L`arte cinematografica nasce alla Mostra di

Transcript

L`arte cinematografica nasce alla Mostra di
Dintorni
cinema
L’arte cinematografica nasce
alla Mostra di Venezia
Gian Piero Brunetta tratteggia luci e ombre
della storica rassegna
G
ian Piero Brunetta, grande esperto del cinema italiano (e
non solo), in una lunga e articolata intervista ci regala una
riflessione storico-critica sulla Mostra del Cinema di Venezia, giunta in questi giorni alla sua LXIV edizione.
«La decisione presa nei primi anni trenta di aggiungere alla Biennale Arte anche una sezione dedicata al cinema ha
vari meriti e varie funzioni, tra cui prima di tutto quella di
sancire, con la creazione di questo nuovo settore, l’artisticità del cinema, che è rimarcata nel titolo “Mostra d’Arte
Cinematografica”. Il cinema fino a quel periodo non aveva
goduto di quest’aura artistica, e questo è il primo atto in cui
fa un salto
di livello,
entra uffic i a l mente nel territorio delle arti. Siamo in un
momento
in cui è imp or t a nt e
per il fascismo, che
attraversa
una nuova
fase, avere
una visibilità internazionale.
La Biennale concorre anMichelangelo Antonioni
riceve il Leone dì’oro per Deserto Rosso, 1964
che a questo, e sin
dalla prima edizione arrivano alla Mostra film da moltissimi paesi stranieri
che la rendono – almeno fino a che nel ’38 non ci sarà l’alleanza con la Germania – una vera e propria vetrina del cinema mondiale: a Venezia giungono i film dell’Unione Sovietica, quelli americani, pellicole con i grandi divi e opere più sperimentali. E arriva tra l’altro anche Estasy di Gustav Machaty, che crea un piccolo scandalo perché vi appare nuda Hedy Lamarr.
La Mostra di Venezia, creata nel ’32, è la prima mostra del
cinema del mondo: questo è un elemento che va riconosciuto e di cui essere orgogliosi. Cannes nasce parecchi anni dopo, nel 1946, e prende forza proprio dall’interruzione – dal ’42 al ’45, quando viene istituito il festival di Roma
al Teatro Quirino, dove viene presentato Roma città aperta –
della manifestazione veneziana. All’inizio non c’è una ve-
62
ra concorrenza Cannes/Venezia: il festival lagunare gode
di una magia e di una rinomanza che si porta dietro grazie
a questa tradizione decennale, e al fatto di essere riconosciuto come punto d’incontro mondiale e come luogo abbastanza neutro, almeno fino al 1937. Durante la guerra invece diventa una manifestazione militarizzata, che ha perso il suo carattere internazionale per farsi vetrina del cinema dei paesi che aderiscono all’Asse. Tra le tante cose importanti va sottolineato il fatto che a Venezia venivano presentati anche i film italiani, per pochi che fossero, perché le
produzioni in grande stile iniziano dopo il ’37 con la nascita di Cinecittà. Però cineasti nostrani come Mario Came-
Luchino Visconti
e Federico Fellini, 1967
rini e Alessandro Blasetti arrivano in laguna con le proprie
opere. E per proteggere la cinematografia italiana da un
certo momento in poi si istituisce la Coppa Mussolini, che
però come è logico viene assegnata sempre a film in odore di propaganda.
È interessante anche vedere l’evoluzione del pubblico: nei
primi anni è composto esclusivamente da spettatori privilegiati, nobili ed esponenti dell’alta borghesia, che possono
vedere i film all’Excelsior, dove al principio si organizzavano le proiezioni. Poi molto rapidamente si costruisce la prima sede del festival, che sarà riadattata nei primi anni cinquanta, allargandola e modernizzandola. E anche il pubblico si espanderà enormemente.
Con il ‘46 inizia la storia della Mostra nel Dopoguerra. In
quell’occasione viene presentato Paisà di Roberto Rosselli-
Dintorni
cinema
ni, che suscita molti malumori, perché la gente e la critica,
sia di destra che di sinistra, lo percepisce come un’opera un
po’ sgangherata. Ben poche voci esaltano il capolavoro. E
questa è un’altra delle cose che vanno sottolineate parlando
del festival veneziano: la critica deve avere la velocità del
centometrista nel giudicare i film, non c’è tempo per riflettere. E allora il film non viene mai metabolizzato del tutto,
per cui, dal punto di vista dello storico, la manifestazione è
importante più per gli errori e le cantonate dei critici che
per le singole intuizioni, anche se di intuizioni ce ne sono
state tante, trattandosi di una generazione di critici di primo livello, che ha lasciato tracce importanti. Però è molto
divertente analizzare i giudizi negativi, vedere come per
esempio i film della Nouvelle Vague o degli stessi Fellini e
Antonioni non vengano percepiti come opere che cambiano le coordinate del cinema mondiale. Bisogna d’altro canto sempre tenere presente che sono molti i fattori che condizionano il giudizio. Non ultime le questioni politiche,
con la tensione dovuta alla guerra fredda, che caratterizzerà la situazione del festival fino a buona parte degli anni settanta, e comunque fino alla gestione di Luigi Chiarini
(1963-1968). Prima del suo arrivo, tra l’altro, la selezione
nere conto di nessuno degli interessi consolidati (rappresentati dagli albergatori, dalle forze politiche, da quelle religiose ecc.). Per lui prima di tutto viene il cinema, e grazie
a lui in quegli anni – oltre a bellissime retrospettive che fanno scoprire capitoli dimenticati, che vanno dall’Espressionismo tedesco al western – si conosce il nuovo cinema, da
Rosi a Pasolini, da Pontecorvo a Buñuel, a Godard, a Carmelo Bene... E la cinematografia italiana gode di una visibilità notevole, sia nelle sue voci nuove – come Ermanno
Olmi o appunto Pasolini e più in generale la generazione
che si affaccia con forza agli inizi degli anni sessanta – sia
nelle voci più consolidate, a cominciare da Visconti, che nel
’65 finalmente vince il Leone d’Oro con Vaghe stelle dell’Orsa, un film tutto sommato minore rispetto ad altri con cui
aveva concorso, come Senso o Rocco e i suoi fratelli. Nemmeno
il ’68 travolge del tutto Chiarini, perché il lavoro che ha avviato è già diventato un processo irreversibile. In seguito ci
sono stati altri importanti direttori, come Gian Luigi Rondi, Giacomo Gambetti e Carlo Lizzani, che cercarono di
innovare e trasformare la Biennale. Rondi per esempio tentò di riportare al Lido il grande cinema, la sua anima più
spettacolare. Quest’attenzione verso le grandi produzioni
Claudia Cardinale, Alain Delon, Renato Salvatori e Annie Girardot,
per Rocco e i suoi fratelli, 1960
non veniva effettuata da una commissione di esperti italiani, ma, un po’ come accadeva con la Biennale Arte, erano i
paesi stessi che mandavano un loro film a rappresentarli. È
Chiarini che rimescola le regole del gioco. Nel frattempo
però, sin dalla fine degli anni cinquanta, Venezia comincia
a essere un posto inadeguato rispetto alla crescita e al mutamento dei pubblici, pur rimanendo ancora un luogo centrale per il cinema di tutto il mondo, anche perché affiancava al festival maggiore altre sezioni, come la rassegna di
film per ragazzi, uno spazio dedicato ai documentari, un
settore riservato a tutti i libri di cinema che vengono pubblicati e così via. Quindi è ancora una fucina di ricerca ed
esplorazione di ciò che avviene nel mondo, possiede ancora questa funzione specifica. Nei cinque anni della gestione Chiarini cambiano tantissime cose, lui procede senza te-
Anna Magnani per
Mamma Roma, 1962
industriali è un atteggiamento da sempre sgradito negli ambienti della Mostra, nei quali il pensiero dominante – come
dimostrano anche le improvvide dichiarazioni dell’attuale
sindaco – è che «i festival concorrenti accolgono il cinema
commerciale, e noi invece ci occupiamo del film d’arte»: invece questo è sempre stato un punto di debolezza. Per uno
sviluppo sano della Mostra sarebbe stato necessario che
tutto il cinema fosse rappresentato, che si potesse vedere –
come è avvenuto in momenti felici come durante la direzione Lizzani – Indiana Jones e insieme Wim Wenders. Che
cioè si respirassero tutte le atmosfere del cinema: la ricerca
sperimentale nel linguaggio e nell’apertura a nuovi temi, la
scoperta delle cinematografie emergenti, ma anche le nuove frontiere che si aprivano nel cinema commerciale. Il non
aver coltivato questo aspetto, da parte di alcuni diretto-
63
Dintorni
cinema
ri, e avere al contrario enfatizzato il dna artistico come elemento privilegiato, ha reso nella lunga gittata più debole la
Mostra. I festival poi si sono moltiplicati, la concorrenza è
diventata feroce, per cui questa sensazione di essere ancora la stella polare del cinema mondiale rimaneva solo nei
veneziani, mentre invece la Mostra diventava sempre più
un fatto topologico, che si svolgeva entro un chilometro
quadrato, con un’assenza di partecipazione del resto del Lido e della città che alle volte stringeva il cuore, nonostante
la bellezza e l’importanza di certi programmi. Dagli anni
ottanta in poi, quando è apparso chiaro che quegli spazi
erano del tutto inadeguati a sostenere una manifestazione
che voleva avere ancora il ruolo di leader e di punto di riferimento internazionale, invece di cambiare direzione si è
proseguito a lungo proiettando
film o intere retroPubblico in Sala Grande, anni sessanta
spettive in orrende salette di fortuna all’Excelsior,
pagate cifre folli e
con apparecchiature vetuste e inadatte. Questo dava il senso di una
decadenza irreversibile. Inoltre il fatto che il Lido, anche dal punto di
vista della logistica
elementare, d i
fronte a nuovi
pubblici sempre
più affamati di cinema, diventasse
impraticabile per i
costi e per le comodità essenziali,
indeboliva ancor
di più la manifestazione, soprattutto se messa a confronto con Cannes, dove all’esterno del palazzo si poteva vedere cinema in una
quarantina di sale, dove la qualità delle proiezioni era altissima e dove confluivano tutte le cinematografie del mondo. Credo che questa debolezza fosse anche legata a una
terribile burocratizzazione della Mostra, oltre al fatto di
continuare a credersi uno dei fari della cultura mondiale,
mentre i concorrenti si facevano sempre più agguerriti e le
strutture diventavano sempre più vecchie. Per cui al di là
della bontà del programma ideato dai singoli direttori, c’era
e c’è proprio una carenza strutturale che si è fatta sempre
più evidente. In questi ultimi anni poi la perdita di credibilità della manifestazione è diventata ancora più drammatica a causa della paura di attentati terroristici, che ha portato il Ministero degli Interni a predisporre dei sistemi di
controllo costosissimi, si parla di 800.000 euro per edizione, che a mio parere hanno accresciuto sempre più la sensazione dello spettatore di trovarsi in un luogo concentrazionario, in uno stato di costante pericolo, in una casa infestata da corpi estranei: vedere i cecchini appostati, dover
passare continuamente attraverso i detector è una sensazione
sgradevolissima. E avvicinandoci ancora di più all’oggi un
altro problema che è stato gonfiato a dismisura è quello
della concorrenza romana. È ovvio che la nascita di un altro festival sottrae qualche titolo, però il mare del cinema è
grandissimo, e l’edizione in corso allestita da Marco Müller, per una sorta di atto d’orgoglio ritrovato, mostra come
si possa ancora attingere a tutto il cinema del mondo mettendo su un programma di grande livello. La verità è che
festival come quello veneziano ormai servono a poco, dato che si sono moltiplicati in maniera malthusiana, per cui
al di là delle grandi manifestazioni, che si possono contare
sulle dita di due mani, c’è poi un’enorme quantità di piccole iniziative che hanno sostituito i cineclub degli anni sessanta. E questa proliferazione svuota il ruolo guida della
Mostra, la sua funzione di scoperta, di luogo che coglie ciò
che accade nel momento in cui accade. Nonostante tutto
comunque il festival resta un’occasione importante
per conoscere il cinema indipendente, oltre alle cinematograf ie dei
paesi sconosciuti,
e per avere al tempo stesso la possibilità di vedere e di
toccare quasi fisicamente i divi e i
grandi registi. Certo il suo potere si è
abbastanza ridotto, dato che quasi
tutti i film che
hanno alle spalle
una produzione significativa uno o
due giorni dopo
essere stati presentati a Venezia escono nelle sale di tutto il mondo. Ma
non possiamo comunque dimenticare che al Lido è arrivato quanto di meglio ha espresso il cinema mondiale, da Kusturica a Wenders, da Fassbinder a Zanussi, e ancora Ioseliani, Kieslowski, Greenaway, fino ad Abel Ferrara, Takeshi Kitano e Zhang Yimou, che sono stati premiati proprio
alla Mostra. E soprattutto bisogna riconoscere a Marco
Müller questa sua conoscenza straordinaria dei paesi asiatici che caratterizza in modo importante la sua gestione, di
cui complessivamente do un giudizio abbastanza positivo,
anche se sono più colpito dall’inadeguatezza delle strutture e degli appoggi istituzionali per far fronte alla sfida di oggi, o dalla modestia delle presidenze, molto spesso più
preoccupate di apparire che di elaborare un vero piano
complessivo. O ancora dall’incapacità di valorizzare il patrimonio, basti pensare alla ricchezza inestimabile dell’Asac, da tempo invisibile e allo sbando. Oggi come oggi
un buon programma lo mette su chiunque, mentre invece
far navigare tutta quest’enorme struttura mantenendone
l’aura e il prestigio richiede un coordinamento di forze e
una politica che a mio avviso va ripensata in modo profondo.» (l.m.)
Le foto sono tratte dal libro Lidhollywood, foto di Gianfranco Tagliapietra, su gentile concessione de I Anitchi Editori
65
Dintorni
teatro
Da «Dorothy» a «Him»
le nuove direzioni di Fanny & Alexander
di Rodolfo Sacchettini
D
orothy. Sconcerto per Oz di
vello che si instaura con il pubblico, perFanny & Alexander ha debuttato a Venezia – Teatro Fondamenta Nuove ché gli spettatori sono invitati a prendeSkopje nel febbraio 2007. Arriva in
re posto al centro dell’occhio del cicloHim
23 e 24 ottobre, ore 21.00
Italia il 10 ottobre al Teatro Comunale di Ferne – visivo e sonoro – su materassi della
rara. Si tratta di uno spettacolo di teatro musiprotezione civile approntati per dare ricale o scène lirique che comprende un’orchestra da camera, una pianiparo ai rifugiati, come nello stadio di Houston durante l’urasta, un’oboista, una violinista, tre cantanti, tre attrici e un attore.
gano Katrina, negli States. Il luogo è apparentemente asettiDa Dorothy. Sconcerto per Oz è nata un’altra performance,
co, è il centro di un nudo teatro o di un palazzetto dello sport.
Gli interventi sullo spazio riguardano in gran parte la disposizione e la natura delle luci, ispirate alle «scenografie luminose» di Dan
Flavin. Sulle pareti vi sono circa 600 neon fluorescenti che vanno a comporre un
organo a canne di
luce o «aurora boreale», richiamando, tramite i colori
primari, la sensazione del viaggio
percettivo e variegato nel mondo di
Oz.
E infatti sembra
di stare in una sorta
di zattera comune, di
navigare tra sopravScene da Dorothy, Sconcerto per Oz
vissuti nella speranza
di un approdo di salvezza. In questo senHim, che porterete a Venezia al teatro Fondamenta Nuove il 23 e 24
so mi pare ci sia una forte componente «utopica»…
ottobre, in cui un attore nei panni di un Hitler in castigo (citazione delchiara lagani Più che essere già dei sopravvissuti, direi
la famosa scultura di Cattelan), davanti a uno schermo cinematografico,
che agli spettatori è data qui la possibilità di sopravvivere.
doppia in lingua inglese, con un effetto comico involontario, tutte le parti
Forse ci si salverà, ma il disastro e la salvezza sono «a venidell’intero film proiettato alle sue spalle.
re». È vero che alla base di tutto c’è un’istanza utopica, ma la
Dopo l’adolescente Heliogabalus vi siete immersi nel mondo di Oz e
vera utopia è proprio la comunità; è un’utopia lo stesso geavete scelto la piccola Dorothy come figura «archetipica» della modernità.
sto elementare e magari ingenuo di radunare delle persone in
Vorrei entrare nel vostro lavoro dalla porta principale, cioè da questa sorun luogo come se fossero dei rifugiati. Quel che non è scontato
ta di macro-personaggio interpretato e vissuto dalle diverse attrici e forse
però è cogliere che la loro eventuale salvezza dipende unicadallo stesso pubblico…
mente dal modo in cui saranno capaci di abitare quel luogo.
chiara lagani Dorothy è una parola magica, un capienInfatti si sopravvive non solo al disastro del fuori, ma anche
te spazio nominale al centro del quale sono «convocati» una
al disastro di quel luogo. Il ciclone non è un semplice accadigran quantità di oggetti e persone: è il titolo di un’opera in
mento esterno. Mi chiedo: se davvero queste persone fosseprimo luogo. È una bambina, la protagonista della storia nel
ro dei rifugiati cosa succederebbe? Resisterebbero assieme?
libro di Lyman Frank Baum, così come del film di Victor
Si sbranerebbero tra loro? Scapperebbero?
Fleming. Dorothy è anche il nome di un ciclone, secondo la
A questo punto mi chiedo come ha preso «forma» la scena. Da Heliotremenda usanza di chiamare con nomi di donna le sciagugabalus a Dorothy, dallo spazio «privato» di una stanza-vagina alla
re naturali o i funghi atomici. Ed è proprio questo il primo licondivisione «pubblica» della platea…
66
Dintorni
teatro
luigi de angelis Ci eravamo posti un assioma fondamentale. Quest’opera doveva mantenere l’accento sulla figura di
Dorothy: ogni spettatore poteva assumere lo statuto della
bambina Dorothy nella storia ma solo a partire dal disastro,
il ciclone Dorothy. Così abbiamo posto lo spettatore dentro l’occhio del ciclone. La com-penetrazione ermafroditica
è qui una vera orgia di sguardi degna del miglior degli Heliogabalus. Si tratta di uno spazio scenico plurimo che va contro
l’idea della scenografia prospettica: tutti vedono e sentono da
angolazioni differenti e devono scegliere quale linea seguire.
Non c’è unità, è un cubismo fatto di tante monadi, di plurimi sguardi. Gli spettatori sono sui lettini in mezzo agli artisti
e ognuna delle nove artiste recita dal suo lettino, come da diversi piccoli palcoscenici distribuiti nello spazio. Ognuno è
chiamato a essere Dorothy, il pubblico e le artiste, ma quella
dello spettacolo è in principio una specie di comunità «involontaria». L’adesione al modello
Dorothy è dunque una responsabilità: tutti siamo
Dorothy se scegliamo di viaggiare, di spostarci all’interno del gorgo di un’opera.
In questo senso mi
sembra che l’aspetto musicale sia fondamentale, perché la
percezione dello spettacolo è soprattutto
sonora. Fin dal titolo il lavoro si presenta come una sorta di
nuova «opera». Da
cosa nasce l’idea dello
«Sconcerto»?
messi in relazione per osmosi di carattere. I materiali letterari
e musicali vengono da: Landolfi, Puccini, Delibes, Rousseau
– Horace Coignet, Skriabin. Ogni artista «ripete» la sua parte attendendo il ciclone, e a partire da questi abbozzi di prove
teatrali e musicali a poco a poco si segnalano le parentele e si
sintetizzano i personaggi delle Streghe. Il modello di partenza sono le Europeras di John Cage, in particolare la n. 3 e la n.
4. Sono opere in cui gli artisti possono decidere simultaneamente, durante un tempo precisissimo, di cantare l’aria o interpretare la frase musicale che vogliono, all’interno di un repertorio fissato dal compositore che fornisce però solo indicazioni retoriche. L’ascolto di queste opere è stato il vero ciclone che ha fatto germinare Dorothy. Sconcerto per Oz.
Un’ultima cosa, così come Dorothy, durante lo spettacolo siamo tutti
pieni di «nostalgia», ma non sappiamo bene di cosa e non sappiamo esattamente perché…
luigi de angelis
Lo «Sconcerto»
rispecchia l’idea
dell’opera-ciclone. È una partitura multi-stratificata stabilita al millimetro con alcune variabili di improvvisazione a discreziochiara lagani La nostalgia per l’orribile Kansas è davvero
ne delle artiste. La scansione temporale è data dal doppiaggio
il più violento mistero! Questa nostalgia è una specie di pecdel soundtrack del film Il mago di Oz da parte del «guardiano»
cato originale. Partire con nostalgia da un mondo sostanzialdel luogo, un personaggio che certo allude al mago di Oz e
mente amato indica la volontà di far luce e strada a una veriche abbiamo battezzato «Him», citando Cattelan, come actà più alta, nascosta o criptica, qualcosa che sta sotto e aldilà
cennavi. L’attore che impersona Him, Marco Cavalcoli, deve
del mondo originario, qualcosa che era già presente.
prestare attenzione non solo al soundtrack, di cui da vero ditNel film lo «scandalo» della nostalgia e del viaggio è stato
tatore si è arrogato tutte le parti, ma anche al caos sotto di lui,
esorcizzato dall’escamotage drammaturgico del sogno: nulla
per intervenire e modificarlo. Him è sempre in maniacale reè davvero avvenuto, tutto è solo stato sognato. Ma nell’opera
lazione con tutti i fili dell’opera che cerca di ricondurre verso
di Baum Dorothy compie il suo viaggio perché ha bisogno di
un’unità forse impossibile di cui lui stesso è l’emblema.
una conferma. Qualcuno ha detto che Dorothy non si spoLe nove artiste invece, a gruppi di tre, sono le Streghe del
sta realmente, certo è che si sottopone a svariate metamorracconto. Il ruolo della Strega è tripartito: una cantante, una
fosi. L’imperativo del viaggio, anche se fosse solo una metastrumentista e un’attrice dan vita allo stesso
fora, è sempre accettare di essere modificapersonaggio (Strega del Sud, Ovest e Nord) a
ti da chi si troverà per strada per esser pronpartire dalla propria funzione. Ogni Strega è Ferrara – Teatro Comunale ti davvero all’incontro conclusivo, che è semla sintesi di un personaggio teatrale, operistipre quello con se stessi, con l’identico modiDorothy. Sconcerto per Oz
1 ottobre, ore 20.30
co e di un leitmotiv strumentale accorpati e
ficato sé.
67
Dintorni
teatro
Nasce
l’«Accademia teatrale veneta»
V
enezia, scenario naturale. Venezia, che inventa il teatro
pubblico a pagamento. Venezia e la Commedia dell’Arte, Gozzi, Goldoni, il Carnevale, la Biennale. Venezia, patria di grandi attori.
Molte sono le ragioni che inducono ad associare Venezia al
teatro, persino la sua stessa conformazione urbanistica.
Negli ultimi anni l’interesse e la domanda di teatro in città, sia
in termini di produzione che di ricerca e formazione, sono notevolmente aumentati. Nuovi spazi sono stati aperti, sia in centro storico che sulla terraferma, è cresciuto il numero di spettacoli, performance ed eventi, è cresciuta soprattutto la domanda e l’offerta formativa.Partendo da questo quadro di
riferimento, tre compagnie professioniste – Questa
Nave, Pantakin, Veneziainscena – operanti nel territorio di Venezia e attive da più di un decennio nella
formazione e nella produzione hanno deciso di unire le loro capacità ed esperienze per la creazione di un
progetto a loro sentire necessario. Nasce così L’Accademia Teatrale Veneta.
Il progetto di Accademia Teatrale risponde all’esigenza di dotare il territorio veneto di una scuola di
formazione professionale per attori che offra un percorso formativo organico, graduale e strutturato, e
soprattutto continuativo, alla stregua di realtà simili
italiane ed europee, con le quali tra l’altro, alcuni degli
insegnanti dell’Accademia collaborano da tempo. Di
non secondaria importanza è poi il fatto che le compagnie fondatrici producono Teatro, garantendo così
la possibilità di forme di apprendistato e di primo inserimento in ambito lavorativo.
Riteniamo possibile e necessaria (e in tal senso ci
adopereremo) una fattiva collaborazione con le grandi istituzioni culturali e formative del territorio veneziano (Biennale, Teatro Stabile, Università – con i suoi dipartimenti sullo spettacolo – La Fondazione di Venezia) e le piccole ma significative realtà che contribuiscono a mantenere vivo
il tessuto culturale della città.
Iurissevich, Michele Casarin, Ted Kaiser, Antonino Varvarà,
per citarne solo alcuni. In aggiunta all’insegnamento curricolare (20 ore settimanali) sono in fase di definizione laboratori intensivi con professionisti di consolidata fama e insegnanti
provenienti da grandi scuole europee, quali Andrzej Leparski
(Institut de Teatre de Barcelona), Bob Heddle Roboth (Theatre National de Chaillot, Parigi), Tony Cafiero, José Sanchis Sinisterra, Boris Karpov, Mamadou Dioure. Tali laboratori saranno aperti a iscrizioni esterne e su di essi soprattutto auspichiamo collaborazione con Università, Fondazione di Venezia, Biennale e Teatro Stabile.
La nostra scuola si propone un’attitudine di ricerca, coscienti
di come non ci sia «un» modo né un «metodo» univoco e miracoloso di affrontare la formazione teatrale e di impadronirsi dei suoi supposti segreti, coscienti di come la maturazione
di capacità creative, espressive e critiche si sviluppi su un terreno incerto, alieno da miracolismi e formule magiche. Sarà
comunque sempre l’allievo stimolato a fare le proprie sintesi.
Crediamo fermamente altresì che le idee vanno verificate nella prassi.
Ci troviamo quindi aperti a diversi contributi pratici e ideativi, sapendo come percorsi differenti possano condurre agli
stessi obiettivi e come il confronto di idee tra punti di vista solidi e motivati sia necessario per la maturazione dell’allievo e inevitabile per un insegnante che non voglia imbalsamarsi e intenda vivere creativamente il proprio mestiere.
La struttura
L’Accademia sarà strutturata in un laboratorio propedeutico,
un biennio e un anno di specializzazione. Il Laboratorio sarà
indirizzato sia a coloro che vogliono prepararsi a sostenere il
provino per essere ammessi all’Accademia, sia a coloro che intendano fare una esperienza di avvicinamento al teatro come
occasione di accrescimento personale, culturale e relazionale,
senza tuttavia essere interessati a esso come professione.
Alla fine del primo anno verrà prodotto un saggio-spettacolo. L’ammissione al secondo anno non sarà automatica, ma decisa dal corpo insegnante.
Alla fine del secondo anno, che nuovamente si concluderà
con un saggio-spettacolo, gli allievi avranno la possibilità di essere ammessi (dietro parere del corpo insegnante) al terzo anno, un corso di specializzazione dove potranno essere ammessi anche attori provenienti da altre scuole.
Il corpo docente è composto da artisti da tempo dediti alla formazione e che lavorano sia in Italia che all’estero da molti anni: direzione didattica Renato Gatto; insegnanti: Adriano
Per informazioni:
[email protected]
www.teatrojunghans.it
tel. +39 041 2411974 Teatro Junghans - Venezia
mob. +39 338 1143066 (Renato Gatto, direttore didattico)
Accademia Teatrale Veneta
Giudecca 494/b, 30133 Venezia - Tel/fax +39 041 2411974
69
Dintorni
teatro
«Capire il teatro o l’arte dello spettatore»
Il progetto di Gianni De Luigi
per la Fondazione di Venezia
P
romosso dall’Icai (Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale) di Gianni De Luigi per la Fondazione di Venezia, ha avuto il suo inizio il progetto «Capire il teatro o l’arte dello spettatore» (cfr. VeneziaMusica e dintorni n.16, p.67).
«L’idea rivolge la sua attenzione non tanto all’educazione dello spettatore ma piuttosto al recupero della sua arte, facendo così esplicito riferimento a Bertolt Brecht e
ai suoi drammi didattici. Brecht fece un lavoro davvero
notevole per quel che concerne l’idea della pedagogia del
bambino nella scuola, allo scopo di offrire allo spettatore
strumenti che gli consentissero di interagire con gli attori
anche da un punto di vista mentale. Nel tempo in cui viviamo, Brecht sarebbe disperato!» sorride De Luigi.
«Ritengo che oggi ci sia una nuova arte dello spettatore: quella dello stare seduti, che implica il come riuscire a sostare di fronte a uno spettacolo dal vivo. Lo spettacolo elettronico, intendo quello offerto dalla televisione, dal computer, vede l’interazione avvenire su due fronti: nei riguardi dell’apparecchio, ma anche nei riguardi di
noi stessi, in quanto abbiamo la possibilità di alzarci,
di mangiare, di muoverci,
ecc. portando
così a un’esaltazione della disattenzione. Il progetto che
con l’Istituto abbiamo orchestrato ha coinvolto 900 ragazzi di diverse scuole elementari e medie della provincia
di Venezia. Trovo affascinante e fondamentale lavorare
con i bambini, e anche con gli anziani. Tra loro riscontro
due valenze molto importanti: da un lato l’aprirsi e dall’altro il chiudersi alla vita. Entrambi, bambini e anziani, sono spettatori particolarmente attenti, con emozioni estremamente naturali, non calcolate.
Nelle esperienze fatte nelle scuole, ho voluto che tutti i ragazzi portassero con sé il telefonino perché potessero documentare quanto intorno a loro stava verificandosi. Ho voluto che avessero la possibilità di memorizzare su quel loro piccolo schermo emozioni che avrebbero
poi potuto comunicare agli altri compagni nella loro intimità, creando così una zona di dialogo scevra da qualsivoglia tipo di intromissione da parte degli adulti. L’intervento nelle scuole, che di buon grado ci hanno accolto,
va alle origini del teatro professionale, professionistico,
che è il teatro della commedia dell’arte, oggi vista come
manifestazione ludica, divertente. Per introdurre la commedia dell’arte ho scelto di agire molto sui miti televisivi dei ragazzi, molti dei quali trattano di divorzi, matrimoni combinati, denaro, droga, ecc. Si è agito dunque
su tutto quello che fa parte della quotidianità delle informazioni che ricevono dalla televisione e dai giornali. Costruite le fondamenta con questo tipo di struttura e dinamiche (matrimonio/conflitto/genitori che organizzano il
matrimonio, ecc.) ho cominciato a introdurre la commedia dell’arte. Innanzitutto gli attori, presentati senza i costumi di scena; quindi i personaggi, i vari Arlecchino,
Colombina, Pantalone, che gli attori avrebbero interpretato. Non erano stati allestiti camerini e la trasformazione data dal trucco e dagli abiti di scena è avvenuta di fronte ai ragazzi. Grazie a questo percorso, si è voluto fare un
gioco di smontaggio, il gioco più importante per le piccole leve: quello spinto dalla curiosità di vedere un oggetto
nel suo interno. In questo caso, l’oggetto-corpo.
La partecipazione è stata notevole e da questa esperienza i ragazzi hanno realizzato temi e disegni acuti e propositivi dimostrando così di aver ben compreso un primo approccio al teatro, con tutta l’attenzione che questo richiede e con la pazienza dello spettatore del teatro
dal vivo. Ecco quindi che il rapporto ideale viene a essere
quello di azione comune tra attore e spettatore. Per questo credo che oggi abbia senso il confronto tra i mezzi
elettronici e i mezzi del corpo, tra la gestualità, la danza,
il canto, rapporti continui e dialettici, intreccio perenne
dove diverse espressioni possano e debbano essere messe a confronto.
La grande rivoluzione è quella di dare il maggior numero di strumenti possibili. Il mezzo televisivo annebbia e allontana da una forma ideale. Se è vero che hanno ucciso l’ideologia, è vero anche che l’hanno sostituita con la televisione». (i.p.)
70
disegni di Alessia Formica
Dintorni
teatro
«Methodika», pedagogia teatrale
al di là di dogmi e gerarchie
Docenti, attori e registi da tutto il mondo
per il festival di Jurij Alschitz
D
ro
enz
e, U
ffiz
d
San
i).
al 5 all’11 novembre, un
uno dei significati più profondi che
progetto prodotto da
il festival vuole trasmettere».
Fondazione di Venezia L’artista è centauro, in lui convivono «Molto spesso un metodo, che è
e realizzato da Euterpe Venezia
interessante in se stesso» spiega Jurij
l’animale, l’umano e il divino.
con il patrocinio dell’ITI/Unesco
Alschitz, «diventa qualcosa di simiJurij Alschitz
(Theater Training and Education
le a un dogma per molte generazioCommitee) mette a confronto docenti di teatro, attori e
ni, e questa è una catastrofe per il teatro. Ecco perché credo
registi provenienti da ogni parte del mondo.
sia importante spiegare ciò che intendo per “metodo pedaSi tratta di «Methodika», IV Festival internaziogogico”. Se lo si concepisce come qualcosa di fininale di metodi di training teatrale (cfr. Veneziato, fissato e sempre ripetuto, fosse pure bellissiMusica e dintorni n. 17, pp. 78 e 79) ideato e
mo, si dovrà ammettere alla fine che è morda vari anni condotto da Jurij Alschitz.
to. Credo che ora sia arrivato il tempo di
Il progetto è stato presentato lo scorun forte momento di rottura nella peso 26 luglio all’Auditorium S. Mardagogia teatrale. Ciò che definiamo
gherita di Venezia, mentre la se“metodo pedagogico” dovrebbe esconda Biennale Teatro firmata da
sere un sistema aperto, che non paMaurizio Scaparro era al culmine
ralizza gli allievi nella forma rigidel suo svolgimento.
da di un concetto artistico molto
«Sono davvero felice che la
concreto, o di un indirizzo ideoFondazione di Venezia abbia
logico, o ancora delle preferenvoluto presentare “Methoze di un insegnante. All’oppodika” durante il campus unisto inaugura la grande immaversitario internazionale (cfr.
gine di un teatro senza dogmi
VeneziaMusica e dintorni n.
e senza gerarchie. Questo pro17, p. 33) promosso dalla Biengramma vuole influire positinale Teatro di quest’anno» dice
vamente sul rinnovamento e
Scaparro. «Lo leggo un segno
sul ringiovanimento della petangibile della rilevanza che si
dagogia teatrale, contro ogni
vuole dare alla formazione: un
stagnazione. Mi piacerebbe che
aiuto per il lavoro che stiamo
il festival “Methodika” da una
svolgendo e una speranza ottiparte guardasse le materie conomista per un futuro da costruire
sciute da un nuovo punto di vista,
assieme».
e dall’altra cercasse direzioni scoÈ Giampaolo Fortunati, vicenosciute, “alternative” nella pedapresidente della Fondazione, a ringogia teatrale, per aprire davvero tergraziare a sua volta Maurizio Scaparritori
inediti. Forse possiamo cercare
cel
ir
li,
ro e la Biennale: «Questa comune viinsieme
sistemi educativi completamenF
,
Mi
ne r
482
sione del momento educativo-formativo,
te
nuovi
per
attori e registi. Se questi siste1
.
c
va e
i l Centauro, (
la volontà di sostenere il talento e la creativimi saranno buoni o cattivi, se avranno succestà con iniziative originali e processi innovativi fanso o meno, soltanto il tempo lo potrà dire. L’artista
no ben sperare per il futuro in una più intensa collaborazioè centauro, in lui convivono l’animale, l’umano e il divino.
ne con la Biennale di Venezia, in quanto a esser condivisi
L’artista ha una natura polimorfa, è corpo meticcio, può essono la visione e i principi che
sere ponte tra mondi differenregolano la formazione teatrati. Credo sia abilità e necessità
Le iscrizioni ai seminari di «Methodika Venezia»
le. “Methodika” è un progetdell’artista il vedere, il riconosono aperte (il bando di partecipazione è scaricabile
to inerente alla pedagogia teascere l’irraggiungibilità della
trale e parla di un metodo che dal sito www.methodikavenezia.org). Verranno selezionati natura, della storia, della genin realtà è un non-metodo, che 15 partecipanti attivi e 20 uditori per ogni gruppo di lavoro. te, della vita e dell’Universo e
selezione, effettuata l’1 agosto 2007, seguiranno le
afferma l’idea di una libertà e Alla prima
creare una combinazione nuoaltre con cadenza regolare fino all’inizio del festival.
di una predisposizione all’apva per una vita nuova. Creare
Per informazioni e iscrizioni:
prendimento scevre da qualsinuova gente, nuove idee, nuowww.methodikavenezia.org
voglia tipo di condizionamenvo teatro. Questo è ciò di cui
[email protected]
041 2753232; 340 8431135
to: un’apertura mentale come
abbiamo bisogno». (i.p.)
Bo
tti
71
Dintorni
teatro
Carlo Gozzi incontra
le «favelas» di San Paolo
Il progetto è di un attore veneziano
che da tempo vive e lavora in Brasile
A
lvise Camozzi è un attore veneziano che da ormai più di sei anni lavora a San Paolo del Brasile, dov’è al centro di diversi progetti teatrali. Lo incontriamo durante il suo breve passaggio
estivo in laguna.
Se dovessi sintetizzare in poche parole
il tuo percorso italiano cosa sceglieresti di
raccontare?
La mia carriera italiana si riassume facilmente. Mi sono diplomato alla «Paolo Grassi» di Milano nel
’98 con Martin Wuttke, ex direttore del Berliner Ensemble, su Quartett di Heiner Müller. Prima di entrare alla Civica ho frequentato la
scuola veneziana A L’Avogaria. A
Milano ho fatto parte di un gruppo di talento, molto unito e presuntuoso: prima di dividerci abbiamo
montato Rosencranz e Guildestern di
Stoppard al Crt e subito dopo abbiamo lavorato con Cristina Pezzoli su Horváth. Io volevo continuare la mia ricerca al di fuori delle proposte convenzionali, e ho partecipato a produzioni sperimentali più
o meno riuscite, ma sempre coraggiose. Ma dopo due anni di follie ho
rinunciato e ho cominciato a lavorare dove capitava, un po’
per scelta un po’ per necessità: una mezza stagione «canonica» tra Leonce e Lena di Büchner e Il giardino dei ciliegi di Cechov
a Milano, poi un’esperienza con Giorgio Barberio Corsetti
a Roma, e la mia prima prova alla regia, a Perugia, su un testo di Soriano adattato per Bolo Rossini. Alla fine ho deciso
di accettare l’invito di Mauricio Paroni De Castro e ho codiretto con lui tre spettacoli per una mostra di drammaturgia
contemporanea a San Paolo.
Dal 2001 parte il tuo lavoro in Brasile. Come hai iniziato?
È stato più difficile di quanto immaginassi. Il teatro in Brasile è completamente condizionato dalla televisione, i circuiti sono pochi e istituzionalizzati, non esistono teatri stabili di
tradizione e il teatro di ricerca quasi sempre si ricicla in esperienze sterili. Anche lì c’è un’oligarchia di artisti che monopolizza le scelte, ma allo stesso tempo ci sono una vitalità e
una curiosità invidiabili. Inoltre il panorama della produzione culturale in questi ultimi anni si è ampliato molto, perché
si investe sempre di più in quest’area. Al principio comunque
ho fatto l’insegnante, poi l’organizzatore, producendo eventi teatrali per l’Istituto italiano di Cultura di San Paolo (e non
solo). Molto significative per me sono state le due mostre che
ho promosso insieme a Luca Scarlini, una sul videoteatro
italiano e l’altra sulla produzione drammaturgica contemporanea, grazie alla quale per la prima volta il pubblico di San
Paolo ha sentito parlare, per esempio, di Antonio Tarantino,
che considero il più grande drammaturgo italiano vivente e
che in Brasile è completamente sconosciuto, come gran parte dei nostri autori contemporanei. Quando mi sono sentito
sicuro ho ricominciato a recitare, interpretando Mefisto per
Alvise Camozzi in Macbeth
Gabriel Villela. Con lui abbiamo rappresentato il Brasile al
Festival Cechov di Mosca due anni fa, con Faust.
Cosa stai affrontando ora, e quali sono le prospettive per il futuro?
Ho appena terminato una tournée di Macbeth, e ora comincio le prove di un lavoro di cui curo la regia, un pastiche di opere buffe di Rossini ambientato ai tropici, ideato per il Centro
sperimentale di Musica di San Paolo. L’ho scritto a quattro
mani con Christine Röhrig, la traduttrice in lingua brasiliana
di Büchner e Heiner Müller. E poi c’è il progetto cui tengo di
più, incentrato su Carlo Gozzi. Lo sto scrivendo per un’Ong
che opera alla periferia di San Paolo, l’associazione Paideia:
è un gruppo coraggiosissimo, che usa il teatro come forma
di trasformazione e valorizzazione della comunità. Lavoreremo sull’universo magico delle favole gozziane, all’interno
della favela, cioè letteralmente ai confini del mondo. L’idea
muove attorno all’inversione del concetto di esotico, si tratta
di un articolato progetto drammaturgico già a buon punto
di elaborazione, che coniuga elemento artistico e realtà sociale, e che pensiamo si possa sviluppare durante il secondo
semestre dell’anno prossimo, con uno spettacolo, laboratori e interventi anche dall’Italia, e spero proprio soprattutto
da Venezia, la terra di Gozzi. Stiamo cominciando già adesso a pensare a un interscambio con la città, anche se i contorni non sono ancora definiti. Ma mi piacerebbe invitare alcuni artisti e studiosi veneziani ad aiutarmi. E poi certo sarebbe bello allestire lo spettacolo in laguna coinvolgendo tutti i
ragazzi, ma questo per ora è ancora un sogno. (l.m.)
72
Dintorni
danza
Omaggio sulle punte ad Andrea Palladio
All’Olimpico di Vicenza una serata dedicata alla danza
di Susanne Franco
N
ell’imminenza delle celebrazioni per il quinto
centenario della nascita di Andrea Palladio previste per il 2008, il Teatro Olimpico ospita il 22
settembre una serata interamente dedicata alla danza. I
tributi al grande architetto iniziano dunque significativamente con un Gala che vede la partecipazione di nomi
prestigiosi della danza italiana e straniera. Tra le étoile in
cartellone figurano infatti Eleonora Abbagnato e Benjamin Pech (dell’Opera di Parigi), Silvia Azzoni e Alexan-
confidato alle note di Chopin, recentemente Alessandra
Ferri ha dato l’addio alle scene milanesi. In quell’occasione in molti si sono ritrovati a interrogarsi sull’eredità dei
protagonisti della danza classica, ma anche su come sia
possibile tramandare il suo fragile e preziosissimo patrimonio culturale. Per queste ragioni va apprezzata l’accortezza degli organizzatori del Gala che hanno deciso di dedicare la seconda parte della serata agli interventi di giovanissimi interpreti ritenuti il fiore all’occhiello della danza italiana, ovvero i
membri del Junior
Balletto di Toscana. Alla loro guida è
Cristina Bozzolini,
già prima ballerina
del Corpo di Ballo
del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e direttrice per quindici anni
del Balletto di Toscana. La formazione, che ha debuttato
nella stagione invernale 2004/2005, costituisce la struttura
produttiva professionale della Scuola del Balletto di Toscana e rappresenta un vero e proprio vivaio di talenti, che in futuro si
Benjamin Pech e Eleonora Abbagnato, La dame aux camélias
spera possano trovare collocazione
presso realtà condre Ryabko (dell’Hamburg Ballet – John Neumeier), Masolidate sia in Italia sia all’estero. Questa modalità, pora Galeazzi (del Royal Ballet di Londra), Alexander Zaitco diffusa nel nostro paese, di garantire l’avvicendamensev (dello Stuttgart Ballet), Giuseppe Picone (ospite presto generazionale alle formazioni «seniors» delle princiso lo Staatsoper Ballet di Vienna, il San Carlo di Napoli
pali compagnie, non può che giovare alla consolidazioe l’Opera di Roma), e Giovanni Di Palma e Tatiana Paune dei processi di trasmissione di un repertorio e garantinovic (dell’Opera di Lipsia). Il programma si articola, core la sopravvivenza di tradizioni tecniche e stilistiche alme richiede la formula, attorno a pezzi celebri del grande
l’insegna dell’altrettanto necessario spirito di innovaziorepertorio classico-accademico dell’Ottocento e di quelne. Per i Junior del Balletto di Toscana è prevista dunque
lo neoclassico, ma punta anche su alcune creazioni conuna selezione delle creazioni dei nuovi coreografi contemporanee. Un evento nell’evento è costituito dai due
temporanei che abitualmente collaborano con la compapas de deux tratti da La dame aux camélias, nella coreogragnia e che hanno sposato la linea della necessità di aprire
fia che John Neumeier ha creato a partire dalla trasposinuovi orizzonti utilizzando la pluralità di linguaggi delzione del romanzo di Alexandre Dumas figlio (e non dalla contemporaneità.
la più edulcorata versione della successiva pièce teatrale).
Il Gala è preceduto dall’incontro con il pubblico condotProprio con questo pezzo, che esprime appieno la poetito dalla critica di danza Silvia Poletti, nella convinzione che
ca intimista e la capacità introspetcon le giuste chiavi di lettura e i necestiva di Neumeier e che colpisce ansari strumenti di analisi si possa tutti
che per l’originale scelta dell’accomassaporare al meglio un’arte spesso (e
Vicenza – Teatro Olimpico
22 settembre, ore 20.30
pagnamento musicale interamente
purtroppo) misconosciuta.
73