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RASSEGNA STAMPA
martedì 14 luglio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Io Donna dell’11/07/15, pag. 99
I campi estivi dell'accoglienza
C'è ancora posto in alcuni campi estivi per ragazzi (over 18) organizzati da associazioni
laiche e religiose per far fronte all'emergenza profughi. Mani Tese ha disponibilità a
Verbania, Faenza e Firenze: per partecipare, si versa una quota di 60-80 euro, destinati a
progetti in Africa e in Bangladesh (scrivere a: [email protected]). «Si fa vita di
comunità, si lavora, si studia, si ascolta: è un'esperienza molto formati. va» spiega la
responsabile, Domenica Mazza. La Caritas di Vicenza organizza, dal 26 luglio, una
settimana a Genova per accogliere i migranti del mare ([email protected]. it). E, a
Padova, dal 2 agosto, Punti di s …vista con la comunità di Sant'Egidio. A Sant'Egidio
bisogna rivolgersi anche per dare una mano al Memoriale della Shoah, a Milano, che ha
attivato uno spazio per l'accoglienza notturna di profughi
(Santegidio.milano.volontari@gmail com). Fra le proposte Arci (mappa su
campidellalegalita.it), vanno tenuti presente I campi del sole a Cerignola, a fine luglio, e la
mensa per gli stranieri a Caserta, fino alla fine di agosto.
Cristina Lacava
Da il velino del 13/07/15
Giochi, Fanelli: approccio culturale sulla
presenza delle slot nei circoli
I proventi di slot più controllate aiutano a sopravvivere e sostenere
attività del terzo settore
di emt
Da un lato l'appello ai circoli Arci e Mcl a rinunciare alle slot machine, dall'altro il dibattito
aperto dall'antropologo Antonio Fanelli, intervistato dal quotidiano La Repubblica perchè
autore del saggio dedicato all'evoluzione delle Case del popolo, in cui spiega la
percezione del "problema delle macchinette". L'Arci è impegnata come associazione
contro le slot, ma i circoli sono autonomi, e lo studioso sottolinea come serva "buon senso
e una battaglia politico culturale a largo raggio". Al momento a livello commerciale, gli
apparecchi sono fondamentali per sopravvivere. Ad oggi un 20-30% dei circoli sparsi per il
Paese ospita slot machine, a dimostrazione conclude Fanelli che non basta "eliminare le
slot da un circolo per veder svanire l'attrazione per questo tipo di intrattenimento", mentre
nei circoli l'apparecchio viene tenuto sotto controllo, e gli introiti servono sempre per
finanziare attività sociali e culturali, a vantaggio della collettività.
http://www.ilvelino.it/it/article/2015/07/13/giochi-fanelli-approccio-culturale-sulla-presenzadelle-slot-nei-circo/a0e57d41-7d8e-459a-a8ac-59142faf57ad/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Vita.it del 14/07/15
L’intervento del presidente CGM
Riforma Terzo Settore, Granata: «Parlamento
e Governo non facciano passi indietro»
Di Stefano Granata
Il responsabile del più importante gruppo italiano di cooperative sociali: «Il senso
dell'urgenza di questa norma per noi rimane intatto. Le trasformazioni che oggi investono
e scuotono il tessuto sociale ed economico, in Italia come nel resto d’Europa, impongono
la necessità di rispondere a bisogni primari sempre più complessi e dai forti tratti
emergenziali con nuovi strumenti»
Mai come in questo momento il Terzo settore è stato al centro del dibattito e della visibilità
nel nostro Paese, dal tema della riforma avviata dal Governo, che ne ha messo evidenza il
valore, ai fatti di cronaca che al contrario gettano ombre in particolare sull’operato della
cooperazione sociale.
Due prospettive diametralmente opposte, che tratteggiano tuttavia un quadro coerente con
ciò che l’impresa sociale è ed è stata: un’esperienza dirompente e rivoluzionaria, spinta
dalla volontà di costruire benessere per tutti eppure in larga parte inesorabilmente legata
alle risorse economiche pubbliche, che nel tempo hanno “modellato” l’essenza
organizzativa e imprenditoriale secondo i propri parametri.
La legge delega messa in pista del Governo esattamente un anno fa però ora rischia di
impantanarsi nelle pieghe delle procedure parlamentare. L'ulteriore slittamento del termine
per la presentazione degli emendamenti decisa dalla presidenza della Commissione Affari
Costituzionali del Senato (Anna Finocchiaro, Pd) dopo quasi nove mesi di dibattito
parlametare è un segnale che preoccupa.
Eppure il senso dell'urgenza di questa norma per noi rimane intatto. Le trasformazioni che
oggi investono e scuotono il tessuto sociale ed economico, in Italia come nel resto
d’Europa, impongono da un lato la necessità di rispondere a bisogni primari sempre più
complessi e dai forti tratti emergenziali, dall’altro di far fronte alla riduzione delle risorse
economiche che l’amministrazione pubblica è in grado di mettere a disposizione per
finanziare l’offerta dei servizi. È evidente che sotto il profilo delle ricadute sullo specifico
della cooperazione e dell’impresa sociale questo cambiamento coinvolge in modo
particolare il modello di business.
Quale risposta è possibile? L’architettura del welfare si orienta necessariamente verso una
maggiore sostenibilità complessiva, capace di declinarsi da un lato nel sostegno alla
domanda espressa dai cittadini e al contempo di stare su un mercato in cui si assiste
all’allargamento del numero e delle tipologie di player accreditati ad operare come fornitori
di servizi pubblici. Un altro elemento destinato a cambiare il profilo del settore è l’apertura
di mercati emergenti e sfidanti come l’housing, la sanità, l’energia, la cultura, il turismo.
Contesti competitivi che rappresentano il nuovo terreno di sfida per l’impresa sociale nel
nostro Paese, perché è qui che troviamo le vere opportunità di sviluppo e di crescita.
In questi mercati l’attitudine ad innovare si deve concretizzare in capacità di attrarre
investimenti, di operare secondo logiche e processi industriali e in creatività per costruire
nuove forme di collaborazione trasversale ai differenti elementi e soggetti che
compongono le comunità.
Con il processo di ricostruzione istituzionale ed economica dell’Italia sullo sfondo,
l’impresa sociale può assumere un ruolo di primo piano, partendo dalla consapevolezza
dell’impatto fin qui generato e dalla capacità di delineare un futuro adeguato al momento
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storico. Prossimità alle comunità, impegno per garantire l’inclusione e la coesione, tutela
dei diritti di ciascuno sono da sempre e restano i principi fondamentali. Tuttavia oggi a
questi elementi è necessario aggiungere un’ulteriore sfida: lo sviluppo e la capacità di
generare impatto economico e sociale.
Il Gruppo Cooperativo CGM ha deciso di raccogliere la sfida sperimentando un nuovo
modello di impresa sociale in grado di agire per lo sviluppo del territorio. Ciò significa
aggiungere alla capacità unica della cooperazione sociale di sostenere le comunità, nuovi
elementi di forza. Significa lavorare con logiche nuove sui mercati consolidati del welfare e
avere il coraggio di misurarsi su nuove filiere produttive.
La convergenza delle componenti sociali e imprenditoriali è il punto focale. La leva
principale è la valorizzazione del capitale di risultati, relazioni e legami costruiti nelle
comunità su cui innestare la capacità di fare investimenti e di attrarre capitali, sviluppare
nuove competenze manageriali, costruire collaborazioni e partnership con gli enti pubblici
e con gli attori l’economia for profit. Il punto fondamentale è l’apertura: assumere forme di
organizzazione e di governance adatte a includere nuovi soggetti non vuol dire rinunciare
alla visione o snaturare l’impresa sociale. Al contrario, essere multistakeholder,
contaminare con nuove soluzioni le prassi consolidate, giocare la propria competenza
imprenditoriale insieme a nuovi investitori sono oggi gli elementi chiave che permettono di
mettere a valore il vero tratto distintivo dell’impresa sociale: la capacità di mettere in
comunicazione e di far lavorare insieme mondi e visioni differenti. Non un settore
schiacciato tra il pubblico ed il privato for profit, “tra Stato e mercato”, ma un punto di
snodo progettuale fondamentale per la crescita di iniziative che mirano a generare
benessere, occupazione, sviluppo e opportunità per tutti. Per cotruire questo nuovo
modello, la riforma della legge 155/2006 sull'impresa sociale è imprescindibile. Il Governo
e il Parlamento non facciano passi indietro proprio adesso.
http://www.vita.it/it/article/2015/07/14/riforma-terzo-settore-granata-parlamento-e-governonon-facciano-passi-/135914/
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ESTERI
del 14/07/15, pag. 6
Syriza, i mille volti della spaccatura
«Addio al sogno»
«È stato bello crederci, ora inizia l’inverno nucleare»
DAL NOSTRO INVIATO ATENE Al primo piano si è anche rotta l’aria condizionata. I
giovani militanti spalancano inutilmente finestre dalle quali entra solo aria calda. Alcuni di
loro si sporgono addentando panini fatti arrivare dal bar di piazza Koumoundourou. Una
ragazza mora con canottiera bianca e piercing al naso piange e viene abbracciata da un
signore dall’aria austera, che poi si rivela essere Panos Skourletis, attuale ministro del
Lavoro ed ex portavoce di Alexis Tsipras.
«Not a good time», non è buon momento. Il professore universitario e deputato Costas
Lapavitsas e il ministro dell’Energia Panagiotis Lafàzanis sfrecciano nel corridoio rovente
ripetendo la stessa cosa agli interlocutori che li incrociano. Si rifugiano in un gabbiotto,
accanto alla portineria al pianterreno, si suppone areato. Da Bruxelles è appena arrivato il
testo dell’accordo. Devono leggere e valutare quel che appare già chiaro a tutte le persone
presenti nella sede di Syriza. Entrambi sono due importanti esponenti della nutrita schiera
di bastian contrari presenti all’interno del principale partito di governo.
«E’ stato bello crederci, ma adesso comincia il nostro inverno nucleare». Lafàzanis
accartoccia i fogli e sembra che anche la sua faccia abbia subito lo stesso trattamento. E’
un comunista vecchia maniera, al quale fa capo Piattaforma di sinistra, il pezzo di partito
alleato esterno e oppositore interno del più moderato Tsipras, che in Parlamento può
contare su una ventina di rappresentanti. Al voto della scorsa settimana si è astenuto,
chiedergli cosa farà nei prossimi giorni appare quasi superfluo. «Questo accordo» dice in
un sospiro «è quasi peggio di un nuovo memorandum, perché contiene anche
l’umiliazione del nostro popolo. Sono sei mesi che siamo costretti a ingoiare forme di
liberismo mascherato e compromessi al ribasso, ma questa è una indigestione mortale.
Lotteremo in ogni modo per farlo bocciare». Davanti a un’ira piuttosto evidente, pare quasi
maleducato fargli notare il dettaglio della sua permanenza al governo. «Non so cosa farò a
livello personale. Ma credo non ci sia una sola buona ragione al mondo per dare l’assenso
a un accordo che distrugge la Grecia. Se passa, questo governo non ha più ragione di
esistere, è prima di tutto un problema di coerenza».
Intorno a lui annuiscono molti dei dipendenti che lavorano in questa palazzina a due piani
diventata crocevia della politica greca dove oggi sembra finire qualcosa. «Abbiamo perso
la nostra innocenza» dice la ragazza che poco prima stava piangendo. Il professor
Lapavitsas ha costruito la sua identità accademica sulla critica feroce all’euro. E’ stato
eletto per Syriza ma si ritiene un indipendente, e lo ha sempre dimostrato al momento del
voto. «Lo avevo detto ad Alexis che era una trappola. Dovevamo andarcene molto tempo
fa. Adesso lo hanno messo in un vicolo cieco, e con lui tutto il Paese. Votare o non votare,
ci hanno comunque uccisi». Magari domani andrà meglio. La convocazione del comitato
centrale servirà a trovare una quadra che al momento risulta un miraggio.
Oggi però è il giorno dello spaesamento, testimoniato anche dalla homepage di Avgi, il
quotidiano del partito, che parla di accordo disastroso frutto di una cospirazione ordita
dalla Merkel in combutta con gli odiati armatori. Syriza può apparire come un monoblocco
dotato di una struttura interna chiaramente ispirata ai partiti comunisti di una volta, con
tanto di epurazione prevista per chi vota contro le indicazioni. Ma è sempre stata una
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realtà mercuriale che con molta fatica cerca di tenere insieme vecchi idealismi, nuovi
movimenti e consuete tutele delle molte rendite di posizione presenti nella società greca.
«E’ la più brutta giornata della mia vita da quando i colonnelli cacciarono la mia famiglia e
ci dovemmo rifugiare in Italia». Vassili Primirikis è uno dei fondatori di Syriza, fa parte della
direzione nazionale e del Comitato centrale, dove è considerato un non allineato
comunque fedele alla disciplina di partito. «Nulla sarà più come prima. Mi sembra che
stiamo tradendo le promesse che avevamo fatto al nostro popolo. Oggi mi sento un po’
sporco. E’ chiaro che cambia tutto, anche per me». Sul marciapiede di fronte, sotto a un
platano, la scena ispira tenerezza. I ragazzi usciti dalla sede di Syriza si abbracciano tra
loro, si scambiano carezze, coraggio, vedrai che andrà meglio. All’improvviso passa il
ministro Skourletis, fedelissimo e amico di Tsipras se mai ce n’è stato uno, impegnato in
una agitata conversazione al telefonino. «Mi dici come c... possiamo farla mandare giù alla
nostra gente?», chiede urlando all’anonimo interlocutore. L’inverno nucleare di Syriza è
cominciato. Ma ci sono quaranta gradi all’ombra, e l’ar ia condizionata non funziona.
Marco Imarisio
Del 14/07/2015, pag. 1-26
L’ANALISI
Il protettorato in maschera
LUCIO CARACCIOLO
LA GRECIA ha cessato di esistere come Stato indipendente. Restano i greci. Chiamati a
sopportare non solo devastanti sacrifici economici, ma anche l’umiliazione di vedersi
trattati da minori cui è interdetta la gestione dei propri affari. La patria potestà è affidata
pro forma a Bruxelles e Francoforte, di fatto a Berlino. Padre severo, tentato dall’idea di
disconoscere il pargolo. Infine convinto a sceneggiare, per ora, la finzione di una residua
sovranità ellenica.
ONDE evitare che, con la dichiarazione di morte dello Stato messo sotto tutela, si
materializzi l’implosione dell’euro. Ovvero dell’Unione Europea.
Scelta non spontanea, che molto deve alle materne insistenze di Obama e di Hollande,
oltre che alle resistenze di Draghi di fronte all’enormità di rischiare la vita dell’euro e i
paradigmi finanziari globali pur di sbarazzarsi della piccola ma incorreggibile Grecia. Al
parlamento di Atene il compito di tradurre in accettabile neogreco leggi scritte dagli
eurocrati o direttamente dai burocrati nazionali tedeschi e francesi, che provvederanno a
correggere eventuali refusi. Destino dei protettorati in maschera.
Per chi volesse ripercorrere la parabola della Grecia post-ottomana, il provvisorio esito
della più aspra trattativa mai prodotta in quel laboratorio della negoziazione permanente
che è l’Eurozona parrebbe l’ennesima replica di una storia infinita. La Grecia fallì la prima
volta quando non era nata, nel pieno delle guerre di liberazione dal giogo turco. Anno
1826. Malgrado fosse affidata prima a un re bavarese poi a una dinastia danese — quanto
di più “virtuoso” si possa immaginare stando alle correnti tassonomie nordeuropee — la
giovane monarchia ellenica si indebitò fino al collo, costruendosi, fra bancarotte ripetute ed
esosi “salvataggi”, rappresaglie e commissariamenti da parte delle potenze creditrici, una
pessima fama finanziaria. Quando il 2 gennaio 2001 la Grecia fu ammessa nell’Eurozona,
gli ottimisti stimavano che battezzandola membro della famiglia degli eletti questa,
finalmente responsabilizzata, avrebbe dismesso l’abitudine a vivere troppo al di sopra dei
propri mezzi. I diplomatici tedeschi più illuminati giuravano sulla pedagogia dell’euro: la
nuova moneta avrebbe trasformato lo spirito di un popolo. Le cicale sarebbero evolute in
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formiche. Non è accaduto. Il dibattito sulla partizione delle colpe fra greci, tedeschi e altri
europei impegnerà a lungo la storiografia. Le (ir)responsabilità elleniche sono palesi.
Quelle altrui, prima coperte, sono emerse in questo atto della tragedia greca — altri,
purtroppo, seguiranno. E si compendiano nel waterboarding cui Merkel e Schäuble, lei
(apparentemente) con le buone lui (visibilmente) con le cattive, hanno sottoposto Tsipras.
Il quale, pur di non dare ai tedeschi la soddisfazione di dimetterlo sui due piedi, ha
accettato di esibirsi in acrobatiche giravolte che l’hanno ridotto a figura patetica più che
tragica. Rinviando la resa dei conti, ma a un prezzo che difficilmente un altro leader
europeo avrebbe accettato. Nella certezza che i sacrifici sono solo all’inizio, perché la
stolida austerità dei contabili nordici, travolta la sovranità dello Stato greco, attacca ora la
qualità della vita quando non la sopravvivenza degli elleni — oligarchi e armatori a parte.
In questa partita si è meglio profilata la geopolitica dell’Eurozona. Al centro, la Germania,
dominante ma non egemone, con attorno un ambiguo corteo nord — e mitteleuropeo, nel
quale si sono stavolta segnalati per vocazione satellitare slovacchi e baltici. Un paio di
gradini sotto, la Francia, cui i tedeschi concedono, con rattenuta insofferenza, di apparire
loro legittima associata. Stavolta Hollande ha però intuito che la volontà di Stati Uniti e
Cina di scongiurare l’involuzione dell’eurocrisi in crisi mondiale avrebbe costretto la
Germania a frenare all’ultima curva. In attesa, forse, di ripartire fra non molto per l’ultimo
giro, quello che dovrebbe espellere l’ex Grecia dall’Eurozona.
Quanto all’Italia, ha evitato di esporsi. Primo, perché non avremmo potuto permettercelo,
consci di percorrere un crinale sempre pericoloso. Secondo, perché quando in Europa il
gioco si fa duro, noi non siamo abilitati a parteciparvi. O forse non ci sentiamo di farlo.
Eppure in questa come in altre crisi — qualcuno ricorda l’Ucraina? — abbiamo visto
Vilnius e Bratislava in prima linea. Paradossi di un’Europa impazzita.
Del 14/07/2015, pag. 4
Così si sono inasprite le condizioni imposte alla Grecia dall’Europa
Dall’Iva alle pensioni, ecco il pesantissimo calendario che dovrà
affrontare Tsipras nei prossimi giorni
Mega-privatizzazioni e riforme lampo per
avere il prestito e il pacchetto crescita
ALBERTO D’ARGENIO
BRUXELLES. La rappresaglia dei governi europei contro la Grecia di Tsipras prende
forma nelle sette pagine approvate ieri dai leader dei Diciannove al termine del summit più
lungo della storia dell’Unione. Diciassette ore consecutive, con epilogo alle nove di ieri
mattina, che lievitano se si considera l’Eurogruppo dei ministri iniziato sabato pomeriggio.
Tsipras è stato umiliato per avere bloccato i negoziati per cinque mesi, per essersi
regolarmente rimangiato gli impegni, per avere convocato il referendum a tempo scaduto e
schierandosi contro un compromesso che sarebbe andato incontro a diverse richieste
greche. E per avert dato dei «terroristi » ai partner. La cui reazione è stata però
inaspettata: già venerdì scorso Tsipras era capitolato accettando un accordo molto simile
a quello bocciato dai suoi cittadini. C’entra anche la diffidenza di molti governi a prestargli
altri soldi senza una rigida griglia di impegni. Il premier greco ha avuto il merito di non
rompere il tavolo di fronte alle provocazioni dei partner che lo spingevano al Grexit.
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La Grecia riceverà un terzo pacchetto di salvataggio di 82-86 miliardi in tre anni dal nuovo
fondo salva stati europeo (Esm) che si aggiungono ai 240 già ricevuti dal 2010. Per
volontà tedesca, smacco ai greci, dal marzo 2016 entrerà in gioco anche l’Fmi che verserà
altri soldi e continuerà a svolgere il ruolo di arcigno controllore. Alla base del piano ci sarà
un vero Memorandum, botta a Syriza che aveva promesso di bandire la parola dal
vocabolario greco. Se questi soldi terranno in piedi il Paese dal punto di vista finanziario,
la Commissione verserà altri 35 miliardi per la crescita. I costi del salvataggio sono lievitati
per l’atteggiamento del governo greco (referendum compreso) che spazzato il refolo di
crescita che stava riportando in carreggiata un Paese che ora si affaccia ad altri due anni
di recessione e controllo dei capitali. Il pacchetto entrerà in vigore entro il 20 agosto,
quando Atene dovrà rimborsare una nuova rata alla Bce da 3,2 miliardi. Fino a quel
momento camperà con un prestito ponte da sette miliardi in arrivo entro il 20 luglio:
serviranno a pagare stipendi, pensioni, 1,6 miliardi di arretrati all’Fmi e 3,5 alla Bce tra sei
giorni. Altri cinque miliardi arriveranno entro metà agosto. I soldi saranno presi dal vecchio
fondo salva stati dell’Unione. In cambio la Grecia avrà una serie di impegni ben più pesanti
di quelli bocciati dal referendum, tra cui tagli e tassi superiori ai 13 miliardi previsti per via
della recessione. Entro domani il Parlamento dovrà approvare l’aumento delle aliquote Iva,
l’abolizione delle baby pensioni, l’indipendenza l’Ufficio statistico (Elstat) e l’introduzione
dell’autorità indipendente sui conti prevista dal Fiscal Compact. Quindi, entro venerdì,
toccherà ai Parlamenti di Germania, Finlandia, Olanda, Estonia e Malta dare il via libera al
piano. Intanto l’Eurogruppo, con una teleconferenza tra domani e giovedì, lancerà il
negoziato tecnico per la costruzione del pacchetto da chiudere appunto entro il 20 agosto
e solo allora arriverà il prestito ponte e la Bce potrà alzare il tetto della liquidità
d’emergenza alle banche congelato prima del referendum consentendo la riapertura degli
sportelli. Entro il 22 luglio Atene dovrà approvare il nuovo Codice di procedura civile e la
direttiva sul risanamento delle banche. Seguiranno riforma complessiva delle pensioni più
dura di quella concordata e liberalizzazioni con gli europei che si spingono nei dettagli fino
a imporre l’apertura dei negozi la domenica, il funzionamento dei saldi e l’apertura del
mercato per farmacie, panettieri e latte. Tsipras salva la contrattazione collettiva, ma sarà
scritta con la Troika. Arrivano licenziamenti collettivi, riforma del sistema di banche,
finanza e Pa che dovrà essere depoliticizzata. Altra umiliazione per Tsipras: dovrà
costituire un fondo da 50 miliardi da riempire con le privatizzazioni (deve ingoiare la
vendita di tutti gli asset alla quale aveva detto no). Magra consolazione: la sua sede sarà
in Grecia (sotto controllo Ue) e non nel Lussemburgo i suoi non andranno solo ad
estinzione del debito (25%) e ricapitalizzazione delle banche (50%), ma anche ad
investimenti per la crescita (25%). Nel fondo — e su questo si è litigato tanto —
entreranno anche le maggiori banche greche che saranno poi vendute all’estero.
Infine i greci devono subire il ritorno della Troika ad Atene, ritirare le leggi umanitarie o
compensarne gli effetti contabili. Esclusa la ristrutturazione del debito, cavallo di battaglia
di Syriza: al massimo sarà possibile spalmarne la restituzione nel tempo e a tassi più
bassi. Dal testo sparisce il richiamo al Grexit per cinque anni, che resta implicito se la
Grecia non rispetterà gli impegni.
Del 14/07/2015, pag. 1
Un timoniere nella burrasca
Norma Rangeri
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Nella notte più lunga e più nera dell’Unione europea, la giacca gliel’hanno lasciata, ma il
tentativo di Tsipras di mitigare la ricetta di lacrime e sangue si è scontrato con un muro.
Come era prevedibile, inevitabile. Al giovane leader greco è stata risparmiata solo
l’umiliazione di collocare il “fondo di garanzia” di 50 miliardi nel paradiso fiscale di Juncker,
il Lussemburgo. Il piccolo paese devastato dai cinque anni di austerità dovrà ancora sopportarne il peso, percorrendo una strada tutta in salita. La Grecia finisce sotto amministrazione controllata, soprattutto dalla Troika, che torna ad Atene con il compito di vagliare
ogni legge nazionale. Inoltre il nuovo memorandum prevede mano libera sui licenziamenti
collettivi. Non due rospi da ingoiare insieme agli altri punti dell’accordo, ma il ritorno allo
statuto di colonia tedesca. Con tutte le conseguenze facilmente immaginabili in un paese
destabilizzato, con le banche ancora chiuse e le destre nazionaliste in ebollizione.
Ma se è vero che la materia del contendere a Bruxelles non era di natura economica (una
questione che vale il 2% del Pil europeo), se la partita giocata fin dall’inizio è stata squisitamente politica — togliere di mezzo l’inaffidabile leader di Syriza e l’anomalia del suo
governo — allora se oggi Tsipras lasciasse il campo si realizzerebbe anche quest’ultimo
diktat di Bruxelles. Il presidente del consiglio greco, finché potrà, dovrà tenere il timone
ben fermo per tentare di guidare la sua nave in mezzo alla grande burrasca, e se
nell’accordo capestro c’è tuttavia il riconoscimento dell’insostenibilità del debito, e 35
miliardi di fondi europei per gli investimenti oltre a un prestito di 86 miliardi, non è garantito
che il timoniere riesca a raggiungere un porto sicuro. La minoranza interna, con i parlamentari e i ministri che la rappresentano, ha buone ragioni per non votare “l’atroce elenco”
(Der Spiegel) e a criticarlo è lo stesso ex ministro Varoufakis che rimprovera a Tsipras di
aver firmato l’accordo e di non aver messo sotto controllo la Banca centrale innescando
così il piano B. Ma chi garantisce che un gioco al rialzo avrebbe ottenuto risultati migliori?
E comunque c’è anche il rovescio della medaglia, e cioè la “follia vendicatrice” della Germania, come la chiama Paul Krugman, non è a costo zero. Il suo oltranzismo, fino alla
esplicita volontà di umiliare la vittima, ha impressionato molti ambienti tedeschi, oltre ad
aver messo in evidenza una frattura con la Francia. Per il futuro è in discussione lo strapotere della leadership germanica. L’Italia non ha certo giocato un ruolo da protagonista.
Renzi venerdì scorso pronosticava che il summit finale non sarebbe stato necessario perché l’accordo si sarebbe trovato facilmente. Comincia ora il secondo tempo del dramma
greco. Un paese che ha sconfessato i governi dell’austerità, un popolo che ha dimostrato
una grande dignità, i giovani che hanno dato fiducia alla sinistra mandandola al governo
devono affrontare una navigazione perigliosa. Senza voltare le spalle al loro leader, consapevoli dell’impossibilità di praticare la via della giustizia sociale in un solo paese.
Del 14/07/2015, pag. 2
Le incognite di Syriza
Atene. Tsipras alla resa dei conti interna: oltre ai 17 deputati contrari
all’intesa, altri 15, tra i quali due ministri, hanno spiegato in una lettera
di essere «contrari» a nuove misure restrittive
Pavlos Nerantzis
Con uno spirito misto di sollievo e disapprovazione, la maggioranza dei greci ha accolto
ieri la notizia dell’accordo con i creditori. «Le misure sono pesanti, ma abbiamo evitato il
Grexit» dice Yannis, ex dipendente pubblico, licenziato e ora impiegato in una cafeteria.
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«Tsipras ha combattuto per cinque mesi. Con le banche chiuse e un Grexit alle porte non
poteva ottenere un risultato migliore», dice Yorgos, taxista.
Non mancano le voci critiche nei confronti del governo e dei creditori: «Abbiamo sprecato
cinque mesi per avere un memorandum peggiore dei precedenti siglato da un governo di
sinistra», racconta Katerina, consulente fiscale. Per aggiungere che «gli europei volevano
la testa di Tsipras e l’hanno ottenuta». «La Germania per la terza volta negli ultimi
cent’anni ha cercato di distruggere l’Europa» dice Alessandro, laureato in storia. Tante tra
le persone incontrate non riescono a capire perché al referendum il premier greco si
è schierato a favore di un no alle proposte dei creditori e una settimana dopo ha detto sì
a misure che lui stesso aveva definito «umilianti».
Tutti, però, pur delusi hanno la sensazione di aver evitato il peggio. Quello che maggiormente preoccupa chi lavora nelle piccole e medie imprese è la riapertura delle banche,
mentre il tema del taglio del debito (nessuna ristrutturazione, ma una ricalendarizzazione
degli impegni finanziari di Atene) interessa poco. La gente, invece, vuole sapere di più
sulle clausole che riguardano l’abolizione delle leggi in disaccordo, secondo i creditori, con
quanto stabilito il 20 febbraio scorso. «Sarà chiusa di nuovo l’Ert» (la radiotelevisione pubblica) chiede Nikos, che un mese fa è stato riassunto. «Saranno privatizzati i porti e licenziati chi ci lavora» si domanda Michalis. Il tempo ancora una volta stringe e questa volta
non soltanto a causa della mancanza di liquidità.
L’Eurogruppo ha chiesto al parlamento di Atene l’approvazione — entro domani — delle
riforme concordate al summit dell’Ue, ma le incognite sono tante. Ieri pomeriggio il leader
di Anel, Panos Kammenos, ministro della difesa, dopo l’incontro con Alexis Tsipras ha
detto che il suo partito «non può sostenere l’intesa che non ha niente a che fare con quella
discussa durante il consiglio dei leader dei partiti» la settimana scorsa. Per questo motivo
si riunisce stamattina il gruppo parlamentare degli Anel. Kammenos e pure l’eurodeputato
di Syriza e simbolo della resistenza greca contro i nazisti, Manolis Glezos hanno definito
l’accordo «una vergogna» e «un colpo di stato», un’«umiliazione per tutta l’Europa». Difficoltà sono da registrarsi anche in Syriza. Oltre ai 17 deputati contrari all’intesa con i creditori, ce ne sono altri 15, in gran parte dell’opposizione interna, tra i quali due ministri (il
vice-ministro della difesa, Kostas Isichos e Nikos Chountis, vice-ministro degli esteri) che
hanno votato a favore del mandato a Tsipras, ma come hanno spiegato in una lettera resa
pubblica, sono «contrari» ad un nuovo pacchetto di misure restrittive. «La proposta (del
governo greco) –scrivono– è un altro programma di austeritá e non risolverà i tragici problemi economici e sociali del paese e provocherà un’ulteriore recessione. Il nostro sì alla
proposta di governo non deve essere interpretato come un sì all’ applicazione di una
nuova stangata». Lo scoglio del dissenso all’interno del governo potrebbe essere superato
con un mini-rimpasto. Se il ministro dell’Energia e dell’ambiente, Panayotis Lafazanis e il
ministro della Previdenza sociale Dimitris Stratoulis, ambedue di «Piattaforma di sinistra»
non si dimetteranno entro stamattina, è probabile che Tsipras li possa sostituire con dirigenti aderenti alla corrente di maggioranza del Syriza. Il vero problema sta nel gruppo parlamentare. Anche la presidente della camera, Zoi Konstantopoulou, che già si è scontrata
con Tsipras e alti dirigenti della sinistra radicale, appartiene alla «Piattaforma di sinistra».
Mentre scriviamo, secondo fonti governative, il premier greco sta discutendo con i suoi
stretti collaboratori, i ministri delle finanze, Euclid Tsakalotos, del territorio, Alekos Flabouraris e Nikos Pappas, degli interni, Nikos Voutsis, il portavoce, Gabriel Sakellaridis, il
segretario di Syriza, Tassos Koronakis e il rappresentante del gruppo parlamentare, Nikos
Filis, la sostituzione della presidente della camera con il vice-presidente, Alexis Mitropoulos. A parte questo, se un numero alto di parlamentari, oltre ai 30, provenienti da Syriza
e da Anel voterà contro, l’accordo sarà approvato con i voti dei conservatori, socialisti, ma
Tsipras avrà preso la maggioranza. In questo caso il ricorso alle urne sarà la soluzione
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quasi obbligata per il premier greco, anche perché finora si è opposto all’eventualità di un
governo che comprende forze politiche tradizionali del centro-sinistra o del centro. All’
eventualità di un ricorso anticipato alle urne sono contrari sia i creditori che la maggioranza dei greci.
Del 14/07/2015, pag. 3
EUROPA
Trattative Atene-Bruxelles: il «waterboarding»
mentale
L'accordo. Svuotamento di sovranità: ogni decisione dovrà essere
approvata dalla troika
«L’hanno crocifisso lì dentro». Tsipras ha dovuto subire «un massiccio waterboarding
mentale» – la tortura favorita dagli americani – nella maratona del Consiglio europeo terminato lunedi mattina. Così i funzionari presenti descrivono il clima del più lungo vertice
europeo della storia, finito con un documento terribile sulle condizioni che la Grecia deve
accettare per un nuovo programma di «aiuti». Ma per capire che cosa sta succedendo ci
sono tre livelli da considerare.
Il primo è il contenuto letterale dell’accordo. È una prova di sadismo economico e di colpo
di stato politico. La retorica è costruita per legare mani e piedi la Grecia al tavola della tortura: subito aumento dell’Iva, riforma delle pensioni, tagli di spesa automatici. Lo svuotamento di sovranità è esplicito: ogni decisione del governo di Atene dovrà essere prima
approvata dai proconsoli che la troika avrà in Grecia. E non mancano cadute nel ridicolo –
come il codice di procedura civile da introdurre in tre giorni e risolvere la crisi con
l’apertura dei negozi la domenica e la liberalizzazione di panetterie e latterie.
Ma il senso economico dell’accordo va letto al di là del tono. C’è la stretta dell’austerità,
che aggraverà la recessione del paese. Ci sono le liberalizzazioni del mercato del lavoro
e le privatizzazioni che dovranno portare 50 miliardi, da usare per risanare le banche greche, rimborsare il debito e nuovi investimenti; qui ci potranno forse essere margini di
manovra. Soprattutto, ci sono quattro cose che erano prima assenti dal tavolo delle trattative. La più urgente è il ritorno della liquidità nelle banche, che tuttavia resteranno chiuse
un’altra settimana per l’incapacità di Draghi di smarcarsi da Berlino. La seconda
è l’ammontare del finanziamento che verrà dal Meccanismo europeo di stabilità — tra 82
e 86 miliardi di euro — ben altra cosa rispetto alle briciole del passato.
La terza è il riconoscimento dell’insostenibilità del debito greco e l’apertura all’allugamento
delle scadenze e ad altre misure. La quarta, nell’ultimo paragrafo, sono i 35 miliardi di
fondi europei per investimenti per ricostruire l’economia. Quattro cose che permettono
all’economia greca di evitare il collasso.
Infine c’è il livello politico dell’accordo. Anche qui l’esito è più sfumato e denso di incertezze. C’è stata la sconfitta della linea dura del ministro delle finanze tedesco Schauble,
che voleva cacciare la Grecia dall’euro. Le sue dimissioni devono essere ora un obiettivo
di tutti quelli che hanno a cuore la sopravvivenza dell’Europa. C’è stata una crepa nei rapporti tra Berlino e Parigi. Dentro i socialdemocratici in Germania e nel Parlamento europeo
sono cresciute le richieste di apertura; perfino il timido Matteo Renzi ha detto – pare —
«quando è troppo è troppo» e ha beneficiato ieri della caduta degli spread sui Bot italiani.
C’è ora una caduta di credibilità della Germania e un forte sentimento anti-tedesco
nell’élite degli Usa e tra i commentatori moderati in Gran Bretagna.
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Crescono le critiche anche in Germania; Heiner Flassbeck , già sottosegretario alle
finanze a Berlino, ha scritto sul suo blog che «questo sarà ricordato come il giorno in cui
una politica tedesca miope e ostinata è stata imposta all’Europa, provocando una grande
resistenza tra la gente in Europa e nel mondo. D’ora in avanti l’Europa è solo una chimera,
una visione di cooperazione ed equità tra i popoli che è stata soffocata della politica restrittiva tedesca». Ad Atene l’accordo del Consiglio europeo fa pagare un prezzo altissimo per
la vittoria del «no» al referendum, rivelando in questo modo quanto la costruzione europea
sia ormai incompatibile con le pratiche di democrazia.
Crea una spaccatura dentro Syriza, mette a rischio il governo di Tsipras, che potrebbe far
approvare l’accordo da una maggioranza senza una parte del suo partito e col sostegno
dei centristi. Incombe il rischio di dimissioni o nuove elezioni, con i nazisti di Alba dorata in
agguato. Ma Tsipras, come ha già dimostrato col referendum, ha risorse inaspettate e ha
ancora due carte da giocare. La prima è che l’Europa ha bisogno di Tsipras per far passare l’accordo in parlamento, dove non c’è una maggioranza senza il grosso dei voti di
Syriza. Non ci sono le condizioni per un ritorno dei tecnocrati come in passato.
La seconda è che con l’accordo Tsipras ha guadagnato tempo, e aspetta la possibile vittoria di Podemos in Spagna che cambierebbe gli equilibri a Bruxelles. C’era un’altra possibilità per Tsipras? L’alternativa, raccontata da Yanis Varoufakis in un’intervista al New Statesman, sarebbe stato uno scontro più duro dopo che Draghi ha chiuso le banche greche:
annunciare l’emissione di liquidità nazionale in euro o in altre forme, il taglio del debito
detenuto dalla Bce, la ripresa del controllo sulla Banca di Grecia.
Una strada che il governo di Atene non si è sentito di percorrere. Ma che resta una possibilità quanto più insostenibile sarà la ricetta imposta ieri da Bruxelles. Nel frattempo, il
paese può ancora funzionare, nell’estate più calda della sua storia recente.
Del 14/07/2015, pag. 3
Licenziamenti e svendite, il cappio al collo di
Tsipras
Angelo Mastandrea
Quattro riforme, tra cui quella delle pensioni, da approvare entro domani, un piano di licenziamenti pubblici da varare in appena una settimana, la cancellazione delle leggi approvate nei cinque mesi di governo Tsipras (a partire dalla riapertura della tv di Stato Ert,
chiusa dal precedente premier Antonis Samaras). Ma soprattutto una cessione assoluta di
sovranità: ad Atene torna la troika, per ogni legge ci sarà un giudizio dell’Eurogruppo che
servirà per l’avanzamento dei negoziati e l’erogazione dei prestiti e il governo dovrà «consultarsi e accordarsi con le istituzioni europee su tutti i disegni di legge nelle aree sensibili,
con il giusto anticipo prima che queste vengano sottoposte all’attenzione pubblica o al
Parlamento». Il diktat europeo colpisce anche i referendum, che non saranno più possibili.
È questo il succo della capitolazione del governo greco sull’altare dell’austerità europea.
Basta leggere le sette pagine del documento per rendersi conto della portata della resa di
Alexis Tsipras e del suo ministro delle Finanze Euclide Tsakalotos e dell’umiliazione
inferta a tutto il popolo greco, che appena una settimana fa a grande maggioranza aveva
detto no a condizioni meno dure di queste. Le prescrizioni sono tutte di segno «recessivo», come ha dovuto ammettere lo stesso premier, ma quel che colpisce di più sono
i toni, durissimi, con i quali queste vengono imposte alla Grecia: solo per fare un esempio,
alla fine della lista di misure imposte viene sottolineato che questi «sono solo prerequisiti
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per cominciare i negoziati con le autorità greche». Ai limiti dell’impossibile anche i tempi di
attuazione: entro il 22 luglio va approvato un elenco di leggi che non basterebbe una legislatura per scriverle. Impressionante anche il piano di privatizzazioni: la vendita degli asset
per 50 miliardi di euro dovrà servire per metà a pagare il costo della ricapitalizzazione
delle banche elleniche, mentre i restanti 25 miliardi andranno in parte a pagare i debiti e in
parte potranno essere usati per investimenti.
Unica piccola concessione rispetto al documento serale dell’Eurogruppo, che il quotidiano
tedesco Der Spiegel aveva definito «un catalogo di crudeltà», è che la dismissione dei
beni pubblici sarà gestita ad Atene e non in Lussemburgo, come avrebbero voluto
a Bruxelles. In compenso, ci sarebbero i soldi (da 82 a 86 miliardi in tre anni, 7 per un
prestito-ponte immediato che servirebbe a pagare le scadenze del debito di luglio e altri
cinque entro agosto) del Meccanismo europeo di stabilità. Ma non c’è alcuna simmetria:
l’approvazione delle leggi imposte dalla troika non procede di pari passo con gli stanziamenti economici. Solo nella parte finale si fa riferimento, più politico che normativo, a ipotesi di rinegoziazione del debito, escludendo però un «haircut», e a possibili investimenti:
35 miliardi di fondi europei per il lavoro nei prossimi 3–5 anni. Il resto è un elenco dettagliato di tagli, aumenti di tasse e liberalizzazioni: il già previsto aumento dell’Iva al 23 per
cento, senza neppure l’esenzione di beni di prima necessità e medicinali come voleva
Syriza; la privatizzazione della compagnia elettrica; persino l’apertura domenicale dei
negozi e la regolamentazione dell’attività di farmacie e panetterie. Sparito invece, rispetto
alla bozza proposta dai greci, qualsiasi riferimento alle tasse sul lusso e agli armatori
(quello che Jean Claude Juncker aveva rimproverato proprio a Tsipras, ergendosi a paladino dell’eguaglianza). Ma la parte più indigeribile, per un governo di ultrasinistra come
quello di Syriza e in un paese con oltre il 27 per cento di disoccupati, è il via libera ai licenziamenti collettivi e l’abolizione della contrattazione collettiva, per non parlare della «depoliticizzazione della pubblica amministrazione». Che vuol dire ancora tagli al lavoro.
Del 14/07/2015, pag. 16
Iran, l’ultima maratona battaglia nella notte
per l’embargo sulle armi
Volata finale verso l’accordo sul nucleare ai negoziati di Vienna il nodo
delle sanzioni
DANIELE MASTROGIACOMO
VIENNA. Sono ancora le armi a tenere banco. Armi convenzionali e sistemi missilistici
antiaerei. L’Iran non è disposto a mollare su questo punto. Spalleggiato dai ministri degli
Esteri cinese, Wang Yi, e russo, Sergej Lavrov, giunti a Vienna domenica sera per
chiudere la lunga e sfibrante maratona sul nucleare del regime degli ayatollah,
Mohammad Javad Zarif chiede di rivedere il testo finale dell’accordo e punta il dito sul
capitolo della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che dovrà sancire la fine
dell’embargo. Il nodo sono i tempi che cancellano le sanzioni. Si è deciso di revocarle da
subito, con una progressione costante legata ai risultati delle ispezioni dell’Aiea. Zarif
pretende che siano totali.
Anche sul commercio bellico, bloccato dal 2003. Impossibile. Nell’accordo di base firmato
a Losanna il 2 aprile scorso si diceva che la nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza
dell’Onu, necessaria per revocare le sanzioni, imponeva «importanti restrizioni sulle armi
convenzionali e i missili balistici». Per Zarif si tratta di cose superate.
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La scadenza era fissata per la mezzanotte di questo lunedì 13, ma la corsa finale
continua. Tra colpi di scena e ritrattazioni: un tweet vittorioso di Rouhani, poi rimosso, e
l’annuncio di una conferenza stampa alle 2 di notte subito smentito. Bisogna trovare
l’ennesima formula e inserire il capitolo nel documento finale. Il resto è già stato
approvato: riduzione dell’arricchimento dell’uranio, smantellamento o riconversione delle
centrali, scongelamento dei fondi, scambi commerciali. Persino le ispezioni. Mancano le
armi. Su questo il Gruppo 5+1 è diviso. Dovranno essere sancite da una risoluzione
dell’Onu. Se non lo fossero, Russia e Cina faranno pesare il loro diritto di veto. Come
aprire il mercato bellico a un paese sospettato di voler costruire una bomba nucleare? I
sistemi di controllo esistono. Più che di una formula si tratta di un principio politico su cui si
fonda il negoziato: la fiducia. Se passa, Teheran incassa un risultato che frenerà le ostilità
dei conservatori del regime. Se viene annullato, Washington affronterà a testa alta l’esame
del Senato e potrà rassicurare gli alleati in Medio Oriente. La firma dell’accordo è ancora
rinviata. Ci si prepara a una nuova notte insonne di trattative. Chiudere è ormai un obbligo,
più che una volontà. Per cancellare l’incubo di un fallimento.
del 14/07/15, pag. 13
Ad Addis Abeba l’orgoglio dell’Africa
che vuole farsi guida dei Paesi poveri
In Etiopia la Conferenza Onu per riscrivere le regole sugli aiuti
Roberto Giovannini
Le conferenze organizzate dalle Nazioni Unite - quelle sul clima, come quelle
sull’ambiente o sullo sviluppo - sono esperienze a volte bizzarre. Ci sono i sofisticati
minuetti diplomatici, segnati dall’andirivieni delle delegazioni cariche di carte, bozze e
fascicoli. Ci sono decine di riunioni più o meno contemporanee, con sale misteriose da cui
entrano ed escono in continuazione politici, autorità, esperti, professori, giornalisti,
rappresentanti delle Ong e della «società civile». Qui ad Addis Abeba, nello storico
complesso delle Nazioni Unite costruito nei primi Anni 60 da un architetto italiano per
l’imperatore Hailè Selassiè, è iniziata ieri la Conferenza dell’Onu sul finanziamento della
cooperazione allo sviluppo. Un appuntamento che qualcuno ha definito (forse un po’
esagerando) la «Bretton Woods» della cooperazione internazionale.
Nuova agenda di sviluppo
Qui, e anche nei due prossimi incontri in sede Onu previsti nel 2015, verranno riscritte le
regole per gli aiuti internazionali ai Paesi più poveri, anche in vista dell nuova Agenda per
lo sviluppo. Regole che chiameranno in causa anche donatori e finanziatori privati, che
cercheranno di mettere in moto finanza innovativa, e soprattutto punteranno ad attivare
politiche nazionali di crescita e di reperimento di risorse locali. Quello che una volta si
chiamava Terzo Mondo è profondamente cambiato. La Addis Abeba di oggi - caotica,
piena di palazzi in costruzione, capitale di una nazione di 90 milioni di persone - sarebbe
assolutamente irriconoscibile per un suddito dell’Imperatore deposto nel 1974. In Etiopia e
in tanti altri Paesi c’è ancora tanta povertà e sofferenza, ma la carestia e le decine di
migliaia di morti degli Anni 80 sono per fortuna un lontano ricordo. Sono un relitto del
passato anche le vecchie politiche di aiuti: perché gli Stati donatori sono spesso in crisi di
bilancio, ma anche perché non servono più sacchi di riso, ma sviluppo sostenibile.
Servono soprattutto capacità e competenze degli Stati che ricevono gli aiuti, che devono
investirli in politiche pubbliche per combattere fame ed esclusione, favorire le famiglie
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contadine, a cominciare dalle donne, e spingere le imprese locali ed internazionali a
investire, per raccogliere entrate fiscali da reinvestire nella crescita.
Italia fanalino di coda
Tutto molto bello sulla carta, ma tutt’altro che facile da realizzare. I Paesi ricchi per
esempio non mantengono le loro promesse: invece di investire in sviluppo lo 0,7% del loro
Pil sono fermi allo 0,29%. In Europa facciamo un pochino meglio (lo 0,45% del Pil), ma
l’Italia è da molti anni tra i fanalini di coda. Spesso i Paesi più poveri e in condizioni più
fragili vengono dimenticati e considerati irrecuperabili; spesso la corruzione delle élite che
governano molte nazioni, insieme alla per certi versi comprensibile incapacità nel
raccogliere in modo efficiente le entrate fiscali, divora e vanifica aiuti anche molto cospicui.
Oggi ad Addis Abeba arriva anche il premier italiano Matteo Renzi, che dovrebbe
annunciare nuovi impegni del nostro Paese, con un coinvolgimento anche della Cassa
Depositi e Prestiti. Intanto le diplomazie lavorano ancora per mettere a punto il documento
finale della Conferenza. Che prevederà la nascita di un Forum Onu sulle infrastrutture, e la
creazione di un meccanismo di facilitazione dell’accesso alla tecnologia e all’innovazione.
Ma che potrebbe anche arenarsi sulle secche dei veti incrociati.
Del 14/07/2015, pag. 8
Italia ed Egitto: di realpolitik si può solo
morire
Diplomazia italiana. L’islamismo è un fattore che nasce e prospera per cause
profonde. Prima in Algeria e poi in Egitto la vittoria elettorale dei partiti islamici si è
rivelata un’illusione o un inganno. Puntuale è scattato il colpo di stato «riparatore»
con l’appoggio degli alleati. Una volta preclusa la via della politica, anche nella
forma classicheggiante delle elezioni, quali saranno le misure da adottare? La
guerra l’abbiamo vista e la vediamo. Altre soluzioni?
Siamo abituati agli strafalcioni dei nostri uomini politici sui fatti del mondo. È vero anche
per la politica interna ma qui si parla di politica estera. E questa volta non si può tacere.
Renzi e Gentiloni hanno fanno bene, benissimo, a piangere le vittime dell’attentato al
Cairo e a condannare l’atto di terrorismo. Nessuno li autorizza però a offendere la verità
storica, la logica e la credibilità dell’Italia. Renzi e Gentiloni, così, hanno fatto male, malissimo, a contrapporre alla strategia omicida dell’Isis o di chiunque abbia messo la bomba la
figura esemplare di Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente egiziano ha più di una responsabilità
in ciò che sta avvenendo in Egitto e l’appoggio che gli assicura il governo italiano con
parole osannanti finisce per coprire e persino condividere quelle responsabilità. Il colpo di
stato del luglio 2013, i massacri in piazza e le sentenze di morte sono passati in giudicato,
condonati, messi fra parentesi? Renzi non si è spinto oltre una pia esortazione a favore di
un po’ più di libertà di stampa.
Sisi ha lo stesso, identico profilo dei personaggi che nel 2011 furono i bersagli delle Primavere arabe. Anche Ben Ali e Mubarak, se non Gheddafi, che si accontentava del resto di
essere la Guida della rivoluzione libica e non un capo di stato, passavano per un voto alle
scadenze di legge. Ed è probabile che le elezioni che confermavano al potere Ben Ali
e Mubarak fossero più libere di quella che un anno fa ha incoronato al-Sisi.
Tutti i dirigenti occidentali ex-post (non si sa mai) condannarono i leader abbattuti dalle
dimostrazioni come «dittatori» (un termine che, vista l’origine semantica, andrebbe usato
in effetti con più precauzione). Dunque, anche al-Sisi è un dittatore. Il governo italiano
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deve dire al parlamento e all’opinione pubblica perché ha scelto come suo (nostro) principale alleato nel Medio Oriente un dittatore. Tutti immaginano ovviamente quale sarebbe la
risposta. «Oggi l’Egitto è un paese chiave dal punto di vista della sfida del fondamentalismo»: così il ministro Gentiloni su Repubblica domenica. E qui i nostri governanti dimenticano i mea culpa pronunciati con compunzione nel 2011 in tutte le capitali occidentali,
anche a Washington, per aver appoggiato per tanto tempo degli autocrati che si proponevano come baluardo contro l’islamismo. Si dovrebbe parlare di «vergogna» se non ci fosse
una vergogna senza colpa (leggere Kafka, Levinas e Agamben). Rimanendo nel campo
della politica, non è tanto difficile capire che se un governo in difficoltà giustifica i suoi crimini la necessità di stornare un pericolo (per sé e soprattutto per gli altri: la famosa «sicurezza»), farà di tutto perché quel pericolo al massimo venga contenuto ma mai eliminato.
L’Arabia Saudita insegna. Chi continuerebbe altrimenti a prestare aiuti, onori
e armamenti? Ad abundantiam, nel 2013 Abdel Fattah al-Sisi non era un ufficiale qualunque. Non assisteva impotente dalle retrovie alle eventuali malversazioni di Morsi e dei Fratelli. Era un membro autorevolissimo del governo e capo delle forze armate. In un certo
senso, se c’erano abusi o misfatti, ne era corresponsabile.
Comunque, aveva l’obbligo morale e gerarchico di esprimere il suo dissenso dimettendosi
così da aprire una crisi che investisse direttamente il presidente. Anche il ministro
dell’Interno, che si rivelerà un superfalco nel momento della repressione, lo avrebbe sicuramente imitato. Il governo si sarebbe trovato davanti alla necessità di una scelta. Magari
avrebbe sbagliato ancora. Ma sarebbe stata almeno l’ultima chance.
Sisi ha trovato più comodo violare la Costituzione appena varata, calpestare quel po’ di
democrazia che era stata ripristinata, dichiarare guerra alla Fratellanza musulmana uscita
vittoriosa dalle urne un anno prima e autoproclamarsi rais.
Una volta si sarebbe detto «con la benedizione» dell’America. Nell’immediato solo Israele
e Arabia Saudita furono veramente d’accordo. È fondato il dubbio che sul momento
Obama non abbia affatto gradito. Il suo ministro della Difesa, poi rimosso, parlò al telefono
per un’ora (la conversazione fu pubblicata sul New York Times) al fine di convincere le
autorità egiziane che avevano preso il potere a non usare la forza contro i dimostranti islamici. Ne seguì, invece, all’ombra delle moschee del Cairo, una Tian An Men moltiplicata
per dieci o per venti tenendo conto delle diverse dimensioni delle popolazioni di Cina ed
Egitto. Siccome Renzi, che come direbbe Antonio è un uomo d’onore, ha ripetuto anche in
questa triste occasione di essere impegnato a lottare contro il terrorismo, ha il dovere di
spiegare alla nazione come l’Italia, per quel poco o tanto che le compete, ritiene di venire
a capo di un problema che – anche senza sviscerarlo qui un’altra volta – ha tanti aspetti
che vanno al di là di al-Qaida, dello stato islamico e più in generale del fanatismo jihadista.
L’islamismo è un fattore che nasce e prospera per cause profonde. Prima in Algeria e poi
in Egitto la vittoria elettorale dei partiti islamici si è rivelata un’illusione o un inganno. Puntuale è scattato il colpo di stato «riparatore» con l’appoggio degli alleati. Una volta preclusa la via della politica, anche nella forma classicheggiante delle elezioni, quali saranno
le misure da adottare? La guerra l’abbiamo vista e la vediamo. Altre soluzioni?
Del 14/07/2015, pag. 8
LIBIA
Pronta la bozza di accordo, ma Tripoli non ci
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I negoziati tra le fazioni libiche hanno finalmente portato alla stesura di una bozza di
accordo, discusso a Skheirat (Marocco), con la mediazione del rappresentante delle
Nazioni unite, lo spagnolo Bernardino León. Lo scopo è aprire una fase di transizione
politica per mettere fine alla crisi in Libia. Questa intesa preliminare fa però acqua da tutte
le parti. Mesi di colloqui hanno definito un testo che non è stato firmato dai rappresentati
del Consiglio nazionale generale (Cng) di Tripoli. È come dire che si è arrivati ad una
bozza unilaterale che una volta di più riconosce univocamente il debolissimo parlamento di
Tobruk, vicino all'ex agente Cia Khalifa Haftar, e non tiene minimamente in conto le
richieste di Tripoli.
Lo stesso era avvenuto due mesi fa con l'assoluta opposizione del Cng: è come se le
istituzioni internazionali fossero sorde alle richieste che vengono dalla capitale libica ha
ben motivo per voler rappresentare l’unità territoriale del paese se non altro in relazione
alla fragilità della parte dell’esercito che appoggia Tobruk. Non solo, con l’aumento dei
flussi migratori, Tripoli sembrava aver guadagnato una certa credibilità internazionale in
riferimento al controverso piano per fermare i migranti prima della loro partenza dalla
Tripolitania. Nonostante le tensioni non si plachino, León ha cercato di smorzare gli animi
invitando il Cng di Tripoli, appoggiato dalle milizie Fajr (Alba), cartello di cui fanno parte i
combattenti di Misurata, a tornare a sedere al tavolo dei colloqui dopo la fine del Ramadan
e ricordando che nessun testo potrà mettere tutti d’accordo. Veniamo ai contenuti. Prima
di tutto, Tripoli vorrebbe la testa di Haftar che invece secondo la bozza resta il capo delle
Forze armate di Tobruk. Il testo dovrebbe definire un quadro generale per avviare una
fase di transizione di un anno in cui bisognerà prendere decisioni specifiche sul disarmo,
controllo degli aeroporti e stesura della Costituzione. In questa fase il parlamento
resterebbe a Tobruk (punto duramente contestato da Tripoli) mentre dovrebbe formarsi un
governo di unità nazionale. Il Cng aveva puntato i piedi citando la sentenza della Corte
suprema che ha di fatto sciolto la Camera creata in fretta e furia in Cirenaica. Arabia
Saudita (che appoggia Haftar), Qatar e Turchia (che sostengono Tobruk), insieme all’Ue,
hanno partecipato ai colloqui. Se mai un accordo lacunoso come questo dovesse anche
riavviare il confronto, gli Stati uniti sarebbero comunque già pronti a interventi mirati contro
lo Stato islamico in Libia. Lo ha rivelato il Wall Street Journal. Gli Usa avrebbero
individuato una base militare in Nord Africa per effettuare bombardamenti con droni in
Libia anche in seguito all'impegno preso dal presidente Barack Obama in un recente
discorso al Pentagono in cui ha promesso di rafforzare la guerra contro lo Stato islamico in
Nord Africa. In attesa di un’intesa che regga, la Libia resta terreno fertile per jihadisti di
ogni crisma. Lo sa bene la Tunisia che ha deciso di costruire un muro per separare il
confine orientale con il paese vicino. La barriera di 168 chilometri potrebbe essere
costruita entro sei mesi. Il primo ministro Habib Essid ha ammesso che si tratta dell'unica
soluzione possibile per fermare «l'infiltrazione di gruppi terroristici».
Del 14/07/2015, pag. 8
Colombia, Santos accetta la tregua
Conflitto armato. Importante passo verso un cessate il fuoco bilaterale
nei dialoghi all’Avana
Geraldina Colotti
All’Avana, dov’è in corso il tavolo di trattative tra il governo colombiano di Manuel Santos
e la guerriglia marxista delle Forze armate rivoluzionarie (Farc), per la prima volta si prospetta la possibilità di una tregua bilaterale fra le parti. Le Farc hanno annunciato la
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sospensione dei combattimenti per un mese, prorogabile a quattro, a partire dal 20 luglio.
E Santos, fino ad ora sempre contrario a sospendere i bombardamenti e gli omicidi mirati
dei guerriglieri, per la prima volta ha dichiarato che si adopererà per ridurre l’intensità delle
azioni militari. L’importanza del momento è stata definita da un comunicato congiunto dei
mediatori, che discutono dal 2012. Il capo dei negoziatori governativi, Humberto de la
Calle, ha detto che lo stato colombiano «prenderà le misure che riterrà opportune» per
ridurre il livello del conflitto, in funzione di quel che farà la guerriglia. Non ha tuttavia precisato di quali misure si tratterà, e ha anzi aggiunto che «non sarà un processo facile», tuttavia ha ribadito «l’impegno a lavorare per raggiungere un accordo». Per valutare il rispetto
della tregua al termine dei quattro mesi, si è chiesta la presenza di un delegato del segretario generale delle Nazioni unite e di un altro della presidenza di Unasur. Il blocco regionale, nella riunione tenuta dai ministri degli Esteri in questi giorni, in Brasile, ha ribadito la
propria disponibilità a facilitare il processo di pace, sostenuto da tutte le forze di sinistra in
Colombia. Sia i paesi garanti del percorso, sia le Nazioni unite, sia soprattutto i movimenti
e la sinistra di alternativa, chiedono da tempo un cessate il fuoco bilaterale. A Bogotà, il 22
e il 23 luglio, l’arco di forze che ha accettato di votare il neoliberista Santos a patto che
porti a buon fine la soluzione politica del cinquantennale conflitto armato, accompagnerà
i negoziati con una riunione ad ampio spettro che ruoterà soprattutto sulla fine del paramilitarismo, sempre presente in Colombia. Il grande sponsor dei paramilitari è stato ed è l’ex
presidente Alvaro Uribe, ora inveterato avversario del suo ex ministro della Difesa Santos.
Da una recente analisi sul conflitto in Colombia, risulta che, su 1.000 processi per la restituzione delle terre ai piccoli contadini, nell’81% dei casi i paramilitari sono coinvolti nella
spoliazione delle terre e nelle violenze. I gruppi paramilitari hanno provocato il 38,4% delle
oltre 6.000 vittime censite dall’84 al 2013. Recenti processi hanno anche ricordato il ruolo
degli alti comandi nei cosiddetti falsi positivi, l’uccisione di civili o manifestanti fatti passare
per guerriglieri per giustificare il fiume di denaro accordato dagli Usa alle politiche
repressive. Finora, l’agenda dei dialoghi ha realizzato importanti accordi parziali sul tema
di una riforma agraria integrale, sulla partecipazione politica in sicurezza per l’opposizione,
sulle droghe illecite, su un programma comune di sminamento, che si è già messo in marcia, e sulla creazione di una Commissione di verità per il cui modello sono allo studio
alcuni precedenti applicati in America latina alla fine delle dittature. Su quest’ultimo punto
le associazioni delle vittime si sono recate all’Avana. Per le Farc e per la sinistra di alternativa che scommette su quest’occasione, perché le trattative non finiscano in un nulla di
fatto o, com’è già accaduto in passato, nel massacro dei militanti che optano per la lotta
istituzionale, occorre rimuovere alla radice le cause del conflitto: che ha origini antiche
e che si alimenta con le persistenti disuguaglianze. Il primo problema che ha portato alla
nascita delle due principali guerriglie — quella marxista delle Farc e quella guevarista
dell’Esercito di liberazione nazionale (Eln) — attiene alla lotta per la terra, iniziata negli
anni ’20 del secolo scorso. Il secondo riguarda l’esclusione politica, la chiusura di veri
spazi di agibilità per l’opposizione, che rimanda all’assassinio del dirigente progressista
Eliecer Gaitan, il 9 aprile del 1948. Un omicidio che diede avvio a un’esplosione popolare,
repressa nel sangue — il Bogotazo. Intanto, intellettuali e giornalisti di tutto il mondo
hanno firmato un appello per la liberazione di Sergio Segura, corrispondente di Colombia
informa, arrestato insieme ad altre 14 persone. Secondo la Fundacion para la libertad de
prensa (Flip), nel 2014 sono stati oltre 164 i giornalisti vittime di persecuzione e violazione
dei diritti umani da parte dei paramilitari, e quest’anno le denunce sono già 84. «Non
vogliamo la pace del sepolcro», hanno gridato in questi giorni attivisti, studenti e difensori
dei diritti umani durante una manifestazione per chiedere la libertà di 12 leader sociali,
accusati di aver compiuto attentati.
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INTERNI
del 14/07/15, pag. 16
Senato, la nuova maggioranza (variabile)
Si arriva potenzialmente a quota 179 se si considerano i possibili
fuoriusciti di area FI e gli ultimi due ex M5S I numeri però dipendono dai
provvedimenti. Distanze sulle unioni civili. Avanti sulla Rai, critiche di
Anzaldi
ROMA L’ultimo conteggio segnala una maggioranza variabile al Senato, capace di
gonfiarsi a seconda del provvedimento trattato, che si assesterebbe alla quota di sicurezza
di 179 voti (la maggioranza è di 161) grazie agli inserimenti di 11 neo responsabili guidati
da Denis Verdini (FI), con la sua «Azione liberale», e da due ex grillini.
Eppure, al di là dei numeri del Senato, a provocare più di una preoccupazione alla
maggioranza ora c’è anche la riforma della Rai che, almeno sulla carta, può contare sui
voti dei partiti di governo e su quelli di Forza Italia: in teoria, con il provedimento approvato
in Commissione in un clima di sostanziale accordo tra Pd e FI, il testo sulla nuova
governance di Viale Mazzini non avrebbe ostacoli parlamentari da affrontare. Tant’è che
già giovedì (se la capigruppo di oggi darà il via) il ddl Rai arriverà in aula al Senato per
transitare subito dopo alla Camera.
Ma nelle ultime ore alcuni renziani si sono messi in moto per fare le pulci al testo votato in
Commissione al Senato dove i veterani Paolo Romani e Maurizio Gasparri di FI non si
sono fatti sfuggire una sola virgola. Il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, conferma
che il testo presto andrà in Aula e che le modifiche ci saranno ma non produrranno
stravolgimenti. Anche uno dei relatori, il socialista Enrico Buemi, dice che l’impianto regge
anche se bisognerà rivedere le incompatibilità dei consiglieri di amministrazione. E anche
il sottosegretario Antonello Giacomelli lascia intendere che la strada ormai è tracciata.
Eppure il deputato renziano Michele Anzaldi, membro della commissione di Vigilanza,
segnala che tutto l’impianto andrebbe rivisto: «Si immaginava una Rai con meno politica
dentro, qui invece ci si lega le mani con maggioranze rigide per eleggere il presidente.
Speriamo che al Senato ci ripensino». Paradossalmente, dunque, il Pd rischia di
complicarsi la vita anche quando non ci sono problemi di numeri.
Ma dietro l’angolo ci sono altre prove in cui i numeri contano, eccome. Però «Azione
liberale», il gruppo di 11 soccorritori del governo di Verdini, potrà tamponare solo in parte
l’«emorragia» minacciata dai 25 ribelli della minoranza del Pd sulla riforma costituzionale.
E poi gli 11 verdiniani nostalgici del Nazareno non potranno sostituire il Nuovo
centrodestra-Ap (36 seggi a Palazzo Madama) nel caso si andasse alla resa dei conti sulle
unioni civili che Angelino Alfano giudica come la peste: per questo, nel patto di
maggioranza, ci sarebbe un rinvio sine die delle unioni civili. Così ieri, un vertice per
tentare di far ripartire le unioni civili tra Giorgio Tonini (Pd) e Renato Schifani (Ncd) è
saltato all’ultimo momento.
Eppure, nonostante le difficili prove per il governo, l’apporto dei verdiniani è considerato
ossigeno puro nella maggioranza. Ma ora il passaggio delicato è quello, «senza l’incubo
dei numeri», della Rai: maggioranza sicura ma tensioni nel Pd (e in casa Rai) con l’ombra
di un «inciucio» con Forza Italia. E stavolta minoranza dem e «gufi» vari non c’entrano.
Dino Martirano
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del 14/07/15, pag. 7
Renzi chiude il caso greco niente dibattito
alle Camere
Il centrodestra offre un tavolo di coesione in politica estera Sollievo del
Quirinale: “L’Europa conserva la sua identità”
Ugo Magri
I vecchi saggi della Repubblica sono tutti, chi più chi meno, sollevati dall’intesa con la
Grecia. Temevano che andasse in pezzi l’Europa (con «fall-out» radioattivo sull’Italia),
invece l’Unione rimane intera e già questo nei tempi attuali è considerato motivo di
soddisfazione. A Mattarella, per iniziare dall’alto, non pare poco che l’Unione sia riuscita a
conservare intatta la propria identità, salvaguardando «la comune prospettiva da rischiosi
snaturamenti». Guai se fosse stata espulsa la Grecia, osservano al Quirinale. Totalmente
d’accordo Napolitano: l’importante era salvare il salvabile, cioè «l’essenziale». E chissene
importa di Tsipras, liquida l’eresia greca il professor Monti: «È stato disinvolto, un
giocatore di poker, e ha perso». Tra i padri della moneta unica decisamente scettiche
risuonano le parole di Prodi, lui rispetto agli altri vede soprattutto il bicchiere mezzo vuoto,
«si è evitato il peggio ma non il male» che consiste nella Grecia «umiliata». Però,
nell’insieme, ai vertici delle istituzioni Renzi non è dispiaciuto, si è dato da fare per
l’accordo, magari in qualche passaggio poteva farsi notare di più però quello che conta è il
risultato finale, per cui bene così.
Sfuma il dibattito
Sembrava nei giorni scorsi che le opposizioni reclamassero un confronto in Parlamento,
con tanto di mozioni da mettere ai voti. E che il governo fosse pronto a raccogliere la sfida.
Ma dev’essersi trattato di un’illusione ottica, perché al momento non risultano informative
sulla Grecia. Né pare che Renzi sia orientato a farne. E d’altra parte, nessuno lo incalza
più di tanto. Sicuramente non la sinistra Pd, che si rende conto della sconfitta patita da
Tsipras. Per quanto Fassina e la De Petris di Sel gli facciano giungere la loro solidarietà,
sarà d’ora in avanti difficile riproporre in Italia il premier greco come un modello vincente
da seguire. Accusa il colpo la «brigata Kalimera» di quanti corsero ad Atene per il
referendum, idem Cinque stelle e Lega. Grillo attacca l’Eurogruppo, presentato via tweet
come una banda di terroristi il cui motto è «colpirne uno per educarne diciannove».
Identico il giudizio suo a quello di Calderoli: si è trattato di un golpe ai danni del popolo
greco. Ma è trasparente che tanto lui quanto Salvini avevano sperato in un atto di
ribellione. Contavano su un esito che dimostrasse (con i greci come cavie) la praticabilità
dell’uscita dall’euro. Discuterne in Parlamento ora preme meno.
Berlusconi si smarca
Dall’ex premier, ieri in visita con Sgarbi all’Expo, nemmeno una polemica sulla Grecia. Il
Cav se ne astiene perché da un lato condivide le critiche del capogruppo Brunetta alla
Germania, e segnatamente al suo «surplus commerciale killer»; dall’altro lato però
Berlusconi vuole offrire a Renzi qualche collaborazione in politica estera: quel Tavolo di
coesione nazionale suggerito dal solito Brunetta che, a quanto risulta, potrebbe essere
presto messo in cantiere. Con l’apprezzamento del Colle più alto che, nei momenti di crisi,
gradirebbe vedere un Paese unito.
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del 14/07/15, pag. 15
Scissionisti, transfughi e rifondatori
I verdiniani ultimi di mille nuovi partiti
Civati lancia la Cosa Rossa, Rotondi la Rivoluzione Cristiana E a destra
ventiquattro sigle cercano di far rivivere An
Mattia Feltri
Quando a fine mese verrà fondato, Azione liberale o Azione liberale per le autonomie,
comunque si chiamerà, sarà più o meno (una contabilità precisa è impossibile) il
trentesimo partito nato nella XVII legislatura. Azione liberale o Azione liberale per le
autonomie, comunque si chiamerà, sarà il partito dei verdiniani - da Denis Verdini - scisso
dalla nuova Forza Italia, già Popolo della libertà, a sua volta scaturito dalla fusione fra la
vecchia Forza Italia e Alleanza nazionale (a proposito: ex di An assieme a dirigenti di altre
ventiquattro sigle di destra che ci rifiutiamo di elencare si sono appena riuniti per rifondare
la vecchia An, purché sia una nuova An). Lo ha annunciato, si intende la nascita di Azione
liberale o Azione liberale per le autonomie, il senatore Vincenzo D’Anna che però, a
differenza di Verdini, non viene da Forza Italia ma da Grandi autonomie e libertà, gruppo
parlamentare che raccoglie ex dipietristi, ex socialisti, ex verdi, ma anche rimarchevoli
leader di movimenti come Grande Sud e Vittime della giustizia e del fisco. Già che siamo
nella feconda area di centrodestra, segnaliamo volentieri la recentissima inaugurazione di
Movimento Rivoluzione Cristiana, il nuovo partito dell’ex democristiano (ma anche ex Ppi,
ex Cdu, ex Udc, ex Dc per le Autonomie, ex FI, ex Pdl) Gianfranco Rotondi, che intende
dare domicilio ai cattolici della Terza repubblica.
Se questo vorticare di sigle vi ha dato alla testa, fermatevi perché non siamo nemmeno
all’inizio: il centrodestra ha appena festeggiato la venuta alla luce di Conservatori e
Riformisti, in ispirazione ai Tory inglesi, fin qui noti come i fittiani (cioè i seguaci di Raffaele
Fitto), intanto che Flavio Tosi, sindaco di Verona ed ex leghista, cerca il nome del suo
partito sottoponendo la scelta a una consultazione on line: si è votato fra Italia del fare,
Popolo del fare, Movimento del fare, Faro per l’Italia, Faro per il Paese, Libertà del Fare,
Fari del popolo e tanti altri ancora che non possiamo riportare per assoluta mancanza di
spazio: ci si accontenterà di conoscere i tre finalisti: Italia del fare, Popolo e del fare e
Fare! In realtà c’è fermento anche in Scelta civica, dove il segretario Enrico Zanetti è stato
incaricato di trovare un nuovo simbolo e un nuovo nome al movimento che fu di Mario
Monti e che ha avuto una vita tribolatissima: si cominciò con la fuoriuscita della
componente popolare che faceva capo a Mario Mauro e che si unì con l’Udc a formare Per
l’Italia; da lì in poi la trama è un garbuglio, Lorenzo Dellai ha fondato Democrazia solidale,
altri si sono uniti al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano in Area popolare, un senatore
ligure è promotore di Liguria civica, il resto è andato un po’ qui e un po’ là.
A questo punto non si deve pensare che a sinistra stiano con le mani in mano. Già tutti
sanno di Possibile, la formazione di Pippo Civati esule del Pd, e di Coalizione sociale, che
secondo i propositi del padre, il sindacalista Maurizio Landini, non è un partito né un
movimento ma una specie di mobilitazione permanente (sempre che abbiamo ben
compreso). Possibile e Coalizione sociale a ottobre confluiranno, ma non è detto, in una
Cosa Rossa, una specie di federazione di partiti alla sinistra del Pd di Matteo Renzi,
promossa da Sinistra e libertà di Nichi Vendola e a cui guarda con interesse Stefano
Fassina, che dal Pd se ne è andato ma ancora non ha messo in piedi il suo partito. E così,
per tornare all’inizio, perché pare una gran confusione ma alla fine tutto torna in un cerchio
perfetto, Azione liberale o Azione liberale per le autonomia, comunque si chiamerà, viene
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messa in piedi proprio per dare una mano al premier ora che perde uomini a sinistra.
Rimangono però dei drammatici interrogativi: che cosa faranno quelli di Alternativa libera,
il gruppo dei secessionisti del Movimento cinque stelle? E quelli di Gap, gruppo azione
partecipazione popolare, altri e minoritari secessionisti ex grillini? E quelli di Italia lavori in
corso, ulteriormente minoritari secessionisti...
Del 14/07/2015, pag. 15
Aumento di pena per i furti, il ritorno delle
carceri piene
Giustizia. La schizofrenia del governo bipartisan. Caro ministro Andrea
Orlando, e allora che li facciamo a fare, questi Stati generali
dell’esecuzione penale?
Stefano Anastasia e Luigi Manconi
È stata dura. E tuttavia, nei tempi richiesti dalla sentenza Torreggiani della Corte europea
dei diritti umani, il sistema penitenziario italiano è tornato (quasi) in equilibrio. È stato questo il risultato dell’azione congiunta degli ultimi due ministri della Giustizia, del Parlamento,
della Corte costituzionale e degli stessi operatori del sistema penale. E indubitabilmente
decisivo è stato il ruolo del presidente emerito Giorgio Napolitano, dei Radicali Marco Pannella e Rita Bernardini, dell’associazionismo e di alcune rare e intrepide testate quale questa su cui scriviamo. Ma i risultati conseguiti e l’approvazione ricevuta dal Consiglio
d’Europa lo scorso anno sono appesi a un filo, sempre pronto a spezzarsi quando le pressioni di quel populismo penale che aveva prodotto il sovraffollamento penitenziario dovessero tornare a prevalere. La leadership leghista sulla destra all’opposizione ne è la condizione ideale: e non a caso negli ultimi mesi l’abbiamo vista tornare alla carica contro
i migranti, i rom e ogni altro fantasma dell’insicurezza collettiva. Nonostante qualche cedimento alle suggestioni della penalizzazione simbolica, finora governo e parlamento hanno
tenuto in qualche modo, evitando di riaprire i cordoni della incarcerazione di massa e mantenendo il sistema in quel precario equilibrio di cui si è detto. E giustamente il Ministro
Andrea Orlando ha messo in moto una procedura pubblica e partecipata di discussione sul
futuro del nostro sistema penale e penitenziario che va sotto il nome di Stati generali:
sanata la vergogna della condanna europea per violazione strutturale del divieto di trattamenti inumani o degradanti, come vogliamo che sia il sistema dell’esecuzione penale?
Ancora carcerocentrico? Con quali diritti per le persone private della libertà? Con quali
prospettive di reinserimento sociale dei condannati? Domande fondamentali che alludono
a modelli diversi di sicurezza: una sicurezza fondata sull’esclusione della marginalità
sociale o, all’opposto, una sicurezza fondata sull’integrazione sociale e la tutela universalistica dei diritti?
Non sembri velleitaria l’alternativa: in fondo la sentenza Torreggiani e la giurisprudenza
umanitaria che si è affermata negli ultimi anni in molti Paesi occidentali hanno dichiarato il
fallimento del modello di sicurezza propugnato dal salvinismo, che riproduce stancamente
quello che prima di lui hanno detto e fatto i suoi predecessori locali, da Bossi a Fini, da
Giovanardi a Maroni. Un modello dai costi economici e sociali altissimi, incompatibile con
la garanzia di standard minimi di rispetto dei diritti umani, insostenibile in regime di spending review. Ma ecco che, in questo accaldato e soporifero stato di sospensione, un fulmine a ciel sereno si abbatte lì, a pochi centimetri dal nostro naso e dalle nostre aspettative. Fermi in mezzo al guado, intenti a orientare la bussola sull’altra riva, veniamo colti
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a bruciapelo dalla notizia di una nuova emergenza, annunciata dallo stesso governo per
bocca del vice-ministro alla giustizia, Enrico Costa. Il quale propone di alzare i minimi di
pena per i reati di furto in abitazione, furto con strappo e rapina. La motivazione dichiarata
è quella di «riallineare l’attuale sistema sanzionatorio alla gravità dei fatti», quella implicita
– evidente nella modifica dei minimi di pena — è di evitare che i condannati per questi
reati possano godere di alternative al carcere. Infine, la motivazione politica è di competere con Salvini sul suo stesso terreno elettorale (dove, fin troppo facile prevederlo, è lui
che vincerà). Ma qui non siamo nel campo del diritto penale simbolico: furti, scippi e rapine
sono i reati con cui si riempiono le galere e se l’intento del governo è che tutti, ma proprio
tutti gli autori di questi reati, anche i ladri di polli, debbano andare in galera, il rischio è che
le incarcerazioni tornino ad aumentare e, con esse, il sovraffollamento. E, allora, che li facciamo a fare, questi Stati generali dell’esecuzione penale?
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 14/07/15, pag. 13
Scontro tra le toghe antimafia sul poliziotto
ucciso nell’89
Delitto Agostino, il Pg Scarpinato avoca le indagini adombrando inerzie
di Del Bene e Di Matteo
di Sandra Rizza
E ora si profila uno scontro in punta di diritto tra il procuratore generale di Palermo Roberto
Scarpinato, che ha avocato l’indagine sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino (ucciso il 5
agosto dell’89 con la moglie Ida Castelluccio), e il procuratore Francesco Lo Voi che ha
già annunciato ricorso al Pg della Cassazione. Il capo dell’ufficio inquirente definisce
“illegittimo” il provvedimento con il quale Scarpinato, adombrando inerzia investigativa dei
pm assegnatari, ha chiesto la consegna del fascicolo “al fine di compiere tutte le
investigazioni utili” su un caso avvolto nel mistero che potrebbe essere collegato
all’attentato sventato all’Addaura, davanti alla villa di Giovanni Falcone, proprio nell’estate
’89.
Su questo Scarpinato è tranciante: “Non risulta essere stato attivato – scrive – un
sufficiente coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta”. Nessun commento
dai sostituti Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, gli stessi del pool Stato-mafia che alla
fine del 2013 avevano chiesto l’archiviazione del fascicolo su Agostino: ma nei corridoi di
Palazzo di Giustizia si sussurra che i due non l’abbiano presa affatto bene. E adesso,
anche se dalla Procura generale fanno sapere che non ci sono rilievi diretti ai colleghi pm,
l’avocazione minaccia di sparigliare gli equilibri interni agli uffici giudiziari di Palermo.
C’è di buono che si torna a scavare, con un’accelerazione, sulla fine del poliziotto
inghiottito a Palermo nella zona di confine tra mafia e servizi segreti. Agostino, come
aveva confidato ad un collega, era stato sguinzagliato per le borgate a caccia di latitanti.
Ma la confidenza venne ignorata da Arnaldo La Barbera, all’epoca capo della Mobile, che
dopo l’omicidio imboccò un’improbabile pista passionale. Sul duplice delitto, per 26 anni
senza colpevoli, il pentito Vito Lo Forte tempo fa fece i nomi di due esecutori: i mafiosi
Nino Madonia e Gaetano Scotto, quest’ultimo vicino ad ambienti dei servizi. Ma non era
bastato a Di Matteo e Del Bene che avevano chiesto la chiusura del fascicolo per loro e
per l’agente di polizia Guido Paolilli, accusato per il depistaggio delle indagini e prescritto.
Un mese fa, la prima svolta. Respingendo la richiesta di archiviazione, il gip Maria Pino
aveva ordinato nuovi approfondimenti, con l’indicazione di interrogare Vito Galatolo, il
pentito che Lo Forte tira in ballo come autore di ulteriori confidenze sulla morte di
Agostino. Ora, a sorpresa, l’iniziativa di Scarpinato minaccia di incrinare i rapporti con i pm
che condividono le sue stesse tesi accusatorie: il Pg ha affidato l’indagine ai magistrati
Umberto De Giglio e Nico Gozzo, con il quale in passato aveva già seguito il caso. “Ora
speriamo – dice Flora Agostino, sorella dell’ucciso – che si faccia chiarezza”.
Nel decreto di avocazione, Scarpinato riprende gli spunti suggeriti dal gip, a partire dalla
necessità di approfondire il collegamento con il tritolo dell’Addaura. Il Pg sottolinea che
“non risultano indagini per riscontrare le relazioni, indicate da Lo Forte, tra Scotto e i
servizi”. Che si ritiene necessario verificare il legame “tra il boss Madonia e La Barbera”
prima del ’92. E che su La Barbera “non risultano acquisite le dichiarazioni rese dall’ex
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prefetto Luigi De Sena”, tra l’85 e il ’92 al Sisde: si tratta di una deposizione sui rapporti tra
l’ex capo della Mobile e i servizi che i pm nisseni definirono “lacunosa”. Risultò poi che La
Barbera era uno 007 del Sisde con il nome di “Rutilius”.
del 14/07/15, pag. 13
Gela, il libro bianco che imbarazza Crocetta
Un funzionario accusa: Opere inutili, presunti conflitti d’interesse e il
grande affare dei rifiuti
di Giuseppe Lo Bianco
Alle sirene dei crocettiani sull’impianto fotovoltaico “più grande d’Europa” (costo, 300
milioni di euro) avevano creduto tanti agricoltori gelesi, pronti a cedere i loro terreni alla
cooperativa Agroverde in cambio di un’indennità. E le imprese gelesi si sono sobbarcate
qualche milione di euro di lavori in attesa dei finanziamenti raccolti dalla società svizzera
anonima Radio Marelli: in fondo, hanno pensato, era la stessa che Crocetta aveva
proposto per salvare la Fiat di Termini Imerese. Ma i soldi non sono mai arrivati, né gli 80
milioni del Cipe, né quelli dei privati, né quelli promessi agli agricoltori: in quest’ultimo caso
la fideiussione contratta da Agroverde con la As Merchant Bank di Spoleto prevedeva un
singolare “atto di coobbligazione”, e cioè la finanziaria era a sua volta garantita dalla
cooperativa.
Giochi di prestigio di “un’Armata Brancaleone capeggiata dal Presidente della Regione,
Crocetta, coadiuvato dal sindaco Angelo Fasulo”, scrive l’ingegner Roberto Sciascia, che
si definisce membro del “Fronte di liberazione dei nani da giardino”, nel libro bianco su
Gela, che per la prima volta ha eletto un sindaco a Cinque Stelle, Domenico Messinese. E
il libro bianco del funzionario comunale, che ha vissuto dall’interno i “maneggi”, come li
definisce, dei fedelissimi del governatore, è un elenco “nero” di abusi, incompiute e truffe.
A partire dalla “sistemazione del pontile sbarcatoio” per gli aliscafi da e per Malta, dove in
oltre due anni non è attraccato neanche un gommone.
Per proseguire con la piscina olimpionica interrata sull’arenile, totalmente abusiva,
realizzata con l’avallo del Comune, “il tutto condito, a quanto pare – scrive Sciascia – da
intercettazioni telefoniche che, disposte per altra indagine, inchioderebbero l’ex sindaco
Crocetta e l’allora dirigente tecnico del Comune di Gela, ingegner Renato Mauro”. Che per
Mauro, secondo Sciascia un “business man”, si chiamano conflitto di interessi: nominato
dirigente generale nel 2001 “quando la Regione aveva abolito la carica”, è presidente del
Cda della società proprietaria di un immobile trasformato abusivamente in Residenza
sanitaria assistita e la sua famiglia è maggiore azionista attraverso la Monesys, vicenda
per la quale è finito sotto inchiesta. A denunciare il conflitto avrebbe dovuto essere lo
stesso Mauro, nominato dal sindaco Fasulo “responsabile anti corruzione”.
Sarebbe stato utile per verificare se siano state pagate mazzette per il “regalo” a
McDonald’s di un terreno trasformato da agricolo in edificabile, “al canone irrisorio di poco
più di 12 mila euro l’anno, a fronte dell’esborso, da parte del Comune, di ben 200 mila
euro, per un anno di affitto di un altro terreno (molto meno appetibile ma più esteso)” per il
mercato settimanale.
Briciole a confronto dello smaltimento rifiuti. Gela puntava a realizzare un impianto a
biomasse, approvato dalla Regione nel febbraio 2012. Ma la richiesta di finanziamenti
arriva solo nel 2013, quando, sull’onda dell’emergenza, la Sicilia ottiene “qualche centinaio
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di milioni di euro” dall’Ue. A quel punto, scrive Sciascia, Crocetta “si precipita a Gela con
qualche tecnico dell’Assessorato regionale all’Industria, acquisisce copia del progetto
esecutivo dell’impianto di biostabilizzazione già approvato nel 2012, che qualche idiota
consegna all’ingegnere Ciro Azzara, del Dipartimento Rifiuti, il quale scopiazza la
relazione e, per il resto si inventano un nuovo progetto del costo di circa 25 milioni di euro,
contro i nemmeno 5 del progetto esecutivo già approvato nel 2012: 20 milioni di euro di
‘panna montata’ indifendibile”.
del 14/07/15, pag. 14
Italia, primo nido della corruzione
La pubblica amministrazione collabora poco e male con l’antiriciclaggio
di Nunzia Penelope
Il paradosso è che mentre settori non proprio cristallini come quello dei giochi iniziano a
collaborare con l’autorità antiriciclaggio, la Pubblica amministrazione resta sorda a ogni
richiamo. La denuncia arriva dal rapporto annuale dell’Uif di Bankitalia, presentato ieri a
Roma: “Gli uffici della Pubblica amministrazione, particolarmente esposti all’incidenza
della corruzione nei settori degli appalti e dei finanziamenti pubblici, mostrano scarsa
sensibilità per l’antiriciclaggio, malgrado da sempre siano compresi tra i soggetti obbligati
alla segnalazione. Questo ne accresce la vulnerabilità”. Claudio Clemente, direttore
dell’Uif sceglie con cura le parole: “La corruzione rappresenta una minaccia estremamente
preoccupante: le vicende recenti dimostrano come sia diventata il mezzo attraverso cui
forme evolute di criminalità si infiltrano nell’apparato pubblico e ne condizionano le scelte,
ampliando la penetrazione nel tessuto economico e sociale, anche in contesti diversi da
quelli tradizionali”.
Riferimento abbastanza evidente a Mafia Capitale; e del resto, in platea siede Paolo Ielo,
uno dei Pm dell’inchiesta, assieme ad altri colleghi (Francesco Greco, Fabio Di Vizio) e al
direttorio di Bankitalia, compreso il governatore Ignazio Visco. Il riciclaggio costituisce
un’unica filiera con corruzione, evasione e crimine organizzato, dando vita a “un
inestricabile intreccio tra denaro sporco da ripulire e fondi puliti destinati a impieghi illeciti’’.
Spiega Clemente che, proprio grazie alla corruzione, “la criminalità ha sempre meno
bisogno di ricorrere alla violenza e all’intimidazione, ma mira a infiltrarsi nelle istituzioni e a
minarle dall’interno. Un’azione integrata fra i presidi anticorruzione e antiriciclaggio è
indispensabile”.
Per ora l’Uif può contare su una buona collaborazione con l’Anac, con molte procure, con
la Dia (in particolare su Expo) e anche con l’Agenzia delle Entrate. Ma il corpaccione
dell’apparato statale risponde poco e male: “Finora la Pubblica amministrazione non ha
dimostrato di aver consapevolezza del proprio ruolo’’, osserva l’Uif. Per contro, aumentano
le segnalazioni provenienti dalle assicurazioni, e stanno iniziando a inviare dati perfino
società del settore giochi e scommesse.
Scarsissima, se pur in aumento, resta la collaborazione dei professionisti: delle 71.758
segnalazioni di operazioni sospette arrivate nel 2014 (7.000 in più del 2013), l’82% da
banche e Poste, il 12,8% da intermediari finanziari, e meno del 5% da notai e operatori
non finanziari: “un cono d’ombra’’, li definisce il rapporto. Avverte Clemente: l’epoca del
“pecunia non olet’’ è finita, oggi “s’impone una scelta di campo, abbandonando
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agnosticismi e disponibilità alla connivenza’’. Diversamente, “ogni strategia di contrasto
alla criminalità è destinata a fallire”.
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WELFARE E SOCIETA’
Del 14/07/2015, pag. 1-21
Lo studio.
L’allarme dei medici: in Inghilterra un bimbo di neanche dieci anni ne ha
già passato uno davanti al monitor. Gli esperti italiani ai genitori: tocca
a voi inventarvi attività e giochi per staccarli dagli schermi
Ogni giorno otto ore al tablet “Per i piccoli è
una droga”
ELENA DUSI
CARA, vecchia Tv. La baby sitter di una generazione è stata (quasi) mandata in soffitta da
un esercito di agguerriti smartphone e tablet. Ai genitori i telecomandi per spegnere tutto
ormai non bastano più, anche perché i nuovi strumenti sono ben custoditi nelle tasche e
nelle camere dei ragazzi, anziché nel salotto di casa.
Un bambino di 7 anni in Gran Bretagna ne ha già trascorso uno a tu per tu con uno
schermo. Un bambino americano di 8 anni passa 8 ore al giorno con i media elettronici.
Un ragazzo tra i 13 e i 17 anni negli Usa spedisce 3.364 sms al mese, di cui 34 al giorno
dopo aver spento la luce la sera. In Italia l’81 per cento dei tredicenni si collega a internet
tutti i giorni. Per il 12% accedere a un social network è la prima attività dopo il risveglio e
per il 35 per cento l’ultima prima del sonno. Secondo gli ultimi dati della Società italiana di
pediatria, il rapporto tra adolescenti e internet è sempre più privato - il 71% dei tredicenni
si collega alla rete con il proprio telefonino - e lontano dal controllo dei genitori. Il 46%
degli adolescenti passa da 1 a 3 ore al giorno sul web e il 26% supera le 3 ore. Per 6
giovani su 10 internet è «irrinunciabile » e quasi uno su 4 senza i suoi amici virtuali «si
sente solo». Ma l’uso di Whatsapp (il social network prediletto per l’81% dei ragazzi) e
Facebook (tre adolescenti su quattro hanno un profilo) rende gli utenti raggiungibili giorno
e notte, trasformando il calcolo delle ore di connessione in un’operazione senza senso.
«La migrazione dal computer al telefonino - spiega Giovanni Corsello, presidente della
Società italiana di pediatria - impedisce ai genitori di rendersi conto del tempo trascorso
dai figli sui social network. E agevola l’abuso notturno, rubando ore preziose al sonno dei
ragazzi». Negli Stati Uniti, secondo una ricerca del 2010 della Kaiser Family Foundation
citata dal New York Times , i genitori hanno ormai abdicato al loro ruolo di controllo: due
su tre non impongono neanche una regola sull’uso di tablet, tv, telefonini e videogiochi. E
la passione per gli schermi luminosi va a colonizzare fasce d’età sempre più precoci. Ad
aprile di quest’anno una ricerca dell’ospedale di Philadelphia Einstein Healthcare Network
ha trovato che il 36% dei bambini inizia a maneggiare un telefonino o un tablet ancor
prima di aver compiuto un anno. Se l’attaccamento eccessivo all’elettronica è diventato
un’epidemia mondiale o quasi, c’è un Paese che ha deciso di affrontarla con i muscoli. La
Cina ha classificato la dipendenza da internet come una malattia e per curarla ha aperto
centri di riabilitazione dove nessuno spiraglio è lasciato alla libertà di smanettare su
schermi e tastiere. Al programma militaresco imposto a tre adolescenti “internati” per tre
mesi nella Internet addiction clinic di Pechino è dedicato il documentario shock Web
Junkie . «Un po’ di ironia - è al contrario la ricetta suggerita dallo psicoterapeuta Fulvio
Scaparro - per far sì che i ragazzi si rendano conto da soli di quanto la realtà sia più vasta
di uno schermo». Ai genitori Scaparro consiglia di offrire alternative altrettanto accattivanti
della realtà virtuale. «Non è un caso che nei periodi di vacanza l’uso di internet crolli. Per i
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bambini arriva finalmente il momento di correre, giocare e azzuffarsi. La vita si impara
vivendo, ma in casa e in città spesso ci sono poche attività da offrire. I genitori hanno il
compito di trovare delle alternative più affascinanti di telefonini e videogiochi».
Da Redattore Sociale del 14/07/15
Opg di Montelupo, 58 internati fanno ricorso
per sequestro di persona
Istanze presentate dai detenuti insieme all’associazione L’altro diritto e
al garante dei detenuti Corleone al magistrato di sorveglianza affinché
si pronunci sull’illegittimità della detenzione dei pazienti oltre il 31
marzo del 2015
FIRENZE – L’internamento negli Opg oltre il 31 marzo 2015 è illegittima. E’ quanto dicono
58 detenuti dell’Opg di Montelupo nell'ambito del convegno "La chiusura degli Opg alla
prova dei cento giorni" in corso a Firenze. I reclusi hanno presentato istanza, insieme al
garante dei detenuti toscano Franco Corleone e all’associazione L’altro diritto, alla
magistratura di sorveglianza affinché si pronunci su “una gravissima violazione dell’articolo
13 della Costituzione che garantisce la libertà personale dei cittadini”.
E’ proprio l’associazione L’altro diritto che sta investendo della questione la magistratura di
sorveglianza fiorentina, a seguito delle richieste di numerose internati dell’Opg di
Montelupo Fiorentino, che denunciano l’illegittimità della propria detenzione. Oggi
l’associazione sta aiutando gli internati a scrivere le istanze al fine di ricorrere al giudice
per far valere la violazione dei loro diritti a seguito di inosservanza di norme da parte
dell’amministrazione penitenziaria. Il garante Corleone ritiene che continuare a trattenere
gli internati negli Opg potrebbe configurare un’ipotesi di sequestro di persona e chiede che
la magistratura si esprima in tempi brevi e la Regione Toscana, relativamente all’Opg di
Montelupo, fornisca risposte coerenti e metta fine a questa “gravissima situazione”. (js)
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INFORMAZIONE
del 14/07/15, pag. 14
Senato. Più larga la delega uscita dalla commissione
Rai, riforma a 360° per la legge Gasparri
ROMA
La delega al Governo per modificare il Testo unico sui servizi media audiovisivi, legge
Gasparri compresa, non è stata ridimensionata ma semmai ampliata in sede di
approvazione del Ddl sulla governance Rai da parte della commissione Lavori pubblici e
comunicazioni del Senato. Leggendo il testo non mancano altre novità, come la procedura
accelerata per la nomina del Cda Rai in sede di prima applicazione.
Il Governo è tenuto a emanare, entro un anno dall’approvazione della legge, un decreto
legislativo per riordinare e semplificare le norme esistenti «anche ai fini del loro
adeguamento tenuto conto dell’evoluzione tecnologica e di mercato, senza nuovi o
maggiori oneri per la finanza pubblica». Dal 2004, anno di approvazione delle legge
Gasparri, l’evoluzione tecnologica è stata impetuosa, basti pensare al passaggio al digitale
della tv, compiuto nel 2012 e all’avvento della tv via Internet. La delega non dovrà
comprendere, invece, l’evoluzione del servizio pubblico con riguardo alle nuove tecnologie
e dovrà invece prevedere la trasmissione di contenuti destinati ai minori, la diffusione del
servizio pubblico su tutto il territorio nazionale (materia più da concessione e da contratto
di servizio, ndr) e la diffusione di trasmissioni in lingua nella provincia autonoma di Trento,
in Valle d’Aosta e in Friuli.
Se il Governo non vorrà conformare il decreto al parere delle commissioni parlamentari,
potrà trasmettere nuovamente il testo alle Camere per un nuovo parere entro trenta giorni,
trascorsi i quali il decreto potrà essere adottato in via definitiva.
Altre novità: il contratto di servizio si rinnova ogni cinque anni, e non più ogni tre, «nel
quadro della concessione che riconosce alla Rai il ruolo di gestore del servizio pubblico
radiotelevisivo nazionale». Un rinnovo ante litteram rispetto al maggio 2016, o quasi, forse
per tranquillizzare la Rai. Nella delega per la revisione del finanziamento pubblico alla
stessa concessionaria, infatti, si aggiunge anche una nuova disciplina del finanziamento
dell’emittenza locale «per la funzione di pubblico interesse svolta». Non si dice se questo
finanziamento dovrà essere coperto o meno dall’importo del canone o da altri fondi, com’è
più probabile, anche perché in ogni caso andrà «garantita l’indipendenza economica e
finanziaria dell’azienda» come ha aggiunto la commissione. I consiglieri di
amministrazione oltre che di riconosciuto prestigio e competenza dovranno essere di
«riconosciuta onorabilità» e la nomina dovrà assicurare la presenza di genere e un
adeguato equilibrio tra le professionalità prescelte.
I componenti di Camera e Senato dovranno essere nominati tra chi presenterà la propria
candidatura nell’ambito di una selezione che si avvierà con un avviso sui siti di Camera e
Senato. Qui c’è una sorpresa: in fase di prima applicazione la nomina di tutti i consiglieri di
amministrazione deve concludersi entro un mese dall’entrata in vigore della legge.
L’avviso sui siti di Camera e Senato deve avvenire entro sette giorni dalla stessa data e le
relative candidature presentate entro quindici giorni prima della nomina. La procedura di
voto del rappresentante dei dipendenti Rai dovrà essere emanata dal Cda uscente entro
sette giorni dall’entrata in vigore della legge e la candidature, anche in questo caso,
essere presentate quindici giorni prima della nomina. Dalla seconda applicazione in poi, i
tempi si allungano: non si vuole andare oltre con la proroga automatica dell’attuale vertice.
Marco Mele
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Del 14/07/2015, pag. 14
Rai, il governo accelera subito la riforma sarà
legge entro agosto
A settembre la nomina del nuovo Cda a sette Due donne in corsa per il
vertice:Grieco e Soldi
TOMMASO CIRIACO
ROMA . Una riforma blindata, un obiettivo ambizioso: il via libera definitivo alla nuova
governance della Rai in tre settimane, entro il cinque agosto. Il governo punta ad
archiviare la legge Gasparri prima della pausa estiva, scommettendo tutte le fiches sul
testo uscito dalla commissione del Senato. Fare in fretta, questo è l’input di chi gestisce il
dossier per Palazzo Chigi. Non è detto che ci riesca, visto l’ingorgo parlamentare e le
resistenze interne al Pd. Poprio per sminare un percorso già in salita, i vertici dem hanno
fissato per giovedì un’assemblea dei deputati. Uno sfogatoio preventivo, tutto dedicato a
Viale Mazzini. Superata la strettoia, si intravede la discesa. Sulla carta, il timing per
riformare la televisione pubblica sfida l’ottimismo. Ma d’altra parte il consiglio
d’amministrazione — ormai scaduto — è da settimane in prorogatio e ogni rinvio suona
come una beffa. Secondo la tabella di marcia studiata dal sottosegretario alle
Comunicazioni Antonello Giacomelli, allora, il ddl approvato dalla commissione Trasporti di
Palazzo Madama approderà in Aula la prossima settimana. Un rapido esame, poi la palla
passa alla Camera, dove si spera di chiudere la partita entro il 5 agosto. Bruciando sul
tempo la pausa estiva. «Possiamo farcela — giura il capogruppo dem a Montecitorio
Ettore Rosato — E questa riforma è una rivoluzione, perché finalmente l’amministratore
delegato non avrà più le mani legate».
Se il rush dovesse portare buoni frutti, il prossimo consiglio di viale Mazzini verrebbe eletto
a settembre secondo le nuove regole stabilite dalla riforma. La figura del nuovo
amministratore delegato, che sostituisce quella del direttore generale, sarà scelta dal
governo e nominata dal cda. L’idea di Matteo Renzi è che debba essere una donna. Tra i
nomi in pole ci sono Marinella Soldi, amministratrice delegata di Discovery Italia e general
manager di Discovery Networks Europe Sud Europa, e il presidente dell’Enel Maria
Patrizia Grieco. Non è detto che tutto fili liscio. «Il Pd deve affrontare parecchi problemi al
proprio interno», sostiene Maurizio Gasparri. Tra i democratici, in effetti, c’è chi non ha
digerito la “svolta”. Uno è Michele Anzaldi, che boccia le modifiche concordate con Forza
Italia e denuncia il nuovo testo uscito dalla commissione. «Sinceramente non mi piace —
sostiene il segretario dem in Vigilanza — E lo sa perché? Volevamo ridurre il potere della
politica sulla Rai, invece così si favorisce la lottizzazione. Mi sembra tafazzismo. A questo
punto, per paradosso, è quasi meglio la legge Gasparri. Vediamo cosa dirà Renzi quando
si renderà conto di cosa è diventata questa riforma».
È proprio a Montecitorio che cova il malcontento verso le novità. E se la responsabile
Cultura in segreteria dem Lorenza Bonaccorsi si mantiene cauta — «ho letto i contenuti
sui giornali, voglio capire bene e per adesso preferisco non commentare » — Anzaldi non
ha dubbi: «Lo sa che la riforma prevede una commissione per il controllo e la sicurezza
che ha voce — fra l’altro — sull’attuazione da parte dell’azienda delle linee e degli indirizzi
programmatici? Un Minculpop affidato al presidente e a due consiglieri che, di fatto, può
bloccare l’azione dell’amministratore». Proprio per diluire le critiche e compattare il gruppo
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parlamentare, Giacomelli e il capogruppo in Vigilanza Vinicio Peluffo hanno messo in
agenda per giovedì il summit con i deputati. Sperando che basti.
Mentre il Pd è alle prese con la partita interna, Forza Italia attende alla finestra. Per gli
azzurri il potere del consiglio d’amministrazione andrebbe rafforzato, a scapito
dell’amministratore delegato. «L’ad — spiega Gasparri — dovrebbe sottostare al parere
vincolante del cda per le nomine dei direttori. Per adesso funziona così solo di fronte al
pronunciamento dei 2/3 del consiglio». Non che il governo sia intenzionato a ulteriori
concessioni su questo fronte, in realtà: «E infatti al momento il nostro voto è contrario —
sostiene l’ex ministro delle Comunicazioni — Poi però si vedrà in Aula».
A ben guardare, esiste solo un’alternativa: «Se la riforma dovesse arenarsi — ammette
Gasparri — il nuovo cda verrebbe eletto con la mia legge. Sto in una botte di ferro,
insomma...». A dire il vero, per superare l’impasse l’esecutivo potrebbe percorrere anche
un’altra strada, quella del decreto. Un’idea però già bocciata pubblicamente dal premier.
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CULTURA E SPETTACOLO
del 14/07/15, pag. 16
Suono dunque campo (ma solo dal vivo…)
Record per rassegne estive e festival. Una sorpresa? No
di Luca Raimondo
Suono dunque sono. Provate a chiedere a chi ha meno di 25 anni quanti cd possieda, o
l’ultima volta che ha sentito l’album intero del suo artista preferito. Probabilmente vi
guarderà come se foste arrivati direttamente dall’età della pietra.
La rivoluzione digitale ha di fatto ucciso il mercato discografico, riducendo le vendite a
numeri impensabili venti o anche solo dieci anni fa. Quando gli U2 hanno deciso di
regalare il loro ultimo album a chiunque avesse un account iTunes, non hanno fatto
un’operazione benefica, hanno soltanto anticipato quello che sarebbe avvenuto da lì a
poche settimane: il download illegale del disco da parte di milioni di persone. Tanto i soldi
veri si fanno altrove. Sul palco.
Il live è diventata la fonte primaria di guadagno per quasi tutti gli artisti. Guadagni colossali
per le star, buoni per gli artisti di media grandezza, l’unico modo per tirare la carretta per i
più piccoli. L’alternativa non esiste, come dimostra il proliferare di concerti, festival e
rassegne che si svolgono in tutto il mondo, Italia compresa. Ormai quello è il vero
business, il supporto fonografico (per usare un termine del secolo scorso), ormai è ridotto
a gadget.
E se si legalizza la marijuana, allora perché non legalizzare il bootleg? La registrazione
clandestina dei concerti che ossessionava i fan fino agli Anni 90. Poi iniziarono i Pearl Jam
a vendere loro stessi i live grezzi sul sito della band. Abitudine presa anche da Bruce
Springsteen. Ma l’idea della Usb cotta e mangiata subito dopo lo show è l’ultima frontiera
della disperata guerra per far comprare al pubblico qualcosa che contenga musica: “Mark
Knopfler dopo il concerto vende la penna Usb dello show”, racconta Mimmo D’Alessandro
di D’Alessandro & Galli, uno dei più importanti organizzatori di concerti in Italia, patron del
Lucca Summer Festival. “Lo spettacolo ti ha emozionato? Ti porti via l’audio, per celebrare
il ricordo”. Gli Africa Unite arrivano a regalare l’album a chi va ai loro concerti.
D’altra parte, se si riuniscono anche Al bano e Romina Power, significa che il gioco vale la
candela. Scherzi a parte, Mimmo D’Alessandro non ha dubbi: “La musica dal vivo, a livello
medio-alto, non conosce crisi. Il pubblico non sembra avere problemi a spendere centinaia
di euro per Robbie Williams o Elton John, quei biglietti sono andati a ruba, ma succede
anche che pochi euro siano troppi persino per un gruppo eccezionale, ma poco noto da
noi, come i Los Lobos”. Il Lucca Summer Festival, è giunto alla diciottesima edizione ed è
in continua crescita. Quest’anno, spiega D’Alessandro, ha battuto tutti i record di vendita.
Non la pensa molto diversamente il direttore artistico della Cavea dell’Auditorium Parco
della Musica di Roma, Flavio Severini: “Record di fatturato quest’anno”, anche grazie alla
decisione, che ha fatto storcere il naso a qualcuno, di ospitare artisti come i vincitori di
Sanremo, Il Volo, o i trionfatori di Amici, The Kolors: “Ma quest’anno, le date sono 41,
contro le 26 dell’anno scorso – si difende Severini – è giusto che l’organizzatore sappia
dare uno spaccato di tutto quello che offre il mercato”. Ma non c’è inflazione, troppa
concorrenza? A Roma le scorse settimane ci sono stati in contemporanea concerti di Noel
Gallagher e Paul Weller, Jovanotti ed Elton John. Presto si sfideranno Ben Harper e i
Subsonica, i Verdena contro gli Spandau Ballet. “Nessun problema, pubblici diversi”,
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afferma Severini. “È probabile che tra Noel Gallagher e Paul Weller qualcuno abbia dovuto
fare una scelta. Come è possibile che Francesco Renga sia stato penalizzato dalla
seconda data allo Stadio Olimpico di Tiziano Ferro”.
Ma se tutti ridono, chi piange? I medio piccoli a quanto pare. Forse, ma anche no, spiega
Eric Bagnarelli di Comcerto, che non solo porta artisti in rassegne maggiori, ma si occupa
di alcuni dei principali festival “indie-rock” in circolazione, Spilla ad Ancona, il Vasto Siren,
Sexto ‘Nplugged a Sesto al Reghena: “In Italia non ci sono festival paragonabili a
Glastonbury, eventi che ormai muovono economie importanti, anche per l’indotto sul
territorio. I nostri numeri sono ancora piccoli, ma le rassegne sono geograficamente ben
distribuite. C’è un mercato e un interesse crescente, ma si parla comunque di una nicchia.
Ma fa business? O comincia a farlo? “Con tutte le cautele del caso” secondo Bagnarelli:
“Ogni festival è una macchina delicatissima basata su mille equilibri e le economie vanno
avanti per miracolo. A volte basta un’estate climaticamente sfortunata come quella
dell’anno scorso per far saltare dei concerti e anche i conti. La cosa positiva è che ad
organizzarli sono sempre più piccole imprese e meno apparati istituzionali. Non è più
possibile che nel 2015 ci siano manifestazioni che dipendono da contributi pubblici. Poi c’è
il nostro territorio: siamo carenti su molte cose, ma di sicuro possiamo offrire luoghi storici
incomparabili nei quali svolgere i concerti, come Ferrara Sotto le Stelle, che mantiene da
anni un livello molto alto”.
“È un Medioevo vivo”, dice Mimmo D’Alessandro, riferendosi alla cornice che ospita i
concerti a Lucca, che non a caso raccoglie il 68% di presenze straniere. Un’opinione
probabilmente condivisa da Bob Dylan, che ha molto apprezzato la cornice delle Terme di
Caracalla. A proposito del vecchio Bob: è un dato di fatto che i dinosauri del rock siano
quelli che attraggono di più, anche un pubblico giovane. Ma le nuove leve? Esiste un
ricambio generazionale? “Il rischio in prospettiva è che si perda la qualità”, sostiene
D’Alessandro”. “Se i dischi si fanno con il computer, dal vivo chi suona? Sulla distanza non
possiamo certo affidarci ai fuoriusciti dai talent”.
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