The Riddles of Pseudo-Joachim

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The Riddles of Pseudo-Joachim
CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI
ABBAZIA FLORENSE-SAN GIOVANNI IN FIORE
Ioachim posuit verba ista
Gli pseudoepigrafi di Gioacchino da Fiore dei secoli XIII e XIV
8° CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI
18-19-20 settembre 2014
Chiesa Abbaziale Florense – San Giovanni in Fiore
Traduzione della relazione introduttiva del prof Bernard McGinn (University of
Chicago Divinity School)
Da Gioacchino allo Pseudo Gioacchino e ritorno
Alla fine del 1523 Thomas Müntzer, un pastore tedesco sotto attacco per
le sue predizioni relative all’avvento di una “nuova chiesa apostolica”, rispose ai
propri critici in un trattato dal titolo Esplicita messa a nudo della falsa fede. Un
tempo egli era stato un favorito di Martin Lutero, ma aveva rotto con lui ormai
da parecchi anni. I due erano diventati feroci nemici. Il “Manifesto di Praga” di
Müntzer, dell’anno 1521 fu uno dei documenti apocalittici più radicali dall’inizio
dell’età moderna, in particolare per il suo violento richiamo all’avvento di un
regno millenario. Così egli scriveva: “Il tempo del raccolto è a portata di mano!
Così Dio mi ha scelto per il suo raccolto! Ho affilato la mia falce, perché i miei
pensieri anelano alla verità…”.
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Queste convinzioni di Müntzer gli procurarono l’accusa di essere un seguace di
Gioacchino da Fiore e del suo insegnamento sull’«Evangelo Eterno». Per questo
motivo in una lettera allegata alla Esplicita messa a nudo della falsa fede egli
rispose che, benché nutrisse un grande rispetto per Gioacchino ed avesse letto il
Commentarium in Hieremiam dell’abate, “Io non derivo il mio insegnamento da
Gioachino, ma piuttosto dalla parola vivente di Dio, come proverò a tempo
debito sulla base di tutta quanta la Bibbia”.
Alquanti anni più tardi mostrò interesse per Gioacchino un personaggio
alquanto diverso. Nel 1571 il nobile francese Michel de Montaigne si ritirò nei
propri possedimenti in campagna e iniziò scrivere quegli Essais che lo resero
famoso. Müntzer era un fanatico; Montaigne era uno scettico. Peraltro entrambi
fecero menzione dell’abate calabrese. Nel suo primo saggio, nel capitolo “Dei
pronostici” (I.11), Montaigne manifesta la propria frustrazione per non essere
stato realmente in grado di vedere i Vaticinia de summis pontificibus. Egli
scriveva: “Vorrei proprio aver visto con i miei occhi queste due meraviglie: il libro
di Gioacchino, abate calabrese, che prediceva tutti i papi futuri […]; e quello
dell’imperatore Leone, che prediceva gli imperatori e i patriarchi di Grecia.
Questo sì, l’ho visto con i miei occhi, che nei disordini pubblici gli uomini, sbigottiti
dalla loro sorte, si buttano, come ad ogni altra superstizione, a cercare nel cielo
le cause e le minacce antiche della loro disgrazia”. Quindi egli aggiunge che lo
scopo di tali pronostici “… è favorito in particolare dal gergo oscuro, ambiguo e
fantastico di queste profezie, i cui autori, dal loro canto, non forniscono mai una
spiegazione chiara, così che la posterità può attribuire ad esse qualsivoglia
significato a sua scelta“.
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Dopo tutto, forse Montaigne aveva letto qualche opera pseudo-gioachimita!
Prendo avvio da questi episodi allo scopo di rammentarci che la nostra
attuale visione di Gioacchino è piuttosto diversa da quella che si riscontra a
partire dal Tredicesimo secolo sino alla metà del Diciannovesimo secolo. Per
tutto questo tempo quanto noi chiamiamo “Pseudo Gioacchino” fu almeno
altrettanto importante degli scritti autentici dell’abate calabrese, anzi - a dire il
vero – molto di più. Nessuna delle tre opere maggiori di Gioacchino fu stampata
più di una volta nel corso del Sedicesimo secolo, mentre il Super Hieremiam letto
da Müntzer conobbe tre edizioni (1516, 1525, 1577) [mille cinquecento sedici, venticinque, - settasette]. Dei Vaticinia de summis pontificibus che Montaigne
voleva esaminare esistono più di un centinaio di manoscritti, sono stati pubblicati
a stampa una volta prima della fine del Quattrocento e più di venti volte tra
Seicento e Settecento, in molti casi sulla base della versione curata da Pasquale
Regiselmo nel 1589 [mille cinquecento ottantanove]
Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, dal momento che la critica storica
aveva cominciato a dimostrare che molte delle opere attribuite a Giocchino in
realtà non erano state scritte da lui, gli scritti pseudo-gioachimiti sono slittati sullo
sfondo delle ricerche intorno all’abate. Vi furono eccezioni, come il volume di
Bernhard Töpfer, Das kommende Reich des Friedens (1964) [mille novecento
sessanta quattro][trad. Italiana: Il regno futuro della libertà], e soprattutto The
Influence of Prophecy in the Later Middle Ages di Marjorie Reeves. Entrambi gli
autori erano consapevoli del fatto che le loro ricostruzioni erano lacunose, e che
dipendevano da testi non studiati in maniera sufficiente e non editi in modo
adeguato. Malgrado le ricerche condotte in seguito su quei testi e sulla loro
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storia, non esiste una ricostruzione complessiva e aggiornata di questo
importante capitolo nella storia della ricezione di Gioacchino. Forse questo
Congresso potrà rappresentare un’inversione di tendenza, nella misura in cui
potrà mostrare: (primo) perché e quando quei testi furono prodotti; (secondo)
quale fosse la loro relazione con le principali idee dell’abate: (terzo) quale è
stato il loro ruolo nella storia della “avventura” gioachimita. Più importante
ancora, ci auguriamo che questo incontro possa conferire un impulso alla
produzione di edizioni critiche di queste opere, notevolmente complesse.
Un’attribuzione pseudonima ha fatto parte della tradizione apocalittica
sin dagli inizi, non da ultimo perché tanti libri della Bibbia, sia del Vecchio che del
Nuovo Testamento, sono pseudonimi: vale a dire, sono stati scritti con il nome di
autori che non avrebbero potuto redigerli. Una delle caratteristiche degli scritti
apocalittici pseudonimi sono i vaticinia ex eventu, ovvero eventi storici travestiti
da predizioni profetiche e collocati sotto l’egida del nome di figure autorevoli
del passato. Dal nostro punto di vista attuale, uno scritto pseudonimo equivale a
un plagio, più o meno, e pretendere di essere un’altra persona è reputato
altrettanto riprovevole che rubarne le idee e le parole. Non sempre fu così.
Scrive sotto il nome di un’antica e venerata figura fu spesso un atto di omaggio,
un tributo all’autorevolezza di un nome: così come, naturalmente, una strategia
al fine di rafforzare l’autorevolezza del proprio lavoro.
Uno dei segni più significativi della crescente fama dell’abate di Fiore è
costituto dal fatto che ben presto molti scritti pseudonimi gli furono attribuiti. Per
la gran parte della storia del Gioachimismo anch’essi fecero parte del canone
gioachimita. Gli studi storico-critici, che permettono agli studiosi della Bibbia di
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distinguere i differenti strati redazionali nel libro di Isaia, hanno consentito anche
ai medievisti di mettere a fuoco la distinzione tra le opere autentiche dell’abate
e gli scritti a lui attribuiti in seguito. Ma la storia della Bibbia guarda alla ricezione
di tutto il libro di Isaia, e non alla sua prima redazione. La determinazione su base
storica del contesto originario di qualsiasi testo (Sitz im Leben) rimane
fondamentale, ma non esaurisce il significato effettivo di un testo nella storia
successiva. Per questo motivo, la storia della ricezione (Rezeptionsgeschichte)
dell’abate calabrese è molto più della storia delle opera autentiche di
Gioacchino. Nella nostra ricerca è necessario includere la produzione, il
contenuto e la ricezione degli scritti pseudo-gioachimiti, al fine di acquisire un
quadro complessivo dell’impatto di Gioacchino.
In questa relazione introduttiva personalmente posso soltanto avanzare
alcune riflessioni su quei testi e sul loro significato, essendo consapevole dei limiti
in cui si imbatte qualsiasi ricostruzione generale, soprattutto in questo caso e in
questo momento. Le mie argomentazioni non si fondano su nuove ricerche
condotte personalmente su manoscritti, dal momento che dipendono dai
contributi di altri studiosi e da precedenti indagini da me condotte su questo
materiale: per tale motivo molte mie affermazioni hanno un carattere
provvisorio. Come ben sappiamo, i testi profetici medievali avevano un
carattere estremamente fluido, e venivano glossati, integrati e combinati con
altri passi allo scopo di mantenerli aggiornati malgrado il passare del tempo.
Questo processo di accrescimento costella la loro storia di interrogativi che
resistono agli sforzi persino dei più agguerriti editori di testi. Molti contributi che
ascolteremo nel prossimi giorni presenteranno delle novità concernenti queste
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opere. Per tale motivo personalmente non mi stupirei in maniera particolare, se
un certo numero delle osservazioni che farò fra poco dovranno essere
modificate oppure corrette sulla base di queste nuove ricerche. Niente di male
in tutto questo, dal momento che siamo tutti impegnati nella comune impresa di
determinare il significato dello “Pseudo Gioacchino” nella lunga storia
dell’apocalittica.
Un breve prospetto degli scritti pseudo-gioachimiti
Comincerò con il fornire una sorta di mappa generale del terreno,
distinguendo tre generazioni – o periodi – di produzione degli scritti pseudogioachimiti. Non discuterò di opere come la Sibilla Erythea, due versioni della
quale furono elaborate negli anni Quaranta del Duecento, oppure del Liber
Horoscopus, risalente agli inizi del Quattordicesimo secolo, dal momento che
queste due profezie non furono attribuite all’abate calabrese, nonostante in
esse siano contenute molte tematiche tratte dalla tradizione gioachimita. Al
contrario, prenderò in considerazione opere come lo Introductorius in aeternum
evangelium, della metà del Tredicesimo secolo, e il Breviloquium, della metà del
Quattordicesimo secolo, in quanto pretendono di essere antologie degli scritti di
Gioacchino, dal momento che esse costituiscono interpretazioni, modificazioni e
sviluppi riferiti in maniera diretta agli scritti dell’abate.
La prima generazione degli scritti pseudo-gioachimiti si estende dalla
morte dell’abate nel 1202 [mille duecento due] all’incirca fino al 1235 [mille
duecento trenta cinque]. Il principale sforzo dei seguaci di Gioacchino
all’interno dell’Ordine florense (ivi compresi alcuni Cistercensi) subito dopo la sua
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morte fu di produrre una raccolta dei suoi scritti. Una siffatta iniziativa editoriale
includeva il Liber figurarum, che potrebbe essere descritto come “gioachimita”,
vale a dire in armonia con le concezioni autentiche dell’abate, piuttosto che
“gioachimitico”, nel senso di sviluppare idee e temi che prendevano spunto da
esse, ma in nuove direzioni. Al giorno d’oggi sarebbero in pochi a sostenere che
Gioacchino stesso abbia “confezionato” il Liber figurarum, vale a dire che egli
abbia raccolto in un unico manoscritto le figurae, da lui aveva elaborato per più
di due decenni. Piuttosto, gli stessi diagrammi che egli aveva lasciato dovettero
essere editati, probabilmente sviluppati e raccolti insieme dai suoi immediati
seguaci sotto la guida del suo successore, l’abate Matteo. I contorni e la
tempistica di un tale processo rimangono oscuri, malgrado le ricerche condotte
sul Liber nelle ultimi decenni. In questa sede non mi dilungherò sul Liber
Figurarum, ma vale la pena di riflettere sul fatto che una delle moderne chiavi
che introducono al pensiero dell’abate non è direttamente farina del suo sacco.
La complessità della storia delle opera autentiche o spurie di Gioacchino
nei primi decenni del secolo Tredicesimo può essere intesa dal breve testo un
tempo conosciuto come la Epistola subsequentium figurarum, che a lungo si è
ritenuto essere stata scritta dalla prima generazione gioachimitica, sino a
quando Stephan Wessley e Gian Luca Potestà hanno dimostrato che questa
opera, più propriamente denominata Genealogia, è in realtà un prodotto
precose, uscito dalla penna dell’abate intorno al 1176 [mille cento settantasei].
Infine, si deve menzionare il Liber contra Lombardum, che pare risalire al
1235 circa [mille duecento trentacinque] ed è unico nell’essere rivolto a
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difendere la teologia trinitaria di Gioacchino, una problematica ampiamente
ignorata dai successivi scritti pseudo-gioachimiti.
Il secondo periodo degli scritti gioachimitici va all’incirca dal 1235 [mille
duecento trentacinque] al 1270 [mille duecento settanta] ed è stato il più
produttivo, annoverando almeno sette trattati, tra brevi e lunghi, unitamente a
un certo numero di brevi profezie attribuite all’abate calabrese. La più popolare
fra le profezie brevi spesso ascritte a Gioacchino si incentra sull’anno 1260 [mille
duecento sessanta] come tempo della venuta dell’Anticristo:
Cum fuerint anni completi mille ducenti
Et decies seni post partum virginis alme,
Tunc Antichristus nascetur demone plenus.
Gran parte di tale produzione proviene dagli ambienti estremisti dell’Ordine
francescano, che iniziarono a interessarsi agli scritti dell’abate negli anni ’40 del
Duecento. Ciò non significa affatto che i Florensi e i Cistercensi avessero perso
interesse per Gioacchino. Spesso è difficile dire se un particolare testo abbia
avuto origine all’interno dell’Ordine di Gioacchino, oppure se sia stato prodotto
da “gioachimiti” francescani, in particolare per il fatto che talune opere furono
ripetutamente rielaborate e alla fine risultarono essere “francescanizzate” per
essere utilizzate nel contesto delle polemiche dell’epoca. Un altro aspetto
importante di questa seconda generazione, come è stato suggerito da Matthias
Kaup, riguarda il modificarsi del rapporto tra profezia biblica e peregrinae
prophetiae, così denominate da Gioacchino per indicare la loro estraneità al
canone biblico. Le opere maggiori di Gioacchino erano commenti biblici e, a
eccezione del trattato De prophetia ignota, da riportare ai suoi inizi, egli espresse
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un sospetto degno di Agostino nei confronti dell’utilizzazione di una profezia non
biblica.
Le tre opere più lunghe di questo periodo intermedio, il Super Hieremiam,
il De oneribus prophetarum, e la compilazione un tempo nota come il Super
Esaiam, sono fondamentalmente commenti scritturistici, malgrado includano
altri elementi. Altre opere della medesima generazione, peraltro si incentrano su
vaticinia non biblici, siano essi attribuiti al solo Gioacchino (ad esempio, la
Prophetia Abbatis Joachim…de Tribus Statibus Ecclesie), oppure a un gruppo di
autorità profetiche, come nel caso della Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis
et Merlino. La confluenza dei tre grandi profeti extra-biblici in questo testo è
eloquente. La situazione in cui si trovava questa generazione intermedia sembra
avere indotto a una fascinazione nei confronti di profezie non-scritturistiche, che
divenne maggiormente pronunciata nell’ultimo periodo. Ad esempio, tale
interesse appare evidente nella costruzione di una lista di profeti (Gioacchino
compreso) da parte di Ruggero Bacone, secondo cui essi dovrebbero essere
studiati in modo tale da far sì che la Chiesa potesse meglio comprendere i segni
dei tempi.
Il “gioiello della corona” – per così dire – di questo secondo periodo è
rappresentato dal Super Hieremiam, che risulta tramandato in un numero
maggiore di manoscritti (almeno 27) [ventisette] e di edizioni rispetto a qualsiasi
opera autentica dell’abate. Nel 1859 [mille ottocento cinquanta nove] una tesi
di dottorato discussa a Tübingen da Karl Friderich aprì la stagione della critica
moderna negli studi su Gioacchino da Fiore, dimostrando che la versione di
questa opera stampata a Venezia nel 1516 [mille cinquecento sedici], così
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come l’edizione apparsa nel 1517 [mille cinquecento diciassette] dello Super
Esaiam, non potevano essere un’opera dello stesso Gioacchino. Per più di un
secolo gli studiosi di Gioacchino hanno accettato questa conclusione, nel
momento in cui si occupavano di determinarne il Sitz im Leben. Nel 1987 [mille
novecento ottanta sette] Robert Moynihan propose una nuova interpretazione,
sostenendo che il Super Hieremiam corrispondesse di fatto a un progetto
sviluppato in tre fasi: (primo) un nucleo centrale che potesse risalire allo stesso
Gioacchino, in quanto non vi sono contenuti vaticinia ex eventu che indichino
una data successiva all’anno 1200 [mille duecento]; (secondo) una sua
dilatazione, probabilmente basata su glosse incorporate in quel testo e
apparentemente derivate dai tentativi dei suoi primi seguaci, Florensi e/o
Cistercensi, di fare riferimento ad avvenimenti contemporanei; e infine (terzo) la
versione lunga del commento, in cui sono manifesti gli interesse dei Francescani
gioachimiti degli anni Quaranta del Duecento. Peraltro, Stephen Wessley non fu
affatto persuaso dalle argomentazioni di Moynihan a favore di un nucleo iniziale
autenticamente gioachimita e per il commento al profeta Geremia ha suggerito
un succedersi di interventi Florensi-Cistercensi e Francescani. L’intervento di Julia
Wannenmacher ci farà sapere qualche cosa di più sullo stato attuale delle
ricerche su questo importante testo.
Complicazioni analoghe riguardano il testo generalmente noto come
Super Esaiam, che invece nei manoscritti è chiamato Super prophetas, come
hanno mostrato le recenti ricerche di David Morris. Si tratta di un’opera
composita. Benché sia stato diffuso in un numero manoscritti inferiore a quello
del Super Hieremiam (secondo Morris 13 [tredici]) e stampato soltanto nel 1517
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[mille cinquecento diciassette], questo testo godette di una certa popolarità.
Esso consiste di quattro parti. In primo luogo, le Praemissiones, la raccolta di una
versione semplificata di figurae dell’abate, che si trova da sola in alcuni
manoscritti e anche unita ad altre prime edizioni a stampa di opere di
Gioacchino. La seconda parte della compilazione è un commento ai capitoli 111 [uno-undici] di Isaia, che in seguito diede alla raccolta il suo nome. La terza e
la quarta parte consistono nei trattati De oneribus sexti temporis, e De septem
temporibus ecclesiae. Ancora una volta ci troviamo di fronte al problema della
datazione e dell’origine. Sino ad ora gli studiosi hanno considerato questa
compilazione come un prodotto dei Francescani gioachimiti risalente all’incirca
agli anni 1260-1265 [mille duecento sessanta – sessantacinque]. Sentiremo che
cosa ne pensa appunto David Morris.
Gli scritti più brevi di questo periodo intermedio non furono pubblicate a
stampa e le loro attestazioni nei manoscritti suggeriscono che furono molto
meno conosciuti. È possibile che il De oneribus prophetarum, un commento sulla
concordanza tra le calamità minacciate dai profeti del Vecchio Testamento e
gli avvenimenti italiani della metà del secolo, dati dagli anni Cinquanta del
Duecento. È attestato in otto manoscritti e fu edito da O[swald] Holder-Egger
nel 1908 [mille novecento otto]. La Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis et
Merlino, di cui esistono sia una versione lunga sia una breve, si trova in almeno
una dozzina di manoscritti, ma non ha sinora trovato un editore moderno. Può
essere datata tra 1245 [mille duecento quaranta cinque] e 1250 [mille duecento
cinquanta]. L’accostamento dei tre maggiori profeti non biblici – la Sibilla,
Merlino e Gioacchino – mette in luce la preoccupazione di combinare fra loro
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autorità profetiche, un atteggiamento crescente nella seconda metà del
Tredicesimo secolo. Questo secondo periodo vide anche nel 1254 [mille
duecento cinquanta quattro] la pubblicazione del Liber introductorius in
evangelium aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, una serie di estratti e
di commenti ricavati dai tre maggiori scritti dell’abate. Nel 1255 [mille duecento
cinquanta cinque] la Commissione di Anagni, che condannò quell’opera, la
mise a confronto con i «testi originali di Gioacchino provenienti dal monastero di
Fiore», rilevando che i passi del Liber introductorius corrispondevano in larga
misura alle parole di Gioacchino, ma anche che l’abate era stato meno chiaro
nell’identificare l’anno 1260 [mille duecento sessanta] con l’inizio del terzo status.
Nella seconda generazione di autori pseudo-gioachimiti si assistette a un ruolo
crescente dei Francescani, e non esattamente frati appartenenti a frange
disamorate dell’Ordine. Al tempo del generalato di Giovanni da Parma (124757) [mille duecento quaranta sette – cinquanta sette] il profetismo gioachimita
era arrivato a coinvolgere ampiamente l’Ordine ai suoi massimi livelli.
Se si esclude il Breviloquium, prodotto in Spagna nel 1351 [mille trecento
cinquantuno], la terza generazione di scrittori pseudo-gioachimiti rappresentò
ancora una volta un fenomeno italiano, che si produsse all’incirca fra 1280 [mille
duecento ottanta] e 1330 [mille trecento trenta]. In questo ambito si trovano
principalmente tre testi – o meglio: tradizioni testuali. La più importante è
costituita dai Vaticinia de summis pontificibus, come sono comunemente
chiamati al giorno d’oggi. Si trattava di uno scritto di un nuovo tipo, che fu
influente per secoli (anche se i tentativi più recenti di determinare il presente e il
futuro dei papi fanno in genere riferimento alla “profezia di Malachia”, risalente
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al secolo Sedicesimo, piuttosto che alle predizioni attribuite a Gioacchino). La
storia di questi Vaticinia, una combinazione di immagine, motto e breve
predizione (in seguito di furono aggiunti commenti), ha attirato l’attenzione
molto più di qualsiasi altra opera attribuita all’abate.
A quanto pare è possibile individuare almeno cinque fasi nell’evoluzione
dei Vaticinia, per quanto la rispettiva datazione e le reciproche relazioni di tali
fasi talvolta non siano ancora del tutto chiare. Nella prima fase si colloca un
oracolo filo-imperiale in lingua greca, attribuito a un imperatore del secolo
Decimo, Leone VI [sesto], ma che probabilmente è una creazione in lingua
greca del secolo Tredicesimo, per la quale furono utilizzati materiali precedenti.
Verso la fine del secolo Tredicesimo (più o meno intorno al 1285) [mille duecento
ottanta cinque] alcune di queste profezie (da 6 [sei] a 8 [otto]) furono trasposte
in latino per attaccare i cardinali Orsini, come ha dimostrato Andreas Rehberg.
Questa profezia politica risulta essere stata opera dei sostenitori della fazione dei
Colonna all’interno della curia romana. La terza fase coincise con l’evolversi in
una raccolta di quindici predizioni, in parte basate su quelle profezie relative a
cardinali, ma con l’inclusione di altri materiali. Questi vaticinia ex eventu
predicevano l’avvento di una serie di papi, da Nicolò Terzo a Benedetto
Undicesimo, sottolineando il ruolo del quinto nella serie, identificato con
Celestino Quinto. Si concludevano con una serie di immagini – dall’undicesima
alla quindicesima – che sembravano prospettare un ritorno di Celestini nelle vesti
di un santo papa risorto. Questa combinazione di motti, immagini e brevi
spiegazioni, denominata Genus nequam dal suo incipit, è attestata in nove
manoscritti e fu messa in circolazione a partire dal 1304 [mille trecento quattro],
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anche se le differenti fasi di questa evoluzione possono essere retrodatate
almeno di un decennio e sono comunque oggetto di discussione. In realtà
Genus nequam non risulta essere stata composta come un pezzo pseudogioachimita. Solo uno dei manoscritti lo attribuisce all’abate, e prime attestazioni
lo collocano sotto il nome di Merlino oppure di un Rabanus anglicus altrimenti
ignoto.
Ciò-non-di-meno
a
partire
dal
secondo
decennio
del
secolo
Quattordicesimo il Francescano Spirituale Bernard Delicieux e altri lo ascrissero a
Gioacchino e tale attribuzione gli rimase attaccata.
La raccolta, peraltro, risultò presto non più attuale, aprendo la strada a
una quarta fase quando, intono al 1330 [mille trecento trenta] i Fraticelli italiani
composero una seconda serie di quindici profezie (il cui incipit è Ascende
calve), allo scopo di aggiornarla con i ritratti di papi recenti, in termini
generalmente negativi. Questo gruppo si conclude con la figura di un PapaAnticristo, rappresentato come un dragone dalla testa umana, con il motto
Terribilis es, quis resistet tibi? (Ps. 75:8). È degno di nota il fatto che questi prodotti
francescani
della
terza
generazione
di
scrittori
pseudo-gioachimiti
non
provenivano più da personaggi al vertice dell’Ordine oppure dalla loro cerchia
immediata, ma da religiosi reietti e rinnegati, che furono perseguitati,
imprigionati e persino messi a morte. L’ultima fase dell’evoluzione dei Vaticinia,
al di là dell’ambito temporale del mio intervento, ebbe luogo al tempo del
Concilio di Costanza (intorno agli anni 1415 -17) [mille quattrocento quindici –
diciassette], quando alcuni polemisti misero insieme le due raccolte, mettendo
la seconda avanti alla prima. Era questa l’immagine relativa al passato e al
futuro del papato, confondente ma popolare, che Michel de Montaigne
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avrebbe voluto vedere: se così fosse stato, probabilmente le sue idee a
proposito dell’utilità dei pronostici non sarebbero state modificate.
L’ Oraculum Cyrilli, un altro testo composito, a sua volta incentra le sue
predizioni sull’avvento di uno o più santi papi. Secondo la leggenda, durante la
celebrazione della messa un angelo avrebbe consegnato Cirillo del Monte
Carmelo una rivelazione scritta su due tavolette d’argento. Intrigato dalla loro
oscurità (il che, almeno in parte, è vero), Cirillo le mandò a Gioacchino per
averne delucidazioni. L’oracolo originario potrebbe essere stato scritto alla fine
degli anni Novanta del Duecento, allo scopo di difendere il francescano
gioachimita Pietro di Giovanni Olivi (morto nel 1297) [mille duecento novanta
sette]: il commento pseudo-gioachimita è in attesa di ricerche più approfondite.
L’Oraculum e il suo commento furono popolari, attestati da almeno sedici
manoscritti e due antiche edizioni a stampa (Venezia 1516 [mille cinquecento
sedici] e Lione 1663 [mille seicento sessanta tre]), prima dell’edizione moderna di
Paul Piur nel 1912 [mille novecento dodici].
L’ultimo testo di questo periodo è il Liber de Flore, il cui titolo completo è
Liber Joachim de Flore de summis pontificibus. Questo testo, che sopravvive in
circa quattordici manoscritti e due versioni (la prima databile all’incirca al 13001303) [mille trecento – trecento tre], fu anch’esso un prodotto degli Spirituali
Francescani e mostra la loro fissazione a proposito del papato dopo
l’abdicazione e la morte di Celestino Quinto. Vi si predice un’imminente serie di
pastores angelici (è la prima volta che questa espressione viene utilizzata), che
collaboreranno con un ultimo imperatore, francese, nel dare inizio a un era
millenaria. Malgrado la sua circolazione relativamente limitata, egli aprì la porta
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a un importante capitolo nella storia dell’influenza di Gioacchino sulla profezia
politica, orientate in senso filo-francese. In tale ambito ebbero un particolare
sviluppo l’attesa dell’avvento di papi santi da parte dei Gioachimiti e
l’assunzione da parte francese della profezia dell’Ultimo Imperatore.
Perché queste opera, vuoi popolari vuoi oscure, furono prodotte? Perché
i loro autori/compilatori vollero metterle sotto il nome di Gioacchino? In che
misura il loro pensiero si ricollega a Gioacchino? Quanto hanno contribuito alla
storia della attese apocalittiche. Sono domande a cui non è possibile rispondere
esaustivamente in questa sede. Mi limiterò ad avanzare alcune osservazioni.
Lo Pseudo-Gioacchino: Contesti e contenuti
Se ci domandiamo: “Perché Gioacchino?”, di necessità la prima risposta
è ovvia: Gioacchino era il più grande autentico profeta che avesse vissuto nel
medioevo. Ovviamente Gioacchino non si considerava un profeta nel senso di
avere ricevuto una rivelazione speciale a proposito di quanto doveva avvenire
in futuro, ma aveva sempre insistito sul fatto di avere ricevuto la grazia del
donum intellectus, che gli aveva conferito una intelligentia spiritualis del modo in
cui la Bibbia rivela la struttura complessiva e i dettagli degli eventi, passati,
presenti e a venire. Ciò-non-di-meno l’abate non esitò a esporre il suo pensiero a
proposito del futuro, anche se lo fece spesso con precisazioni che i suoi seguaci
ignorarono Alcuni aneddoti relativi alla sua persona mostrano che, persino
durante la sua stessa vita, egli era considerato in grado di predire gli eventi futuri
per un’ispirazione divina. A stento ci si può sorprendere che una reputazione
siffatta abbia continuato ad accrescersi dopo la sua morte. Nelle liturgia
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florense, in un’antifona per i Vesperi nella festa di Gioacchino lo mette in
evidenza:
«Beatus Joachim, spiritu dotato prophetico, decoratus intelligentia, errore procul
haeretico, dixit futura praesentia.»
A mio parere, l’avveramento di una delle principali predizioni dell’abate fu la
principale ragione del crescere di tale convinzione: vale a dire, il suo annuncio
dell’avvento di due ordini di viri spirituales. A prescindere dalle differenze tra la
concezione dell’abate di “uomini spirituali” e la realtà storica degli ordini
mendicanti, Francescani e Domenicani, nel Tredicesimo secolo, per molti frati
sarebbe stato difficile non vedere in Gioacchino un proprio speciale profeta,
come dimostra la lettera enciclica Salvator saeculi, che Humbert de Romans e
Giovanni da Parma sottoscrissero congiuntamente nel 1255 [mille duecento
cinquanta cinque]. Persino uno scettico come Tommaso d’Aquino ammise che
a volte Gioacchino da Fiore ci aveva azzeccato, anche se unicamente sulla
base di congetture umane. È probabile che Tommaso avesse in mente il
pronostico relativo al suo Ordine.
Però, se Gioacchino divenne famoso sulla base di una profezia rivelatasi esatta,
quanto altri aspetti del suo messaggio apparivano ancora rilevanti e quanto
abbisognavano di essere integrati? A questo punto si affaccia la questione dello
“Pseudo Gioacchino”.
Credenze e scritti apocalittici sono spesso presentati come una risposta a
una crisi, ad esempio una persecuzione oppure una catastrofe naturale. Ciò è
vero soltanto in parte. Come mezzo per conferire senso alla storia e al suo
significato ultimo l’apocalittica rappresenta una risposta non soltanto alle crisi
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ma anche alle occasioni che si presentano: sia le une sia le altre sono sotto gli
occhi dello spettatore, vale a dire di colui il quale scruta i segni dei tempi. Eventi
negativi che noi giudichiamo di maggior impatto, come la Peste Nera, possono
avere avuto un’influenza su credenze e scritti apocalittici, ma spesso non hanno
affatto cambiato le regole del gioco, per così dire. Al contrario, episodi che
sembrano relativamente di minore importanza, come l’abdicazione di un oscuro
papa Celestino Quinto, possono contribuire alla creazione di un paradigma
completamente nuovo: la leggenda dell’avvento di un pastor angelicus.
Dunque non ci si dovrebbe sorprendere che gli avvenimenti che fornirono il
contesto alla produzione pseudo-gioachimita fossero allo stesso tempo sia
grandi sia piccoli, sia sconvolgenti sia privi di conseguenze. Non ho la possibilità
di discutere tutti gli aspetti del pensiero dell’abate che furono ripresi e adattati
dai suoi seguaci, come appunto la sua trattazione dell’Anticristo.
Mi
concentrerò invece su tre principali tematiche proprie di Gioacchino, che si
dimostrarono capaci di grandi sviluppi
nel corso del Tredicesimo secolo, in
quanto che rispondevano così bene ai problemi del momento. La prima fu lo
sforzo di attuare la migliore forma di vita religiosa. La seconda fu il tentativo di
dare un senso alla storia nel pieno dei conflitti dinastici che turbavano l’Italia nel
corso del Tredicesimo secolo. La terza fu il dibattito sulla natura del papato. Tutte
queste tematiche hanno un’eco nel pensiero autentico dell’abate calabrese,
ma furono ampliate, sviluppate e a volte radicalmente modificate da uno
Pseudo-Gioacchino.
Le previsioni di Gioacchino a proposito dei viri spirituales erano parte
integrale della sua visione di un’importanza meta-storica della più alta forma di
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ordo monasticus, da realizzarsi nel terzo status. Gli Ordini mendicanti colsero
nella sua speranza un importante risvolto della propria identità. Tale fascinazione
fu prevalente piuttosto tra i Francescani che tra i Domenicani: vale a dire, tra le
“colombe” piuttosto che tra i “corvi”, nei termini dello Super Hieremiam. Ciònon-di-meno alcuni Domenicani furono attratti dalle profezie gioachimite, allo
stesso modo in cui lo furono in seguito altri Ordini religiosi, come gli Agostiniani e i
Gesuiti. Il coinvolgimento degli Ordini religiosi, e in particolare dei Francescani, è
della massima importanza, dal momento che la produzione di letteratura
apocalittica rimase un’occupazione prevalentemente chiericale durante il
Tredicesimo secolo.
L’immaginazione apocalittica cerca di dare un senso al tumulto della
storia, non da ultimo in tempi di rapido cambiamento. Uno dei modi principali
per fu la creazione di schemi per le età del mondo, enumerazioni che erano
ritenute essere state rivelate da Dio, vuoi nella Bibbia vuoi in rivelazioni
successive. Gioacchino era un maestro nel calcolare tali periodi, producendo
schemi assai complessi di età, basati sui numeri due, tre, sette e dodici, così
come le combinazioni di cinque e sette, e sulla enumerazione di generazioni, in
particolare quarantadue e centocinquanta/ cento cinquanta tre. L’innovazione
dell’abate maggiormente percepita, la nozione di tre grandi status della storia,
ascritti al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, era ricollegata alle sue predizioni
dell’imminenza del terzo status. Benché egli abbia espresso questa speranza con
una certa cautela, era facile leggerlo come se dicesse che il grande
cambiamento non avrebbe avuto luogo più tardi del 1260 [mille duecento
sessanta]. Di conseguenza alcuni testi del medio periodo dello Pseudo
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Gioacchino, come il Super Hieremiam, includono un robusto insegnamento sulla
concezione dei tre status della storia. Non sorprende che una siffatta
speculazione sia scemata dopo il 1260 [mille duecento sessanta]. Pochi tra gli
Pseudo Gioacchino che seguirono, ad eccezione del Breviloquium, prestarono
grande attenzione all’enumerazione delle età della storia. Tra i lettori
francescani dell’abate, che è possibile identificare, come Bonaventura da
Bagnoregio e Pietro di Giovanni Olivi, l’attenzione si spostò sullo sviluppo dello
schema di un doppio settenario, proprio di Gioacchino: vale a dire le
concordanze tra il tempo della Vecchia e della Nuova legge - anche se Olivi
faceva sue le speranze nell’avvento di una terza età.
Gioacchino spesso identificava le età della storia in relazione ai
governanti, vuoi quelli descritti nel Vecchio Testamento vuoi i re e gli imperatori
noti della storia cristiana. Almeno nel secondo status i governanti, all’interno e al
di fuori della Cristianità, hanno un ruolo principalmente negativo, come flagelli
mandati da Dio per mettere alla prova e purificare i fedeli, in particolare
durante le ultime generazioni del secondo status. Gioacchino non nutriva alcun
interesse per le visioni apocalittiche, di carattere positivo, relative al ruolo
dell’imperatore, che per almeno cinque secoli erano andate sviluppandosi sia in
Oriente sia in Occidente. Nessun Ultimo Imperatore del Mondo per lui! Eppure, le
lotte politiche e dinastiche che devastarono la penisola italiana durante tutto il
Tredicesimo secolo non soltanto fornirono l’occasione per ampliare la visione
negativa che Gioacchino aveva del potere secolare, ma indussero alcuni dei
suoi seguaci a domandarsi se con questo si esaurisse la .storia.
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Potenti imperatori non hanno un ruolo positivo? Le lotte dinastiche
costituiscono una caratteristica-chiave nelle profezie dello Pseudo Gioacchino,
cominciando dalle guerre tra Federico Secondo e il papato e i suoi alleati,
proseguendo con i conflitti tra gli eredi di Federico e gli Angioini negli anni
Cinquanta e Sessanta del Duecento, e arrivando alle dispute tra Angioini e
Aragonesi alla fine del secolo. Gli scritti gioachimitici della seconda generazione
svilupparono in maniera significativa la visione negativa che l’abate aveva del
ruolo dell’imperatore, concentrandosi su Federico II come l’Anticristo atteso, la
cui malvagità si sarebbe pienamente manifestata durante il passaggio al terzo
status nell’anno1260 [mille duecento sessanta] . L’inattesa morte di Federico nel
1250 [mille duecento cinquanta] sconvolse questo scenario, e il fatto che i suoi
discendenti continuassero a lottare per il suo patrimonio fece sì che il mantello
dell’Anticristo passasse sulle loro spalle. Ahimè! Il trascorrere della temuta data
del 1260 [mille duecento sessanta] pose fine a molte di queste attese. Lo
possiamo vedere dal racconto di un disilluso gioachimita francescano,
Salimbene da Parma. Nel 1264 [mille duecento sessantaquattro], mentre si
trovava in un convento a Ravenna, a Salimbene fu chiesto da un confratello se
egli era stato gioachimita. Egli rispose: “Tu dici la verità, ma dopo la morte
dell’imperatore Federico e il trascorrere dell’anno 1260 [mille duecento sessanta]
ho completamente abbandonato quell’insegnamento e mi propongo di
credere soltanto a quello che vedo”. Il tentativo di ridatare al 1290 [mille
duecento novanta] l’anno di transizione al terzo status, vale a dire a quaranta
generazioni di distanza dalla Passione di Cristo, piuttosto che dalla sua Natività,
era una tattica dilatoria che presto perse di utilità.
21
Peraltro una necessità, profondamente radicata, di attribuire un ruolo
all’imperatore negli ultimi avvenimenti iniziò gradualmente a fare spazio a un
buon imperatore che si opponesse a un malvagio governante anticristiano.
Queste speranze si fissarono sulla monarchia francese, che emergeva come la
più forte potenza nell’Europa dell’ultima parte del Tredicesimo secolo. Malgrado
Gioacchino avesse escluso un ruolo positivo per i governanti nel suo scenario
apocalittico,
possiamo
rilevare
l’iniziale
emergere
di
tradizioni
imperiali
gioachimitiche nei testi degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, quando i
propagandisti papali furono lesti nell’esaltare gli Angioini loro alleati attribuendo
loro un ruolo nell’imminente trionfo sulle forze dell’Anticristo (leggi: i discendenti
di Federico) e nel rinnovamento della Chiesa. Un nuovo capitolo nella storica
dell’apocalittica
tardo
medievale
fu
aperto
a
partire
dagli
inizi
del
Quattordicesimo secolo, quando nel Liber de Flore – e altrove – sotto il nome di
Gioacchino
fu
delineato
uno
scenario
completo
nei
dettagli
della
collaborazione nei tempi finali tra un Ultimo Imperatore francese e uno o più
Papi Santi.
Il terzo contesto è papale. Gioacchino aveva meditato sul ruolo di papi
buoni e cattivi negli ultimi giorni del secondo status ed era arrivato a sperare in
un novus dux papale nel tempo del passaggio al terzo status. Le sue concezioni
relative al futuro del papato, in particolare nella forma in cui furono espresse
tardivamente nei Tractatus super quatuor evangelia, non sono sempre chiare e
sono state oggetto di interpretazioni divergenti. Nella seconda metà del
Tredicesimo secolo erano crescenti i timori a proposito di un carattere “anticristiano” dei papi in carica, ritenuti “politici”, ed incoraggiavano le speranze
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nell’avvento di papi santi che avrebbero riformato il papato, assunto un ruolo
meno attivo in una politica di potere, e costituito un modello di santità. Un certo
numero di scrittori, attivi tra la metà e la fine del Tredicesimo secolo, come gli
autori del Super Hieremiam, Salimbene da Parma e Ruggero Bacone, furono
affascinati dall’aspettativa nell’avvento di un papa santo. Il contesto e gli
sviluppi di tali speranze devono essere ulteriormente indagati, ma non è possibile
farlo in questa sede. La politica di potere dei papi regnanti nel corso del
Tredicesimo secolo diede vita a una difficile situazione, una sorta di gioco senza
né vinti né vincitori, nel senso che più i vescovi di Roma si intromettevano, con
maggiore o minore successo, nelle dispute locali, in Italia e in Europa, tanto
meno assomigliavano ai santi pastori del gregge di san Pietro. A quanto pare
molti credenti si trovavano a loro agio in questa situazione: altri invece no. Nella
misura in cui i papi apparvero sempre più interessati alla politica, più forti si
fecero le speranze in un cambiamento radicale nelle persone dei papi, se non
forse dell’intero sistema [delle istituzioni ecclesiastiche]. All’incirca fra 1280 [mille
duecento ottanta] e 1305 [mille trecento cinque] ciò favorì l’emergere di una
vera e propria leggenda del pastor angelicus. Un fattore-chiave fu costituito dal
contrasto tra il santo eremita Pietro del Morrone, eletto papa con il nome di
Celestino Quinto, dopo un lungo conclave, e il suo successore, il potente,
intransigente ed estremamente politico Bonifacio Ottavo (1294-1303) [mille
duecento novanta quattro – mille trecento tre]. A partire dai primi anni del
Quattordicesimo secolo era venuto alla luce uno dei più potenti contributi
all’apocalittica tardo medievale da parte di uno Pseudo Gioacchino: la profezia
dell’avvento di uno o più papi santi, i quali, in collaborazione con l’Ultimo
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Imperatore, avrebbero sconfitto l’Anticristo, riformato la Chiesa, convertito il
mondo e governato in un’età millenaria prima dell’Ultimo Giudizio.
Se molti dei temi sviluppati da uno Pseudo Gioacchino avevano le loro
radici nelle opera autentiche dell’abate calabrese, benché di necessità
ampliati e adattati, e se altri, come le tradizioni concernenti l’Ultimo Imperatore,
erano in contrasto con le concezioni di Gioacchino ma erano stati incorporati
nella tradizione gioachimitica, per delineare un quadro generale del passaggio
da Gioacchino da Fiore allo Pseudo Gioacchino è inoltre necessario prestare un
poco di attenzione ad alcuni importanti aspetti del pensiero dell’abate, che
sembrano essere stato ampiamente trascurati ovvero dimenticati da quanto
scrissero nel suo nome. Anche in questo caso ne menzionerò soltanto tre. Essi
sono però temi centrali per Gioacchino: il suo insegnamento sulla Trinità; la sua
comprensione della intelligentia spirituale della Bibbia; il suo misticismo.
I moderni teologi sono arrivati a riconoscere l’originalità della teologia
trinitaria di Gioacchino, non soltanto nella sua intuizione fondamentale di
iscrivere l’azione delle tre persone nella struttura della storia attraverso le due
diffinitiones, gli schemi dell’Alpha e dell’Omega, ma anche in molti dettagli di
tale intuizione, come la sua teoria delle missioni divine e la sua volontà di
presentare la Trinità per mezzo di figurae. L’attacco di Gioacchino contro la
teologia trinitaria di Pietro Lombardo attesta che si trattava di un argomento
controverso. La condanna delle concezioni di Gioacchino, contenuto nel
decreto Damnamus di Quarto concilio del Laterano (un decreto che gli
risparmiò una condanna personale come eretico), comportava che l’abate era
destinato a restare sospetto per quasi tutti i teologi scolastici, anche per quanti
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silenziosamente facevano ricorso al suo pensiero. Le prime cerchie gioachimite,
tra i Florensi e i Cistercensi, si opposero a questa condanna e, come dimostra il
Liber contra Lombardum, tentarono di mettere in atto una difesa. Opporsi a un
decreto conciliare, peraltro, era futile e persino pericoloso nel lungo periodo. Si
capisce dunque perché lo Pseudo Gioacchino in larga misura abbandonò il
Trinitarismo dell’abate.
Più sorprendente è invece la frammentaria ricezione della ricca teoria
ermeneutica dell’abate. Nella prima edizione di The Study of the Bible in the
Middle Ages (1940) [pubblicato nel mille novecento quaranta] Beryl Smalley
liquidò l’esegesi di Gioacchino da Fiore come rappresentante di “un attacco di
demenza senile” nell’ambito dell’antica tradizione di esegesi spirituale della
Bibbia, anche se con signorilità ridimensionò le sue espressioni nella prefazione
alla terza edizione del proprio libro. Da allora una lunga strada è stata percorsa.
Un crescente numero di studi sulla teoria e sulla pratica esegetica dell’abate lo
hanno messo in luce come una delle menti esegetiche più creative del
medioevo. Come accade nel caso della enumerazione delle età del mondo,
Gioacchino delinea una varietà di descrizioni dei sensi della Scrittura – tre sensi,
quattro sensi, cinque sensi, sette sensi, dodici sensi, e persino quindici sensi nello
Psalterium decem cordarum. Il groviglio di queste variazioni per i sensi biblici, allo
stesso modo delle interpretazioni – spesso tediose – di passi per tutta la Bibbia,
non deve oscurare ai nostri occhi la finalità complessiva della sua esegesi e della
sua concezione del significato della storia: la crescita della intelligentia spiritualis,
cioè la più profonda comprensione del ruolo della Trinità nella storia e nella vita
comunitaria della Chiesa, data dallo Spirito. Gioacchino stesso ci racconta in
25
qual modo la concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento gli sia stata
rivelata nella sua visione di Pasqua a Casamari. Le concordanze, peraltro,
appartengono al significato letterale della Bibbia. Esse costituiscono il
fondamento necessario della comprensione spirituale, ma non la esauriscono.
Gioacchino inoltre afferma che la visione pasquale gli rivelò la plenitudo
dell’Apocalisse, vale a dire l’intimo significato spirituale dell’intera Bibbia. Quelli
che
Gioacchino
contemplativus
denominava
(Expos.,
173r),
come
gli
oppure
svariati
di
generi
intelligentia
di
intellectus
allegorica
sive
contemplativa (Expos., 26r, 115r), erano necessari per scolpire il significato della
storia sacra nell’anima del credente e nella vita del futuro novus ordo pertinens
ad tertium statum di contemplativi, come denominato in una famosa figura.
Benché un certo numero di opere pseudo-gioachimite abbia fatto ricorso alle
concordanze di Gioacchino, a quanto pare la ricchezza della sua teoria sulla
intelligentia spiritualis non fu compresa opppure fu trascurata dalla maggior
parte dei suoi seguaci. L’esegesi di Gioacchino rimane un unicum: a volte
imitata e parodiata, mai realmente compresa.
Tutto ciò ci conduce all’ultimo punto della mie considerazioni. Come
messo in evidenza per primo da Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore era un
mistico, sia pure di un tipo inconsueto, sia a motivo della sua nozione di
misticismo sociale (la vita associata per Buonaiuti), sia – a mio parere – per
avere ricollegato due filoni gemelli risalenti alle origini del Cristianesimo –
l’apocalittico e il mistico – che erano stati separati nella Chiesa primitiva nel
corso del secondo e del terzo secolo. Non è il momento per reiterare le
argomentazioni per sostenere che la concezione di Gioacchino di una
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crescente intelligentia spiritualis implica una trasformazione mistica, che è
progressiva, condivisa e imminente. Non posso poi occuparmi di un’altra
questione: in che misura Gioacchino pensava che una tale trasformazione
condivisa sarebbe stata universale nel tertius status, oppure limitata soltanto alla
comunità del novus ordo. Le speranze di Gioacchino fanno capolino, sia pure in
una forma “francescanizzata”, negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio e di
Pietro di Giovanni Olivi, mentre non ne trovo tracce significative nelle profezie
pseudo-gioachimitiche. Benché uno Pseudo Gioacchino predíca spesso
l’avvento di tempi migliori, le sue profezie sono incastonate in contesti politici
esterni: la sconfitta dei nemici della Cristianità, la pace tra papa e imperatore, la
riforma istituzionale della Chiesa. La dimensione mistica del messaggio di
Gioacchino sembra essere andata persa per strada.
Conclusioni
Ho sostenuto che lo Pseudo Gioacchino costituisce una parte vitale della
storia della ricezione dell’abate calabrese. Ho anche discusso con quali
modalità i seguaci di Gioacchino abbiano sviluppato alcune delle maggiori
tematiche dei suoi scritti autentici, spesso però trascurandone altre. Vista come
un fenomeno storico, la storia dello Pseudo Gioacchino è affascinante: un
rompicapo, o meglio, una serie di rompicapo. Nella prospettiva della storia della
teologia, peraltro, a mio parere lo Pseudo Gioacchino suscita un’impressione
molto contenuta. Gioacchino fu un teologo di grande originalità. Ancora oggi le
sue complesse teorie sull’esegesi, sulla natura della storia e sulla Trinità ispirano
serie riflessioni teologiche. Nel 1964 [mille novecento sessanta quattro] il giovane
Jürgen Moltmann scrisse una lettera all’anziano Karl Barth.Vi proclamava:
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“Gioacchino è più vivo di Agostino”. Non è necessario essere d’accordo con
Moltmann – a mio parere sia Gioacchino sia Agostino sono piuttosto “vivi”. Il
fatto è che Gioacchino resta un interlocutore della teologia contemporanea,
che lo si voglia elogiare come Moltann oppure attaccare come Henri de Lubac.
Non è la stessa cosa con lo Pseudo Gioacchino. Gioacchino aveva intuizioni
che continuano a essere fonte di ispirazione. Lo Pseudo Gioacchino annoverava
una serie di programmi politico-ecclesiastici che attraggono la curiosità dal
punto di vista storico. Il Gioacchino politico ha trionfato sul Gioacchino spirituale.
In tal senso la ricerca storico-critica sull’abate iniziata più di un secolo e mezzo fa
aveva ragione: è nel Gioacchino autentico che si può ancora ritrovare una
sapienza teologica in grado di essere un contributo al nostro nuovo millennio.
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