Robert Antoni Un flusso di corrente Patrick

Transcript

Robert Antoni Un flusso di corrente Patrick
Robert AntoniUn flusso di corrente
Patrick Chamoiseau
Texaco
Abilio Estévez Luci della Giamaica
Rita Indiana
Nomi e animali
Marlon James
Donne della notte
Earl Lovelace Il calzolaio Arnold
Kei Miller
Dodici appunti
per un lucente canto di luce
Lyonel Trouillot
Yanvalou
Elizabeth Walcott-HackshawGrosIslet
Asimmetrici arcipelaghi
Asimétricos archipelagoes
Scrittori caraibici contemporanei
Contemporary escritores des Caraïbes
cascioeditore
e
Babel
Festival di letteratura e traduzione
Earl Lovelace, nato nel 1935 a Trinidad. Autore di racconti, romanzi e scenografie, considerato uno dei maestri della contaminazione di inglese e vernacolo, nelle sue opere coglie e mette
in crisi i paradossi insiti nei cambiamenti sociali e i conflitti tra
cultura rurale e urbana. È vincitore di svariati, premi tra cui il
Commonwealth e il Bocas. In italiano Angelica ha pubblicato Il
drago non balla (2008), furiosa storia vernacolare delle steelband
e del carnevale.
Silvia Nicolini dopo la maturità classica ha conseguito la laurea
in Lingue e letterature straniere presso l’Università degli studi di
Milano con una tesi dal titolo Coetzee incontra Dostoevskij:
un’analisi del Master of Petersburg. Attualmente frequenta il
corso di laurea magistrale in Lingue e letterature europee ed extraeuropee presso lo stesso ateneo.
Il calzolaio Arnold
Earl Lovelace
Traduzione
di Silvia Nicolini
Il calzolaio Arnold se ne stava sulla soglia della sua piccola bottega da calzolaio con le mani sui fianchi, impettito in quella caparbietà padronale mai sconfitta, come ad annunciare, non senza
una certa soddisfazione, che se in vita sua non aveva trionfato,
nemmeno il mondo lo aveva sconfitto. Sarebbe difficile, però,
immaginare come sconfiggerlo, perché emanava un’irascibilità
così salda, tenace e ostinata, sprigionava una tale disponibilità al
conflitto, che se i Guai dovessero scegliere qualcuno con cui
scontrarsi, quel qualcuno non sarebbe certo il calzolaio Arnold.
Per lui il mondo era la sua bottega da calzolaio. Lì lui era il padrone, e chi entrava doveva arrendersi non solo alla sua opinione
su scarpe, pelle e apprendisti calzolai, ma anche al suo punto di
vista su politica, donne, religione, oggetti volanti, o la miriade di
argomenti su cui decideva di dissertare, così che negli anni si era
conquistato una posizione per cui nessuno degli abitanti del villaggio si prendeva il disturbo di contraddirlo, e a chi osava conservare un punto di vista contrario a quello che affermava lui
faceva notare prontamente: «Questo posto è mio. Qui faccio
come mi pare a me. Dico quello che voglio. Se non vi piace, quella è la porta».
Sua moglie aveva seguito quel consiglio molti anni prima e
se n’era andata non solo da casa, ma anche dal villaggio, portando con sé i tre figli e lasciandolo con le sue opinioni, una crescente propensione all’alcol e il tedio di doversi preparare da mangiare. Si sarebbe volentieri tirato in casa una delle ragazze del
86
villaggio, ma era troppo orgoglioso persino per ammettere di
averne bisogno e quando le ragazze passavano davanti al suo negozio, lui le guardava ben attento a nascondere dietro a un cipiglio di insoddisfazione una bella occhiata di apprezzamento, se
non lasciva; ma se capitava che una di loro facesse una capatina
alla bottega, ringhiava: «Che vuoi?». Così tra lui e le ragazze del
villaggio c’era questo rapporto provocatorio e scherzoso di antagonismo e desiderio; dal canto loro, quando transitavano davanti alla sua bottega le ragazze camminavano con un portamento
più distinto ed elegante, facevano ondeggiare i fianchi e fingevano di non vederlo, e lui, insoddisfatto, si accigliava.
Il suo rapporto con i giovani del villaggio non era migliore.
Secondo lui nessuno voleva lavorare e lui non intendeva lasciargli usare la sua bottega per battere la fiacca. Negli anni aveva
assunto numerosi apprendisti, li teneva per un paio di mesi e a
volte per un giorno soltanto, poi se ne sbarazzava; fu così che
non ebbe qualcosa di simile a un aiutante in pianta stabile finché
non arrivò Norbert.
Norbert, comunque, non era un ragazzino. Era uno scansafatiche, un bevitore di rum e proprio il tipo di persona che Arnold non avrebbe tollerato per più di cinque minuti, o così ci si
aspettava. Norbert punzecchiava le ragazze, era pappa e ciccia
con chi batteva la fiacca, giocava d’azzardo, beveva troppo, e
ogni volta che era giù di corda, prendeva e se ne andava e non si
faceva vedere per un mese. Arnold lo riaccoglieva sempre. Certo,
ci litigava, si lamentava, ma gli abitanti del villaggio che lo stavano ad ascoltare erano fermi nelle loro risposte: «Caro mio, a te
’sta cosa qua ti piace proprio. Ti piace che Norbert va e viene
come gli pare a lui e che fa come vuole. Ti piace eccome».
Più che gli avanzi, Norbert rubava i soldi di Arnold, vende87
va un paio di scarpe, perdeva un pezzo di cuoio, faceva pagare la
gente e s’intascava i soldi, qualcuno non lo faceva pagare per
niente, e combinava ogni mascalzonata immaginabile. Doveva
essere stato quello, ossia il fatto che Norbert non avesse mai ragione, a spingere Arnold a mettere in mostra una delle sue rare
qualità, la compassione. Era come se Arnold avesse bisogno di
Norbert per dichiarare non tanto al mondo, quanto a se stesso,
che non era la persona irascibile che tutti credevano fosse. Così
quando accoglieva di nuovo l’eterno figliol prodigo, Arnold, indulgente e compassionevole, era pervaso dall’idea della sua bontà e sentiva che nel mondo, a dirla tutta, non c’era nessuno più
generoso di lui.
Oggi era uno di quei giorni. Due settimane prima di Natale
Norbert era andato a prendere un pezzo di ghiaccio nel negozio
di liquori poco lontano. Era tornato il giorno prima. «Sì» pensò
Arnold. «Guardami, mica me la prendo». Arnold era felice
dell’aiuto perché aveva del lavoro da sbrigare per il quale le persone avevano già pagato un anticipo e che sarebbero venute a ritirare prima di Capodanno. Di quello era grato a Norbert. Norbert era leale, ma doveva mettere la testa a posto sulle cose giuste.
Era leale nei confronti di troppe frivolezze. Era leale nei confronti della ragazza che entrava perché voleva un vestito e dell’amico
che voleva farsi un goccetto. Un amico passava su un camioncino
e diceva: «Norbert, noi ce ne andiamo a San Fernando». Norbert
posava le scarpe che stava aggiustando, saliva sul camioncino
senza nemmeno prendere con sé un cambio di biancheria e se ne
andava. Non era il rum. Era una specie di pazzia, qualcosa dentro di lui che prendeva il sopravvento. Una settimana dopo, magari, tornava sudicio, stremato, magro come se avesse appena
fatto l’autostop in giro per il mondo in una cassa di carbone,
88
s’infilava nella bottega, si sedeva e riprendeva a lavorare come se
niente fosse. E se ci si metteva, sapeva lavorare. Norbert sapeva
lavorare eccome. Qualsiasi bottega di Port of Spain sarebbe stata
felice di averlo. Un lavoratore leale. Guarda qua! Questa settimana, quando la maggior parte dei negozianti aveva già chiuso
per Natale, Norbert sgobbava per finire le scarpe dei clienti.
Gratitudine. Dimostrava gratitudine. La gente non ha più gratitudine, ma Norbert ce l’aveva. Dipende da come si tratta la gente,
pensò. Bisogna capirla. Guarda qua come lavora bello tranquillo
nella mia bottega, uno degli ultimi giorni dell’anno, mentre in
tutta l’isola la gente fa festa.
Era sulla porta e guardava due ragazze per la strada, carine,
giovani, avvolte dallo spirito della pioggia e dei venti. Poi i suoi
occhi scorsero un carretto trainato da un asino avanzare lungo la
strada maestra che portava a Sangre Grande e se ne stette là davanti alla sua bottega con le labbra serrate a guardare il carretto
arrivare e passare oltre. Il vecchio Moses, il carbonaio, sedeva
appisolato con il mento sul petto e le redini in grembo. Dietro
sedeva un ragazzino; indossava un berretto e una camicia stracciata, aveva gli occhi svegli, i piedi penzoloni a lato del carretto e
una mano poggiata su un cagnetto bianco e marrone seduto accanto a lui.
Questo posto è un mortorio, pensò vedendo tornare le ragazze; e mentre guardava in alto verso il cielo, vide delle nuvole
scure e capì che stava per piovere, poi guardò il carretto. «Moses
va nel bush. La pioggia gli bagnerà la coda» disse. E come irritato
a quel pensiero, disse: «Vuoi vedere che Moses non ce l’ha una
famiglia sua per passare Capodanno?». Il tono andava di pari
passo con la rabbia. «Perché la sua famiglia non può accoglierlo
e dargli da mangiare e da bere e farlo felice per Capodanno, inve89
ce che costringerlo ad andare nel bush a farsi bagnare la coda? È
così che viviamo a questo mondo» disse mentre si sedeva sul
banco da lavoro e prendeva una scarpa da aggiustare. «È così che
viviamo a questo mondo. Come bestie».
«Magari è lui che se ne vuole andare nel bush» disse Norbert.
«Magari va a dare un’occhiata alla sua cava di carbone, a controllare che il carbone non brucia e diventa polvere».
«Come delle bestie, cavolo» disse Arnold. «Bestie», quasi
non avesse sentito Norbert.
Ma poi, dopo aver cominciato a lavorare, dopo aver preso il
ritmo del cucire e tagliare e battere la pelle, e aver cominciato a
passare la cera sullo spago con mano delicata ma ferma, si sentì
pervadere dalla sensazione del Capodanno imminente e pensò
alle ragazze e alla pioggia, e pensò alla sua vita e alla sua solitudine, e al fatto che beveva, e al mondo e alla gente, gente senza
famiglia, in mezzo alla strada e negli orfanotrofi, e a quella sulle
panchine dei parchi sotto gli alberi. «Il mondo deve stringere i
freni» disse. «Il mondo deve stringere i freni… E tu, Norbert,
anche tu devi stringere i freni» disse affrontando per la prima
volta la questione della partenza di Norbert due settimane prima
di Natale e il suo ritorno solo ieri. «Non ce l’ho con te. Lo sai che
non ce l’ho con te. Parlo perché so come va la vita. Parlo perché
so del tempo. Il tempo è tutto quello che c’abbiamo, ragazzo mio.
Il tempo… Un tempo per vivere e un tempo per morire. Mi stai
a sentire? Norbert?».
«Che?».
«Dico che c’è un tempo per vivere e un tempo per morire…
Ti pare vita questa?».
Norbert rovesciò un poco la testa indietro e per qualche
istante sembrò guardare nel vuoto, pensieroso e concentrato.
90
«Stiamo morendo,» disse «stiamo morendo, non ci sono cazzi».
«Cavolo, c’hai proprio ragione. È il rum che ci uccide. Il rum.
Mica le bombe o il cancro o qualcosa di ragionevole. Il rum. Ti
pare che il rum deve ucciderti?».
Norbert tirò lo spago e sorrise.
«Ma in questo posto il rum ti uccide. Che altro può uccidere
un uomo qui? Che altro si può fare se non bere, andare alla malora e morire? È per questo che parlo. La gente non mi capisce
quando parlo, ma è per questo che parlo».
Norbert infilò di nuovo lo spago con un sorriso; con una
mano teneva la scarpa e con l’altra tirava fuori lo spago. «Stiamo
morendo davvero!» disse come se avesse scoperto una qualche
verità di cui far tesoro. «Stiamo morendo… non ci sono cazzi».
«È per questo che parlo. Voglio che noi… che ti stringi i freni,
che ti metti un po’ d’olio nella lampada, che ti metti un po’ d’acqua nel vino».
Norbert rise. Era allegro al solo pensiero, anche mentre parlava: «Stiamo morendo, non ci sono cazzi, tutti quanti noi, tutti.
Ah Ah ah ah». Poi prese il martello e cominciò a battere là dove
aveva cucito la pelle: «Ah ah ah ah ah!».
Arnold finì di aggiustare la scarpa e osservò la pila di scarpe
nella sua bottega. «Mi sa che un giorno venderò tutte le scarpe
che la gente lascia qua. Gli viene la fregola che gliele aggiusti. E
tu usi pelle, spago, chiodi, tempo. Usi il tempo e un anno dopo
quelle scarpe son ancora qua che ti guardano. Mi sa che a Capodanno venderò tutte ’ste cavolo di scarpe».
«Tutti quanti noi, ciascuno di noi» s’intromise Norbert.
«È per questo che ’sta bottega pare sempre un immondezzaio».
«Andiamo a farci un goccetto di rum, eh?» disse Norbert. E
mentre Arnold lo guardava: «Offro io, amico. Su che siamo
91
ancora nell’anno vecchio».
«Rum?» Arnold fece una pausa. «Ragazzo mio, quanti anni
è che c’hai?».
«Ventinove».
«Ventinove! Mi prendi in giro. Vuoi dire che c’ho ventun
anni più di te? Allora stiamo proprio morendo. Norbert, stiamo
morendo. Ragazzo mio, la vita ti riempie di botte». E buttò per
terra la scarpa che stava per aggiustare.
«Abbiamo ancora tre paia di scarpe che verranno a ritirare
stasera» disse cauto Norbert. «Le scarpe di Corbie, le scarpe di
Synto e i sandali di Willie Paul».
Arnold si chinò per riprendere la scarpa. «La vita non ti
tratterà mica con i guanti. Io c’ho ventun anni più di te? Norbert,
devi stringere i freni» disse. «Ascolta, bello, mi fai paura. Quando vedo dei tizi giovani come te nelle tue condizioni a me mi
fanno paura… Ascolta. Norbert, dimmi qualcosa! Ho mica
l’aria di uno che ha preso botte come te? Eh? Dimmi la verità.
Ho mica l’aria di uno che ha preso botte come te?».
«Stiamo morendo, non ci sono cazzi, tutti quanti noi, tutti»
disse Norbert.
«No, sul serio. Dimmi. Ho mica l’aria di uno che ha preso
botte come te?».
«Guarda, c’è qualcuno alla porta» disse Norbert.
«Che vuoi?» sbottò Arnold. Era una delle ragazze del villaggio, una rotondetta con dei capelli impomatati sulla fronte che la
facevano sembrare un grasso pony.
«Vedi di non urlarmi in faccia. Son qui per le scarpe di Synto».
«Be’, non mi va che si batte la fiacca sulla porta. Entra, siediti
e aspetta che adesso le finisco». La vide guardare fuori e dire
qualcosa a qualcuno. «C’è qualcuno con te là fuori?».
92
«Non c’ha voglia di entrare».
«Digli di entrare. Non voglio che si batte la fiacca sulla porta.
Questo è un posto dove si lavora». Disse forte: «Entra. Che fai lì
fuori?».
La ragazza che entrò era quella che gli ricordava la pioggia,
il muschio e le foglie. Provò a distogliere lo sguardo, ma non ci
riuscì. Anche lei lo guardava.
«Ti faccio paura?» disse, e non sapeva che suono avesse la sua
voce, anche se in quel momento, pensandoci, voleva che suonasse
dura.
«Un po’» disse lei.
«Su, siediti» disse, e a Norbert gli uscirono quasi gli occhi
dalle orbite. Che cosa stava succedendo? Arnold che si alza,
prende una sedia nell’angolo e la spolvera addirittura. «Siediti.
Tra un attimo le scarpe son bell’e pronte».
Lei lo osservava lavorare e l’intera bottega era grande come
lo spazio intero, e piena di affanno e di pioggia e di muschio e
foglie verdi.
«Sei la figlia di Synto?».
«La nipote» disse lei.
Quando finì di aggiustare le scarpe si guardò intorno alla
ricerca di una borsa di carta in cui metterle, perché aveva visto
che lei non l’aveva con sé. «Quando vieni a ritirare le scarpe devi
portarti dietro qualcosa in cui farle su. Non puoi mica andare in
giro con le scarpe in mano».
«Sì» disse lei. «Sì». Pronta, come se volesse compiacerlo.
Trovò un giornale che aveva messo via da leggere per quando ne avesse avuto il tempo e ci avvolse le scarpe, fece un pacchetto, lo legò con lo spago e glielo diede; lei lo prese e gli disse:
«Grazie», con quella faccetta buffa e quella voce che gli faceva
93
male dentro, poi se ne andò, lasciando quell’affanno nella bottega, e il profumo del muschio e dell’aloe e delle foglie, ed era come
se tutto il suo lavoro fosse finito. E quando riprese a respirare
infilò la mano in tasca e tirò fuori dei soldi e disse a Norbert: «Va’
a prendere un goccetto». E si fecero un goccetto, tutti e due; poi
chiese a Norbert: «Dov’è che sei andato a prendere il ghiaccio?».
Non ascoltò nemmeno la risposta perché giusto allora capì come
Norbert potesse, come un uomo potesse, prendere e andarsene.
Aveva appena capito come lui potesse lasciare tutto, prendere e
andarsene.
«Te la sei spassata?». Anche se quelle non erano le parole giuste. Spassarsela! La gente non se ne andava per spassarsela! C’era
qualcosa di più. C’era qualcosa di più profondo, una vocazione,
qualcosa che si risvegliava nel sangue, nella mente. «Hai capito
che intendo?».
«Sì» disse Norbert in tono triste, a bassa voce e spaventato
per Arnold, ma senza volerlo mostrare.
«Anch’io sto morendo» disse Arnold. Poi si alzò e all’improvviso disse: «Questo posto ha bisogno di quadri. Dobbiamo
tenere anche delle borse di carta come in un vero ‘esercizio’». E
con lo stesso sorriso disse: «Guardala. Quella ragazza dice che
c’ha un po’ paura di me. Sì, mi sa che ha ragione. Un po’. Non è
che c’ha paura di me. C’ha un po’ paura di me».
Quando alla sera chiusero la bottega andarono entrambi a
Tapana Trace da Britto. Britto li aspettava.
«Ah,» disse «eccoli che arrivano. È da prima di Natale che
bevo e non riesco a ubriacarmi. Non c’è più nessuno per berci del
rum insieme. Ma ora eccoli qua».
Entrarono e Britto sparecchiò il tavolo e ci mise sopra tre
bottiglie di rum, una per ciascuno, una caraffa d’acqua e un bic94
chiere per ciascuno, e cominciarono a bere.
Mezz’ora dopo arrivò il gruppo che cantava la parang, e intonò una aguinaldo e una joropo, e intanto bevevano, e Norbert
cominciò a cantare con loro la bella musica spagnola delle feste
che faceva venir voglia di piangere ad Arnold. E poi fece notte e
il gruppo che cantava la parang era ancora lì e arrivò la famiglia
della moglie di Britto e un paio di amici di Britto e le donne cominciarono a ballare con i bambini piccoli e poi Josephine, una
vicina di Britto, afferrò Arnold e lo tirò a sé per ballare e lui provò a ballare un pochino e poi si sedette e tirarono giù la lampada
a gas e l’accesero e la moglie di Britto prese la porzione di lappe
che aveva cucinato in cortile e mangiarono e bevvero, e con la
musica e i bambini e le donne, tutto, tutto quanto era dolcissimo.
Era dolcissimo. E Norbert, più ubriaco che sobrio, seduto in un
angolo a parlare con la sorella di Clemencia, prese un’altra bottiglia di rum, ne ruppe il sigillo ed era sul punto di portarla alle
labbra, quando incrociò lo sguardo di Arnold ed esitò, poi se la
portò alle labbra. «Lasciami, sono bell’è che morto» disse. E Arnold si sedette e pensò a questa ragazza, la ragazza che riempiva
il mondo di affanno e del profumo di aloe e foglie e muschio, e
sentì che se lei gli fosse stata seduta accanto, anche lui sarebbe
stato felice di essere bell’e che morto.
95