Condividere l`utopia e la nostalgia del Regno

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Condividere l`utopia e la nostalgia del Regno
APPROFONDIMENTI
Condividere l'utopia
e la nostalgia del Regno
Dall'essere la voce di chi non ha voce, a lasciare che tutti possano parlare: il mio
impegno per la giustizia, la pace e il creato. L’esperienza forte nell’ex Zaire e l’inizio di un nuovo cammino. Costruire vere e profonde relazioni umane. Alimentare una mentalità giusta e non violenta. Il significato del “gesto interrotto”. Interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo.
Patrizia Morgante
membro della Commissione Giustizia Pace e Creato della Famiglia domenicana
(www.giustiziaepace.org; [email protected])
(testo originale in italiano)
“S
ono felice ma povera!”, diceva in italiano e in inglese un cartello scritto a mano su di un carrello di
una donna africana senza casa
all'uscita di una fermata della
metro a Roma. Incredibile: sono
felice ma povera. Come dire
“non voglio la vostra compassione, solo che mi aiutiate a sopravvivere”. Un messaggio che
è un affronto: voi avete i soldi,
ma siete anche felici? È facile
fare considerazioni retoriche davanti a queste cose: ma voglio
correre il rischio. Quella donna
stava rilasciando in benessere
molto più di ciò che riceveva in
denaro: era magnetica la sua
persona, non si poteva passare
lì senza che ti strappasse un sorriso e ti aprisse il cuore. Questo,
forse, è ciò che intende un frate
domenicano che stimo molto,
quando dice: “Se vuoi preparare una buona omelia devi camminare attento per la strada: tro-
vi tanti spunti che le persone
“qualunque” ti danno, nel bene
e nel male.” Essere operatori di
giustizia e pace necessita questa attenzione, questa curiosità
verso l'umanità tutta, verso questa storia che è l'unica storia che
abbiamo da vivere: è la nostra
storia, ci appartiene, è quella
che dobbiamo conoscere per
potervi agire, con gli altri
e le altre. Non possiamo
chiuderci nei nostri conventi o case, per non farci
contaminare dalla vita, anche se è sporca e brutta.
modo dignitoso. Nostalgia perché se siamo fatti a immagine di
Dio, questo sogno, questo anelito di “benessere” ci abita dentro, nel nostro profondo. Il mondo è fatto da persone e da persone può essere cambiato. Nessuno è escluso. Questa responsabilità non è un peso per me, è
una spinta che sento, prima af-
Condividere l'utopia e la
nostalgia per il Regno…
sintetizzerei così cosa significa per me operare
per la giustizia, la pace e il
creato: un cammino quotidiano di ascolto e di gesti
mossi dalla nostalgia che
mi abita di un mondo
dove si viva tutte e tutti in
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fettiva e
spirituale e quindi razionale-intellettuale. È un'utopia che
mi aiuta a camminare con passione per costruire passo passo
un mondo più solidale, cooperativo, giusto e bello.
Non credo che questo possa essere un cammino solitario, egocentrico; penso si possa fare
solo in modo comunitario.
Come me, altri e altre condividiamo questo sogno nella Commissione Domenicana Giustizia
Pace e Creato, e nella neonata
Associazione Domenicani/e per
Giustizia e Pace. Siamo un gruppo di laici, suore e frati innamorati della giustizia e della pace,
nelle nostre contraddizioni e differenze. Non siamo un gruppo
di puri e perfetti, solo persone
che sognano e anelano, perché
sanno che esistono delle relazioni tra fratelli e sorelle, più
umane, più simmetriche, più
eque. Ogni anno la commissione sceglie un tema e, attraverso
varie iniziative, cerca di “animare e provocare” la Famiglia domenicana italiana su queste sfide della storia. Rileviamo molta
indifferenza, sfiducia, timore di
fronte a queste sfide: è comprensibile. Ma se la commissione vuole dialogare con chi la
pensa diversamente è necessario ascoltare le motivazioni di chi
vede la giustizia e la pace come
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qualcosa solo per chi è
di una parte politica.
Cosa muove le loro
idee? Che esperienze
passate hanno portato loro a queste conclusioni?
Ho iniziato ad affacciarmi al mondo
della povertà estrema dopo un viaggio nell'ex
Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), dove, come
volontaria di una ONG, ho visitato luoghi dove anche i religiosi faticano ad arrivare, dove abitano persone che “non contano,
non esistono”. Ho assistito con i
miei occhi alla morte di un bimbo per fame: è stato un dolore
paralizzante, che mi toglie ancora il fiato. Questo è accaduto nel
1996. Tornata nel mio paese ho
deciso che se non volevo rimanere con quel senso di
impotenza che era penetrato in tutto il mio corpo
e la mia mente, dovevo
trasformare la mia rabbia
in energia per capire le radici di questa ingiustizia
così orrenda. Non ho iniziato “facendo cose”, ma
ascoltando, studiando, investigando le motivazioni
della fame... Un cammino
di rivelazione, per scoprire che tante delle responsabilità erano nel mondo
dove abitavo, così ho fatto una
promessa all'Africa, il continente che mi ha predicato l'omelia
che ha segnato la mia vita: non
sarei più tornata in quel continente se non avessi iniziato un
percorso in Europa di rilettura
del colonialismo, vecchio e nuovo; se non avessi almeno iniziato
a contribuire al processo di far
aprire gli occhi a chi mi stava intorno, sempre nel rispetto dei
tempi e dei vissuti di ciascuno.
Non volevo diventare una fondamentalista del bene, non volevo che le persone avessero
paura delle mie idee e di ciò che
sentivo. Ho sempre preferito
parlare di quello che mi aveva
causato dentro la morte di quel
bimbo, piuttosto che di sole argomentazioni razionali che
avrebbero potuto leggere in internet o su un libro. Se desideriamo che le persone si “sensibilizzino” dobbiamo parlare con il
cuore ad altri cuori. Diventare
“sensibili” vuol dire recuperare
la nostra umanità per sentire su
di noi la felicità e la sofferenza
nostra e degli altri. Sensibili per
non anestetizzarci davanti alla
realtà.
Dall’alto in basso: Patrizia Morgante, al centro, con alcuni amici
Siamo nel cuore dell’Africa. Uganda, ragazzini che
giocano e Sr. M. Noelina Nakakawa al servizio dei
più piccoli
Per me operare per la giustizia e
la pace è costruire relazioni
umane che ci facciano stare
bene nel senso profondo e globale di questo termine (fisicamente, emotivamente, spiritualmente, mentalmente, socialmente, politicamente). Non
sempre questo si traduce in assistenza, elemosina, beneficenza per gli altri. Dal mio modesto
punto di vista, mi sono resa conto che la sfida più grande è
quella di alimentare una mentalità giusta e nonviolenta: ho un
grande lavoro da fare per allenarmi a pensare in modo critico,
andando al di là del visibile, decostruendo le mie prigioni e i
miei pregiudizi mentali. “Da che
punto guardi il mondo tutto dipende”, canta una canzone. Se
guardo il mondo dalla prospettiva di chi si sente sicuro, sarà
difficile comprendere empaticamente il mondo di chi è “precario”. Se guardo il mondo dalla
prospettiva periferica di chi si
sente escluso, insicuro, fragile, il
mio agire avrà il gusto umano
del rispetto, colorerà la relazione di simmetria. L'altro sente
con quali prerequisiti ci avviciniamo a lui/lei; sente se è ascoltato e accolto come persona
umana, e non trattato solo
come il destinatario della nostra
elemosina.
Sento che le nostre relazioni tra
culture e popoli diversi sono ancora troppo abitate dal colonialismo. Soprattutto chi vive in Europa e nei paesi più “ricchi” può
essere affetto da questa idea
che “noi” dobbiamo insegnare
qualcosa agli altri, che abbiamo
il progresso da portare. Quest'anno si celebra il tema della
Predicazione e Cultura nella novena del Giubileo domenicano.
Intuisco che può essere un invito all'ascolto rispettoso di sapienze e linguaggi diversi. Anche la realtà dei tanti popoli in
movimento ci anima a “interculturalizzare” la nostra mentalità.
Mi ha sempre creato un po' di
disagio l'espressione molto comune nel mondo missionario:
essere la voce di chi non ha
voce. Credo che il nostro impegno sia creare le condizioni perché ognuno possa dire la sua
parola in autonomia, perché
non ci siano impedimenti alla
partecipazione di tutte e tutti,
perché nessuno parli al posto di
altri, perché nessuno debba delegare altri a cambiare la propria
storia. Quando studiavo pedagogia (sono un'educatrice) mi
ha accompagnato un'immagine
che un professore ci ripeteva
sempre: il gesto interrotto.
Quando vogliamo aiutare qualcuno simbolicamente a rialzarsi,
porgiamogli la nostra mano, ma
arriviamo fino a metà del percorso, perché lui/lei possa fare
l'altro pezzo di strada e allungare la sua fino a raggiungere la
nostra. Se lo afferriamo sotto le
spalle, forse gli abbiamo impedito di fare la sua parte e contribuire alla sua liberazione. Il gesto interrotto comunica all'altro
che abbiamo fiducia in lui, nelle
sue risorse di potersi rialzare da
solo, seppur aiutato. Stare lì con
la nostra mano tesa ad attendere i tempi e i ritmi dell'altro è un
tempo benedetto e crea uno
spazio sacro, un silenzio e un
ascolto abitato dall'amore che
accompagna il nostro operare
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per la giustizia e la pace.
Credo che le sfide che oggi attendono gli operatori di giustizia e pace sono molto complesse e spesso difficili da dipanare
e riconoscere. La nostra società
globalizzata è una realtà ferita,
affettivamente sottosviluppata,
umanamente analfabeta. C'è un
forte bisogno di riconciliazione,
di guarigione di ferite interne e
sociali. C'è bisogno di una pedagogia dell'inclusione, del riconnettere, del lanciare ponti,
del perdono, dell'incontro autentico.
L'aumento dei beni non ha garantito a tutti un arricchimento
della nostra umanità. Anzi gli altri sono passati dall'essere compagni a essere competitori e nemici. Più posseggo, più tempo
ed energie dedico a conservare
i beni. Meno tempo ho da dedicare a ciò che farebbe bene alla
mia spiritualità. Talvolta noto
questo rischio anche nelle comunità religiose...
Leggevo i risultati di una ricerca
svolta in Inghilterra
(www.reading.ac.uk; www.sandiego.edu):
le persone più soddisfatte della
propria vita risultavano essere
quelle che svolgono volontaria-
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to e hanno figli. Il proprio benessere è legato alla relazione
con l'altro; siamo felici nella misura in cui siamo in grado di
uscire dal nostro egocentrismo
e spostare lo sguardo dal nostro
ombelico al volto dell'altro.
Oggi non è tempo di tante parole, i nostri giovani affogano
nelle parole, ma possiamo invitarli a sperimentare, a godere
della bellezza di essere attenti
agli altri e farsi carico della realtà. Il nostro compito può essere
accompagnarli e ascoltarli...
Parlare di tutto questo crea delle forti resistenze tra molti religiosi e religiose. Pensano che
operare per il benessere sociale
e politico di una comunità sia
fare politica; sono stati formati e
formate che la Chiesa non fa politica, ma teologia. Non sono la
persona adatta per dare risposte, sono solo una donna laica
che ha fondato la sua scelta cristiana sull'integrazione e non
sulla frammentazione tra Dio e il
mondo, tra Vangelo e storia
umana e sociale di un popolo.
Con tutta la fatica e le contraddizioni che questo comporta.
Non ho mai sentito la politica
una cosa sporca di cui non dovevo occuparmi, ho sempre sentito dentro di me che leggere il
Vangelo mi portava a parlare, a
cercare la soluzione più etica
nelle varie situazioni. Dalla famiglia alla scuola, dalla forma di
governo all'organizzazione sociale ed economica. Se non facessi questa sintesi tra spiritualità e politica, io sentirei di vivere
una fede zoppa, parziale, disincarnata. Ma questa è solo la mia
piccola esperienza. Posso capire
che per altri e altre può rimanere difficile cucire fede e prassi.
Quando prego e leggo il Vange-
lo, cerco di compenetrarlo con
la mia realtà, con le inquietudini
della storia nella quale vivo; cerco di penetrare la realtà con le
istanze etiche e le domande di
senso che Gesù pone ai suoi discepoli. Operare per la giustizia
e la pace è un continuo discernimento per interpretare i segni
dei tempi alla luce del Vangelo.
Ci sono domande chiave che
non dobbiamo mai smettere di
porci per non essere passivi, soprattutto quando guardiamo il
telegiornale con la nostra comunità: chi ottiene dei vantaggi da
questa azione? Chi invece perde
e ne subisce un torto? Chi sono
i protagonisti di ciò che accade?
Non basta pregare per le ingiustizie perché miracolosamente
Dio le faccia sparire: ogni giorno
mi domando qual è il contributo
che posso dare per essere strumento nelle mani del Signore.
Patrizia Morgante