Non è mai troppo tardi

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Non è mai troppo tardi
Non è mai troppo tardi
Ci sono alcune questioni che agitano la discussione sulla giustizia sulle quali val la pena di
riflettere. Tutti all’improvviso sembrano scoprire con stupore quel che da almeno dieci anni
l’UCPI ripete con convinzione e sulla base di dati offerti da una accurata rilevazione scientifica.
Oggetto della “scoperta” è che i problemi della giustizia sono quasi interamente ascrivibili alla
mancata organizzazione degli uffici ed alla carente razionalizzazione delle risorse. Non sono
dunque i troppi avvocati o le ridondanti garanzie ad ingolfare il sistema. Né i termini di
prescrizione ad essere troppo brevi e ad impedire che i processi facciano il loro corso. Ora si è
aperta una gara che vede in concorso, il governo, gli uffici giudiziari (da Napoli a Torino), l’ANM
e, da ultimo, il Consiglio Superiore della Magistratura, a denunciare questa ovvia verità. Che ci
sono troppi posti vacanti, troppi magistrati fuori ruolo. Che gli organici sono al collasso.
Eppure, sino a pochi giorni fa, tenevano campo, nel silenzio della Politica, le tesi palingenetiche
del dott. Caselli, il quale non vedeva altra soluzione per rimediare ai guasti di una giustizia
paralitica che tagliar via l’appello. E’ come se, siccome il pronto soccorso di molti ospedali ha
carenze di struttura e di personale, un illuminato amministratore pensasse di chiudere il servizio.
Secondo il proponente occorrerebbe “prendere atto che oggettivamente l’insufficienza delle risorse
costringe l’autorità giudiziaria a ridimensionare i suoi interventi e quindi la sua capacità di risposta
alla domanda di giustizia proveniente dal Paese”. Ed a suo avviso “l’unica strada realisticamente
praticabile … sembra quella dell’abolizione dell’appello, cioè del secondo grado del giudizio …
con robusti immediati vantaggi per l’amministrazione della giustizia”. Sembra davvero bizzarro
immaginare una amministrazione della giustizia che crede di poter fare a meno degli amministrati
e degli specifici interessi che una sana ed equilibrata amministrazione sottintende. Chi penserebbe
mai di poter amministrare un settore produttivo abolendo il controllo di qualità al fine di tagliare i
costi di produzione? Che importa se si immettono sul mercato prodotti scadenti o difettosi. E’
questo fare gli interessi degli utenti? Applicata al sistema giudiziario questa formula, dovremmo
sostanzialmente accettare che sentenze di primo grado vengano eseguite senza che nessuno
controlli se il giudizio di merito sia frutto di una malaccorta gestione della prova, di una
valutazione dosimetrica sproporzionata, di uno sbilanciamento persecutorio del giudicante.
Abolito il controllo, la macchina riprenderebbe a funzionare alla grande. Che poi si immetta sul
mercato un “prodotto” giudiziario rabberciato poco importa. Che viva la quantità a scapito della
qualità. Dimentica il dott. Caselli un dato che invece dovrebbe tenere a mente: che oltre il 40%
delle sentenze di primo grado viene in appello riformata, il che evidentemente significa che la
qualità della giurisdizione ha oggettivamente bisogno di un meccanismo di verifica e di
rivisitazione. Dire poi che l’appello sarebbe “escluso negli altri paesi che hanno un sistema
processual-penale di tipo accusatorio come il nostro” è davvero uno sproposito perché i sistemi
accusatori cui si riferisce il dott. Caselli sono fondati, come ben sa, su diversi presupposti
processuali ed ordinamentali. Come abbiamo più volte segnalato i sistemi processuali non possono
essere così disinvoltamente posti a confronto, come si trattasse di entità omogenee. Ogni modello
ha caratteristiche strutturali ed ordinamentali così diverse che un simile confronto risulta arbitrario.
La presenza di una giuria di pari, che sostituisce il giudice togato professionale, il verdetto
immotivato, la netta separazione delle carriere, il giudice e il pubblico ministero elettivi, la
discrezionalità dell’azione penale, rendono i sistemi processuali non confrontabili attraverso tanto
superficiali richiami pieni di suggestione populistica, ma totalmente insostenibili sotto un profilo
tecnico. Quali siano poi gli “interessi corporativi” che tenderebbero alla conservazione dell’attuale
sistema garantistico delle impugnazioni, ai quali allude il dott. Caselli, non è dato comprendere.
Un interesse forte per mantenere, e casomai potenziare l’appello viene piuttosto dalla collettività
che conosce i limiti manifesti della giustizia italiana, l’incertezza dei giudizi, la frequenza degli
errori giudiziari, e che non potrebbe essere certo rassicurata dall’idea di una abolizione
dell’appello che costituisce certamente un rimedio all’arbitrio ed all’errore, ricordando che se
l’appello non vi fosse stato Enzo Tortora sarebbe morto colpevole.
Ma non è mai troppo tardi. Ora qualcuno si avvede che i problemi - come ricordato ancora dal
Ministro Orlando - sono di natura organizzativa e che prima di tagliare garanzie fondamentali
sarebbe meglio ripristinare una macchina efficiente ed adeguata alle esigenze di un paese civile.
Eppure c’è ancora chi stenta a prendere atto di questa banale verità e continua a vedere la
responsabilità dei mali della giustizia, solo e soltanto fuori dalla Magistratura. La storia del
processo penale, i mali della prescrizione e dell’avvocatura italiana, così come raccontati dal
Presidente Davigo devono essere il frutto di una svista, il risultato di una disattenzione, o forse di
un lapsus o di una paraprassia. Dimentica infatti il dott. Davigo che in Italia il motore dei processi
sono le Procure e che le Procure sono presidiate da magistrati. Magistrati, e non manager corrotti,
le dirigono. Magistrati esercitano l’azione penale e dispongono delle indagini della polizia
giudiziaria. Magistrati indicono conferenze stampa e pubblicizzano i loro exploit investigativi.
Magistrati emettono misure cautelari e magistrati le controllano. Magistrati governano i tribunali,
le corti di appello e lo scrutinio di legittimità. Magistrati distribuiscono incarichi, regolano le
carriere, i concorsi e la formazione, somministrano promozioni e disciplina, esercitando di fatto
una autonomia ed una indipendenza che non hanno eguali al mondo. Eppure se sono troppo pochi i
colletti bianchi che scontano pene nelle nostre carceri non è colpa della magistratura, ma dei
codici, della prescrizione e, perché no, degli avvocati.
Dice ancora il dott. Davigo che il nostro codice è un codice “fatto per i delinquenti”. Ma ci
chiediamo allora se siano stagisti o volontari o tutte vittime di ingiuste detenzioni quei
sessantamila e più esseri umani che, in condizioni spesso disumane, sopravvivono nelle nostre
carceri. E ci chiediamo se non siano magistrati quelli che applicano e interpretano le leggi che
riempiono le carceri di persone in attesa di giudizio, in numero assai maggiore di coloro che
scontano pene definitive. E se non sono sempre magistrati che non applicano le misure alternative
previste dal nostro ordinamento penitenziario, la cui applicazione consentirebbe – come
dimostrano incontestabili statistiche – di abbattere il tasso delle recidive.
E pure se il 70 % del totale dei reati che si prescrivono evapora nell’affatto breve durata della fase
delle indagini preliminari, la colpa è sempre della prescrizione, e mai del pubblico ministero, che
di quella fase processuale è dominus incontrastato.
E non è stata certo la prescrizione, come afferma Davigo, a determinare il fallimento dei riti
alternativi ed il fallimento del codice accusatorio dell’88, ma la cultura di una magistratura
contraria al nuovo rito e ai riti negoziali, che ha usato poco e male la premialità, che ha scoraggiato
in tutti i modi patteggiamenti e riti abbreviati. Il nuovo codice, quando è usato da interpreti
adeguati, sostenuto da una decente organizzazione delle risorse e delle strutture, funziona eccome.
E lo dimostrano tribunali produttivi dove, nonostante gli avvocati, i processi si fanno e la
prescrizione è pari a zero.
Per una macchina processuale appena efficiente e degna di un paese civile non dovrebbe certo
essere la citazione (spesso più che opportuna) di una persona offesa o di un denunciante a
determinare la prescrizione del reato. Che sia questa la ragione della prescrizione di reati di gravità
medio-bassa, per il quali è previsto un termine niente affatto modesto di sette anni e mezzo sembra
proprio il risultato di una analisi molto poco obbiettiva che non concede nulla ad una critica
dell’operato della magistratura e che trascura del tutto gli elementi di natura statistica.
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In Italia vi sono ad esempio 3,2 Pubblici Ministeri ogni 100.000 abitanti, mentre in Francia 2,9
Pubblici Ministeri ogni 100.000 abitanti, i primi gestiscono all’incirca 5.766 notizie di reato, i
secondi ne gestiscono 7.996, e dunque quasi un terzo di più ed in tempi ragionevoli (dati della
Commissione Europea sull’efficienza della giustizia relativi al 2012). In questi paesi i reati non si
prescrivono, non perché i termini di prescrizione sono più lunghi o perché l’istituto è diversamente
congegnato, ma perché i processi ci celebrano rapidamente.
Qualche volta capita effettivamente che i reati vengano scoperti anni dopo la loro commissione,
ma si tratta di ipotesi marginali. Sa dirci statisticamente il Presidente Davigo, che cavalca
retoricamente questo argomento, quanto incida il fenomeno della emersione tardiva su quel 70% di
reati rilevanti che si prescrivono negli uffici dei Pubblici Ministeri? E quanti di questi casi si
riferiscono a reati di notevole gravità? Non a caso esistono reati imprescrittibili mentre per i fatti
meno gravi sarebbe infatti paradossale che gli stessi venissero perseguiti anche dopo che sia
trascorso molto tempo, quando oramai manchi un interesse sociale alla loro persecuzione. E non
corrisponde al vero che la legge Cirielli abbia modificato la prescrizione su questo punto.
Così come si tratta di una leggenda che proprio i reati di corruzione si scoprano molti anni dopo.
GIi stessi reati di corruzione di Mafia Capitale, tanto per fare un esempio, risalgono tutti a pochi
anni prima dell’inizio dello stesso dibattimento.
Vorremmo dire al dott. Davigo che quella che davvero è una “anomalia” tutta italiana, non è il
fatto che nel nostro Paese vi siano un terzo degli avvocati presenti in tutta l’Europa, ma il fatto che
l’Italia paghi 8 milioni di euro al mese per le inefficienze e i ritardi della propria giustizia. Sembra
pertanto opportuno ricordare al dott. Davigo che mentre il numero eccessivo degli avvocati
probabilmente impoverisce solo questa categoria di professionisti, la inefficienza di pochi
magistrati impoverisce l’intera collettività.
Ma non è mai troppo tardi. Qualcuno, prima o poi, in ANM o al Consiglio Superiore della
Magistratura, si accorgerà di quanto sia ingiusto far pagare le inefficienze del sistema ai cittadini
indagati, rendendo eterni i processi, come vorrebbe il dott. Davigo, e tagliando via le
impugnazioni, come vorrebbero Gratteri e Caselli. Qualcuno forse vedrà che l’anomalia è nei
rapporti ordinamentali che distorcono gli equilibri giurisdizionali nel nostro Paese, nella figura
stessa di una Magistratura onnivora. Se nell’intero mondo occidentale il problema è quello della
presenza ubiqua del giudice e della sua “ad hoc-crazia”, che oramai governa con le proprie
decisioni i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, dell’economia, dell’ambiente e
dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, in
Italia siamo molto indietro. Perché nel nostro Paese, un giudice che non è giudice (in quanto privo
del fondamentale requisito costituzionale della Terzietà) governa questi spazi smisurati, li crea, li
alimenta o li elimina a suo piacimento. Giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo
eletto. Governando la politica, pur essendo un funzionario. Collocato all’interno di una
Magistratura autocratica che si sottrae al potere legislativo, che stenta a riformarne l’organo di
governo. Quello che nel mondo occidentale è un problema politico-ideologico, nel nostro Paese
assume così le dimensioni di un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa
democrazia lentamente sprofonda, mentre risibilmente la politica discute di epifenomeni
marginali. Ma non è mai troppo tardi …
Roma, 27 giugno 2016
La Giunta
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