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Titolo | TRI – Capitolo primo: La Profezia Autore | Lorena Laurenti Grafica di copertina | Lorena Laurenti Editing | Mara Fontana Sito ufficiale: www.prophecy-of-tri.com Blog dell’autrice: www.lorenalaurenti.it Questo libro è stato approvato da SELECTED SelfPublishing: www.selectedselfpublishing.it © 2012 Lorena Laurenti Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso di chi ne detiene il copyright. Ogni riproduzione non autorizzata è da considerarsi come una violazione del diritto d’autore, e quindi punibile penalmente. Dedicato a chi ha sempre avuto fiducia in me, anche quando io non ne avevo. Malinconia. Era quella l’unica sensazione che percepivo in quel mondo senza forma. Poi, venne il tatto. Un corpo adagiato su un letto morbido, ma allo stesso tempo ruvido. Le mani e le braccia che sprofondavano leggermente, la testa abbandonata di lato. Dov’ero? Il calore arrivò per ultimo, rovente e torrido. Era ovunque, sulla pelle, sul viso, nell’aria, persino sotto di me. Mi sforzai di aprire gli occhi, di muovere le dita, ma pareva che il mio corpo non volesse collaborare, che fosse paralizzato al suolo. Attraverso le ciglia filtrarono i primi raggi di luce accecante. La malinconia divenne rabbia. Mi sentivo come una di quelle mattine, quando non riconoscevo la camera in cui mi svegliavo. Alle prime luci dell’alba fissavo il soffitto, i mobili, le tende, ci mettevo sempre diversi minuti per capire dove fossi. Per ricordare cosa ci facessi in quel luogo. Giallo e azzurro. Attorno a me non c’era altro. Sbattei più volte le palpebre, non tanto per mettere a fuoco, ma per credere a quello spettacolo: ero in mezzo a un deserto. Feci leva sulle braccia, ignorando i muscoli che urlavano di dolore. Sabbia ovunque. Che accidenti è successo? pensai. Sapevo chi ero, dove dovevo essere, ma ignoravo completamente come fossi arrivata lì. Provai a concentrarmi, cercai di riportare alla mente l’ultimo ricordo. Mi risposero solo immagini confuse. Il mio appartamento, i libri in disordine sulla scrivania, l’afa che saliva dall’asfalto umido, il parco dietro casa. No, non era tutto lì, era successo qualcos’altro. Una moto, una voce. La voce. Era quella l’ultima cosa che ricordavo, la stessa voce dell’incubo che invocava il mio nome. Saira. M i trovavo completamente sola in una vasta pianura, il cielo era nero e minaccioso, l’aria densa. Continuavo a sentire una voce femminile che mi chiamava con insistenza. Girandomi di scatto, soltanto per una piccolissima frazione di secondo, la vidi. Una ragazza in piedi di fronte a me, l’abito bianco le fasciava il corpo esile e pallido, i capelli castani si muovevano in balìa delle raffiche di vento. La sua voce e il suo viso erano familiari nonostante non l’avessi mai vista prima. L’immagine non durò a lungo. Un istante soltanto, per ripresentarsi subito dopo in modo totalmente diverso. La sua pelle ricoperta di sangue, l’abito macchiato, gli occhi pieni di lacrime. Non potevo guardarla, il terrore e il senso di colpa non mi permettevano quasi di respirare. Forse, per quel motivo, i miei occhi si posarono sulla spada che teneva in mano. Una lunga lama luccicava nell’oscurità. Sull’impugnatura era incastonata una gemma rotonda dalle sfaccettature blu e oro. Rimasi incantata da quella luce che, pian piano, mi avvolse completamente. Quell’incubo mi aveva svegliato di soprassalto, vivido e reale come un fatto realmente accaduto. Ora, attorno a me c’era soltanto una distesa di sabbia. Com’era possibile? Scrollai la testa per liberarmi dai granelli rimasti incollati, ringraziando ancora una volta di avere i capelli così corti. Poi mi alzai gradualmente. Mi sentivo debole e quella temperatura di certo non aiutava. Pallida com’ero, se non avessi trovato subito riparo, sarei finita ustionata. Ma cosa diavolo stavo pensando di fare? Mi voltai lentamente, ruotando su me stessa. Non c’era via di fuga, non c’era nessuno. Controllai le tasche alla disperata ricerca del cellulare. Niente. Quel mattino dovevo averlo dimenticato a casa. Le lacrime pungevano dietro le palpebre, ma io non volevo piangere. Avevo smesso molto tempo fa. Mi daresti un passaggio? Un’immagine apparve improvvisa, stavo parlando a qualcuno. Ma dove? Chi era? Strinsi le mani sulle tempie, sforzandomi di ricordare. C’era un ragazzo, forse aveva diciannove o vent’anni al massimo, poco più grande di me. L’avevo trovato carino, anche se di solito non mi soffermavo su certi dettagli. Faceva caldo, ma all’ombra degli alberi si riusciva a respirare. Lentamente le immagini si fusero l’una sull’altra creando una trama. Ora ricordavo. “Sono caduta dalla moto.” Era così. Avevo chiesto un passaggio a quel ragazzo, proprio vicino al parco dove marinavo sempre scuola. Non mi sentivo bene, quell’incubo mi assillava e, pur di dimenticarlo, avevo bevuto, quel tanto da intorpidire la mente. Dopo essere salita sulla moto, tutto era diventato confuso. Pensieri sfocati. All’improvviso una donna era apparsa in mezzo alla strada. La stessa del sogno, anche in quel momento chiamava il mio nome. Ricordavo la sensazione di cadere all’indietro, il casco che mi volava via dalla testa e il bianco che avvolgeva ogni cosa. “Sono morta”, dissi ad alta voce, quasi per convincermi dell’evidente realtà. Buffo a dirsi, ero convinta che la morte sarebbe stata una liberazione, invece mi sentivo peggio del solito. Sentii le labbra incresparsi in un sorriso mentre quel pensiero bizzarro si concretizzava: sono stata cattiva e ora sono all’inferno. Doveva essere per forza così, razionalmente non c’erano altre spiegazioni. Se fossi stata reduce da un incidente stradale, al mio risveglio avrei dovuto trovare la strada, tanto per cominciare, i resti della moto e probabilmente i soccorsi. No. Io ero morta sul colpo, senza soffrire troppo e adesso avrei dovuto fare i conti solo con il Diavolo o chi per esso. Scoppiai in una risata isterica, di certo non sarebbe stato peggio di una conversazione con Françoise. Camminavo senza nessuna concezione del tempo e dello spazio. Ogni metro si ripeteva uguale. Le sferzate di vento rovente mi avevano seccato le labbra e piccoli tagli dolorosi si stavano già aprendo. Sentii il sapore del sangue sulla lingua e non potei fare a meno di pensare che quella fosse la giusta conclusione a una vita d’inferno. Finalmente ci sarebbe stato solo silenzio. Sarebbe sparita mia madre, mio padre avrebbe smesso di tormentarmi e non sarei più stata obbligata a vedere nessuno. Niente domande sulla mia vita, sul perché non avessi ancora un ragazzo o commenti sul mio aspetto. Mi sarebbe mancato unicamente Satoshi, amavo il mio fratellastro più di chiunque altro. Mi fermai un secondo, cercando di riprendere fiato, il caldo mi stava dando alla testa, se continuava così, sarei del tutto impazzita. Con un ultimo gesto di rabbia urlai al vento, ma non arrivò nessuna risposta. Mentre il calore e la stanchezza mi costringevano a distendermi, mi balzò in testa un’idea talmente assurda da poter essere vera. E se mi fossi trovata in una sorta di Truman Show? Sarebbe stato degno di Françoise, l’occasione ideale per dare una lezione alla figlia degenere. Uno spettacolo ben architettato per arricchirsi alle mie spalle, d’altronde, una come lei non avrebbe fatto fatica ad avere gli agganci giusti. Chiusi gli occhi, completamente esausta. Le ultime energie scivolarono via con un senso di nausea, ma prima di perdere i sensi sentii dei passi trascinarsi verso di me. L’odore di bruciato mi riempì le narici. Il calore era scomparso, sentivo la brezza accarezzarmi il viso. Ero svenuta di nuovo? Stupida ragazzina debole, mi denigrai mentalmente. Il mio corpo non rispondeva, ma non ci volle molto per capire che qualcuno mi aveva legato. Sentivo le braccia tirate dietro la schiena, i polsi schiacciati tra di loro. Terra e sassi grattavano contro la pelle nuda delle gambe e qualcosa di ruvido serrava con forza le caviglie. Un senso di panico salì dallo stomaco, attanagliandomi la gola. Avevo visto troppi film dell’orrore per trovarmi in una situazione simile. Mentre la mia mente combatteva con demoni malvagi o semplici killer pronti a torturarmi, una voce mi parlò. “Ti sei svegliata.” Dovevo aprire gli occhi a tutti i costi. Dapprima arrivarono soltanto immagini sfocate. Un fuoco ardeva a distanza di qualche metro, tutto attorno, il buio ingoiava ogni cosa. La sagoma che aveva parlato venne verso di me lentamente. “C... chi sei?” rantolai. “Perché non hai il simbolo sulla fronte?” mi chiese con tono severo e pacato. “Simbolo?” ripetei, cercando di mettere a fuoco. Dalla voce sembrava un ragazzo, un tono neutro che non lasciava trapelare nessun sentimento in particolare. Si tolse il cappuccio dal viso, inginocchiandosi alla mia altezza. Aveva i capelli rossicci, mossi e spettinati, una leggera barba incolta lo faceva sembrare più vecchio della sua età ma, a occhio e croce, doveva avere al massimo due o tre anni più di me. Furono i suoi occhi a colpirmi, verdi e incredibilmente vuoti, come se la sua mente fosse anni luce da lì. Si avvicinò ancora, le sue labbra a un palmo dalle mie, la mano che scostava la frangetta dalla fronte. “Perché non hai il simbolo?” ripeté. “Di che simbolo stai parlando? Io non capisco”, dissi nervosa. “D... dove siamo? È l’inferno questo? Dimmi la verità, sono morta? Il simbolo è forse una cosa che dovevano mettermi all’ingresso dell’Ade? Non mi hanno messo niente”, gli ringhiai contro in un moto di disperazione. Fu allora che lo vidi per la prima volta, seguendo lo sguardo di lui. Mi chiedevo come avessi potuto non notarlo nel deserto. Un ciondolo mi pendeva dal collo, ricadendo dentro la canotta che indossavo. Per primo quello strano ragazzo parve sorpreso. Afferrò la collana tirandola con forza, con la chiara intenzione di strapparmela di dosso. “Ma sei pazzo? La mia testa è attaccata, lo sai?” Senza badare alle mie lamentele esaminò accuratamente il pendente, tirando la catenella verso di lui, poi, si rialzò pensieroso e tornò a sedersi vicino al fuoco. “Se non hai il simbolo perché sei su Ebdor?” “Ebdor?” risposi stupita e incredula. Un migliaio di pensieri mi attraversarono la mente. No, non potevo crederci. Il sogno, la moto, il deserto e ora anche quella collana misteriosa. Assolutamente no. Rifiutavo persino l’idea. “Non dire una parola di più. Non ci credo.” Adoravo la fantascienza e i racconti fantasy, ma da lì a credere di essere su un altro mondo o in una qualche dimensione parallela... tutto aveva un limite! Non sapevo se essere furibonda, terrorizzata o divertita. Stavo vivendo una scena paradossale e quel tipo, invece di slegarmi, sembrava quasi ridersela sotto i baffi. Ero irritata, ecco cos’ero. Quel ragazzo mi dava sui nervi. “Dimmi la verità, è tutto finto? Ci sono delle telecamere nascoste? Siamo forse in una specie di candid-camera ben organizzata?” chiesi esasperata. Corrugò le sopracciglia in un’espressione stupita e per poco non si mise a ridere. “Tu, ragazzina, sei uscita di senno in quel deserto, probabilmente sono arrivato troppo tardi.” Ragazzina? Ma come si permetteva? Chi gli aveva chiesto nulla? Se mi avesse lasciato lì, a quell’ora sarebbe stato tutto finito. “Quindi cosa sarebbe stato? Un salvataggio? In questo caso si può sapere perché accidenti sono legata?” urlai. “Se penso solo per un secondo che mi hai toccato con quelle mani... mi viene la nausea”, proseguii in un sussurro. “In effetti, a ben vedere, di ragazza hai veramente poco. Chissà, magari è proprio per quel corpo ambiguo e quegli abiti osceni che non mi fidavo nonostante tu non avessi il simbolo.” Le guance mi diventarono bollenti, nessuno mi aveva mai insultato in quel modo. Okay, non ero sicuramente sexy e affascinante come mia madre, non tutte si potevano permettere di fare la modella. Potevo anche acconsentire al fatto che ero piatta come una tavola e con i jeans corti che avevo addosso sembravo ridicola, ma la sua offesa andava molto oltre. Corpo ambiguo. Non ci potevo credere, nemmeno Françoise, quando mi aveva dato della lesbica, era riuscita a farmi arrabbiare così tanto. Stavo per rispondere a tono quando lo vidi sguainare una spada. Le parole mi morirono in gola. Si avvicinò deciso e me la puntò all’altezza del collo. Smisi di respirare. “Vedi di avere un po’ di rispetto, ragazzina, se non fosse per me saresti morta in quel deserto.” Esitò un secondo, poi, iniziò a tagliare le corde borbottando tra sé e sé: “Una come te non può di certo essere pericolosa.” Era un estraneo, non lo conoscevo per niente, eppure lo trovavo insopportabile. Mi massaggiai i polsi doloranti e provai ad alzarmi in piedi, riscaldando lentamente i muscoli intorpiditi. Eravamo in una radura rocciosa, probabilmente situata a ridosso del deserto. Il buio si estendeva tutto attorno a noi, non si notava nemmeno una luce in lontananza. Passare la notte accanto a quel fuoco era la mia unica opzione. Il ragazzo mi passò una borraccia rudimentale e, soltanto allora, mi resi conto che stavo morendo di sete. Per quanto ne sapevo poteva essere veleno, ma in fondo ero già morta, giusto? Sorrisi tristemente a quel pensiero e mi sedetti vicino al fuoco, di fronte a lui. Dopo l’ultima battuta era diventato silenzioso, gli occhi erano tornati vacui e spenti. In un certo senso ne fui grata: far conversazione era il mio ultimo desiderio. Fissai lo sguardo sui monti che s’intravedevano in lontananza, verso quello che sembrava essere il nord. Erano rischiarati soltanto dalla luce delle stelle e delle lune. Lune. Mi pietrificai. Il cuore parve fermarsi in petto. Due pianeti brillavano nella notte, il più vicino vagamente verdastro, il secondo con una nota rosa. Persi le forze. Non potevo crederci. Non volevo crederci. Forse era solo uno strano fenomeno astronomico, magari l’avevano anche annunciato al telegiornale, uno di quegli eventi che si presentano una volta ogni duemila anni. Qualche stella che orbitava vicino alla Terra o qualcosa di simile. Doveva per forza essere così. Deglutii rumorosamente e mi riconcentrai sul fuoco. Quello strano individuo sembrò uscire dal suo mondo lontano, mi guardò come se si fosse dimenticato della mia presenza, scosse la testa e, infine, iniziò a trafficare con gli spiedini che si stavano cucinando sulle braci. Dopo essersi accertato che fossero cotti, me ne porse uno. “Che roba è?” chiesi, guardando la forma che aveva il cibo infilzato. “Se non vuoi morire di fame mangia, non c’è altro.” Guardai sospettosa la forma bitorzoluta degli ortaggi infilzati e, facendomi coraggio, addentai lo spiedino. Erano senza sale e avevano un retrogusto acidulo, ma se non altro avrebbero placato il brontolio della pancia. “Non so perché tu sia qui”, esordì all’improvviso, “ma bisogna stare attenti e non fidarsi di nessuno. Domani mattina ti accompagnerò al villaggio più vicino.” “Villaggio?” chiesi esterrefatta. La sua espressione non mi piaceva per niente, sembrava quasi compatirmi. “Prima hai detto Ebdor, cos’è?” chiesi. “Sbaglio o non volevi saperne niente? Sei già morta, non è così?” “È una domanda o una conferma?” ribadii ironica. “Una conferma: anche se non lo sei fisicamente, mentalmente lo sarai tra qualche giorno, non hai scampo.” Devi fermarti, mi dissi, è un pazzo, inutile dargli corda. Eppure in qualche modo quella pazzia mi attirava. Ero curiosa, volevo vedere fino a dove si poteva spingere. “E tu cosa saresti?” “Non ho il simbolo.” “Cos’è questo simbolo, me lo vuoi spiegare?” “È un triangolo, ti appare al centro della fronte quando inizi a ragionare come loro e succederà, stanne certa.” “E tu perché non ce l’hai?” “Perché mi tengo alla larga dai loro villaggi se non per brevi periodi”, era sul punto di dire qualcos’altro, ma si trattenne. “Quindi ricapitolando”, dissi sarcastica, “tra poco perderò le mie facoltà mentali, mi apparirà sulla fronte un raccapricciante simbolo come per magia e tutto perché domani mi accompagnerai in uno dei loro villaggi, giusto?” “Beh, puoi scegliere in realtà.” “Posso scegliere di vagabondare nei deserti per avere più o meno l’uso del mio cervello. Grandioso direi!” “Libera di non credere a una parola, la vita è tua.” Lo scrutai con attenzione, era convinto di ciò che stava dicendo, non mentiva, nella sua testa ogni parola era vera. Quella non era la morte, era un incubo. Un sogno incredibilmente realistico che aveva deciso di non darmi tregua. “Domani mattina arriverò al primo centro abitato, troverò un telefono e chiamerò casa”, dissi in tono calmo e pacato. Sarebbe stato così. Mi sistemai a qualche metro di distanza, tentando di trovare comodo il fastidioso terriccio che stava sotto di me. Qualche minuto dopo la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai. Vidi nuovamente la ragazza dall’abito bianco, stava correndo. Sapevo di sognare, ma allo stesso tempo mi sembrava tangibile. Sentieri sconnessi ricoperti di aghi di pino. Immensi alberi che nascondevano il sole. Nell’aria odore di metallo. La vedevo dall’alto, ma, contemporaneamente, mi sentivo vicino a lei, mentre un’ansia sempre più forte mi aggrediva. A un tratto si fermò, cercando qualcuno, la persona che era al suo fianco, ma il suo sguardo scivolò nella mia direzione. “Saira”, pronunciò ad alta voce il mio nome, fissandomi. Come nel sogno precedente, tutto mutò. Il suo sangue scese lento, macchiandole l’abito, potevo sentirne l’odore. Mi svegliai di soprassalto ansimando. Ero ancora su quella radura. La canotta bianca sporca di terra, la schiena dolorante. Avrei dovuto risvegliarmi nel mio letto, come se nulla fosse accaduto, invece ero sempre in quel posto maledetto. Il sole stava sorgendo, lo strano ragazzo era scomparso, non c’era più alcuna traccia, anche le ceneri del fuoco erano sparite, come se volesse nascondere il suo passaggio. Se non fosse stato per la borraccia piena d’acqua, che trovai al mio fianco, avrei potuto pensare che quell’incontro non fosse mai accaduto. Una visione, come il deserto e tutto il resto. Non mi aveva nemmeno detto il suo nome. Mi strinsi alle ginocchia e serrai gli occhi. Non poteva essere reale. Era semplicemente impossibile. Espirai lentamente, cercando di decifrare i miei sentimenti. Avevo paura, ed era più che comprensibile, in fondo non avevo compiuto nemmeno diciassette anni, mi trovavo da sola su quello che pareva un altro mondo... non riuscivo nemmeno a pensarlo. Non ci volevo credere. Presi tra le mani il ciondolo che mi era apparso al collo, una semplice pietra dura, rotonda e trasparente. Sembrava quasi vetro ad eccezione di qualche riflesso azzurro. “Basta”, dissi ad alta voce, “troviamo questo villaggio.” Continuare a rimuginare non serviva a nulla, dovevo muovermi. Se davvero poco più avanti c’era un centro abitato, avrei solo dovuto raggiungerlo. Ti è piaciuta l’anteprima? SCARICA SUBITO L’EBOOK SU AMAZON!