L`arte cinematografica nasce alla Mostra di
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L`arte cinematografica nasce alla Mostra di
Dintorni cinema L’arte cinematografica nasce alla Mostra di Venezia Gian Piero Brunetta tratteggia luci e ombre della storica rassegna G ian Piero Brunetta, grande esperto del cinema italiano (e non solo), in una lunga e articolata intervista ci regala una riflessione storico-critica sulla Mostra del Cinema di Venezia, giunta in questi giorni alla sua LXIV edizione. «La decisione presa nei primi anni trenta di aggiungere alla Biennale Arte anche una sezione dedicata al cinema ha vari meriti e varie funzioni, tra cui prima di tutto quella di sancire, con la creazione di questo nuovo settore, l’artisticità del cinema, che è rimarcata nel titolo “Mostra d’Arte Cinematografica”. Il cinema fino a quel periodo non aveva goduto di quest’aura artistica, e questo è il primo atto in cui fa un salto di livello, entra uffic i a l mente nel territorio delle arti. Siamo in un momento in cui è imp or t a nt e per il fascismo, che attraversa una nuova fase, avere una visibilità internazionale. La Biennale concorre anMichelangelo Antonioni riceve il Leone dì’oro per Deserto Rosso, 1964 che a questo, e sin dalla prima edizione arrivano alla Mostra film da moltissimi paesi stranieri che la rendono – almeno fino a che nel ’38 non ci sarà l’alleanza con la Germania – una vera e propria vetrina del cinema mondiale: a Venezia giungono i film dell’Unione Sovietica, quelli americani, pellicole con i grandi divi e opere più sperimentali. E arriva tra l’altro anche Estasy di Gustav Machaty, che crea un piccolo scandalo perché vi appare nuda Hedy Lamarr. La Mostra di Venezia, creata nel ’32, è la prima mostra del cinema del mondo: questo è un elemento che va riconosciuto e di cui essere orgogliosi. Cannes nasce parecchi anni dopo, nel 1946, e prende forza proprio dall’interruzione – dal ’42 al ’45, quando viene istituito il festival di Roma al Teatro Quirino, dove viene presentato Roma città aperta – della manifestazione veneziana. All’inizio non c’è una ve- 62 ra concorrenza Cannes/Venezia: il festival lagunare gode di una magia e di una rinomanza che si porta dietro grazie a questa tradizione decennale, e al fatto di essere riconosciuto come punto d’incontro mondiale e come luogo abbastanza neutro, almeno fino al 1937. Durante la guerra invece diventa una manifestazione militarizzata, che ha perso il suo carattere internazionale per farsi vetrina del cinema dei paesi che aderiscono all’Asse. Tra le tante cose importanti va sottolineato il fatto che a Venezia venivano presentati anche i film italiani, per pochi che fossero, perché le produzioni in grande stile iniziano dopo il ’37 con la nascita di Cinecittà. Però cineasti nostrani come Mario Came- Luchino Visconti e Federico Fellini, 1967 rini e Alessandro Blasetti arrivano in laguna con le proprie opere. E per proteggere la cinematografia italiana da un certo momento in poi si istituisce la Coppa Mussolini, che però come è logico viene assegnata sempre a film in odore di propaganda. È interessante anche vedere l’evoluzione del pubblico: nei primi anni è composto esclusivamente da spettatori privilegiati, nobili ed esponenti dell’alta borghesia, che possono vedere i film all’Excelsior, dove al principio si organizzavano le proiezioni. Poi molto rapidamente si costruisce la prima sede del festival, che sarà riadattata nei primi anni cinquanta, allargandola e modernizzandola. E anche il pubblico si espanderà enormemente. Con il ‘46 inizia la storia della Mostra nel Dopoguerra. In quell’occasione viene presentato Paisà di Roberto Rosselli- Dintorni cinema ni, che suscita molti malumori, perché la gente e la critica, sia di destra che di sinistra, lo percepisce come un’opera un po’ sgangherata. Ben poche voci esaltano il capolavoro. E questa è un’altra delle cose che vanno sottolineate parlando del festival veneziano: la critica deve avere la velocità del centometrista nel giudicare i film, non c’è tempo per riflettere. E allora il film non viene mai metabolizzato del tutto, per cui, dal punto di vista dello storico, la manifestazione è importante più per gli errori e le cantonate dei critici che per le singole intuizioni, anche se di intuizioni ce ne sono state tante, trattandosi di una generazione di critici di primo livello, che ha lasciato tracce importanti. Però è molto divertente analizzare i giudizi negativi, vedere come per esempio i film della Nouvelle Vague o degli stessi Fellini e Antonioni non vengano percepiti come opere che cambiano le coordinate del cinema mondiale. Bisogna d’altro canto sempre tenere presente che sono molti i fattori che condizionano il giudizio. Non ultime le questioni politiche, con la tensione dovuta alla guerra fredda, che caratterizzerà la situazione del festival fino a buona parte degli anni settanta, e comunque fino alla gestione di Luigi Chiarini (1963-1968). Prima del suo arrivo, tra l’altro, la selezione nere conto di nessuno degli interessi consolidati (rappresentati dagli albergatori, dalle forze politiche, da quelle religiose ecc.). Per lui prima di tutto viene il cinema, e grazie a lui in quegli anni – oltre a bellissime retrospettive che fanno scoprire capitoli dimenticati, che vanno dall’Espressionismo tedesco al western – si conosce il nuovo cinema, da Rosi a Pasolini, da Pontecorvo a Buñuel, a Godard, a Carmelo Bene... E la cinematografia italiana gode di una visibilità notevole, sia nelle sue voci nuove – come Ermanno Olmi o appunto Pasolini e più in generale la generazione che si affaccia con forza agli inizi degli anni sessanta – sia nelle voci più consolidate, a cominciare da Visconti, che nel ’65 finalmente vince il Leone d’Oro con Vaghe stelle dell’Orsa, un film tutto sommato minore rispetto ad altri con cui aveva concorso, come Senso o Rocco e i suoi fratelli. Nemmeno il ’68 travolge del tutto Chiarini, perché il lavoro che ha avviato è già diventato un processo irreversibile. In seguito ci sono stati altri importanti direttori, come Gian Luigi Rondi, Giacomo Gambetti e Carlo Lizzani, che cercarono di innovare e trasformare la Biennale. Rondi per esempio tentò di riportare al Lido il grande cinema, la sua anima più spettacolare. Quest’attenzione verso le grandi produzioni Claudia Cardinale, Alain Delon, Renato Salvatori e Annie Girardot, per Rocco e i suoi fratelli, 1960 non veniva effettuata da una commissione di esperti italiani, ma, un po’ come accadeva con la Biennale Arte, erano i paesi stessi che mandavano un loro film a rappresentarli. È Chiarini che rimescola le regole del gioco. Nel frattempo però, sin dalla fine degli anni cinquanta, Venezia comincia a essere un posto inadeguato rispetto alla crescita e al mutamento dei pubblici, pur rimanendo ancora un luogo centrale per il cinema di tutto il mondo, anche perché affiancava al festival maggiore altre sezioni, come la rassegna di film per ragazzi, uno spazio dedicato ai documentari, un settore riservato a tutti i libri di cinema che vengono pubblicati e così via. Quindi è ancora una fucina di ricerca ed esplorazione di ciò che avviene nel mondo, possiede ancora questa funzione specifica. Nei cinque anni della gestione Chiarini cambiano tantissime cose, lui procede senza te- Anna Magnani per Mamma Roma, 1962 industriali è un atteggiamento da sempre sgradito negli ambienti della Mostra, nei quali il pensiero dominante – come dimostrano anche le improvvide dichiarazioni dell’attuale sindaco – è che «i festival concorrenti accolgono il cinema commerciale, e noi invece ci occupiamo del film d’arte»: invece questo è sempre stato un punto di debolezza. Per uno sviluppo sano della Mostra sarebbe stato necessario che tutto il cinema fosse rappresentato, che si potesse vedere – come è avvenuto in momenti felici come durante la direzione Lizzani – Indiana Jones e insieme Wim Wenders. Che cioè si respirassero tutte le atmosfere del cinema: la ricerca sperimentale nel linguaggio e nell’apertura a nuovi temi, la scoperta delle cinematografie emergenti, ma anche le nuove frontiere che si aprivano nel cinema commerciale. Il non aver coltivato questo aspetto, da parte di alcuni diretto- 63 Dintorni cinema ri, e avere al contrario enfatizzato il dna artistico come elemento privilegiato, ha reso nella lunga gittata più debole la Mostra. I festival poi si sono moltiplicati, la concorrenza è diventata feroce, per cui questa sensazione di essere ancora la stella polare del cinema mondiale rimaneva solo nei veneziani, mentre invece la Mostra diventava sempre più un fatto topologico, che si svolgeva entro un chilometro quadrato, con un’assenza di partecipazione del resto del Lido e della città che alle volte stringeva il cuore, nonostante la bellezza e l’importanza di certi programmi. Dagli anni ottanta in poi, quando è apparso chiaro che quegli spazi erano del tutto inadeguati a sostenere una manifestazione che voleva avere ancora il ruolo di leader e di punto di riferimento internazionale, invece di cambiare direzione si è proseguito a lungo proiettando film o intere retroPubblico in Sala Grande, anni sessanta spettive in orrende salette di fortuna all’Excelsior, pagate cifre folli e con apparecchiature vetuste e inadatte. Questo dava il senso di una decadenza irreversibile. Inoltre il fatto che il Lido, anche dal punto di vista della logistica elementare, d i fronte a nuovi pubblici sempre più affamati di cinema, diventasse impraticabile per i costi e per le comodità essenziali, indeboliva ancor di più la manifestazione, soprattutto se messa a confronto con Cannes, dove all’esterno del palazzo si poteva vedere cinema in una quarantina di sale, dove la qualità delle proiezioni era altissima e dove confluivano tutte le cinematografie del mondo. Credo che questa debolezza fosse anche legata a una terribile burocratizzazione della Mostra, oltre al fatto di continuare a credersi uno dei fari della cultura mondiale, mentre i concorrenti si facevano sempre più agguerriti e le strutture diventavano sempre più vecchie. Per cui al di là della bontà del programma ideato dai singoli direttori, c’era e c’è proprio una carenza strutturale che si è fatta sempre più evidente. In questi ultimi anni poi la perdita di credibilità della manifestazione è diventata ancora più drammatica a causa della paura di attentati terroristici, che ha portato il Ministero degli Interni a predisporre dei sistemi di controllo costosissimi, si parla di 800.000 euro per edizione, che a mio parere hanno accresciuto sempre più la sensazione dello spettatore di trovarsi in un luogo concentrazionario, in uno stato di costante pericolo, in una casa infestata da corpi estranei: vedere i cecchini appostati, dover passare continuamente attraverso i detector è una sensazione sgradevolissima. E avvicinandoci ancora di più all’oggi un altro problema che è stato gonfiato a dismisura è quello della concorrenza romana. È ovvio che la nascita di un altro festival sottrae qualche titolo, però il mare del cinema è grandissimo, e l’edizione in corso allestita da Marco Müller, per una sorta di atto d’orgoglio ritrovato, mostra come si possa ancora attingere a tutto il cinema del mondo mettendo su un programma di grande livello. La verità è che festival come quello veneziano ormai servono a poco, dato che si sono moltiplicati in maniera malthusiana, per cui al di là delle grandi manifestazioni, che si possono contare sulle dita di due mani, c’è poi un’enorme quantità di piccole iniziative che hanno sostituito i cineclub degli anni sessanta. E questa proliferazione svuota il ruolo guida della Mostra, la sua funzione di scoperta, di luogo che coglie ciò che accade nel momento in cui accade. Nonostante tutto comunque il festival resta un’occasione importante per conoscere il cinema indipendente, oltre alle cinematograf ie dei paesi sconosciuti, e per avere al tempo stesso la possibilità di vedere e di toccare quasi fisicamente i divi e i grandi registi. Certo il suo potere si è abbastanza ridotto, dato che quasi tutti i film che hanno alle spalle una produzione significativa uno o due giorni dopo essere stati presentati a Venezia escono nelle sale di tutto il mondo. Ma non possiamo comunque dimenticare che al Lido è arrivato quanto di meglio ha espresso il cinema mondiale, da Kusturica a Wenders, da Fassbinder a Zanussi, e ancora Ioseliani, Kieslowski, Greenaway, fino ad Abel Ferrara, Takeshi Kitano e Zhang Yimou, che sono stati premiati proprio alla Mostra. E soprattutto bisogna riconoscere a Marco Müller questa sua conoscenza straordinaria dei paesi asiatici che caratterizza in modo importante la sua gestione, di cui complessivamente do un giudizio abbastanza positivo, anche se sono più colpito dall’inadeguatezza delle strutture e degli appoggi istituzionali per far fronte alla sfida di oggi, o dalla modestia delle presidenze, molto spesso più preoccupate di apparire che di elaborare un vero piano complessivo. O ancora dall’incapacità di valorizzare il patrimonio, basti pensare alla ricchezza inestimabile dell’Asac, da tempo invisibile e allo sbando. Oggi come oggi un buon programma lo mette su chiunque, mentre invece far navigare tutta quest’enorme struttura mantenendone l’aura e il prestigio richiede un coordinamento di forze e una politica che a mio avviso va ripensata in modo profondo.» (l.m.) Le foto sono tratte dal libro Lidhollywood, foto di Gianfranco Tagliapietra, su gentile concessione de I Anitchi Editori 65 Dintorni teatro Da «Dorothy» a «Him» le nuove direzioni di Fanny & Alexander di Rodolfo Sacchettini D orothy. Sconcerto per Oz di vello che si instaura con il pubblico, perFanny & Alexander ha debuttato a Venezia – Teatro Fondamenta Nuove ché gli spettatori sono invitati a prendeSkopje nel febbraio 2007. Arriva in re posto al centro dell’occhio del cicloHim 23 e 24 ottobre, ore 21.00 Italia il 10 ottobre al Teatro Comunale di Ferne – visivo e sonoro – su materassi della rara. Si tratta di uno spettacolo di teatro musiprotezione civile approntati per dare ricale o scène lirique che comprende un’orchestra da camera, una pianiparo ai rifugiati, come nello stadio di Houston durante l’urasta, un’oboista, una violinista, tre cantanti, tre attrici e un attore. gano Katrina, negli States. Il luogo è apparentemente asettiDa Dorothy. Sconcerto per Oz è nata un’altra performance, co, è il centro di un nudo teatro o di un palazzetto dello sport. Gli interventi sullo spazio riguardano in gran parte la disposizione e la natura delle luci, ispirate alle «scenografie luminose» di Dan Flavin. Sulle pareti vi sono circa 600 neon fluorescenti che vanno a comporre un organo a canne di luce o «aurora boreale», richiamando, tramite i colori primari, la sensazione del viaggio percettivo e variegato nel mondo di Oz. E infatti sembra di stare in una sorta di zattera comune, di navigare tra sopravScene da Dorothy, Sconcerto per Oz vissuti nella speranza di un approdo di salvezza. In questo senHim, che porterete a Venezia al teatro Fondamenta Nuove il 23 e 24 so mi pare ci sia una forte componente «utopica»… ottobre, in cui un attore nei panni di un Hitler in castigo (citazione delchiara lagani Più che essere già dei sopravvissuti, direi la famosa scultura di Cattelan), davanti a uno schermo cinematografico, che agli spettatori è data qui la possibilità di sopravvivere. doppia in lingua inglese, con un effetto comico involontario, tutte le parti Forse ci si salverà, ma il disastro e la salvezza sono «a venidell’intero film proiettato alle sue spalle. re». È vero che alla base di tutto c’è un’istanza utopica, ma la Dopo l’adolescente Heliogabalus vi siete immersi nel mondo di Oz e vera utopia è proprio la comunità; è un’utopia lo stesso geavete scelto la piccola Dorothy come figura «archetipica» della modernità. sto elementare e magari ingenuo di radunare delle persone in Vorrei entrare nel vostro lavoro dalla porta principale, cioè da questa sorun luogo come se fossero dei rifugiati. Quel che non è scontato ta di macro-personaggio interpretato e vissuto dalle diverse attrici e forse però è cogliere che la loro eventuale salvezza dipende unicadallo stesso pubblico… mente dal modo in cui saranno capaci di abitare quel luogo. chiara lagani Dorothy è una parola magica, un capienInfatti si sopravvive non solo al disastro del fuori, ma anche te spazio nominale al centro del quale sono «convocati» una al disastro di quel luogo. Il ciclone non è un semplice accadigran quantità di oggetti e persone: è il titolo di un’opera in mento esterno. Mi chiedo: se davvero queste persone fosseprimo luogo. È una bambina, la protagonista della storia nel ro dei rifugiati cosa succederebbe? Resisterebbero assieme? libro di Lyman Frank Baum, così come del film di Victor Si sbranerebbero tra loro? Scapperebbero? Fleming. Dorothy è anche il nome di un ciclone, secondo la A questo punto mi chiedo come ha preso «forma» la scena. Da Heliotremenda usanza di chiamare con nomi di donna le sciagugabalus a Dorothy, dallo spazio «privato» di una stanza-vagina alla re naturali o i funghi atomici. Ed è proprio questo il primo licondivisione «pubblica» della platea… 66 Dintorni teatro luigi de angelis Ci eravamo posti un assioma fondamentale. Quest’opera doveva mantenere l’accento sulla figura di Dorothy: ogni spettatore poteva assumere lo statuto della bambina Dorothy nella storia ma solo a partire dal disastro, il ciclone Dorothy. Così abbiamo posto lo spettatore dentro l’occhio del ciclone. La com-penetrazione ermafroditica è qui una vera orgia di sguardi degna del miglior degli Heliogabalus. Si tratta di uno spazio scenico plurimo che va contro l’idea della scenografia prospettica: tutti vedono e sentono da angolazioni differenti e devono scegliere quale linea seguire. Non c’è unità, è un cubismo fatto di tante monadi, di plurimi sguardi. Gli spettatori sono sui lettini in mezzo agli artisti e ognuna delle nove artiste recita dal suo lettino, come da diversi piccoli palcoscenici distribuiti nello spazio. Ognuno è chiamato a essere Dorothy, il pubblico e le artiste, ma quella dello spettacolo è in principio una specie di comunità «involontaria». L’adesione al modello Dorothy è dunque una responsabilità: tutti siamo Dorothy se scegliamo di viaggiare, di spostarci all’interno del gorgo di un’opera. In questo senso mi sembra che l’aspetto musicale sia fondamentale, perché la percezione dello spettacolo è soprattutto sonora. Fin dal titolo il lavoro si presenta come una sorta di nuova «opera». Da cosa nasce l’idea dello «Sconcerto»? messi in relazione per osmosi di carattere. I materiali letterari e musicali vengono da: Landolfi, Puccini, Delibes, Rousseau – Horace Coignet, Skriabin. Ogni artista «ripete» la sua parte attendendo il ciclone, e a partire da questi abbozzi di prove teatrali e musicali a poco a poco si segnalano le parentele e si sintetizzano i personaggi delle Streghe. Il modello di partenza sono le Europeras di John Cage, in particolare la n. 3 e la n. 4. Sono opere in cui gli artisti possono decidere simultaneamente, durante un tempo precisissimo, di cantare l’aria o interpretare la frase musicale che vogliono, all’interno di un repertorio fissato dal compositore che fornisce però solo indicazioni retoriche. L’ascolto di queste opere è stato il vero ciclone che ha fatto germinare Dorothy. Sconcerto per Oz. Un’ultima cosa, così come Dorothy, durante lo spettacolo siamo tutti pieni di «nostalgia», ma non sappiamo bene di cosa e non sappiamo esattamente perché… luigi de angelis Lo «Sconcerto» rispecchia l’idea dell’opera-ciclone. È una partitura multi-stratificata stabilita al millimetro con alcune variabili di improvvisazione a discreziochiara lagani La nostalgia per l’orribile Kansas è davvero ne delle artiste. La scansione temporale è data dal doppiaggio il più violento mistero! Questa nostalgia è una specie di pecdel soundtrack del film Il mago di Oz da parte del «guardiano» cato originale. Partire con nostalgia da un mondo sostanzialdel luogo, un personaggio che certo allude al mago di Oz e mente amato indica la volontà di far luce e strada a una veriche abbiamo battezzato «Him», citando Cattelan, come actà più alta, nascosta o criptica, qualcosa che sta sotto e aldilà cennavi. L’attore che impersona Him, Marco Cavalcoli, deve del mondo originario, qualcosa che era già presente. prestare attenzione non solo al soundtrack, di cui da vero ditNel film lo «scandalo» della nostalgia e del viaggio è stato tatore si è arrogato tutte le parti, ma anche al caos sotto di lui, esorcizzato dall’escamotage drammaturgico del sogno: nulla per intervenire e modificarlo. Him è sempre in maniacale reè davvero avvenuto, tutto è solo stato sognato. Ma nell’opera lazione con tutti i fili dell’opera che cerca di ricondurre verso di Baum Dorothy compie il suo viaggio perché ha bisogno di un’unità forse impossibile di cui lui stesso è l’emblema. una conferma. Qualcuno ha detto che Dorothy non si spoLe nove artiste invece, a gruppi di tre, sono le Streghe del sta realmente, certo è che si sottopone a svariate metamorracconto. Il ruolo della Strega è tripartito: una cantante, una fosi. L’imperativo del viaggio, anche se fosse solo una metastrumentista e un’attrice dan vita allo stesso fora, è sempre accettare di essere modificapersonaggio (Strega del Sud, Ovest e Nord) a ti da chi si troverà per strada per esser pronpartire dalla propria funzione. Ogni Strega è Ferrara – Teatro Comunale ti davvero all’incontro conclusivo, che è semla sintesi di un personaggio teatrale, operistipre quello con se stessi, con l’identico modiDorothy. Sconcerto per Oz 1 ottobre, ore 20.30 co e di un leitmotiv strumentale accorpati e ficato sé. 67 Dintorni teatro Nasce l’«Accademia teatrale veneta» V enezia, scenario naturale. Venezia, che inventa il teatro pubblico a pagamento. Venezia e la Commedia dell’Arte, Gozzi, Goldoni, il Carnevale, la Biennale. Venezia, patria di grandi attori. Molte sono le ragioni che inducono ad associare Venezia al teatro, persino la sua stessa conformazione urbanistica. Negli ultimi anni l’interesse e la domanda di teatro in città, sia in termini di produzione che di ricerca e formazione, sono notevolmente aumentati. Nuovi spazi sono stati aperti, sia in centro storico che sulla terraferma, è cresciuto il numero di spettacoli, performance ed eventi, è cresciuta soprattutto la domanda e l’offerta formativa.Partendo da questo quadro di riferimento, tre compagnie professioniste – Questa Nave, Pantakin, Veneziainscena – operanti nel territorio di Venezia e attive da più di un decennio nella formazione e nella produzione hanno deciso di unire le loro capacità ed esperienze per la creazione di un progetto a loro sentire necessario. Nasce così L’Accademia Teatrale Veneta. Il progetto di Accademia Teatrale risponde all’esigenza di dotare il territorio veneto di una scuola di formazione professionale per attori che offra un percorso formativo organico, graduale e strutturato, e soprattutto continuativo, alla stregua di realtà simili italiane ed europee, con le quali tra l’altro, alcuni degli insegnanti dell’Accademia collaborano da tempo. Di non secondaria importanza è poi il fatto che le compagnie fondatrici producono Teatro, garantendo così la possibilità di forme di apprendistato e di primo inserimento in ambito lavorativo. Riteniamo possibile e necessaria (e in tal senso ci adopereremo) una fattiva collaborazione con le grandi istituzioni culturali e formative del territorio veneziano (Biennale, Teatro Stabile, Università – con i suoi dipartimenti sullo spettacolo – La Fondazione di Venezia) e le piccole ma significative realtà che contribuiscono a mantenere vivo il tessuto culturale della città. Iurissevich, Michele Casarin, Ted Kaiser, Antonino Varvarà, per citarne solo alcuni. In aggiunta all’insegnamento curricolare (20 ore settimanali) sono in fase di definizione laboratori intensivi con professionisti di consolidata fama e insegnanti provenienti da grandi scuole europee, quali Andrzej Leparski (Institut de Teatre de Barcelona), Bob Heddle Roboth (Theatre National de Chaillot, Parigi), Tony Cafiero, José Sanchis Sinisterra, Boris Karpov, Mamadou Dioure. Tali laboratori saranno aperti a iscrizioni esterne e su di essi soprattutto auspichiamo collaborazione con Università, Fondazione di Venezia, Biennale e Teatro Stabile. La nostra scuola si propone un’attitudine di ricerca, coscienti di come non ci sia «un» modo né un «metodo» univoco e miracoloso di affrontare la formazione teatrale e di impadronirsi dei suoi supposti segreti, coscienti di come la maturazione di capacità creative, espressive e critiche si sviluppi su un terreno incerto, alieno da miracolismi e formule magiche. Sarà comunque sempre l’allievo stimolato a fare le proprie sintesi. Crediamo fermamente altresì che le idee vanno verificate nella prassi. Ci troviamo quindi aperti a diversi contributi pratici e ideativi, sapendo come percorsi differenti possano condurre agli stessi obiettivi e come il confronto di idee tra punti di vista solidi e motivati sia necessario per la maturazione dell’allievo e inevitabile per un insegnante che non voglia imbalsamarsi e intenda vivere creativamente il proprio mestiere. La struttura L’Accademia sarà strutturata in un laboratorio propedeutico, un biennio e un anno di specializzazione. Il Laboratorio sarà indirizzato sia a coloro che vogliono prepararsi a sostenere il provino per essere ammessi all’Accademia, sia a coloro che intendano fare una esperienza di avvicinamento al teatro come occasione di accrescimento personale, culturale e relazionale, senza tuttavia essere interessati a esso come professione. Alla fine del primo anno verrà prodotto un saggio-spettacolo. L’ammissione al secondo anno non sarà automatica, ma decisa dal corpo insegnante. Alla fine del secondo anno, che nuovamente si concluderà con un saggio-spettacolo, gli allievi avranno la possibilità di essere ammessi (dietro parere del corpo insegnante) al terzo anno, un corso di specializzazione dove potranno essere ammessi anche attori provenienti da altre scuole. Il corpo docente è composto da artisti da tempo dediti alla formazione e che lavorano sia in Italia che all’estero da molti anni: direzione didattica Renato Gatto; insegnanti: Adriano Per informazioni: [email protected] www.teatrojunghans.it tel. +39 041 2411974 Teatro Junghans - Venezia mob. +39 338 1143066 (Renato Gatto, direttore didattico) Accademia Teatrale Veneta Giudecca 494/b, 30133 Venezia - Tel/fax +39 041 2411974 69 Dintorni teatro «Capire il teatro o l’arte dello spettatore» Il progetto di Gianni De Luigi per la Fondazione di Venezia P romosso dall’Icai (Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale) di Gianni De Luigi per la Fondazione di Venezia, ha avuto il suo inizio il progetto «Capire il teatro o l’arte dello spettatore» (cfr. VeneziaMusica e dintorni n.16, p.67). «L’idea rivolge la sua attenzione non tanto all’educazione dello spettatore ma piuttosto al recupero della sua arte, facendo così esplicito riferimento a Bertolt Brecht e ai suoi drammi didattici. Brecht fece un lavoro davvero notevole per quel che concerne l’idea della pedagogia del bambino nella scuola, allo scopo di offrire allo spettatore strumenti che gli consentissero di interagire con gli attori anche da un punto di vista mentale. Nel tempo in cui viviamo, Brecht sarebbe disperato!» sorride De Luigi. «Ritengo che oggi ci sia una nuova arte dello spettatore: quella dello stare seduti, che implica il come riuscire a sostare di fronte a uno spettacolo dal vivo. Lo spettacolo elettronico, intendo quello offerto dalla televisione, dal computer, vede l’interazione avvenire su due fronti: nei riguardi dell’apparecchio, ma anche nei riguardi di noi stessi, in quanto abbiamo la possibilità di alzarci, di mangiare, di muoverci, ecc. portando così a un’esaltazione della disattenzione. Il progetto che con l’Istituto abbiamo orchestrato ha coinvolto 900 ragazzi di diverse scuole elementari e medie della provincia di Venezia. Trovo affascinante e fondamentale lavorare con i bambini, e anche con gli anziani. Tra loro riscontro due valenze molto importanti: da un lato l’aprirsi e dall’altro il chiudersi alla vita. Entrambi, bambini e anziani, sono spettatori particolarmente attenti, con emozioni estremamente naturali, non calcolate. Nelle esperienze fatte nelle scuole, ho voluto che tutti i ragazzi portassero con sé il telefonino perché potessero documentare quanto intorno a loro stava verificandosi. Ho voluto che avessero la possibilità di memorizzare su quel loro piccolo schermo emozioni che avrebbero poi potuto comunicare agli altri compagni nella loro intimità, creando così una zona di dialogo scevra da qualsivoglia tipo di intromissione da parte degli adulti. L’intervento nelle scuole, che di buon grado ci hanno accolto, va alle origini del teatro professionale, professionistico, che è il teatro della commedia dell’arte, oggi vista come manifestazione ludica, divertente. Per introdurre la commedia dell’arte ho scelto di agire molto sui miti televisivi dei ragazzi, molti dei quali trattano di divorzi, matrimoni combinati, denaro, droga, ecc. Si è agito dunque su tutto quello che fa parte della quotidianità delle informazioni che ricevono dalla televisione e dai giornali. Costruite le fondamenta con questo tipo di struttura e dinamiche (matrimonio/conflitto/genitori che organizzano il matrimonio, ecc.) ho cominciato a introdurre la commedia dell’arte. Innanzitutto gli attori, presentati senza i costumi di scena; quindi i personaggi, i vari Arlecchino, Colombina, Pantalone, che gli attori avrebbero interpretato. Non erano stati allestiti camerini e la trasformazione data dal trucco e dagli abiti di scena è avvenuta di fronte ai ragazzi. Grazie a questo percorso, si è voluto fare un gioco di smontaggio, il gioco più importante per le piccole leve: quello spinto dalla curiosità di vedere un oggetto nel suo interno. In questo caso, l’oggetto-corpo. La partecipazione è stata notevole e da questa esperienza i ragazzi hanno realizzato temi e disegni acuti e propositivi dimostrando così di aver ben compreso un primo approccio al teatro, con tutta l’attenzione che questo richiede e con la pazienza dello spettatore del teatro dal vivo. Ecco quindi che il rapporto ideale viene a essere quello di azione comune tra attore e spettatore. Per questo credo che oggi abbia senso il confronto tra i mezzi elettronici e i mezzi del corpo, tra la gestualità, la danza, il canto, rapporti continui e dialettici, intreccio perenne dove diverse espressioni possano e debbano essere messe a confronto. La grande rivoluzione è quella di dare il maggior numero di strumenti possibili. Il mezzo televisivo annebbia e allontana da una forma ideale. Se è vero che hanno ucciso l’ideologia, è vero anche che l’hanno sostituita con la televisione». (i.p.) 70 disegni di Alessia Formica Dintorni teatro «Methodika», pedagogia teatrale al di là di dogmi e gerarchie Docenti, attori e registi da tutto il mondo per il festival di Jurij Alschitz D ro enz e, U ffiz d San i). al 5 all’11 novembre, un uno dei significati più profondi che progetto prodotto da il festival vuole trasmettere». Fondazione di Venezia L’artista è centauro, in lui convivono «Molto spesso un metodo, che è e realizzato da Euterpe Venezia interessante in se stesso» spiega Jurij l’animale, l’umano e il divino. con il patrocinio dell’ITI/Unesco Alschitz, «diventa qualcosa di simiJurij Alschitz (Theater Training and Education le a un dogma per molte generazioCommitee) mette a confronto docenti di teatro, attori e ni, e questa è una catastrofe per il teatro. Ecco perché credo registi provenienti da ogni parte del mondo. sia importante spiegare ciò che intendo per “metodo pedaSi tratta di «Methodika», IV Festival internaziogogico”. Se lo si concepisce come qualcosa di fininale di metodi di training teatrale (cfr. Veneziato, fissato e sempre ripetuto, fosse pure bellissiMusica e dintorni n. 17, pp. 78 e 79) ideato e mo, si dovrà ammettere alla fine che è morda vari anni condotto da Jurij Alschitz. to. Credo che ora sia arrivato il tempo di Il progetto è stato presentato lo scorun forte momento di rottura nella peso 26 luglio all’Auditorium S. Mardagogia teatrale. Ciò che definiamo gherita di Venezia, mentre la se“metodo pedagogico” dovrebbe esconda Biennale Teatro firmata da sere un sistema aperto, che non paMaurizio Scaparro era al culmine ralizza gli allievi nella forma rigidel suo svolgimento. da di un concetto artistico molto «Sono davvero felice che la concreto, o di un indirizzo ideoFondazione di Venezia abbia logico, o ancora delle preferenvoluto presentare “Methoze di un insegnante. All’oppodika” durante il campus unisto inaugura la grande immaversitario internazionale (cfr. gine di un teatro senza dogmi VeneziaMusica e dintorni n. e senza gerarchie. Questo pro17, p. 33) promosso dalla Biengramma vuole influire positinale Teatro di quest’anno» dice vamente sul rinnovamento e Scaparro. «Lo leggo un segno sul ringiovanimento della petangibile della rilevanza che si dagogia teatrale, contro ogni vuole dare alla formazione: un stagnazione. Mi piacerebbe che aiuto per il lavoro che stiamo il festival “Methodika” da una svolgendo e una speranza ottiparte guardasse le materie conomista per un futuro da costruire sciute da un nuovo punto di vista, assieme». e dall’altra cercasse direzioni scoÈ Giampaolo Fortunati, vicenosciute, “alternative” nella pedapresidente della Fondazione, a ringogia teatrale, per aprire davvero tergraziare a sua volta Maurizio Scaparritori inediti. Forse possiamo cercare cel ir li, ro e la Biennale: «Questa comune viinsieme sistemi educativi completamenF , Mi ne r 482 sione del momento educativo-formativo, te nuovi per attori e registi. Se questi siste1 . c va e i l Centauro, ( la volontà di sostenere il talento e la creativimi saranno buoni o cattivi, se avranno succestà con iniziative originali e processi innovativi fanso o meno, soltanto il tempo lo potrà dire. L’artista no ben sperare per il futuro in una più intensa collaborazioè centauro, in lui convivono l’animale, l’umano e il divino. ne con la Biennale di Venezia, in quanto a esser condivisi L’artista ha una natura polimorfa, è corpo meticcio, può essono la visione e i principi che sere ponte tra mondi differenregolano la formazione teatrati. Credo sia abilità e necessità Le iscrizioni ai seminari di «Methodika Venezia» le. “Methodika” è un progetdell’artista il vedere, il riconosono aperte (il bando di partecipazione è scaricabile to inerente alla pedagogia teascere l’irraggiungibilità della trale e parla di un metodo che dal sito www.methodikavenezia.org). Verranno selezionati natura, della storia, della genin realtà è un non-metodo, che 15 partecipanti attivi e 20 uditori per ogni gruppo di lavoro. te, della vita e dell’Universo e selezione, effettuata l’1 agosto 2007, seguiranno le afferma l’idea di una libertà e Alla prima creare una combinazione nuoaltre con cadenza regolare fino all’inizio del festival. di una predisposizione all’apva per una vita nuova. Creare Per informazioni e iscrizioni: prendimento scevre da qualsinuova gente, nuove idee, nuowww.methodikavenezia.org voglia tipo di condizionamenvo teatro. Questo è ciò di cui [email protected] 041 2753232; 340 8431135 to: un’apertura mentale come abbiamo bisogno». (i.p.) Bo tti 71 Dintorni teatro Carlo Gozzi incontra le «favelas» di San Paolo Il progetto è di un attore veneziano che da tempo vive e lavora in Brasile A lvise Camozzi è un attore veneziano che da ormai più di sei anni lavora a San Paolo del Brasile, dov’è al centro di diversi progetti teatrali. Lo incontriamo durante il suo breve passaggio estivo in laguna. Se dovessi sintetizzare in poche parole il tuo percorso italiano cosa sceglieresti di raccontare? La mia carriera italiana si riassume facilmente. Mi sono diplomato alla «Paolo Grassi» di Milano nel ’98 con Martin Wuttke, ex direttore del Berliner Ensemble, su Quartett di Heiner Müller. Prima di entrare alla Civica ho frequentato la scuola veneziana A L’Avogaria. A Milano ho fatto parte di un gruppo di talento, molto unito e presuntuoso: prima di dividerci abbiamo montato Rosencranz e Guildestern di Stoppard al Crt e subito dopo abbiamo lavorato con Cristina Pezzoli su Horváth. Io volevo continuare la mia ricerca al di fuori delle proposte convenzionali, e ho partecipato a produzioni sperimentali più o meno riuscite, ma sempre coraggiose. Ma dopo due anni di follie ho rinunciato e ho cominciato a lavorare dove capitava, un po’ per scelta un po’ per necessità: una mezza stagione «canonica» tra Leonce e Lena di Büchner e Il giardino dei ciliegi di Cechov a Milano, poi un’esperienza con Giorgio Barberio Corsetti a Roma, e la mia prima prova alla regia, a Perugia, su un testo di Soriano adattato per Bolo Rossini. Alla fine ho deciso di accettare l’invito di Mauricio Paroni De Castro e ho codiretto con lui tre spettacoli per una mostra di drammaturgia contemporanea a San Paolo. Dal 2001 parte il tuo lavoro in Brasile. Come hai iniziato? È stato più difficile di quanto immaginassi. Il teatro in Brasile è completamente condizionato dalla televisione, i circuiti sono pochi e istituzionalizzati, non esistono teatri stabili di tradizione e il teatro di ricerca quasi sempre si ricicla in esperienze sterili. Anche lì c’è un’oligarchia di artisti che monopolizza le scelte, ma allo stesso tempo ci sono una vitalità e una curiosità invidiabili. Inoltre il panorama della produzione culturale in questi ultimi anni si è ampliato molto, perché si investe sempre di più in quest’area. Al principio comunque ho fatto l’insegnante, poi l’organizzatore, producendo eventi teatrali per l’Istituto italiano di Cultura di San Paolo (e non solo). Molto significative per me sono state le due mostre che ho promosso insieme a Luca Scarlini, una sul videoteatro italiano e l’altra sulla produzione drammaturgica contemporanea, grazie alla quale per la prima volta il pubblico di San Paolo ha sentito parlare, per esempio, di Antonio Tarantino, che considero il più grande drammaturgo italiano vivente e che in Brasile è completamente sconosciuto, come gran parte dei nostri autori contemporanei. Quando mi sono sentito sicuro ho ricominciato a recitare, interpretando Mefisto per Alvise Camozzi in Macbeth Gabriel Villela. Con lui abbiamo rappresentato il Brasile al Festival Cechov di Mosca due anni fa, con Faust. Cosa stai affrontando ora, e quali sono le prospettive per il futuro? Ho appena terminato una tournée di Macbeth, e ora comincio le prove di un lavoro di cui curo la regia, un pastiche di opere buffe di Rossini ambientato ai tropici, ideato per il Centro sperimentale di Musica di San Paolo. L’ho scritto a quattro mani con Christine Röhrig, la traduttrice in lingua brasiliana di Büchner e Heiner Müller. E poi c’è il progetto cui tengo di più, incentrato su Carlo Gozzi. Lo sto scrivendo per un’Ong che opera alla periferia di San Paolo, l’associazione Paideia: è un gruppo coraggiosissimo, che usa il teatro come forma di trasformazione e valorizzazione della comunità. Lavoreremo sull’universo magico delle favole gozziane, all’interno della favela, cioè letteralmente ai confini del mondo. L’idea muove attorno all’inversione del concetto di esotico, si tratta di un articolato progetto drammaturgico già a buon punto di elaborazione, che coniuga elemento artistico e realtà sociale, e che pensiamo si possa sviluppare durante il secondo semestre dell’anno prossimo, con uno spettacolo, laboratori e interventi anche dall’Italia, e spero proprio soprattutto da Venezia, la terra di Gozzi. Stiamo cominciando già adesso a pensare a un interscambio con la città, anche se i contorni non sono ancora definiti. Ma mi piacerebbe invitare alcuni artisti e studiosi veneziani ad aiutarmi. E poi certo sarebbe bello allestire lo spettacolo in laguna coinvolgendo tutti i ragazzi, ma questo per ora è ancora un sogno. (l.m.) 72 Dintorni danza Omaggio sulle punte ad Andrea Palladio All’Olimpico di Vicenza una serata dedicata alla danza di Susanne Franco N ell’imminenza delle celebrazioni per il quinto centenario della nascita di Andrea Palladio previste per il 2008, il Teatro Olimpico ospita il 22 settembre una serata interamente dedicata alla danza. I tributi al grande architetto iniziano dunque significativamente con un Gala che vede la partecipazione di nomi prestigiosi della danza italiana e straniera. Tra le étoile in cartellone figurano infatti Eleonora Abbagnato e Benjamin Pech (dell’Opera di Parigi), Silvia Azzoni e Alexan- confidato alle note di Chopin, recentemente Alessandra Ferri ha dato l’addio alle scene milanesi. In quell’occasione in molti si sono ritrovati a interrogarsi sull’eredità dei protagonisti della danza classica, ma anche su come sia possibile tramandare il suo fragile e preziosissimo patrimonio culturale. Per queste ragioni va apprezzata l’accortezza degli organizzatori del Gala che hanno deciso di dedicare la seconda parte della serata agli interventi di giovanissimi interpreti ritenuti il fiore all’occhiello della danza italiana, ovvero i membri del Junior Balletto di Toscana. Alla loro guida è Cristina Bozzolini, già prima ballerina del Corpo di Ballo del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e direttrice per quindici anni del Balletto di Toscana. La formazione, che ha debuttato nella stagione invernale 2004/2005, costituisce la struttura produttiva professionale della Scuola del Balletto di Toscana e rappresenta un vero e proprio vivaio di talenti, che in futuro si Benjamin Pech e Eleonora Abbagnato, La dame aux camélias spera possano trovare collocazione presso realtà condre Ryabko (dell’Hamburg Ballet – John Neumeier), Masolidate sia in Italia sia all’estero. Questa modalità, pora Galeazzi (del Royal Ballet di Londra), Alexander Zaitco diffusa nel nostro paese, di garantire l’avvicendamensev (dello Stuttgart Ballet), Giuseppe Picone (ospite presto generazionale alle formazioni «seniors» delle princiso lo Staatsoper Ballet di Vienna, il San Carlo di Napoli pali compagnie, non può che giovare alla consolidazioe l’Opera di Roma), e Giovanni Di Palma e Tatiana Paune dei processi di trasmissione di un repertorio e garantinovic (dell’Opera di Lipsia). Il programma si articola, core la sopravvivenza di tradizioni tecniche e stilistiche alme richiede la formula, attorno a pezzi celebri del grande l’insegna dell’altrettanto necessario spirito di innovaziorepertorio classico-accademico dell’Ottocento e di quelne. Per i Junior del Balletto di Toscana è prevista dunque lo neoclassico, ma punta anche su alcune creazioni conuna selezione delle creazioni dei nuovi coreografi contemporanee. Un evento nell’evento è costituito dai due temporanei che abitualmente collaborano con la compapas de deux tratti da La dame aux camélias, nella coreogragnia e che hanno sposato la linea della necessità di aprire fia che John Neumeier ha creato a partire dalla trasposinuovi orizzonti utilizzando la pluralità di linguaggi delzione del romanzo di Alexandre Dumas figlio (e non dalla contemporaneità. la più edulcorata versione della successiva pièce teatrale). Il Gala è preceduto dall’incontro con il pubblico condotProprio con questo pezzo, che esprime appieno la poetito dalla critica di danza Silvia Poletti, nella convinzione che ca intimista e la capacità introspetcon le giuste chiavi di lettura e i necestiva di Neumeier e che colpisce ansari strumenti di analisi si possa tutti che per l’originale scelta dell’accomassaporare al meglio un’arte spesso (e Vicenza – Teatro Olimpico 22 settembre, ore 20.30 pagnamento musicale interamente purtroppo) misconosciuta. 73