The Riddles of Pseudo-Joachim
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The Riddles of Pseudo-Joachim
CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI ABBAZIA FLORENSE-SAN GIOVANNI IN FIORE Ioachim posuit verba ista Gli pseudoepigrafi di Gioacchino da Fiore dei secoli XIII e XIV 8° CONGRESSO INTERNAZIONALE DI STUDI GIOACHIMITI 18-19-20 settembre 2014 Chiesa Abbaziale Florense – San Giovanni in Fiore Traduzione della relazione introduttiva del prof Bernard McGinn (University of Chicago Divinity School) Da Gioacchino allo Pseudo Gioacchino e ritorno Alla fine del 1523 Thomas Müntzer, un pastore tedesco sotto attacco per le sue predizioni relative all’avvento di una “nuova chiesa apostolica”, rispose ai propri critici in un trattato dal titolo Esplicita messa a nudo della falsa fede. Un tempo egli era stato un favorito di Martin Lutero, ma aveva rotto con lui ormai da parecchi anni. I due erano diventati feroci nemici. Il “Manifesto di Praga” di Müntzer, dell’anno 1521 fu uno dei documenti apocalittici più radicali dall’inizio dell’età moderna, in particolare per il suo violento richiamo all’avvento di un regno millenario. Così egli scriveva: “Il tempo del raccolto è a portata di mano! Così Dio mi ha scelto per il suo raccolto! Ho affilato la mia falce, perché i miei pensieri anelano alla verità…”. 1 Queste convinzioni di Müntzer gli procurarono l’accusa di essere un seguace di Gioacchino da Fiore e del suo insegnamento sull’«Evangelo Eterno». Per questo motivo in una lettera allegata alla Esplicita messa a nudo della falsa fede egli rispose che, benché nutrisse un grande rispetto per Gioacchino ed avesse letto il Commentarium in Hieremiam dell’abate, “Io non derivo il mio insegnamento da Gioachino, ma piuttosto dalla parola vivente di Dio, come proverò a tempo debito sulla base di tutta quanta la Bibbia”. Alquanti anni più tardi mostrò interesse per Gioacchino un personaggio alquanto diverso. Nel 1571 il nobile francese Michel de Montaigne si ritirò nei propri possedimenti in campagna e iniziò scrivere quegli Essais che lo resero famoso. Müntzer era un fanatico; Montaigne era uno scettico. Peraltro entrambi fecero menzione dell’abate calabrese. Nel suo primo saggio, nel capitolo “Dei pronostici” (I.11), Montaigne manifesta la propria frustrazione per non essere stato realmente in grado di vedere i Vaticinia de summis pontificibus. Egli scriveva: “Vorrei proprio aver visto con i miei occhi queste due meraviglie: il libro di Gioacchino, abate calabrese, che prediceva tutti i papi futuri […]; e quello dell’imperatore Leone, che prediceva gli imperatori e i patriarchi di Grecia. Questo sì, l’ho visto con i miei occhi, che nei disordini pubblici gli uomini, sbigottiti dalla loro sorte, si buttano, come ad ogni altra superstizione, a cercare nel cielo le cause e le minacce antiche della loro disgrazia”. Quindi egli aggiunge che lo scopo di tali pronostici “… è favorito in particolare dal gergo oscuro, ambiguo e fantastico di queste profezie, i cui autori, dal loro canto, non forniscono mai una spiegazione chiara, così che la posterità può attribuire ad esse qualsivoglia significato a sua scelta“. 2 Dopo tutto, forse Montaigne aveva letto qualche opera pseudo-gioachimita! Prendo avvio da questi episodi allo scopo di rammentarci che la nostra attuale visione di Gioacchino è piuttosto diversa da quella che si riscontra a partire dal Tredicesimo secolo sino alla metà del Diciannovesimo secolo. Per tutto questo tempo quanto noi chiamiamo “Pseudo Gioacchino” fu almeno altrettanto importante degli scritti autentici dell’abate calabrese, anzi - a dire il vero – molto di più. Nessuna delle tre opere maggiori di Gioacchino fu stampata più di una volta nel corso del Sedicesimo secolo, mentre il Super Hieremiam letto da Müntzer conobbe tre edizioni (1516, 1525, 1577) [mille cinquecento sedici, venticinque, - settasette]. Dei Vaticinia de summis pontificibus che Montaigne voleva esaminare esistono più di un centinaio di manoscritti, sono stati pubblicati a stampa una volta prima della fine del Quattrocento e più di venti volte tra Seicento e Settecento, in molti casi sulla base della versione curata da Pasquale Regiselmo nel 1589 [mille cinquecento ottantanove] Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, dal momento che la critica storica aveva cominciato a dimostrare che molte delle opere attribuite a Giocchino in realtà non erano state scritte da lui, gli scritti pseudo-gioachimiti sono slittati sullo sfondo delle ricerche intorno all’abate. Vi furono eccezioni, come il volume di Bernhard Töpfer, Das kommende Reich des Friedens (1964) [mille novecento sessanta quattro][trad. Italiana: Il regno futuro della libertà], e soprattutto The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages di Marjorie Reeves. Entrambi gli autori erano consapevoli del fatto che le loro ricostruzioni erano lacunose, e che dipendevano da testi non studiati in maniera sufficiente e non editi in modo adeguato. Malgrado le ricerche condotte in seguito su quei testi e sulla loro 3 storia, non esiste una ricostruzione complessiva e aggiornata di questo importante capitolo nella storia della ricezione di Gioacchino. Forse questo Congresso potrà rappresentare un’inversione di tendenza, nella misura in cui potrà mostrare: (primo) perché e quando quei testi furono prodotti; (secondo) quale fosse la loro relazione con le principali idee dell’abate: (terzo) quale è stato il loro ruolo nella storia della “avventura” gioachimita. Più importante ancora, ci auguriamo che questo incontro possa conferire un impulso alla produzione di edizioni critiche di queste opere, notevolmente complesse. Un’attribuzione pseudonima ha fatto parte della tradizione apocalittica sin dagli inizi, non da ultimo perché tanti libri della Bibbia, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, sono pseudonimi: vale a dire, sono stati scritti con il nome di autori che non avrebbero potuto redigerli. Una delle caratteristiche degli scritti apocalittici pseudonimi sono i vaticinia ex eventu, ovvero eventi storici travestiti da predizioni profetiche e collocati sotto l’egida del nome di figure autorevoli del passato. Dal nostro punto di vista attuale, uno scritto pseudonimo equivale a un plagio, più o meno, e pretendere di essere un’altra persona è reputato altrettanto riprovevole che rubarne le idee e le parole. Non sempre fu così. Scrive sotto il nome di un’antica e venerata figura fu spesso un atto di omaggio, un tributo all’autorevolezza di un nome: così come, naturalmente, una strategia al fine di rafforzare l’autorevolezza del proprio lavoro. Uno dei segni più significativi della crescente fama dell’abate di Fiore è costituto dal fatto che ben presto molti scritti pseudonimi gli furono attribuiti. Per la gran parte della storia del Gioachimismo anch’essi fecero parte del canone gioachimita. Gli studi storico-critici, che permettono agli studiosi della Bibbia di 4 distinguere i differenti strati redazionali nel libro di Isaia, hanno consentito anche ai medievisti di mettere a fuoco la distinzione tra le opere autentiche dell’abate e gli scritti a lui attribuiti in seguito. Ma la storia della Bibbia guarda alla ricezione di tutto il libro di Isaia, e non alla sua prima redazione. La determinazione su base storica del contesto originario di qualsiasi testo (Sitz im Leben) rimane fondamentale, ma non esaurisce il significato effettivo di un testo nella storia successiva. Per questo motivo, la storia della ricezione (Rezeptionsgeschichte) dell’abate calabrese è molto più della storia delle opera autentiche di Gioacchino. Nella nostra ricerca è necessario includere la produzione, il contenuto e la ricezione degli scritti pseudo-gioachimiti, al fine di acquisire un quadro complessivo dell’impatto di Gioacchino. In questa relazione introduttiva personalmente posso soltanto avanzare alcune riflessioni su quei testi e sul loro significato, essendo consapevole dei limiti in cui si imbatte qualsiasi ricostruzione generale, soprattutto in questo caso e in questo momento. Le mie argomentazioni non si fondano su nuove ricerche condotte personalmente su manoscritti, dal momento che dipendono dai contributi di altri studiosi e da precedenti indagini da me condotte su questo materiale: per tale motivo molte mie affermazioni hanno un carattere provvisorio. Come ben sappiamo, i testi profetici medievali avevano un carattere estremamente fluido, e venivano glossati, integrati e combinati con altri passi allo scopo di mantenerli aggiornati malgrado il passare del tempo. Questo processo di accrescimento costella la loro storia di interrogativi che resistono agli sforzi persino dei più agguerriti editori di testi. Molti contributi che ascolteremo nel prossimi giorni presenteranno delle novità concernenti queste 5 opere. Per tale motivo personalmente non mi stupirei in maniera particolare, se un certo numero delle osservazioni che farò fra poco dovranno essere modificate oppure corrette sulla base di queste nuove ricerche. Niente di male in tutto questo, dal momento che siamo tutti impegnati nella comune impresa di determinare il significato dello “Pseudo Gioacchino” nella lunga storia dell’apocalittica. Un breve prospetto degli scritti pseudo-gioachimiti Comincerò con il fornire una sorta di mappa generale del terreno, distinguendo tre generazioni – o periodi – di produzione degli scritti pseudogioachimiti. Non discuterò di opere come la Sibilla Erythea, due versioni della quale furono elaborate negli anni Quaranta del Duecento, oppure del Liber Horoscopus, risalente agli inizi del Quattordicesimo secolo, dal momento che queste due profezie non furono attribuite all’abate calabrese, nonostante in esse siano contenute molte tematiche tratte dalla tradizione gioachimita. Al contrario, prenderò in considerazione opere come lo Introductorius in aeternum evangelium, della metà del Tredicesimo secolo, e il Breviloquium, della metà del Quattordicesimo secolo, in quanto pretendono di essere antologie degli scritti di Gioacchino, dal momento che esse costituiscono interpretazioni, modificazioni e sviluppi riferiti in maniera diretta agli scritti dell’abate. La prima generazione degli scritti pseudo-gioachimiti si estende dalla morte dell’abate nel 1202 [mille duecento due] all’incirca fino al 1235 [mille duecento trenta cinque]. Il principale sforzo dei seguaci di Gioacchino all’interno dell’Ordine florense (ivi compresi alcuni Cistercensi) subito dopo la sua 6 morte fu di produrre una raccolta dei suoi scritti. Una siffatta iniziativa editoriale includeva il Liber figurarum, che potrebbe essere descritto come “gioachimita”, vale a dire in armonia con le concezioni autentiche dell’abate, piuttosto che “gioachimitico”, nel senso di sviluppare idee e temi che prendevano spunto da esse, ma in nuove direzioni. Al giorno d’oggi sarebbero in pochi a sostenere che Gioacchino stesso abbia “confezionato” il Liber figurarum, vale a dire che egli abbia raccolto in un unico manoscritto le figurae, da lui aveva elaborato per più di due decenni. Piuttosto, gli stessi diagrammi che egli aveva lasciato dovettero essere editati, probabilmente sviluppati e raccolti insieme dai suoi immediati seguaci sotto la guida del suo successore, l’abate Matteo. I contorni e la tempistica di un tale processo rimangono oscuri, malgrado le ricerche condotte sul Liber nelle ultimi decenni. In questa sede non mi dilungherò sul Liber Figurarum, ma vale la pena di riflettere sul fatto che una delle moderne chiavi che introducono al pensiero dell’abate non è direttamente farina del suo sacco. La complessità della storia delle opera autentiche o spurie di Gioacchino nei primi decenni del secolo Tredicesimo può essere intesa dal breve testo un tempo conosciuto come la Epistola subsequentium figurarum, che a lungo si è ritenuto essere stata scritta dalla prima generazione gioachimitica, sino a quando Stephan Wessley e Gian Luca Potestà hanno dimostrato che questa opera, più propriamente denominata Genealogia, è in realtà un prodotto precose, uscito dalla penna dell’abate intorno al 1176 [mille cento settantasei]. Infine, si deve menzionare il Liber contra Lombardum, che pare risalire al 1235 circa [mille duecento trentacinque] ed è unico nell’essere rivolto a 7 difendere la teologia trinitaria di Gioacchino, una problematica ampiamente ignorata dai successivi scritti pseudo-gioachimiti. Il secondo periodo degli scritti gioachimitici va all’incirca dal 1235 [mille duecento trentacinque] al 1270 [mille duecento settanta] ed è stato il più produttivo, annoverando almeno sette trattati, tra brevi e lunghi, unitamente a un certo numero di brevi profezie attribuite all’abate calabrese. La più popolare fra le profezie brevi spesso ascritte a Gioacchino si incentra sull’anno 1260 [mille duecento sessanta] come tempo della venuta dell’Anticristo: Cum fuerint anni completi mille ducenti Et decies seni post partum virginis alme, Tunc Antichristus nascetur demone plenus. Gran parte di tale produzione proviene dagli ambienti estremisti dell’Ordine francescano, che iniziarono a interessarsi agli scritti dell’abate negli anni ’40 del Duecento. Ciò non significa affatto che i Florensi e i Cistercensi avessero perso interesse per Gioacchino. Spesso è difficile dire se un particolare testo abbia avuto origine all’interno dell’Ordine di Gioacchino, oppure se sia stato prodotto da “gioachimiti” francescani, in particolare per il fatto che talune opere furono ripetutamente rielaborate e alla fine risultarono essere “francescanizzate” per essere utilizzate nel contesto delle polemiche dell’epoca. Un altro aspetto importante di questa seconda generazione, come è stato suggerito da Matthias Kaup, riguarda il modificarsi del rapporto tra profezia biblica e peregrinae prophetiae, così denominate da Gioacchino per indicare la loro estraneità al canone biblico. Le opere maggiori di Gioacchino erano commenti biblici e, a eccezione del trattato De prophetia ignota, da riportare ai suoi inizi, egli espresse 8 un sospetto degno di Agostino nei confronti dell’utilizzazione di una profezia non biblica. Le tre opere più lunghe di questo periodo intermedio, il Super Hieremiam, il De oneribus prophetarum, e la compilazione un tempo nota come il Super Esaiam, sono fondamentalmente commenti scritturistici, malgrado includano altri elementi. Altre opere della medesima generazione, peraltro si incentrano su vaticinia non biblici, siano essi attribuiti al solo Gioacchino (ad esempio, la Prophetia Abbatis Joachim…de Tribus Statibus Ecclesie), oppure a un gruppo di autorità profetiche, come nel caso della Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis et Merlino. La confluenza dei tre grandi profeti extra-biblici in questo testo è eloquente. La situazione in cui si trovava questa generazione intermedia sembra avere indotto a una fascinazione nei confronti di profezie non-scritturistiche, che divenne maggiormente pronunciata nell’ultimo periodo. Ad esempio, tale interesse appare evidente nella costruzione di una lista di profeti (Gioacchino compreso) da parte di Ruggero Bacone, secondo cui essi dovrebbero essere studiati in modo tale da far sì che la Chiesa potesse meglio comprendere i segni dei tempi. Il “gioiello della corona” – per così dire – di questo secondo periodo è rappresentato dal Super Hieremiam, che risulta tramandato in un numero maggiore di manoscritti (almeno 27) [ventisette] e di edizioni rispetto a qualsiasi opera autentica dell’abate. Nel 1859 [mille ottocento cinquanta nove] una tesi di dottorato discussa a Tübingen da Karl Friderich aprì la stagione della critica moderna negli studi su Gioacchino da Fiore, dimostrando che la versione di questa opera stampata a Venezia nel 1516 [mille cinquecento sedici], così 9 come l’edizione apparsa nel 1517 [mille cinquecento diciassette] dello Super Esaiam, non potevano essere un’opera dello stesso Gioacchino. Per più di un secolo gli studiosi di Gioacchino hanno accettato questa conclusione, nel momento in cui si occupavano di determinarne il Sitz im Leben. Nel 1987 [mille novecento ottanta sette] Robert Moynihan propose una nuova interpretazione, sostenendo che il Super Hieremiam corrispondesse di fatto a un progetto sviluppato in tre fasi: (primo) un nucleo centrale che potesse risalire allo stesso Gioacchino, in quanto non vi sono contenuti vaticinia ex eventu che indichino una data successiva all’anno 1200 [mille duecento]; (secondo) una sua dilatazione, probabilmente basata su glosse incorporate in quel testo e apparentemente derivate dai tentativi dei suoi primi seguaci, Florensi e/o Cistercensi, di fare riferimento ad avvenimenti contemporanei; e infine (terzo) la versione lunga del commento, in cui sono manifesti gli interesse dei Francescani gioachimiti degli anni Quaranta del Duecento. Peraltro, Stephen Wessley non fu affatto persuaso dalle argomentazioni di Moynihan a favore di un nucleo iniziale autenticamente gioachimita e per il commento al profeta Geremia ha suggerito un succedersi di interventi Florensi-Cistercensi e Francescani. L’intervento di Julia Wannenmacher ci farà sapere qualche cosa di più sullo stato attuale delle ricerche su questo importante testo. Complicazioni analoghe riguardano il testo generalmente noto come Super Esaiam, che invece nei manoscritti è chiamato Super prophetas, come hanno mostrato le recenti ricerche di David Morris. Si tratta di un’opera composita. Benché sia stato diffuso in un numero manoscritti inferiore a quello del Super Hieremiam (secondo Morris 13 [tredici]) e stampato soltanto nel 1517 10 [mille cinquecento diciassette], questo testo godette di una certa popolarità. Esso consiste di quattro parti. In primo luogo, le Praemissiones, la raccolta di una versione semplificata di figurae dell’abate, che si trova da sola in alcuni manoscritti e anche unita ad altre prime edizioni a stampa di opere di Gioacchino. La seconda parte della compilazione è un commento ai capitoli 111 [uno-undici] di Isaia, che in seguito diede alla raccolta il suo nome. La terza e la quarta parte consistono nei trattati De oneribus sexti temporis, e De septem temporibus ecclesiae. Ancora una volta ci troviamo di fronte al problema della datazione e dell’origine. Sino ad ora gli studiosi hanno considerato questa compilazione come un prodotto dei Francescani gioachimiti risalente all’incirca agli anni 1260-1265 [mille duecento sessanta – sessantacinque]. Sentiremo che cosa ne pensa appunto David Morris. Gli scritti più brevi di questo periodo intermedio non furono pubblicate a stampa e le loro attestazioni nei manoscritti suggeriscono che furono molto meno conosciuti. È possibile che il De oneribus prophetarum, un commento sulla concordanza tra le calamità minacciate dai profeti del Vecchio Testamento e gli avvenimenti italiani della metà del secolo, dati dagli anni Cinquanta del Duecento. È attestato in otto manoscritti e fu edito da O[swald] Holder-Egger nel 1908 [mille novecento otto]. La Expositio Abbatis Joachimi super Sibillis et Merlino, di cui esistono sia una versione lunga sia una breve, si trova in almeno una dozzina di manoscritti, ma non ha sinora trovato un editore moderno. Può essere datata tra 1245 [mille duecento quaranta cinque] e 1250 [mille duecento cinquanta]. L’accostamento dei tre maggiori profeti non biblici – la Sibilla, Merlino e Gioacchino – mette in luce la preoccupazione di combinare fra loro 11 autorità profetiche, un atteggiamento crescente nella seconda metà del Tredicesimo secolo. Questo secondo periodo vide anche nel 1254 [mille duecento cinquanta quattro] la pubblicazione del Liber introductorius in evangelium aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, una serie di estratti e di commenti ricavati dai tre maggiori scritti dell’abate. Nel 1255 [mille duecento cinquanta cinque] la Commissione di Anagni, che condannò quell’opera, la mise a confronto con i «testi originali di Gioacchino provenienti dal monastero di Fiore», rilevando che i passi del Liber introductorius corrispondevano in larga misura alle parole di Gioacchino, ma anche che l’abate era stato meno chiaro nell’identificare l’anno 1260 [mille duecento sessanta] con l’inizio del terzo status. Nella seconda generazione di autori pseudo-gioachimiti si assistette a un ruolo crescente dei Francescani, e non esattamente frati appartenenti a frange disamorate dell’Ordine. Al tempo del generalato di Giovanni da Parma (124757) [mille duecento quaranta sette – cinquanta sette] il profetismo gioachimita era arrivato a coinvolgere ampiamente l’Ordine ai suoi massimi livelli. Se si esclude il Breviloquium, prodotto in Spagna nel 1351 [mille trecento cinquantuno], la terza generazione di scrittori pseudo-gioachimiti rappresentò ancora una volta un fenomeno italiano, che si produsse all’incirca fra 1280 [mille duecento ottanta] e 1330 [mille trecento trenta]. In questo ambito si trovano principalmente tre testi – o meglio: tradizioni testuali. La più importante è costituita dai Vaticinia de summis pontificibus, come sono comunemente chiamati al giorno d’oggi. Si trattava di uno scritto di un nuovo tipo, che fu influente per secoli (anche se i tentativi più recenti di determinare il presente e il futuro dei papi fanno in genere riferimento alla “profezia di Malachia”, risalente 12 al secolo Sedicesimo, piuttosto che alle predizioni attribuite a Gioacchino). La storia di questi Vaticinia, una combinazione di immagine, motto e breve predizione (in seguito di furono aggiunti commenti), ha attirato l’attenzione molto più di qualsiasi altra opera attribuita all’abate. A quanto pare è possibile individuare almeno cinque fasi nell’evoluzione dei Vaticinia, per quanto la rispettiva datazione e le reciproche relazioni di tali fasi talvolta non siano ancora del tutto chiare. Nella prima fase si colloca un oracolo filo-imperiale in lingua greca, attribuito a un imperatore del secolo Decimo, Leone VI [sesto], ma che probabilmente è una creazione in lingua greca del secolo Tredicesimo, per la quale furono utilizzati materiali precedenti. Verso la fine del secolo Tredicesimo (più o meno intorno al 1285) [mille duecento ottanta cinque] alcune di queste profezie (da 6 [sei] a 8 [otto]) furono trasposte in latino per attaccare i cardinali Orsini, come ha dimostrato Andreas Rehberg. Questa profezia politica risulta essere stata opera dei sostenitori della fazione dei Colonna all’interno della curia romana. La terza fase coincise con l’evolversi in una raccolta di quindici predizioni, in parte basate su quelle profezie relative a cardinali, ma con l’inclusione di altri materiali. Questi vaticinia ex eventu predicevano l’avvento di una serie di papi, da Nicolò Terzo a Benedetto Undicesimo, sottolineando il ruolo del quinto nella serie, identificato con Celestino Quinto. Si concludevano con una serie di immagini – dall’undicesima alla quindicesima – che sembravano prospettare un ritorno di Celestini nelle vesti di un santo papa risorto. Questa combinazione di motti, immagini e brevi spiegazioni, denominata Genus nequam dal suo incipit, è attestata in nove manoscritti e fu messa in circolazione a partire dal 1304 [mille trecento quattro], 13 anche se le differenti fasi di questa evoluzione possono essere retrodatate almeno di un decennio e sono comunque oggetto di discussione. In realtà Genus nequam non risulta essere stata composta come un pezzo pseudogioachimita. Solo uno dei manoscritti lo attribuisce all’abate, e prime attestazioni lo collocano sotto il nome di Merlino oppure di un Rabanus anglicus altrimenti ignoto. Ciò-non-di-meno a partire dal secondo decennio del secolo Quattordicesimo il Francescano Spirituale Bernard Delicieux e altri lo ascrissero a Gioacchino e tale attribuzione gli rimase attaccata. La raccolta, peraltro, risultò presto non più attuale, aprendo la strada a una quarta fase quando, intono al 1330 [mille trecento trenta] i Fraticelli italiani composero una seconda serie di quindici profezie (il cui incipit è Ascende calve), allo scopo di aggiornarla con i ritratti di papi recenti, in termini generalmente negativi. Questo gruppo si conclude con la figura di un PapaAnticristo, rappresentato come un dragone dalla testa umana, con il motto Terribilis es, quis resistet tibi? (Ps. 75:8). È degno di nota il fatto che questi prodotti francescani della terza generazione di scrittori pseudo-gioachimiti non provenivano più da personaggi al vertice dell’Ordine oppure dalla loro cerchia immediata, ma da religiosi reietti e rinnegati, che furono perseguitati, imprigionati e persino messi a morte. L’ultima fase dell’evoluzione dei Vaticinia, al di là dell’ambito temporale del mio intervento, ebbe luogo al tempo del Concilio di Costanza (intorno agli anni 1415 -17) [mille quattrocento quindici – diciassette], quando alcuni polemisti misero insieme le due raccolte, mettendo la seconda avanti alla prima. Era questa l’immagine relativa al passato e al futuro del papato, confondente ma popolare, che Michel de Montaigne 14 avrebbe voluto vedere: se così fosse stato, probabilmente le sue idee a proposito dell’utilità dei pronostici non sarebbero state modificate. L’ Oraculum Cyrilli, un altro testo composito, a sua volta incentra le sue predizioni sull’avvento di uno o più santi papi. Secondo la leggenda, durante la celebrazione della messa un angelo avrebbe consegnato Cirillo del Monte Carmelo una rivelazione scritta su due tavolette d’argento. Intrigato dalla loro oscurità (il che, almeno in parte, è vero), Cirillo le mandò a Gioacchino per averne delucidazioni. L’oracolo originario potrebbe essere stato scritto alla fine degli anni Novanta del Duecento, allo scopo di difendere il francescano gioachimita Pietro di Giovanni Olivi (morto nel 1297) [mille duecento novanta sette]: il commento pseudo-gioachimita è in attesa di ricerche più approfondite. L’Oraculum e il suo commento furono popolari, attestati da almeno sedici manoscritti e due antiche edizioni a stampa (Venezia 1516 [mille cinquecento sedici] e Lione 1663 [mille seicento sessanta tre]), prima dell’edizione moderna di Paul Piur nel 1912 [mille novecento dodici]. L’ultimo testo di questo periodo è il Liber de Flore, il cui titolo completo è Liber Joachim de Flore de summis pontificibus. Questo testo, che sopravvive in circa quattordici manoscritti e due versioni (la prima databile all’incirca al 13001303) [mille trecento – trecento tre], fu anch’esso un prodotto degli Spirituali Francescani e mostra la loro fissazione a proposito del papato dopo l’abdicazione e la morte di Celestino Quinto. Vi si predice un’imminente serie di pastores angelici (è la prima volta che questa espressione viene utilizzata), che collaboreranno con un ultimo imperatore, francese, nel dare inizio a un era millenaria. Malgrado la sua circolazione relativamente limitata, egli aprì la porta 15 a un importante capitolo nella storia dell’influenza di Gioacchino sulla profezia politica, orientate in senso filo-francese. In tale ambito ebbero un particolare sviluppo l’attesa dell’avvento di papi santi da parte dei Gioachimiti e l’assunzione da parte francese della profezia dell’Ultimo Imperatore. Perché queste opera, vuoi popolari vuoi oscure, furono prodotte? Perché i loro autori/compilatori vollero metterle sotto il nome di Gioacchino? In che misura il loro pensiero si ricollega a Gioacchino? Quanto hanno contribuito alla storia della attese apocalittiche. Sono domande a cui non è possibile rispondere esaustivamente in questa sede. Mi limiterò ad avanzare alcune osservazioni. Lo Pseudo-Gioacchino: Contesti e contenuti Se ci domandiamo: “Perché Gioacchino?”, di necessità la prima risposta è ovvia: Gioacchino era il più grande autentico profeta che avesse vissuto nel medioevo. Ovviamente Gioacchino non si considerava un profeta nel senso di avere ricevuto una rivelazione speciale a proposito di quanto doveva avvenire in futuro, ma aveva sempre insistito sul fatto di avere ricevuto la grazia del donum intellectus, che gli aveva conferito una intelligentia spiritualis del modo in cui la Bibbia rivela la struttura complessiva e i dettagli degli eventi, passati, presenti e a venire. Ciò-non-di-meno l’abate non esitò a esporre il suo pensiero a proposito del futuro, anche se lo fece spesso con precisazioni che i suoi seguaci ignorarono Alcuni aneddoti relativi alla sua persona mostrano che, persino durante la sua stessa vita, egli era considerato in grado di predire gli eventi futuri per un’ispirazione divina. A stento ci si può sorprendere che una reputazione siffatta abbia continuato ad accrescersi dopo la sua morte. Nelle liturgia 16 florense, in un’antifona per i Vesperi nella festa di Gioacchino lo mette in evidenza: «Beatus Joachim, spiritu dotato prophetico, decoratus intelligentia, errore procul haeretico, dixit futura praesentia.» A mio parere, l’avveramento di una delle principali predizioni dell’abate fu la principale ragione del crescere di tale convinzione: vale a dire, il suo annuncio dell’avvento di due ordini di viri spirituales. A prescindere dalle differenze tra la concezione dell’abate di “uomini spirituali” e la realtà storica degli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani, nel Tredicesimo secolo, per molti frati sarebbe stato difficile non vedere in Gioacchino un proprio speciale profeta, come dimostra la lettera enciclica Salvator saeculi, che Humbert de Romans e Giovanni da Parma sottoscrissero congiuntamente nel 1255 [mille duecento cinquanta cinque]. Persino uno scettico come Tommaso d’Aquino ammise che a volte Gioacchino da Fiore ci aveva azzeccato, anche se unicamente sulla base di congetture umane. È probabile che Tommaso avesse in mente il pronostico relativo al suo Ordine. Però, se Gioacchino divenne famoso sulla base di una profezia rivelatasi esatta, quanto altri aspetti del suo messaggio apparivano ancora rilevanti e quanto abbisognavano di essere integrati? A questo punto si affaccia la questione dello “Pseudo Gioacchino”. Credenze e scritti apocalittici sono spesso presentati come una risposta a una crisi, ad esempio una persecuzione oppure una catastrofe naturale. Ciò è vero soltanto in parte. Come mezzo per conferire senso alla storia e al suo significato ultimo l’apocalittica rappresenta una risposta non soltanto alle crisi 17 ma anche alle occasioni che si presentano: sia le une sia le altre sono sotto gli occhi dello spettatore, vale a dire di colui il quale scruta i segni dei tempi. Eventi negativi che noi giudichiamo di maggior impatto, come la Peste Nera, possono avere avuto un’influenza su credenze e scritti apocalittici, ma spesso non hanno affatto cambiato le regole del gioco, per così dire. Al contrario, episodi che sembrano relativamente di minore importanza, come l’abdicazione di un oscuro papa Celestino Quinto, possono contribuire alla creazione di un paradigma completamente nuovo: la leggenda dell’avvento di un pastor angelicus. Dunque non ci si dovrebbe sorprendere che gli avvenimenti che fornirono il contesto alla produzione pseudo-gioachimita fossero allo stesso tempo sia grandi sia piccoli, sia sconvolgenti sia privi di conseguenze. Non ho la possibilità di discutere tutti gli aspetti del pensiero dell’abate che furono ripresi e adattati dai suoi seguaci, come appunto la sua trattazione dell’Anticristo. Mi concentrerò invece su tre principali tematiche proprie di Gioacchino, che si dimostrarono capaci di grandi sviluppi nel corso del Tredicesimo secolo, in quanto che rispondevano così bene ai problemi del momento. La prima fu lo sforzo di attuare la migliore forma di vita religiosa. La seconda fu il tentativo di dare un senso alla storia nel pieno dei conflitti dinastici che turbavano l’Italia nel corso del Tredicesimo secolo. La terza fu il dibattito sulla natura del papato. Tutte queste tematiche hanno un’eco nel pensiero autentico dell’abate calabrese, ma furono ampliate, sviluppate e a volte radicalmente modificate da uno Pseudo-Gioacchino. Le previsioni di Gioacchino a proposito dei viri spirituales erano parte integrale della sua visione di un’importanza meta-storica della più alta forma di 18 ordo monasticus, da realizzarsi nel terzo status. Gli Ordini mendicanti colsero nella sua speranza un importante risvolto della propria identità. Tale fascinazione fu prevalente piuttosto tra i Francescani che tra i Domenicani: vale a dire, tra le “colombe” piuttosto che tra i “corvi”, nei termini dello Super Hieremiam. Ciònon-di-meno alcuni Domenicani furono attratti dalle profezie gioachimite, allo stesso modo in cui lo furono in seguito altri Ordini religiosi, come gli Agostiniani e i Gesuiti. Il coinvolgimento degli Ordini religiosi, e in particolare dei Francescani, è della massima importanza, dal momento che la produzione di letteratura apocalittica rimase un’occupazione prevalentemente chiericale durante il Tredicesimo secolo. L’immaginazione apocalittica cerca di dare un senso al tumulto della storia, non da ultimo in tempi di rapido cambiamento. Uno dei modi principali per fu la creazione di schemi per le età del mondo, enumerazioni che erano ritenute essere state rivelate da Dio, vuoi nella Bibbia vuoi in rivelazioni successive. Gioacchino era un maestro nel calcolare tali periodi, producendo schemi assai complessi di età, basati sui numeri due, tre, sette e dodici, così come le combinazioni di cinque e sette, e sulla enumerazione di generazioni, in particolare quarantadue e centocinquanta/ cento cinquanta tre. L’innovazione dell’abate maggiormente percepita, la nozione di tre grandi status della storia, ascritti al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, era ricollegata alle sue predizioni dell’imminenza del terzo status. Benché egli abbia espresso questa speranza con una certa cautela, era facile leggerlo come se dicesse che il grande cambiamento non avrebbe avuto luogo più tardi del 1260 [mille duecento sessanta]. Di conseguenza alcuni testi del medio periodo dello Pseudo 19 Gioacchino, come il Super Hieremiam, includono un robusto insegnamento sulla concezione dei tre status della storia. Non sorprende che una siffatta speculazione sia scemata dopo il 1260 [mille duecento sessanta]. Pochi tra gli Pseudo Gioacchino che seguirono, ad eccezione del Breviloquium, prestarono grande attenzione all’enumerazione delle età della storia. Tra i lettori francescani dell’abate, che è possibile identificare, come Bonaventura da Bagnoregio e Pietro di Giovanni Olivi, l’attenzione si spostò sullo sviluppo dello schema di un doppio settenario, proprio di Gioacchino: vale a dire le concordanze tra il tempo della Vecchia e della Nuova legge - anche se Olivi faceva sue le speranze nell’avvento di una terza età. Gioacchino spesso identificava le età della storia in relazione ai governanti, vuoi quelli descritti nel Vecchio Testamento vuoi i re e gli imperatori noti della storia cristiana. Almeno nel secondo status i governanti, all’interno e al di fuori della Cristianità, hanno un ruolo principalmente negativo, come flagelli mandati da Dio per mettere alla prova e purificare i fedeli, in particolare durante le ultime generazioni del secondo status. Gioacchino non nutriva alcun interesse per le visioni apocalittiche, di carattere positivo, relative al ruolo dell’imperatore, che per almeno cinque secoli erano andate sviluppandosi sia in Oriente sia in Occidente. Nessun Ultimo Imperatore del Mondo per lui! Eppure, le lotte politiche e dinastiche che devastarono la penisola italiana durante tutto il Tredicesimo secolo non soltanto fornirono l’occasione per ampliare la visione negativa che Gioacchino aveva del potere secolare, ma indussero alcuni dei suoi seguaci a domandarsi se con questo si esaurisse la .storia. 20 Potenti imperatori non hanno un ruolo positivo? Le lotte dinastiche costituiscono una caratteristica-chiave nelle profezie dello Pseudo Gioacchino, cominciando dalle guerre tra Federico Secondo e il papato e i suoi alleati, proseguendo con i conflitti tra gli eredi di Federico e gli Angioini negli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, e arrivando alle dispute tra Angioini e Aragonesi alla fine del secolo. Gli scritti gioachimitici della seconda generazione svilupparono in maniera significativa la visione negativa che l’abate aveva del ruolo dell’imperatore, concentrandosi su Federico II come l’Anticristo atteso, la cui malvagità si sarebbe pienamente manifestata durante il passaggio al terzo status nell’anno1260 [mille duecento sessanta] . L’inattesa morte di Federico nel 1250 [mille duecento cinquanta] sconvolse questo scenario, e il fatto che i suoi discendenti continuassero a lottare per il suo patrimonio fece sì che il mantello dell’Anticristo passasse sulle loro spalle. Ahimè! Il trascorrere della temuta data del 1260 [mille duecento sessanta] pose fine a molte di queste attese. Lo possiamo vedere dal racconto di un disilluso gioachimita francescano, Salimbene da Parma. Nel 1264 [mille duecento sessantaquattro], mentre si trovava in un convento a Ravenna, a Salimbene fu chiesto da un confratello se egli era stato gioachimita. Egli rispose: “Tu dici la verità, ma dopo la morte dell’imperatore Federico e il trascorrere dell’anno 1260 [mille duecento sessanta] ho completamente abbandonato quell’insegnamento e mi propongo di credere soltanto a quello che vedo”. Il tentativo di ridatare al 1290 [mille duecento novanta] l’anno di transizione al terzo status, vale a dire a quaranta generazioni di distanza dalla Passione di Cristo, piuttosto che dalla sua Natività, era una tattica dilatoria che presto perse di utilità. 21 Peraltro una necessità, profondamente radicata, di attribuire un ruolo all’imperatore negli ultimi avvenimenti iniziò gradualmente a fare spazio a un buon imperatore che si opponesse a un malvagio governante anticristiano. Queste speranze si fissarono sulla monarchia francese, che emergeva come la più forte potenza nell’Europa dell’ultima parte del Tredicesimo secolo. Malgrado Gioacchino avesse escluso un ruolo positivo per i governanti nel suo scenario apocalittico, possiamo rilevare l’iniziale emergere di tradizioni imperiali gioachimitiche nei testi degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, quando i propagandisti papali furono lesti nell’esaltare gli Angioini loro alleati attribuendo loro un ruolo nell’imminente trionfo sulle forze dell’Anticristo (leggi: i discendenti di Federico) e nel rinnovamento della Chiesa. Un nuovo capitolo nella storica dell’apocalittica tardo medievale fu aperto a partire dagli inizi del Quattordicesimo secolo, quando nel Liber de Flore – e altrove – sotto il nome di Gioacchino fu delineato uno scenario completo nei dettagli della collaborazione nei tempi finali tra un Ultimo Imperatore francese e uno o più Papi Santi. Il terzo contesto è papale. Gioacchino aveva meditato sul ruolo di papi buoni e cattivi negli ultimi giorni del secondo status ed era arrivato a sperare in un novus dux papale nel tempo del passaggio al terzo status. Le sue concezioni relative al futuro del papato, in particolare nella forma in cui furono espresse tardivamente nei Tractatus super quatuor evangelia, non sono sempre chiare e sono state oggetto di interpretazioni divergenti. Nella seconda metà del Tredicesimo secolo erano crescenti i timori a proposito di un carattere “anticristiano” dei papi in carica, ritenuti “politici”, ed incoraggiavano le speranze 22 nell’avvento di papi santi che avrebbero riformato il papato, assunto un ruolo meno attivo in una politica di potere, e costituito un modello di santità. Un certo numero di scrittori, attivi tra la metà e la fine del Tredicesimo secolo, come gli autori del Super Hieremiam, Salimbene da Parma e Ruggero Bacone, furono affascinati dall’aspettativa nell’avvento di un papa santo. Il contesto e gli sviluppi di tali speranze devono essere ulteriormente indagati, ma non è possibile farlo in questa sede. La politica di potere dei papi regnanti nel corso del Tredicesimo secolo diede vita a una difficile situazione, una sorta di gioco senza né vinti né vincitori, nel senso che più i vescovi di Roma si intromettevano, con maggiore o minore successo, nelle dispute locali, in Italia e in Europa, tanto meno assomigliavano ai santi pastori del gregge di san Pietro. A quanto pare molti credenti si trovavano a loro agio in questa situazione: altri invece no. Nella misura in cui i papi apparvero sempre più interessati alla politica, più forti si fecero le speranze in un cambiamento radicale nelle persone dei papi, se non forse dell’intero sistema [delle istituzioni ecclesiastiche]. All’incirca fra 1280 [mille duecento ottanta] e 1305 [mille trecento cinque] ciò favorì l’emergere di una vera e propria leggenda del pastor angelicus. Un fattore-chiave fu costituito dal contrasto tra il santo eremita Pietro del Morrone, eletto papa con il nome di Celestino Quinto, dopo un lungo conclave, e il suo successore, il potente, intransigente ed estremamente politico Bonifacio Ottavo (1294-1303) [mille duecento novanta quattro – mille trecento tre]. A partire dai primi anni del Quattordicesimo secolo era venuto alla luce uno dei più potenti contributi all’apocalittica tardo medievale da parte di uno Pseudo Gioacchino: la profezia dell’avvento di uno o più papi santi, i quali, in collaborazione con l’Ultimo 23 Imperatore, avrebbero sconfitto l’Anticristo, riformato la Chiesa, convertito il mondo e governato in un’età millenaria prima dell’Ultimo Giudizio. Se molti dei temi sviluppati da uno Pseudo Gioacchino avevano le loro radici nelle opera autentiche dell’abate calabrese, benché di necessità ampliati e adattati, e se altri, come le tradizioni concernenti l’Ultimo Imperatore, erano in contrasto con le concezioni di Gioacchino ma erano stati incorporati nella tradizione gioachimitica, per delineare un quadro generale del passaggio da Gioacchino da Fiore allo Pseudo Gioacchino è inoltre necessario prestare un poco di attenzione ad alcuni importanti aspetti del pensiero dell’abate, che sembrano essere stato ampiamente trascurati ovvero dimenticati da quanto scrissero nel suo nome. Anche in questo caso ne menzionerò soltanto tre. Essi sono però temi centrali per Gioacchino: il suo insegnamento sulla Trinità; la sua comprensione della intelligentia spirituale della Bibbia; il suo misticismo. I moderni teologi sono arrivati a riconoscere l’originalità della teologia trinitaria di Gioacchino, non soltanto nella sua intuizione fondamentale di iscrivere l’azione delle tre persone nella struttura della storia attraverso le due diffinitiones, gli schemi dell’Alpha e dell’Omega, ma anche in molti dettagli di tale intuizione, come la sua teoria delle missioni divine e la sua volontà di presentare la Trinità per mezzo di figurae. L’attacco di Gioacchino contro la teologia trinitaria di Pietro Lombardo attesta che si trattava di un argomento controverso. La condanna delle concezioni di Gioacchino, contenuto nel decreto Damnamus di Quarto concilio del Laterano (un decreto che gli risparmiò una condanna personale come eretico), comportava che l’abate era destinato a restare sospetto per quasi tutti i teologi scolastici, anche per quanti 24 silenziosamente facevano ricorso al suo pensiero. Le prime cerchie gioachimite, tra i Florensi e i Cistercensi, si opposero a questa condanna e, come dimostra il Liber contra Lombardum, tentarono di mettere in atto una difesa. Opporsi a un decreto conciliare, peraltro, era futile e persino pericoloso nel lungo periodo. Si capisce dunque perché lo Pseudo Gioacchino in larga misura abbandonò il Trinitarismo dell’abate. Più sorprendente è invece la frammentaria ricezione della ricca teoria ermeneutica dell’abate. Nella prima edizione di The Study of the Bible in the Middle Ages (1940) [pubblicato nel mille novecento quaranta] Beryl Smalley liquidò l’esegesi di Gioacchino da Fiore come rappresentante di “un attacco di demenza senile” nell’ambito dell’antica tradizione di esegesi spirituale della Bibbia, anche se con signorilità ridimensionò le sue espressioni nella prefazione alla terza edizione del proprio libro. Da allora una lunga strada è stata percorsa. Un crescente numero di studi sulla teoria e sulla pratica esegetica dell’abate lo hanno messo in luce come una delle menti esegetiche più creative del medioevo. Come accade nel caso della enumerazione delle età del mondo, Gioacchino delinea una varietà di descrizioni dei sensi della Scrittura – tre sensi, quattro sensi, cinque sensi, sette sensi, dodici sensi, e persino quindici sensi nello Psalterium decem cordarum. Il groviglio di queste variazioni per i sensi biblici, allo stesso modo delle interpretazioni – spesso tediose – di passi per tutta la Bibbia, non deve oscurare ai nostri occhi la finalità complessiva della sua esegesi e della sua concezione del significato della storia: la crescita della intelligentia spiritualis, cioè la più profonda comprensione del ruolo della Trinità nella storia e nella vita comunitaria della Chiesa, data dallo Spirito. Gioacchino stesso ci racconta in 25 qual modo la concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento gli sia stata rivelata nella sua visione di Pasqua a Casamari. Le concordanze, peraltro, appartengono al significato letterale della Bibbia. Esse costituiscono il fondamento necessario della comprensione spirituale, ma non la esauriscono. Gioacchino inoltre afferma che la visione pasquale gli rivelò la plenitudo dell’Apocalisse, vale a dire l’intimo significato spirituale dell’intera Bibbia. Quelli che Gioacchino contemplativus denominava (Expos., 173r), come gli oppure svariati di generi intelligentia di intellectus allegorica sive contemplativa (Expos., 26r, 115r), erano necessari per scolpire il significato della storia sacra nell’anima del credente e nella vita del futuro novus ordo pertinens ad tertium statum di contemplativi, come denominato in una famosa figura. Benché un certo numero di opere pseudo-gioachimite abbia fatto ricorso alle concordanze di Gioacchino, a quanto pare la ricchezza della sua teoria sulla intelligentia spiritualis non fu compresa opppure fu trascurata dalla maggior parte dei suoi seguaci. L’esegesi di Gioacchino rimane un unicum: a volte imitata e parodiata, mai realmente compresa. Tutto ciò ci conduce all’ultimo punto della mie considerazioni. Come messo in evidenza per primo da Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore era un mistico, sia pure di un tipo inconsueto, sia a motivo della sua nozione di misticismo sociale (la vita associata per Buonaiuti), sia – a mio parere – per avere ricollegato due filoni gemelli risalenti alle origini del Cristianesimo – l’apocalittico e il mistico – che erano stati separati nella Chiesa primitiva nel corso del secondo e del terzo secolo. Non è il momento per reiterare le argomentazioni per sostenere che la concezione di Gioacchino di una 26 crescente intelligentia spiritualis implica una trasformazione mistica, che è progressiva, condivisa e imminente. Non posso poi occuparmi di un’altra questione: in che misura Gioacchino pensava che una tale trasformazione condivisa sarebbe stata universale nel tertius status, oppure limitata soltanto alla comunità del novus ordo. Le speranze di Gioacchino fanno capolino, sia pure in una forma “francescanizzata”, negli scritti di Bonaventura da Bagnoregio e di Pietro di Giovanni Olivi, mentre non ne trovo tracce significative nelle profezie pseudo-gioachimitiche. Benché uno Pseudo Gioacchino predíca spesso l’avvento di tempi migliori, le sue profezie sono incastonate in contesti politici esterni: la sconfitta dei nemici della Cristianità, la pace tra papa e imperatore, la riforma istituzionale della Chiesa. La dimensione mistica del messaggio di Gioacchino sembra essere andata persa per strada. Conclusioni Ho sostenuto che lo Pseudo Gioacchino costituisce una parte vitale della storia della ricezione dell’abate calabrese. Ho anche discusso con quali modalità i seguaci di Gioacchino abbiano sviluppato alcune delle maggiori tematiche dei suoi scritti autentici, spesso però trascurandone altre. Vista come un fenomeno storico, la storia dello Pseudo Gioacchino è affascinante: un rompicapo, o meglio, una serie di rompicapo. Nella prospettiva della storia della teologia, peraltro, a mio parere lo Pseudo Gioacchino suscita un’impressione molto contenuta. Gioacchino fu un teologo di grande originalità. Ancora oggi le sue complesse teorie sull’esegesi, sulla natura della storia e sulla Trinità ispirano serie riflessioni teologiche. Nel 1964 [mille novecento sessanta quattro] il giovane Jürgen Moltmann scrisse una lettera all’anziano Karl Barth.Vi proclamava: 27 “Gioacchino è più vivo di Agostino”. Non è necessario essere d’accordo con Moltmann – a mio parere sia Gioacchino sia Agostino sono piuttosto “vivi”. Il fatto è che Gioacchino resta un interlocutore della teologia contemporanea, che lo si voglia elogiare come Moltann oppure attaccare come Henri de Lubac. Non è la stessa cosa con lo Pseudo Gioacchino. Gioacchino aveva intuizioni che continuano a essere fonte di ispirazione. Lo Pseudo Gioacchino annoverava una serie di programmi politico-ecclesiastici che attraggono la curiosità dal punto di vista storico. Il Gioacchino politico ha trionfato sul Gioacchino spirituale. In tal senso la ricerca storico-critica sull’abate iniziata più di un secolo e mezzo fa aveva ragione: è nel Gioacchino autentico che si può ancora ritrovare una sapienza teologica in grado di essere un contributo al nostro nuovo millennio. 28