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Parte prima
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Io, Saul, il Cantastorie, il Guardiano delle Colombe, il
Massacratore di lupi, vi racconterò la storia del mio tempo. Dei
giorni migliori, degli ultimi giorni. Del nuovo, bianco mondo in
cui ci è capitato di vivere. Per tutti quelli che la leggeranno. Per
chiunque legga.
Sono seduto nella penombra, davanti al fuoco. Un anello di
occhi riflette la sua luce. Attorno a me, bambini selvaggi. Non è
un anello, in realtà. È troppo regolare. Quelli invece si accalcano,
si sporgono, si azzuffano e gridano. Kit, Jojo, Fink e Porker, e
altri, che per nome hanno un ringhio, o un grugnito…
Stanno mangiando. C’è quell’odore familiare. Delizioso, perché ogni cibo è delizioso, untuoso, dolciastro, nauseante.
Vedono che sto scrivendo. I loro occhi guizzano. Dietro di
loro, all’orizzonte, è buio, laddove l’ultimo bagliore riluce più che
mai. Un fulgore ultraterreno che si avvicina, come il nuovo freddo profondo. Un anello di fuoco in un anello di ghiaccio.
Sono vecchio, ormai: vecchio per questi tempi, a più di sessant’anni. Non molto tempo fa, la gente viveva il doppio, ammesso che fossero abbastanza ricchi e fortunati da non venire
terminati. Nei giorni buoni, quelle lunghe, caldissime giornate
quando c’erano tantissimi esseri umani…
Non ho paura di morire. Stamattina l’ho visto arrivare, o forse
ho sognato?… l’orso bianco con il suo cucciolo a fianco, avanzava saltellando, gioioso, lucente come vetro, nel sole.
Perché dovrei aver paura? Ho vissuto giorni interessanti. Ho
ricevuto amore, da una donna e da un bambino. Ho visto il mondo cambiare completamente, forse per sempre. Ho avuto un figlio, che ora è un dio. Ho vissuto grandi avventure. Ho attraversato i Pirenei nella neve alta, ho respinto l’assalto dei lupi, con a
fianco mio figlio; ho viaggiato per la Spagna tra l’ondeggiare dei
fiori, da nord a sud, dall’inverno alla primavera. Ho visto fiorire
mandorli, ciliegi, aranci, li ho visti imbiancare un cielo incandescente. Seguendo le stagioni, verso il mare.
No, non ho paura di andarmene. Però tremo un po’, quando
posano gli occhi su di me. Il mio scrivere li affascina, e li ingelosisce. Qualche volta fingono di imitarmi. Pochi, tra loro, ne sono
in grado, e lo fanno maldestramente. Jojo è capace, e parla usando frasi: ha vissuto all’interno fino a dodici anni… Altri sanno
leggere, forse sono sei, o una dozzina, anche se dubito che abbiano mai letto un libro, non sapranno neanche cosa significhi…
Mi guardano desiderosi, in attesa che io racconti la mia storia.
A loro piacciono quelle d’amore e d’avventura, e la mia storia è
piena d’amore e d’avventura…
Ma come faranno a capire?
Racconterò questa storia per me stesso. E per Luke, forse,
dovesse essere ancora vivo. Sempre che questi lupi permettano
ai loro dèi di sopravvivere.
Per Sarah; sì, viva o morta.
Racconterò questa storia perché devo.
I piccoli selvaggi danzano tra me e il fuoco, e il freddo cresce, improvviso. Sono un antenato, per loro. Molto presto… mi
commemoreranno.
Ma forse la mia storia mi manterrà in vita. Forse lasceranno
che la racconti fino alla fine.
Vogliono che racconti del futuro. Io dico loro che preferirei
attenermi al passato. Gli esseri umani hanno sempre predetto
il futuro. Illudendosi. Illusi. Io, una volta, facevo quello, con
un’oscena fiducia in me stesso, ero insegnante di tecnologia…
parlavo ai miei allievi del riscaldamento globale. Gli spiegavo
perché avevamo così caldo e perché, nonostante tutti i nostri
sforzi, faceva sempre più caldo…
Comunque, come dico, rimaniamo nel passato. Ascoltiamo il
racconto di come il vecchio mondo si è trasformato in questo
mondo. Io e i piccoli selvaggi, tremanti, nella carcassa di un aeroporto abbandonato. I falò che ci tengono caldi ardono incessantemente nelle strutture abbandonate della linea aerea. Vecchie
scrivanie e divisori che crollano come fossero schiuma, tappeti
che si disfano in densi fumi neri…
Di giorno non ne abbiamo bisogno. Di giorno ci teniamo occupati. Chi non si tiene occupato, di questi tempi, muore.
Dividiamo l’aeroporto con centinaia di Colombe. Forse, in futuro, nessuno saprà che cosa sono.
I nostri amici meccanici. I nostri amori robot.
Colombe mie, mie care Colombe. Che ossessione siete state,
per me. Il mio amore per le macchine faceva arrabbiare tantissimo la povera Sarah… Una volta ho pensato che la loro discendenza sarebbe stata più numerosa della nostra… e chissà? Forse
sarà così, un giorno, nella terra di Euro. Sappiamo che molte
Colombe sono scappate, e alcune delle fuggitive devono essere
sopravvissute…
Mutando, come avevano programmato che facessero. Forse
sarà proprio delle Colombe, l’ultima risata, là fuori, in questo
nuovo e strano mondo gelato. Ma non credo. Hanno… i loro
limiti.
E quelle nell’aeroporto non hanno un bell’aspetto. Se ne stanno rannicchiate, in fila, apatiche e prive di vita, così i piccoli selvaggi si annoiano, e io sono troppo stanco per tenerle tutte a
posto.
Sono un esercito. Ora pacifico. Le teste abbassate, le ali piegate.
Ma aveste potuto vederle, al loro apice. Invenzioni stupefacenti, di grandissimo successo. «LE COLOMBE – Le ali di un nuovo,
coraggioso mondo».
E io, Saul, dai capelli bianchi, penso a quando ero moro e
impetuoso.
E alla bella Sarah, con la sua cascata di capelli…
È ora di cominciare dal principio.
Io, Saul, il Cantastorie, il Guardiano delle Colombe, il
Massacratore di lupi, vi regalo la storia dei miei giorni di gloria.
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Nacqui nel 2005, alla periferia di Londra, agli albori dell’Era
Tropicale, o meglio quella che oggi chiamiamo l’Era Tropicale.
Presto per me le cose cambiarono. Per tutta la vita però ho
ricordato i primi tempi. I prati verdi, il sentiero di sabbia, le castagne, il frullare e il batter d’ali di un colombaccio. Le mucche,
bianche e nere. Un mattatoio, un edificio vuoto, i mattoni, il gemito delle bestie. Quella volta che mi arrampicai su un biancospino e mi punsi le mani. Le corolle di cerfoglio simili a piatti di
panna montata si sollevavano verso di me mentre io mi abbassavo scuotendo l’erba lunga e bagnata con un bastone.
Poi spuntarono i recinti, alla velocità di un cartone animato:
ci furono mesi di polvere e martellate, le eleganti case rosa vennero su una dopo l’altra e quando la polvere si posò, eravamo a
Londra.
Mia madre era una donna amorevole e ansiosa, tranquilla nel
parlare, ma tenacissima. Quasi tutto in lei aveva un colore beige
sbiadito, la bocca stanca, le guance raggrinzite. Mi leggeva poesie
quando era ora di andare a letto, osservava ogni movimento e mi
negava le caramelle, anche se era amorevolissima, quando non
era stanca, e i miei grembiuli di scuola erano sempre puliti. Le
piaceva leggere, ma non lavorò mai con i libri. Aveva troppi lavori; spesso era sfinita. Faceva l’infermiera part-time in una Casa
dell’Ultimo Addio, dove gli ultracentenari venivano «terminati»
quando non c’era una famiglia in grado di ospitarli. Sono sicuro
che era gentile e pulita, nel lavoro. Mio papà scherzava dicendo che un giorno lei l’avrebbe terminato. L’altro suo lavoro era
guidare enormi camion per un’azienda di televendite, rombando
per le megastrade nel cuore della notte. E dire che era una donna
minuta, non robustissima.
Mio padre amava la tranquillità, però lavorava in polizia, controllava gli individui agli arresti domicilari. Aveva i capelli ricci,
chiazzati di grigio. Il suo viso era energico e serio, con rughe
pronunciate e grandi occhi scuri, e la sua voce, pur sentendola di
rado, la ricordo bassa e lenta. Con quel tono tranquillo costringeva gli altri ad ascoltarlo. Forse gli era utile, nel lavoro. In quei
giorni Londra aveva una forza di polizia pubblica, anche se le
prigioni pubbliche, be’, quelle non c’erano più. Era pure agente
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di polizia ordinaria. Se vedeva qualcosa di sospetto, interveniva
subito. Tra i poliziotti non lo faceva quasi nessuno, secondo lui,
Samuel. «La polizia è diventata un branco di vigliacchi».
(Papà mi ha insegnato ad avere coraggio. Io ho fatto del mio
meglio. E mio figlio, suo nipote, ha lo stesso suo coraggio).
Papà parlava meno di mamma, e credo che lui non ascoltasse. Forse è da lui che ho preso: Sarah infatti diceva sempre che
non ascoltavo mai… Era un grande uomo. Aveva valori nobili.
Beveva troppo. Era restio ad arrabbiarsi, però qualche volta…
sì, aveva degli scoppi d’ira terribili. Il ricordarli mi mette ancora
oggi a disagio.
Però era un uomo buono. Erano buoni genitori. Si amavano,
e amavano me, e mia sorella.
Samuel e Milly. Sono così lontani, nel passato. Sembrano così
piccoli ora, così innocenti, e l’epoca in cui vivevano così sicura
e ordinata. Le mie foto sono andate tutte perse naturalmente,
però rimangono impresse nel mio cervello: in posa davanti alla
macchina fotografica, tutti per mano, sorridenti. Finché vivrò,
non saranno dimenticate.
Parlavano sempre dell’acqua che mancava e della calura.
Io ero confuso, a dodici anni. Da una parte non c’era mai
acqua a sufficienza, e innaffiare il giardino con l’acqua del rubinetto era reato. Dall’altra il livello del mare cresceva, e le bianche
scogliere di Dover dovettero essere rinforzate, dopo che parte di
esse era crollata in mare.
E poi le scogliere che crollavano e i tantissimi soldi che il governo spendeva per rinforzarle si confondevano sempre più,
nella mia mente, con gli stranieri. Gente proveniente da nazioni ancora più calde cercava in continuazione di entrare in Gran
Bretagna. Gli schermi mostravano immagini delle bianche scogliere erose, poi di gente dalla pelle scura, sudata e furiosa, che
maltrattava i funzionari dell’ufficio immigrazione, gridando e
bestemmiando, con le bocche nere aperte. Spesso doveva intervenire l’esercito.
Cominciai a odiarli, quegli stranieri. Quel che c’era non bastava per dividerlo con loro. Vivevamo in un villino di mattoni del
ventesimo secolo, con tre letti, porte fatte di pannelli di gesso
che non si chiudevano mai bene, e i miei genitori lavoravano più
di tutti.
Un giorno mia madre tornò a casa esausta da un viaggio notturno a Edimburgo, e io le dissi che odiavo i neri. Lei uscì in
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giardino, con la camicia da notte rosa sbiadito e mi supplicò di
smettere di sbattere il pallone contro il capannone. Diedi altri tre
calci, poi andai a sdraiarmi sull’erba gialla e pungente del prato,
ignorandola.
«Che c’è, per l’amor del cielo?» domandò lei.
«Non mi piacciono i neri» dissi io. «Alla televisione dicono che
ce ne sono altri, che cercano di entrare». Pensavo che fossero
gente bugiarda e scroccona che avrebbe fatto rimanere la mia
famiglia povera per sempre. «Odio i neri. Perché vengono qui?».
Lei mi guardò un po’ accigliata, con una ruga sulla fronte arrossata dal sole. «Saul… non siamo tutti uguali, capisci? Non
puoi odiare i neri».
«È vero, mamma. Ho visto le immagini».
«Non capisci». Lei aveva una voce strana. «Saul, ascolta…
vedi… c’è una cosa…». Fissava il terreno, mentre la bocca non
trovava pace. Poi ci fu qualcosa che esplose, come quando si getta un sasso sul parabrezza di un’automobile. «Non ti sei mai accorto
che tuo padre è nero?».
«È una pazzia» dissi io. Mi faceva male il petto.
«Sì. Be’… per metà. Tuo nonno veniva dal Ghana. È venuto
qui per studiare, nel secolo scorso».
«Io non ce l’ho, un nonno. Stai zitta. Ti odio. Perché dici queste
cose terribili?».
«Perché sono vere. Il nonno è morto quando tu avevi due
anni».
Mi alzai barcollando. Lei cercò di abbracciarmi, ma io mi liberai e corsi in casa.
Nello specchio del bagno cercai la verità. La mia pelle era
dorata, come prima, però la vidi cambiare e diventare marrone
chiaro. Brufoli, vidi, e capelli neri e ricci, e lineamenti marcati
dall’adolescenza. Le narici allargate. Sì, e poi le labbra. E vidi, nel
mio, il viso di papà.
Lei non disse nient’altro. Ero sconcertato, confuso.
Cercai di parlare con mio padre. Non era mai facile. Era un
uomo timido, che preferiva stare solo. Gli piacevano gli uccelli;
forse per questo era andato a vivere in campagna, e fino al giorno in cui morì allevò piccioni.
Stava gettando loro i noccioli giallo opaco dei semi, quando
tentai di discutere con lui dell’essere nero. Dentro il capannone
era buio. Tutto era buio. C’era una finestrella sporca, in alto. Gli
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occhi però erano luminosi; tutti quegli occhi, che sfrecciavano
qua e là sui colli di seta rilucente, e poi papà e io, uno di fronte
all’altro, che ci guardavamo. Non parlò molto, ma mi toccò il
braccio. Eravamo insieme in quell’oscurità priva d’aria, mentre
tanti corpi caldi palpitavano e zampettavano attorno a noi, e io
pensai, forse qua è come l’Africa, anche se non ho la minima
idea di come sia, l’Africa.
Cosa disse esattamente? Che dovevo essere orgoglioso (ma
lui, quant’era orgoglioso? Lui non mi aveva mai raccontato niente di se stesso). Che i primi uomini erano africani (ma «voi ragazzi siete britannici come tutti gli altri»). Che il colore della pelle
non era importante (e che però «mi ha impedito di fare carriera
in polizia»). Che noi eravamo «come tutti gli altri» (però «la gente
come noi deve sempre guardarsi alle spalle»). E le frasi sembravano uscirgli confuse, i piccioni continuavano a beccare, e fu
difficile fargli domande.
Quel che mi disse la mamma non fu molto diverso. All’inizio
pensai che il cielo esplodesse e la terra si oscurasse per la sorpresa. Trent’anni dopo quelle parole avrebbero cambiato la mia vita,
e mi avrebbero spinto in un’odissea attraverso mezzo mondo.
Allora, però, fui preso semplicemente dall’inquietudine, dall’indecisione: non ero più sicuro di essere simile ai miei vicini. Non
che fossi particolarmente diverso. Mia sorella aveva la pelle più
scura della mia, ma le sue labbra, come quelle di mamma, erano
sottili. E però avevamo lo stesso nonno… comunque alla fine mi
stancai di dover ripensare a tutte quelle cose.
Nella nostra scuola c’erano pochi neri. Ricordo che al posto
della scuola, fino a poco tempo prima, c’era la campagna, e la
maggior parte dei neri preferiva la città. C’erano italiani, asiatici, svedesi… e una cinquantina (o forse cento) ragazzi di razza
mista: molti di loro erano miei amici. Ci divertivamo insieme, ci
eravamo simpatici a vicenda, seguivamo avidamente la musica
“Renk and Roots”, ma nessuno parlava delle cose che avevamo
in comune. In fondo, di cosa bisognava parlare? Eravamo quasi
tutti britannici di terza o quarta generazione, in noi c’era più
bianco che nero. Però forse nutrivo il desiderio di veder riconosciuto il mio essere nero. Quella parte nascosta di me attendeva
di essere scoperta.
In parte fu per questo che mi innamorai di Sarah, una dozzina
di anni più tardi, quando ne avevo venticinque.
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