo» disse Gretznor. «Ci scommetto che adesso si aprono le tombe» disse Kazumani. In quell’istante, le tombe si aprirono. I pesanti coperchi di pietra si rovesciarono e crollarono al suolo con clamore. Dagli eterni giacigli si levarono sette scheletri scarnificati; le dita ossute stringevano scimitarre e mazzafrusti. I guerrieri risorti varcarono i bordi dei loro avelli e, seminando pezzi d’armatura rugginosa ad ogni passo, avanzarono verso Gretznor e Kazumani. «Per la gloria di Luminus!» gridò Gretznor, e brandì Scassaserpi. «Fatevi sotto, stronzi!» gridò Kazumani, e impugnò le sue asce gemelle, Divora & Devasta. Dopodiché cominciò a roteare su se stesso a guisa di trottola: un turbine vivente che travolse i soldati scheletrici uno a uno, scagliando costole e tibie in ogni dove. «No», dice Lucio, «non puoi». «Perché?» chiede Marcello. «Perché hai diritto ai bonus sugli attacchi multipli solo quando colpisci alle spalle» spiega Lucio. «Ed è un’abilità inefficace contro i nemici non morti» aggiunge Andrea. Marcello lo guarda e aggrotta la fronte. «Ma tu da che parte stai? Dovremmo essere noi due contro di lui!» Lucio scuote la testa. «Dopo un anno e mezzo di sessioni settimanali hai ancora questa visione agonistica del gioco di ruolo. Ormai dovresti aver capito che il Master non è l’avversario dei giocatori. Al massimo è l’arbitro». «Vabbè», dice Marcello, «e quindi?» Andrea gli allunga un dado a venti facce. «E quindi tira». «Fatevi sotto, stronzi!» gridò Kazumani, e impugnò Devasta & Divora. Ma quando fu il momento di lanciarsi all’attacco, inciampò nei suoi stessi piedi e rovinò faccia a terra. Il dado a venti facce è fermo sul numero uno. «Che palle» digrigna Marcello. È un tipo basso e panzuto, un coacervo di residui tardoadolescenziali e anticipazioni di declino precoce: ha le guance crivellate d’acne e i denti già tutti ingialliti, un felpone da gangsta rapper e una stempiatura quasi completa. È seduto dal lato est del tavolo. A ovest siede Andrea. Ha i capelli a mezzo collo e, per tratti somatici e costituzione fisica, sembra scappato da un diorama del Museo di Scienze Naturali sull’uomo di Cro–Magnon. Porta una T–shirt degli Arizona Coyotes. Ha un occhio nero e l’altro pure, nel senso che entrambi hanno l’iride scura, e inoltre il destro è tumefatto. A nord, dietro lo schermo del Master e un paio d’occhiali, è seduto Lucio. Segni particolari: nessuno. Ha una di quelle facce neutre che, se estrapolate da un contesto anatomico, potrebbero appartenere indifferentemente a un uomo o a una donna. Il versante sud è scoperto. In mezzo c’è il tavolo, invaso da matite a pulsante, schede di personaggi, manuali del Master e dei giocatori, mappe, miniature e dadi a quattro, sei, otto, dieci, dodici e venti facce. «Marcello», dice Lucio, «sono mesi che te lo voglio chiedere. Kazumani, come nome, da dove arriva?» «Dalla Polonia» risponde Marcello. «Ho aperto Ruzzle, ho scelto il polacco come lingua e ho passato il dito a caso. E Gretznor?» «Wayne Gretzky», dice Andrea, «il più grande giocatore di hockey di tutti i tempi». «Non ti sei ancora rotto di questa storia dell’hockey?» chiede Marcello. «Sei italiano, la natura vuole che tu sia fissato col calcio». Andrea alza le spalle. «Preferisco lo sport al melodramma». «A proposito», interviene Lucio, «non ci hai raccontato di preciso come ti sei fatto questo». Si indica l’occhio destro. «Credevo che in campo aveste delle protezioni». «Ce le abbiamo. L’occhio nero me l’hanno fatto negli spogliatoi». Marcello fischia. «Pesante! Le hai solo prese o le hai anche date?» «Mi sono difeso». «Una rissa», dice Lucio, «che cosa cinematografica. Com’è combattere nella vita reale?» Andrea prende un dado da venti e si prepara a lanciarlo. «Non ci sono i dadi». A conclusione della battaglia, il fondo del Pozzo Senza Fondo era cosparso di ossa umane spezzate o tranciate di netto. Gretznor Cuordifalce sfilò la lama di Scassaserpi dal teschio trafitto di un nemico caduto. L’armatura del paladino mostrava i segni della tenzone: un cosciale era ammaccato, uno spallaccio forato. Ma le vesti candide del sacro culto di Luminus, sfoggiate come uno stendardo sopra il pettorale, erano ancora intatte. Al contempo Kazumani frugava nelle tombe in cerca di tesori: aveva già raccolto un bottino d’una tiara, una cinta istoriata e una maschera funeraria d’oro puro. Finché, giunto al settimo sarcofago, vi rinvenne un tubo d’avorio di mastodonte, dal quale estrasse un foglio di pergamena. «Ehi», disse il nano, «la mappa. Mi sa che l’abbiamo trovata». «Sia lode a Luminus!» esclamò Gretznor. «Ora conosceremo la strada che porta alle Cave della Follia, che conducono al Tempio del Dio Perduto, dove è nascosto l’elisir che riporterà in vita il Signore degli Elfi, che custodisce la parola segreta che ci darà accesso al sotterraneo dell’Arcimago!» «E per stasera abbiamo finito» dice Lucio. «Scusate, ma domani alle otto in punto voglio essere sui libri. Lunedì ho l’orale di Analisi Uno». «Questo sabato non sei dei nostri?» chiede Andrea. «Ho paura di no», risponde Lucio, «sarò in ritiro pre esame. Salutatemi tutti, e noi ci vediamo giovedì per la prossima sessione». Marcello si schiarisce la gola. «Parlando di giovedì… Vi seccherebbe se portassi una persona?» Gli altri due gli puntano contro sguardi densi di sospetto. «Mia cugina si è trasferita in città da una settimana» spiega Marcello. «Non conosce nessuno, e mia mamma mi ha consigliato, che nel suo caso è come dire ordinato, di portare anche lei». Andrea sbarra l’occhio sinistro e, nei limiti consentiti dalla tumefazione, anche il destro. «Qui? Con noi? A giocare?» «Non mi sembra una buona idea» dice Lucio. «Neanche a me», conferma Marcello, «ma finché non mi trovo un lavoro non ho margine di trattativa con mia madre». Unisce le mani in preghiera. «Vi scongiuro, venitemi incontro!» «Quanti anni ha ‘sta cugina?» chiede Andrea. «Un paio meno di noi», risponde Marcello, «si è appena iscritta all’uni». «Come si chiama?» chiede Lucio. Marcello esita un attimo, poi sospira e spara: «Belinda». C’è un istante di silenzio, al quale segue una fragorosa risata collettiva. «Belinda» ripete Lucio, asciugandosi una lacrima. «Che nome del cazzo» riesce a dire Andrea, tra uno sghignazzo e l’altro. «Senza offesa, eh». «Figurati», sogghigna Marcello, «lo penso anch’io. È peggio di Kazumani». 2 – Giovedì «Il mio nome è Bibernell Fiordineve, esploratrice scelta degli elfi silvani, e questo è il mio fidato famiglio, Becco d’Asbesto». Il falco, posato su una spalla della dama dalle orecchie a punta, spalancò il becco argenteo e stridette. «Mi sono introdotta nelle Cave della Follia alla ricerca di Vurdak», narrò Bibernell, «il ciclope che ha barbaramente assassinato i miei genitori. Mentre seguivo le sue tracce, accecata dal desiderio di vendetta, mi sono lasciata cogliere di sorpresa da questa orrenda creatura». A fianco della fanciulla elfica, riverso sul pavimento roccioso della caverna, giaceva il corpo esanime di un ragno dalle dimensioni elefantiache. «Io e Becco d’Asbesto siamo stati catturati», concluse Bibernell, strappando un pezzo di ragnatela dalla sua faretra, «e saremmo morti d’una morte orribile se non foste intervenuti voi in nostro aiuto. Vi dobbiamo la vita». Gretznor accennò una riverenza. «Abbiamo soltanto compiuto il nostro dovere». La sua armatura era lorda degli umori verdastri scaturiti dalle ferite del ragno, ma le sacre vesti di Luminus erano intonse. Kazumani stava usando Devasta per ripulire Divora dalle chiazze di liquami. «Sì, bello, ma il tesoro? I ragni giganti non mettono via i soldi?» All’improvviso, da qualche parte nel dedalo delle Cave della Follia, risuonò un verso troppo mostruoso per essere umano, ma troppo vibrante di malvagità per provenire da una bestia. Gli fece seguito un approcciarsi di passi pesanti. «È Vurdak», disse Bibernell, «lo riconoscerei tra mille». Incoccò una freccia e tese la corda dell’arco. «E adesso?» chiede Belinda, una ragazza minuta con gli occhi azzurro ghiaccio, i capelli decolorati e un piercing al naso, attualmente seduta dal lato sud del tavolo. Andrea fa per passarle un dado da venti. «Adesso tira». Lucio lo blocca per il polso. «Vacci piano. È la sua prima volta». A Belinda: «Nel gioco di ruolo l’esito di ogni azione viene stabilito con un lancio di dado. Più è difficile l’impresa, più alto è il numero che devi ottenere». «E se l’impresa è impossibile?» chiede lei. «Niente è impossibile», risponde Lucio, «c’è sempre una chance di successo, per quanto piccola». Prende il dado da venti e glielo posa sul palmo. «Adesso tira». Il grido di battaglia del ciclope si mutò in un urlo di dolore quando la freccia si conficcò nel suo unico occhio. Il dado è fermo sul diciassette. «Bel colpo!» esclama Lucio. «La fortuna dei principianti» sbuffa Marcello. Belinda ridacchia e arrossisce un po’. «Ho solo tirato un dado». «Ci vuole stile anche per tirare i dadi» dice Lucio. «Tuo cugino, per esempio, non è capace». «Ah ah, molto divertente» ribatte Marcello, serio. «Quindi il gioco è tutto qui?» chiede la ragazza. «Bè, no» risponde Lucio. «I dadi rappresentano la parte, per così dire, meccanica del gioco di ruolo, ma le scelte tattiche spettano a voi giocatori. E soprattutto siete liberi di interpretare i vostri personaggi come preferite». «E tu cosa fai?» Il timbro della voce di Lucio si abbassa in modo appena percettibile. «Io creo il mondo». «Quindi sei tipo Dio?» «Sì, cioè no, non proprio. Un’eventuale divinità, se esistesse, potrebbe fare quello che le pare. Mentre io, in quanto Master, devo preoccuparmi della buona riuscita delle sessioni. È importante che gli ostacoli incontrati dai giocatori rappresentino una sfida, ma non siano insormontabili». «Sembra complicato». Lucio ridacchia e si stringe nelle spalle. «Ma no, è solo un hobby». «Non fare il modesto, pirla» interviene Andrea. «Essere il Master è un casino, c’è da star dietro a un sacco di numeri e di tabelle. Ci va bene che abbiamo un cervellone che ha passato Analisi Uno con trenta e lode!» Alza una mano aperta, e Lucio batte il cinque. «In pratica», spiega Marcello alla cugina, «i giochi di ruolo sono come la vita. Puoi scegliere cosa fare, ma non sei mai sicuro delle conseguenze delle tue azioni, e comunque c’è sempre qualcuno più in alto che decide per te». Si gratta la testa. «Ci pensate che magari quella che noi chiamiamo realtà è solo un altro grande gioco di ruolo? Forse noi crediamo di essere veri, ma siamo personaggi controllati da entità della quinta dimensione con nomi impronunciabili fatti solo di consonanti». Andrea si alza. «Quando Marcello comincia a sparare cazzate, vuol dire che s’è fatto tardi. Ci si vede sabato?» Si alza anche Marcello. «Cinema?» «Perfetto» risponde Lucio. «Belinda, hai da fare sabato sera?» «Purtroppo sì, questo fine settimana torno al paese. Ma tanto ci vediamo giovedì prossimo, giusto?» Si alza anche lei. «Lucio, grazie di tutto. Specie di avermi dato una mano con la scheda del personaggio». Gli sorride. «Bibernell è un bellissimo nome». Lucio ricambia il sorriso. «Anche Belinda». I giocatori si allontanano. Il Master rimane solo sul fronte nord del tavolo, ma non per questo smette di sorridere. La sua faccia non è più così anonima: dietro gli occhiali brilla una luce nuova. In lontananza si sente una domanda: «Come te lo sei fatto quell’occhio nero?» 3 – Giovedì «Io sono Ragnix, figlio di Tachios, figlio di Gurdik, Signore degli Alti Elfi della Foresta di Ravendix. Quattordici inverni fa l’Arcimago Velanmorg ha gettato su di me una maledizione che mi ha tramutato in una statua di pietra. Ancor oggi sarei un pezzo di fredda roccia, se gli Dei non ci avessero inviato questi tre campioni. Gretznor Cuordifalce, paladino del sacro culto di Luminus». Gretznor si inchinò. «La vostra gratitudine è la mia ricompensa». «Kazumani, del clan delle Ombre Corte». «Non c’è un premio in denaro?» chiese Kazumani. «E Bibernell Fiordineve, degli elfi silvani». Bibernell e Becco d’Asbesto chinarono il capo insieme. Il Gran Consiglio degli Alti Elfi dedicò un lungo applauso ai tre eroi. «Ora», proseguì Ragnix, «vi rivelerò la parola che apre le porte del sotterraneo di Velanmorg, cosicché possiate mondare le nostre terre dalla minaccia che egli rappresenta. Ma prima, amici miei, è necessario discorrere di un’altra questione». Un brusio interrogativo percorse le fila del Gran Consiglio. «Troppo a lungo alti elfi ed elfi silvani sono stati separati da rancori, invidie e incomprensioni» proclamò Ragnix. «Lo scisma ci ha resi vulnerabili agli assalti degli orchi, dei goblin e degli uomini lucertola. È il momento di ricordare che la razza elfica è una e una sola, e l’unico modo per farlo è suggellare una nuova alleanza». Il Signore degli Alti Elfi si avvicinò a Bibernell. Prese una mano della fanciulla tra le sue. «Bibernell, vuoi farmi l’onore di diventare mia moglie?» «Lo sapevo» borbotta Marcello. «Appena fai entrare una donna si passa da Tolkien a Beautiful». Belinda ha l’aria confusa. «Cosa devo fare? Devo tirare un dado?» Lucio scuote la testa. «Questa è una di quelle situazioni nelle quali non c’entrano i dadi. Devi solo… rispondermi». C’è un’improvvisa irregolarità nel ciclo di apertura e chiusura delle sue palpebre, per cui si potrebbe avere l’impressione che abbia appena strizzato l’occhio a Belinda. Ma se lei se n’è accorta, non lo dà a vedere. «Occhei», dice la ragazza, «ho capito». «L’onore è il mio» disse Bibernell. «È fuor di dubbio che qualunque fanciulla elfica sarebbe felice di ricevere una tale proposta». Ritrasse la mano dalla presa di Ragnix. «Tuttavia, per onestà, sono costretta a declinare. Perché il mio cuore appartiene già a un altro». Si volse in direzione della persona al suo fianco. «Io ti amo, Gretznor Cuordifalce». «Eh?» chiede Andrea. Non ha più l’occhio pesto, ma al momento ha tutti e due gli occhi persi. Le guance di Belinda hanno assunto un leggero color porpora. «Non è proibito, giusto? Il mio personaggio può fare tutto quello che voglio». Lucio, senza bisogno di maledizioni, è come pietrificato. Belinda fissa un punto nel vuoto a metà strada tra una gamba del tavolo e una scarpa di Andrea. «Tocca a te. Cosa rispondi?» Andrea prende un respiro profondo. «Per me va bene» disse Gretznor. Bibernell si gettò tra le sue braccia. «No!» grida Lucio. «Non puoi». «Perché?» chiede Andrea. «Perché», Lucio ha il respiro leggermente affannoso, «perché il tuo personaggio è devoto al culto di Luminus. E quindi ha fatto voto di castità». «Ma da quando?» «Da sempre! Cioè, è implicito, non te ne avevo mai parlato perché non ce n’è mai stata l’occasione». «Ah. Allora è diverso». «Per me va bene» disse Gretznor, strappandosi di dosso le vesti bianche. Bibernell si gettò tra le sue braccia. Belinda rialza lo sguardo. Al massimo dell’estensione, il suo sorriso ha come effetto collaterale una coppia di adorabili fossette. «Ragazzi, questo sabato ci siete?» chiede a Andrea. «Cascasse il mondo» risponde lui. «Lucio, tu ci sei?» chiede Marcello. Lucio sembra scomparso dietro lo schermo del Master. La sua voce arriva fessa e lontana. «Non credo». 4 – Giovedì Fu così che Gretznor, Bibernell e Kazumani, con l’apporto fondamentale di Becco d’Asbesto, si avventurarono nel sotterraneo dell’Arcimago. Scesero scale, varcarono arcate, percorsero corridoi, scassinarono serrature, fecero scattare trappole alle quali sfuggirono per un soffio, percorsero altri corridoi, scesero altre scale. Affrontarono tre viverne, quattro manticore, undici mummie viventi, una falange di minotauri, un golem a vapore e un elementale del magma. Alfine, in una grande stanza delle torture piena di gabbie, gogne e vergini di ferro, giunsero al cospetto di Velanmorg, terrore degli elfi, flagello dei nani e traditore della razza umana. «Siamo alla resa dei conti, Velanmorg!» disse Gretznor. Sguainò Scassaserpi: la gemma sull’elsa risplendeva come un sole rosso. «Il tuo regno di terrore finisce oggi!» disse Bibernell, cogliendo una freccia dalla faretra. «Perché noi ti faremo il mazzo!» gridò Kazumani mentre emergeva da un angolo buio alle spalle del mago, con Divora stretta in un pugno e Devasta nell’altro. Velanmorg neppure si volse: sollevò una mano, e una raffica di vento polare sorta dal nulla investì Kazumani. Il nano fu scaraventato contro un muro e si accasciò a terra, intirizzito e coperto di brina. «Così?» chiede Belinda. «Senza neanche tirare?» Becco d’Asbesto spiegò le ali, lanciò un verso stridulo e spiccò il volo alla volta dell’avversario. Velanmorg puntò un dito: una folgore colpì il rapace, che cadde già spiumato e arrostito. Dopodiché dalle pareti della stanza scaturì un fascio di viscidi tentacoli butterati, che si riversarono su Bibernell: bloccarono le sue gambe e le sue braccia e stracciarono le sue vesti. «Lucio», chiede Marcello, «non stai esagerando?» Velanmorg schioccò le dita e Kazumani esplose. Poi l’Arcimago si rivolse a Gretznor. Dalla sua gola affiorò una voce che suonava come ossa sfregate su altre ossa e diceva: «Fatti sotto, stronzo». «Lucio», chiede Andrea, «c’è qualche problema?» Il Master ha un’espressione impenetrabile. Una maschera di pietra. Velanmorg batté le mani e l’armatura di Gretznor cadde a pezzi. Schinieri, cosciali, cubitiere e spallacci piovvero sul pavimento, disgiunti gli uni dagli altri e corrosi da ruggine precoce, lasciando Gretznor nudo e indifeso quanto un lombrico. Ora anche il volto di Andrea è una maschera di pietra. Lui e Lucio si fissano a vicenda negli occhi mentre Andrea prende uno dei dadi da venti sparsi sul tavolo. Velanmorg levò in alto entrambe le mani aperte. Vi fu un lampo di luce, e apparve una schiera di scudi a losanga sospesi a mezz’aria, che presero a ruotare intorno al corpo dell’Arcimago come un’impenetrabile muraglia incantata. Andrea scuote il pugno nel quale stringe il dado e si prepara a tirare. Velanmorg gonfiò le guance e soffiò. La luce sull’elsa di Scassaserpi si spense. Andrea tira. Gretznor brandì a due mani l’oggetto di metallo affilato che in precedenza era una spada magica e si scagliò all’attacco al grido di «Vaffanculo!» Il dado rotola sul tavolo. La testa di Velanmorg rotolò a terra. Il dado è fermo sul venti. Nel profondo del sotterraneo che era stato dell’Arcimago, al centro di un labirinto di scale, corridoi, arcate, ponti, botole e bivi, in una grande stanza piena di ruote da tortura, tavolacci da stiramento e sedie irte di spuntoni Gretznor e Bibernell, nudi e bellissimi, celebrarono un mondo libero dalla crudeltà di Velanmorg scambiandosi il bacio del vero amore. Lucio si alza. Ha lo sguardo iniettato di sangue. Belinda si aggrappa a un braccio di Andrea. «Lucio», dice Andrea, «io…» La bocca di Lucio si spalanca a un’angolazione innaturale. Con un ruggito, dalle viscere del Master erutta una colonna di fiamme arancioni. Brucia il tavolo con tutti i dadi, i manuali e le schede dei personaggi. Brucia Marcello, bruciano fino al midollo Andrea e Belinda, avvinti in un ultimo abbraccio. La stanza si riempie di urla di dolore e del puzzo di carne carbonizzata. «No», dice Mxyz, «non puoi».