Indice - Erickson

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Indice
Introduzione
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Prima parte – Interviste e dibattiti
Capitolo primo
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
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Capitolo secondo
Intorno alla Clinica del vuoto
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Capitolo terzo
Angoscia e anoressie
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Capitolo quarto
L’anoressia come malattia ipermoderna
55
Capitolo quinto
La sublimazione non è il paradiso
61
Capitolo sesto
La fragilità ipermoderna
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Capitolo settimo
A margine de L’uomo senza inconscio
81
Seconda parte – Radiofonia
Capitolo ottavo
Il malessere contemporaneo
103
Capitolo nono
Il disagio della giovinezza
117
Capitolo decimo
L’adolescenza di oggi e i nuovi sintomi
137
Capitolo undicesimo
Il soggetto ipermoderno è senza inconscio
155
Capitolo dodicesimo
Liquidità e solidità: due facce dell’uomo senza inconscio
165
Capitolo tredicesimo
Quello che resta del Padre
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Terza parte – Marginalia
La mia formazione e il mio rapporto con la psicoanalisi 187
Introduzione a Cos’è Lacan?
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Il Nome del Padre ha avuto per me il Nome di una donna 211
Indice dei nomi
221
Introduzione
L’albero si riconosce dai suoi frutti.
Mt 44
Il frutto e l’albero. Il problema della formazione è stato filtrato frequentemente da questa immagine. Come un albero può dare i suoi frutti?
Come un albero può diventare capace di generare frutti? Conosciamo l’ira
di Gesù verso l’albero di fico che non sa fruttificare e la sua condanna alla
sterilità eterna. È la stessa ira che anima, in una celebre parabola evangelica,
la stizza del padrone dei campi di fronte a colui tra i suoi servitori che ha
preferito seppellire il suo talento per conservarlo, anziché rischiare di farlo
fruttare. «Per paura», per paura ha deciso di seppellire il denaro consegnatogli
dal suo padrone, precisa il servitore. Ha scelto di sotterrare la sua quota per
paura di perdere tutto. È la paura che frena la vita nel generare i suoi frutti.
È la paura che ha spinto l’uomo a interrare il denaro. È la paura, l’assenza
di fede, che insterilisce l’albero. «Chi più ha più avrà!», insiste invece Gesù,
esasperando volutamente la radicalità del suo messaggio: solo l’esposizione
dell’esistenza al rischio della nuda fede rende possibile la generatività, solo
la spinta a dare i propri frutti rende la vita degna di essere vissuta.
Ma non è forse questa una possibile definizione psicoanalitica del
desiderio? Non è il desiderio la forza della nuda fede? Chi più ha fede, chi
più rischierà sulle sue possibilità, chi più si saprà esporre alla contingenza
illimitata dell’esistenza, all’imprevisto, alla sorpresa dell’incontro, chi più
avrà questa fede, la nuda fede del desiderio, più saprà rendere le possibilità
davvero possibili, «più avrà» sostiene Gesù. Altrimenti c’è il destino del
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Elogio del fallimento
fico che perde l’appuntamento col desiderio. Perché è sempre «adesso»
che si tratta di dare i propri frutti. Non chissà quando, non più tardi, non
quando sarò sufficientemente maturo. Tra le foglie del fico non c’è un solo
frutto. Il fico è allora maledetto per l’eternità perché ha mancato il tempo
della soddisfazione. Il suo destino manifesta così il destino che attende
quell’esistenza che riduce la sua vita alla mera sopravvivenza biologica, alla
conservazione di sé, alla difesa strenua di quello che già ha. Il talento resta
assente, viene sepolto sotto terra. Per paura, dicevamo. L’arretramento della
vita, l’assenza di possibilità, la rinuncia alla speranza, la rassegnazione, il
ripiegamento mortifero e depressivo sono tutte strategie di evitamento del
rischio del desiderio.
Tra l’albero e il frutto c’è sempre un salto, una discontinuità. L’albero
può restare sterile, può non generare nulla. In questo si rivela tutta la portata etica della metafora cristiana. La predicazione davvero esistenzialista di
Gesù non pone il problema dell’esistenza a partire dalla centralità dell’eidos,
dall’essenza universale dell’umanità; per lui non è l’essenza che determina
l’esistenza, non è l’essenza che precede l’esistenza, perché ciò che lo interessa
è la possibilità, o meno, che un albero particolare possa, o meno, essere
generativo, che sappia o meno generare i suoi frutti. Non l’idea dell’albero
— e nemmeno, come pensa l’Heidegger di Che cos’è la metafisica?, la terra
che ne accoglie le radici —, ma solo i suoi frutti. Questo significa che ciò
che più conta non è determinare essenzialisticamente l’esistenza dell’albero
ma considerare questa esistenza alla luce di ciò che ha saputo, o meno,
generare, alla luce delle sue azioni. È il frutto a chiarire retroattivamente la
stessa idea di albero. È, infatti, solo dai suoi frutti che possiamo riconoscere
la stoffa dell’albero. Questo radicale rovesciamento del platonismo, sempre
in opera nella predicazione di Gesù, attraversa anche la psicoanalisi, per la
quale il desiderio è innanzitutto un compito etico che spetta al soggetto
assumere o disattendere: sarò stato capace di non cedere sul suo imperativo?
Sarò stato in grado di non indietreggiare, di non evadere, di non evitare la
responsabilità che la sua assunzione implica? Ho disperso o ho fatto fruttificare il mio desiderio?
Il disagio della giovinezza ha certamente a che fare con l’albero e i suoi
frutti. Il tempo dell’adolescenza è il tempo che più di altri svela come il
destino del frutto non sia affatto già scritto nell’albero. Il risveglio di primavera dell’adolescenza investe innanzitutto e, non a caso, la necessità, come si
Introduzione
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esprimeva Artaud, di «rifarsi un corpo», di inventarsi un corpo nuovo che
sarà sempre un frutto imprevisto dall’albero. Quando è in gioco la soggettivazione non è, infatti, mai una questione di evoluzione, di maturazione,
di dispiegamento di un programma biologico predeterminato. C’è sempre
una sorta di sproporzione, di anomalia, di devianza, di eccentricità tra la
crescita dell’albero e il suo frutto. Quando in gioco è l’albero-soggetto non
esiste solo automatismo, non esiste solo necessità naturale. Lacan ce lo ricorda
con insistenza; il soggetto non risponde a una legge, non è l’effetto di una
causalità necessaria, non è il frutto già contenuto nel programma dell’alberoeidos. Lo sappiamo: ci sono alberi sterili, alberi che non fruttificano, alberi
morti, come il fico a cui Gesù non risparmia la sua maledizione. Ci sono
alberi sradicati dalla violenza della vita, travolti da inondazioni, spezzati
dai fulmini, marciti per malattie. Il frutto non è custodito, né protetto in
nessuna essenza. Nessun Padre, nessun Nome del Padre, nessun grande Altro
potrà mai garantire all’albero i suoi frutti. Nessun Padre potrà salvarci. Il
frutto non è il destino ineluttabile dell’albero. Resta un evento contingente
che può accadere o meno. Ma è da questo evento, e non da una essenza già
scritta, che un albero può essere riconosciuto per ciò che è. È il frutto, come
predica Gesù, la verità dell’albero; è solo dal frutto che si giudica un albero.
Il disagio della giovinezza è generato dall’incontro con l’impossibilità che
l’Altro possa garantire il desiderio del soggetto. Le identificazioni infantili che
ci hanno protetto dalla contingenza traumatica del desiderio e che ci hanno
offerto una appartenenza più o meno sicura al luogo dell’Altro, si disfano e
lasciano il posto all’emergere di una singolarità che non può più subordinare
la propria soddisfazione a quella dei suoi genitori. L’adolescenza è il tempo di
uno strappo che esige però anche la forza di sostenere questo gesto nel tempo,
nel tempo della soggettivazione. Quando lo strappo necessario non è sostenuto
soggettivamente nel tempo, può dare luogo, come la clinica dell’adolescenza ci
mostra, a derive dissipative. La separazione può confondersi con la dissoluzione,
la soggettivazione come una rivolta senza pace. Pensiamo, tra i tanti esempi
possibili, all’esperienza tossicomanica o a quella dell’anoressica. Le anoressie
possono essere, in effetti, una risposta al disagio della giovinezza che finisce
per assolutizzare la separazione, per declinarla come in una opposizione pura
verso l’Altro. Se l’Altro della garanzia e della protezione non esiste o nasconde
la sua inesistenza rivelandosi soffocante e superegoico, onnipresente, l’anoressia
è un tentativo di rispondere a questa inesistenza cementando il corpo, com-
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Elogio del fallimento
pattandone l’esistenza, escludendo la contingenza del desiderio, separandolo
dal desiderio dell’Altro. Si tratta di provare a fare esistere l’Altro per il tramite
di un corpo che assume i caratteri di un fascio, di una lega, di un minerale.
Come se il corpo dovesse essere salvato dal rischio della contaminazione con
l’imprevedibilità del desiderio. Se il disagio della giovinezza scaturisce dall’incontro con l’inesistenza dell’Altro, la tentazione è sempre quella di risolvere
questo disagio riabilitando un Altro ideale in grado di rassicurare la vita dal
rischio della vita. Ma il prezzo di questa riabilitazione può essere proprio la
sterilità dell’albero. L’anoressia è un nome preciso di questa sterilità. Non c’è
in realtà alcuna possibilità per l’essere umano di fare a meno dell’Altro. Il
desiderio è sempre, ripete Lacan, desiderio dell’Altro.
Il disagio della giovinezza dei nostri tempi è più caratterizzato dalla sterilità del desiderio, dalla sua assenza che non dal conflitto che la sua presenza
provoca. Lo aveva già visto bene Pasolini quando rimproverava ai giovani
del Sessantotto — e lo stesso farà Lacan — di criticare i padri solamente
per cercare un altro padrone, assai più ineffabile e potente: la macchina
del discorso del capitalista. Se consideriamo questa tendenza conformista
come un tratto del disagio della giovinezza ipermoderna, non possiamo non
considerare il fallimento come una possibilità autentica per il desiderio. Si
tratta di recuperare il fallimento come una manifestazione del desiderio e
non come un mero insuccesso nell’affermazione del proprio io. L’erranza,
lo sconfinamento, la perdita di sé possono essere le occasioni per l’incontro
con il proprio desiderio rimosso. Diversamente, molto malessere giovanile
sembra oggi assumere le forme apatiche di un conformismo ordinario o di
una compulsione a godere del tutto prive dell’eros del desiderio.
L’esperienza dell’analisi mostra che il frutto dell’albero non si chiama
mai con un solo nome. E soprattutto non si chiama né «adattamento», né
«trasgressione». Non è mai un frutto già conosciuto, un frutto seriale. Il
frutto che rende riconoscibile l’albero è sempre particolare, fuori serie, unico.
Il frutto non coincide col successo sociale o con l’affermazione professionale
di una vita. Essere un albero capace di fruttificare non significa essere un
albero di successo. Non esistono gerarchie nel desiderio, non esistono frutti
di serie a o di serie b. Ciò che conta è far fruttare il proprio talento, ciò che
conta è dire di «sì!» alla contingenza illimitata dell’esistenza.
La realizzazione del soggetto del desiderio può seguire le vie più diverse.
Il culto dell’affermazione dell’io e del successo è proprio del discorso del
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capitalista. Ma il successo può essere altrettanto sterile della dissipazione. Per
questo è meglio passare dalla via del fallimento. L’elogio del fallimento non
è l’elogio della sterilità, né l’elogio della consumazione di se stessi. Come
diceva Fabrizio De André, in una celebre canzone, dai diamanti non nasce
niente mentre dal letame possono nascere i fiori. La psicoanalisi conferma,
come già pensava Freud, il detto del poeta; essa insegna che sono proprio le
cause perse quelle che possono dare i frutti migliori. Solo chi si è perduto,
chi ha conosciuto l’errore e lo sbandamento, chi ha incontrato il fallimento,
può, assumendo la sua vulnerabilità e la sua castrazione, far fruttificare in
modo nuovo il suo desiderio.
Massimo Recalcati
Noli, luglio 2011
1
Anoressie, bulimie e il disagio
del nostro tempo1
Intervista con Sergio Zavoli
Sergio Zavoli: Il rifiuto del cibo, nella forma morbosa e distruttiva che contras­
segna l’anoressia, è un fenomeno della nostra epoca o ha radici lontane nel
tempo?
Massimo Recalcati: La pratica del digiuno è stata per secoli, oltre che
una misura di riequilibrio naturale del corpo, un motivo fon­damentale
presente in tutte le esperienze e le pratiche mistico-religiose. L’astensione dal cibo e dal piacere che esso procura rien­trava nel contesto
più generale della lotta tormentata dell’anima per emanciparsi dalle
catene materiali del corpo. Da quella che Platone, in epoca precristiana,
chiamava la «follia del corpo». L’etica della rinuncia e del sacrificio
del piace­re raggiunse il suo apice con l’affermazione della cultura
cristiana. Piero Camporesi ha dedicato una delle sue ope­re più straordinarie, La carne impassibile, proprio all’inda­gine della cultura della
mortificazione del corpo che ha animato gran parte del misticismo
cristiano. La lotta a morte contro i piaceri sensibili occupa la vita del
santo asceta fino allo stremo delle forze. Fino, appunto, alla sua con­
sunzione anoressica. Nondimeno, nell’esperienza mistica — foss’anche
di quella per la quale è difficile definire con precisione i confini tra
l’ascesi spirituale e la patologia masochistica individuale — la mortificazione del corpo, la rinuncia e il sacrificio, non sono mai pratiche
Questa intervista è apparsa originariamente nel volume a cura di Sergio Zavoli, La lunga
vita, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. (per gentile concessione), Milano 1999.
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Elogio del fallimento
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fini a se stesse, ma consentono al mistico di impegnare tutto il suo
essere per salvare la propria anima e, insieme alla sua anima, quella di
tutti i peccatori, dalla dannazione eterna, dalle fiamme dell’inferno.
Il santo non agisce per se stesso, ma sacrifica se stesso per salvare una
intera comunità dalla corruzione del peccato. Questo sacrificio del
proprio io e del proprio corpo sensibile costituisce anche lo sfondo
del tema medioevale della imitatio Christi: il santo cristiano rende il
suo percor­so spirituale simile a quello del Cristo crocifisso, sacrifica
la propria vita individuale per salvare quella dei suoi fratelli. La
prati­ca del digiuno fino all’estremo delle forze diventa una sindrome
pa­tologica solamente nel corso del Seicento e del Settecento e viene
inquadrata nosograficamente come «anoressia» nella seconda metà
dell’Ottocento a partire dalle divenute celebri descri­zioni cliniche di
William Gull e Ernest-Charles Lasègue.
Rispetto al rifiuto del cibo che può caratterizzare la via mistica, nel
rifiuto anoressico viene totalmente smar­rita la spinta alla espiazione
dal peccato come missione e sacrificio per la salvezza degli altri che
invece caratterizzava l’impresa del santo. Prevale, piuttosto, quella che
Jean Olivier in un testo del Seicento — Alphabet de l’imperfection et
malice des femmes — citato da Piero Camporesi, definiva come una
for­ma nuova, moderna, di peccato tipico del genere femminile. Si
alludeva già all’ossessione di molte donne per la dieta e per la linea
del corpo. Il sacrificio e la rinuncia auto-imposti non erano più i doni
d’amore che il mistico offriva ai suoi simili per salvarli dal peccato,
ma il prezzo che le donne di società dovevano pagare per mantenere
l’immagine del proprio corpo adeguata all’ideale sociale della bellez­za.
In questo senso la rinuncia e il sacrificio del piacere del­l’appetito non
riflettevano alcuna vocazione mistica quanto piuttosto la passione
estetica per la propria immagine. Pec­cato narcisistico, direbbe Freud,
peccato dal quale le ano­ressiche d’oggi non sono certo immuni.
S. Zavoli: Per lungo tempo il rifiuto del cibo fino alla consunzione ha rappresentato una forma di malattia mentale nei confronti della quale la medicina si è dimostrata pressoché impotente. Ci sono oggi maggiori speranze di
guarigione? Come spezzare la solitu­dine di chi è posseduto da questo istinto
autodistruttivo?
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
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M. Recalcati: L’impotenza della medicina e di certa psicoterapia
cognitivo-comportamentale nella cura dell’anoressia-­bulimia è dovuta al fatto che il malato da curare non è l’appetito. Il trattamento
medico-farmacologico, come quello cognitivo-comportamentale dei
cosiddetti disturbi dell’alimentazione, confonde fatalmente la causa
con l’effetto. Si sforza di normaliz­zare una funzione alterata, di riequilibrare il rapporto tra il soggetto e il suo senso di fame e di sazietà
e le sue abitudini alimentari. Il più­ delle volte però fallisce proprio
perché la causa del disturbo ali­mentare non è di natura organica, né
è riducibile in alcun modo all’alterazione di una funzione cosiddetta
«normale». È difficile, infatti, dal punto di vista medico trovare una
spiegazione razio­nale per quell’enigma che Freud aveva nominato
come «pulsione di morte». Come si può spiegare in termini biochimici
la tendenza di un soggetto a rifiutare di nutrirsi nonostante la fame,
questa sì davve­ro divorante, fino all’inedia estrema, fino alla morte?
Come si può spiegare la tendenza a mangiare e vomitare anche venti
volte al giorno o quella a riempirsi di cibo fino a farsi scoppiare lo
stomaco? In effetti, ci troviamo, qui, di fronte a un fenomeno tanto
ter­ribile quanto enigmatico. L’essere umano — e questo è uno degli
insegnamenti fondamentali della psicoanalisi — non persegue mai
prima di tutto il proprio bene. Anzi, se si vuole, la tendenza fondamentale degli esseri umani è proprio di cercare quello che a loro fa
male. È ciò che Freud, al termine del­la sua opera, chiamava, appunto,
«pulsione di morte»: l’essere uma­no è posseduto da una spinta incoercibile a perseguire un godimento che attenta alla sua stessa esistenza,
una spinta che oltrepassa le cornici biologiche della protezione della
vita. Ne vediamo una manifestazione clinica tanto esemplare quanto
drammatica nell’anoressia, nella bulimia e in tutte le forme delle
dipendenze patologiche: nella tossicomania e nell’alcolismo, per
esempio. In tutte queste situazioni il soggetto cerca affannosamente
di raggiungere un godimento che non coincide col suo bene ma che
si rivela, appunto, distrutti­vo, devastante, diabolico. Un godimento
che diventa un padrone spietato e che obbliga il soggetto a una nuova
schiavitù. La vera questione della cura è, allora, quella di come sia
possibile fronteggiare questo godimento che è al di là di ogni principio di piacere. Come porre rimedio a questa pulsione mortifera?
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Elogio del fallimento
Problema che si complica ulteriormente se si considera che la scelta
anoressica è di solito motivata dal­l’esigenza del soggetto di trovare un
riparo proprio da questo godi­mento distruttivo. L’anoressia, infatti,
funziona come una cura vera e propria, una cura autoindotta che il
soggetto ha inventato per fronteggiare un proprio malessere di fondo,
un males­sere che, di solito, emerge nell’età prepuberale e adole­scenziale
in giovani smarrite e in crisi di fronte al grande compito di separarsi
dall’«Altro» familiare.
S. Zavoli: Molte espressioni di sofferenza mentale vengono ricondotte a un
rapporto disturbato con la figura materna, alla quale si rim­proverano ora
l’eccesso ora la carenza di attenzioni, di disponi­bilità, di amore: l’anoressia
e la bulimia, da questo punto di vi­sta, rappresenterebbero l’esplicitazione
di un dramma antico, la manifestazione di un bisogno o di un rifiuto. E se
invece un giorno si scoprisse che questo disturbo mentale ha origine orga­nica,
se la madre, designata come capro espiatorio di buona par­te dei disordini
comportamentali dei figli, venisse scientifica­mente assolta, la psicoanalisi
dovrebbe essere riscritta?
M. Recalcati: Attualmente non esistono studi che confermino in mo­do
preciso una causa organica di queste patologie. Ma credo che per la
psicoanalisi non sia questo il punto. Il punto è che la psicoanalisi e le
cosiddette neuroscienze in­tervengono in modi e su territori differenti
e, aggiungerei, irriducibili. In alcuni casi si può constatare facilmente
l’ef­ficacia di un intervento farmacologico sul tono dell’umo­re, sulla
regolazione del sonno, oppure, anche se molto raramente nella mia
esperienza, sulla riduzione della fa­me bulimica. L’intervento medicofarmacologico agisce mediante il potere di certe sostanze chimiche. Il
farmaco è giudicato capace di produrre determinati effetti terapeutici
sul paziente. La clinica del farmaco si fonda su questa centralità della
so­stanza prescritta e sulla sua efficacia. La psicoanalisi, invece, non
opera attraverso sostanze chimiche, ma solo mediante la parola,
l’ascolto e il transfert, e considera decisivo non tanto verificare gli
effetti terapeutici di una sostanza quan­to, piuttosto, riuscire a condurre il soggetto a interrogarsi sul senso, sulla verità inconscia dei
suoi sintomi, sui contenuti del rimosso, come si esprimerebbe Freud.
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
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L’efficacia di un’analisi non consiste nella somministrazione di una
sostanza chimica ma in un’opera di traduzione dell’inconscio in conscio. In effetti la psicoanalisi, per quanto forse questa possa sembrare
una formulazione un po’ retorica, non è una terapia come le altre
perché è innanzitutto una ricerca della verità... Nondimeno esi­stono
patologie, tra cui l’anoressia e la bulimia, che sem­brano resistenti sia
al trattamento farmacologico sia alla psicoanalisi. Alcuni psicoanalisti
ritengono che il disa­gio anoressico-bulimico non sia analizzabile. Si
tratterebbe cioè di un disagio refrattario per principio ai possibili benefici di una terapia psicoanalitica. Mara Sel­vini Palazzoli, per citare
solo un nome autorevole in questo campo, è stata condotta proprio
dalla sua esperienza di terapeuta di pazienti anoressiche a passare da
un approccio individuale di tipo psicoana­litico classico a un lavoro
di tipo sistemico sull’intera fa­miglia del paziente. Ella aveva cioè
constatato l’inefficacia dell’applicazione classica della psicoanalisi
individuale con questo genere di pazienti.
La mia opinione in proposito è che l’uso dell’interpretazione psicoanalitica con que­sto tipo di pazienti — spesso già fin troppo pieni
di sapere «psicoanalitico» — non funziona come dovrebbe, non è lo
strumento decisivo di una terapia condotta psicoanaliticamente. La
ricerca del corpo ma­gro dell’anoressica e la passione irrefrenabile per
il cibo della bulimica sono, come tali, dei fenomeni psicopatologici
non interpretabili, nel sen­so che nessuna interpretazione di senso può
modificare o scalfire queste posizioni estreme del soggetto. Perché?
Perché né la ricerca del corpo magro dell’anoressica né la passione per
l’oggetto cibo della bulimica hanno quel tipico va­lore metaforico che
Freud assegnava alla costituzione del sintomo in senso psicoanalitico.
Per la psicoanalisi l’interpretazione semantica può essere effi­cace solo
laddove vi siano dei sintomi che per il soggetto si sono costituiti
secondo lo schema linguistico della me­tafora. Mi permetta di fare
un semplice esempio. Prendiamo il caso dell’impotenza sessuale nel­
l’uomo. Questo sintomo può metaforizzare un timore inconscio nei
con­fronti di una madre fallica, cioè autoritaria, sopraffattrice, che ha
impedito al soggetto di assumere una posizione virile nella vita. In
questo caso avremmo a che fare con una metafora sinto­matica dove
un significante (l’impotenza sessuale) prende il posto di un signifi-
Elogio del fallimento
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cato rimosso (il timore verso la madre fallica). L’interpretazione sarà
efficace se condurrà il sog­getto a cogliere il senso inconscio del suo
sintomo, dunque a tradurre il significato inconscio in un guadagno
di consapevolezza. Al con­trario, nell’anoressia e nella bulimia non
sembra esserci nessun senso inconscio da ricercare. Tutto appare
chiaro. L’ano­ressica tende, infatti, a non considerare l’anoressia come
una malattia. Di qui la sua cosiddetta onnipotenza narci­sistica…
ovvero l’esatto contrario dell’impotenza! La bulimica, in­vece, soffre
acutamente per il suo stato ma, come il tossi­comane, attribuisce la
causa della sua sofferenza solamente all’esistenza dell’oggetto-cibo. È
il cibo che fa soffrire! È la droga che mi fa stare male! In questi casi
pare che non vi sia niente da sapere. Tutto è evidente. «Basterebbe
inventare un alimento ricco di sapore ma senza calorie per vincere la
bulimia», mi disse un giorno una paziente bulimica. An­che in questo
caso non c’è nessun significato inconscio da ricercare. Tutto sembra
svolgersi alla luce del sole. Tutto sembra ruotare intorno al cibo e
al peso. La difficoltà mag­giore che incontriamo nell’impostare una
cura psicoanali­tica con queste pazienti consiste proprio nel rompere
la certezza granitica che la malattia si riduca a un problema di peso
o di cibo. Non è affatto facile condurre il soggetto a parlare davvero
di sé! E ciò senza mai dimenticare che il rischio della morte è sempre
in agguato e occorre vigilare con la più grande attenzione!
È vero, esisteva, ed esiste ancora, una letteratura che tende a individuare nel difetto (più o meno precoce) della relazione madre-figlia
la causa determinante del disagio anoressico-bulimico. L’esperienza
di un rapporto distur­bato con l’Altro materno ricorre effettivamente
molto spesso nella storia di queste pa­zienti, sia come eccessiva presenza
dell’Altro che tende a soffocare, sia come un’indifferen­za che lascia
cadere. Ma questa oscil­lazione dell’Altro materno dell’anoressicabulimica — dalla presenza soffocante all’indifferenza anaffettiva —
non deve essere preso come un dato assolu­to. Altrimenti, il rischio è
quello di imputare alla madre la causa della patologia, o, meglio, di
fare della madre la causa tout court, come se fosse il virus dell’anoressia... Le cose non stanno evidentemente così. Innanzitutto perché
una madre è anche, oltre che la madre di una figlia, la donna di un
uomo. E, dunque, il suo modo particolare di essere madre dipenderà
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
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in buona misura dal rapporto che ha stabilito con il proprio uomo.
Ecco, infatti, che nelle famiglie dei pazienti anoressico-bulimici
possiamo trovare spesso una relazione padre-madre (soprattutto una
relazione uomo-donna) che non funziona.
Per tradurre questo punto complesso della teoria in im­magini semplici, potrei dire che le due figure tipiche della famiglia anoressicobulimica sono quelle della madre-coccodrillo e quella del padre-amante.
La madre-coccodrillo divora il frutto del proprio ven­tre, lo tiene
tra le fauci, non lo lascia andare, lo vuole tutto per sé. È la madre
cannibalica che troviamo spesso nei so­gni delle nostre pazienti e
che assume le forme più terribi­li: balena divoratrice, orca tirannica,
mangiatrice di fuoco, fiera insaziabile, tigre spaventosa, pattumiera
vivente, aspiratutto gigante… È una madre che ha abolito totalmente
il suo essere donna. Poiché come donna la sua esistenza ha subito
degli scacchi profondi sarà come madre che cercherà di com­pensare
i suoi fallimenti. Sarà allora una madre-tutta-madre. Al­leverà, curerà,
vestirà, parlerà alla sua creatura soffocan­dola di attenzioni solerti.
Ma senza che nessuna di queste sia mai un vero dono d’amore. La
sua preoccupazione sarà sempre quella di tenere tra le sue fauci ciò
che vive come una sua proprietà esclusiva. Ecco perché Fabiola de
Clercq, in Tut­to il pane del mondo — un piccolo ma straordinario
libro-te­stimonianza che ha reso veramente di dominio pubblico in
Italia il problema di questa patologia, ha potuto definire l’a­noressia
come un’«antimadre». Perché solo grazie al rifiuto del nutrimento
e delle cure è possibile separarsi da un Al­tro materno divoratore,
affamato e senza desideri.
Il padre-amante indica, invece, l’effetto di un certo de­grado della
funzione paterna tipico della famiglia anoressico-bu­limica. Questo,
però, non va semplicemente inteso come una latitanza reale del padre.
Il padre, in questi casi, c’è, ma fin troppo! Al punto da assegnare simbolicamente alla fi­glia la posizione che dovrebbe essere di pertinenza
della madre. Ciò non indica di per sé l’esistenza di episodi di abuso
sessuale di carattere incestuoso, anche se occorre segnalare come in
queste pazienti si riscontrino molto di frequente episodi del genere,
quanto piuttosto un’alterazione profonda del sistema familiare nel
quale la coppia uomo-donna s’incarna in quella padre-figlia, con il
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Elogio del fallimento
declassamento, per lo più compiacente, della madre a «madre-tuttamadre». Il disorientamento che a questo punto può generarsi nella
figlia è profondo. L’anoressia e la bulimia si profilano, allora, come
una cura possibile, un modo per mettere in questione tutto il sistema
familiare, per sottrarsi a un gioco relazionale pericoloso e per appellarsi
a una sua possibile ridefinizione simbolica.
S. Zavoli: Fino a pochi anni fa l’anoressia era un disturbo specificamen­te
femminile; in passato la donna utilizzava l’isteria per espri­mere attraverso
il corpo una sofferenza altrimenti muta perché socialmente non accettata e
personalmente non consapevole. Oggi anoressia e bulimia non potrebbero
esprimere in modi di­versi un identico messaggio di protesta, di rifiuto, una,
sia pur inconscia, richiesta di aiuto? Con il tempo questa malattia comincia
a manifestarsi anche tra gli uomini. A che cosa è dovuto tale cambiamento?
Forse, una volta indeboliti i tratti che a livello sociale identificavano il
maschio, attenuate le differenze, appiattiti i privilegi, si sta de­terminando
una più diffusa vulnerabilità?
M. Recalcati: A tutt’oggi sembra che il fenomeno riguardi ancora
prevalente­mente le donne. I casi di anoressia maschile sono rarissi­mi;
più frequenti quelli di bulimia. Secondo la mia opinione l’anoressia
e la bulimia sono effettivamente pa­tologie che riguardano in modo
particolare il mondo fem­minile per almeno tre ragioni di fondo.
La prima: nella nostra civiltà l’essere di una donna è strettamente
collegato al suo modo d’apparire. Il corpo magro è attualmente un
ca­none estetico dominante. E per una don­na la dimensione della
bellezza e, più in generale, la cura dell’immagine del corpo resta
una dimensione ancora decisiva per la sua affermazione personale.
Le cose funzionano diversamen­te per gli uomini, per i quali le vie
dell’affermazione per­sonale non sono tanto quelle della bellezza e
dell’appa­renza, quanto, piuttosto, quelle dell’azione, del potere e
della ricchezza. In una formula un po’ abusata sono quelle dell’avere
e non dell’essere. In questo senso aveva ragione Hilde Bru­ch, una
delle maggiori studiose delle psicopatologie alimentari, nel rilevare,
già qualche decennio fa, l’incidenza dell’industria della moda sul
propagarsi dell’anoressia tra le giovani donne.
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
25
La seconda ragione è che lo sviluppo psicosessuale femminile non è
uguale a quello maschile. Per il bambino, infatti, l’oggetto d’amore
è sempre lo stesso e la madre ne costituisce la matrice fondamentale.
L’interdetto paterno, la proibizione dell’incesto, lo sospinge a cercare
al di fuori dell’orizzonte familiare il nuovo oggetto d’amore che, tra
l’altro, per certi aspetti fondamentali non potrà non ricordare, come
insegna Freud, il primo oggetto perduto. Nello sviluppo della bambina, invece, l’oggetto d’amore è obbligato a subire un cambiamento
di fondo. Dapprima es­so coincide con la madre, ma l’accesso alla
sessualità fem­minile implica un mutamento supplementare: sarà il
padre a costituire il nuovo oggetto d’amore. Questo sviluppo della
bambina in due tempi rende inevitabile una separazione — che in
fondo non avviene mai nel bambino — dal primitivo oggetto d’amore. L’oggetto d’amore deve essere perduto perché la bambina possa
accedere all’eterosessualità. Separazione dolorosa perché rinunciare
all’Altro materno significa perdere un sostegno narcisistico fonda­
mentale. Non è un caso, allora, che nelle storie cliniche delle donne
anoressico-bu­limiche possiamo ritrovare con grande frequenza un
rapporto irrisolto del soggetto con la madre, o la tendenza a vivere
questo legame in modi fusionali; o, ancora più radicalmente, l’una e
l’altra tendenza insieme. Non posso vivere né con lei né senza di lei.
L’amore spietato verso la madre si intreccia con una spinta odiosa che
sorge come effetto dell’estrema dipendenza del soggetto dall’Altro.
In questa dipendenza ambivalente il soggetto finisce per perdere se
stesso, come se fosse fagocitato dal suo Altro.
La terza e ultima ragione è che una donna per amore, ­per poter essere
l’unica per l’Altro, è disposta a rischiare tutto. Un uomo affronta di
solito il discorso amo­roso in modo più calcolato e pianificato. Non
rischierebbe mai tutto il suo essere per l’Altro. La logica maschile è,
infatti, quella del possesso, della difesa e dell’accumulo; è la logi­ca della
proprietà. Noi diciamo, in termini psicoanalitici, che il godimento
maschile tende a inscriversi entro una logica fallica che è una logica
dell’accumulazione e dell’avere. La condizione della donna, al contrario, è assai diversa da quella della madre e dalla sua onnipoten­za; è la
condizione di un essere che «manca», di un essere che «non ha». Se la
madre è l’espressione dell’avere — una madre dà al bambino ciò che
26
Elogio del fallimento
ha — la donna è l’espressione del non avere. In questo senso essa ha
più affinità dell’uomo con il discorso amoroso. Perché l’amore non è
uno scam­bio di cose, di proprietà, non s’inscrive sul piano dell’ave­re,
ma è uno scambio di segni. L’amore — scriveva Jacques Lacan — è
«donare all’Altro ciò che non si ha». Donare, dunque, la propria
mancanza, non il proprio avere. È ciò che reclama con forza polemica
l’anoressica. Non vuole essere un semplice sacco da riempire, non
vuole che l’Altro le dia semplicemente ciò che ha: ella vuole essere la
sola, l’unica, vuole che l’Altro le offra il segno della sua mancanza. È
per que­sto che l’anoressica getta tutto il proprio essere nella mi­schia
fino al rischio estremo della sua stessa vita. Vuole poter man­care,
vuole fare sentire il valore della sua esistenza a un Altro che tende
a rispondere solo sul piano dell’avere e del consumo dei beni, solo
sul piano dei bisogni e non su quello del desiderio, direbbe Lacan.
L’anoressica inventa così il rifiuto del cibo per capovolgere la falsa
onnipotenza dell’Altro in impoten­za. L’Altro dell’anoressica è infatti
un Altro angosciato dalla sfida mortale che la figlia gli rivolge. È un
Altro che anche quando, come fanno spesso con un ritardo fatale i
genitori delle anoressiche, offre tutto il suo essere, la sua mancanza,
per mantenerla in vita, viene sempre tenuto sotto ricatto...
S. Zavoli: Perché questi disturbi si manifestano durante la fase adole­scenziale?
Che cosa hanno in comune il rapporto ossessivo con il peso corporeo e la
pulsione irresistibile a ingurgitare cibo, ol­tre all’oggetto del rifiuto o, al
contrario, del desiderio?
M. Recalcati: L’adolescenza segna un passaggio critico nello sviluppo del
soggetto. Nel tempo dell’infanzia, infatti, il bambino è un oggetto nelle
mani del suo Altro familiare: dipende in tutto e per tutto dall’Altro.
Noi diciamo, più propriamente, che è preso nella rete del fantasma
dell’Altro, ovvero che il suo essere dipende da dove la volontà di
quest’ultimo lo ha collocato inconsciamente: oggetto di compensazione, di rispecchiamento narcisistico, oggetto-rifiuto, oggetto-scarto,
oggetto d’a­more e di odio, oggetto-tappo del vuoto esistenziale che
abita l’Altro genitoriale… vi sono innumerevoli possibilità di incarnare
l’oggetto dell’Altro. Durante l’adolescenza questa rete fantasmatica che
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
27
av­viluppa il soggetto si strappa e l’adolescente rivendica il diritto di
desiderare in proprio e di non essere più solo l’oggetto del desiderio
dell’Altro. Diversamente dal bambi­no, l’adolescente non si adopera più
per rendersi adeguato all’immagi­ne ideale che di lui hanno il papà o
la mamma, ma rivendica, sino ai modi estremi e patologici del rifiuto
anoressico, il proprio desiderio. Ecco perché è così frequente trovare
nelle storie delle nostre pazienti l’immagine della bambina buona,
brava, compiacente, amabile, che dice sempre di sì. Nell’adolescenza
questo «sì!» incondizionato viene ribaltato in un «no!» a oltranza. È un
modo, anche se patologico, per se­pararsi dall’Altro. Una separazione
per opposizione, sen­za dialettica e, dunque, difficilmente sostenibile.
A proposito, invece, del rapporto tra anoressia e bulimia l’ipotesi
che ho sviluppato è quella di una continuità di fondo tra queste due
posizioni, solo apparentemente op­poste (l’anoressica non mangia
niente, la bulimica mangia tutto), ma che sono in realtà come due
facce della stessa medaglia. Questa continuità appare innanzitutto
nell’evo­luzione stessa della «malattia». L’esordio implica, infatti,
sempre una restrizione progressiva delle abitudini alimentari che può
anche sfociare direttamente in una vera e propria anoressia (calo del
peso, percezione corporea distorta, ricerca ostina­ta della magrezza,
amenorrea...). In genere, questo è il pri­mo tempo della malattia; il
tempo dell’entusiasmo narcisi­stico, dell’orgoglio, dell’onnipotenza.
Il soggetto vince la fame. È forte. Controlla progressivamente ogni
cosa. Non domanda nulla. Basta a se stesso. È fiero della sua magrez­za
oscena che esibisce come un trofeo macabro. Tuttavia questa euforia
è destinata a rovesciarsi nel suo contrario. Non si può, infatti, vivere
senza mangiare. Alla determinazione anoressica, dunque, seguirà, quasi
immancabilmente, la disperazione bulimica. La bulimia è, infatti, una
sorta di fallimento del progetto anoressico. Ecco perché il senti­mento
affettivo della bulimica è segnato da una profonda depressione, da
vissuti di indegnità morale e di inadegua­tezza, da un senso di colpa
divorante che non lascia in pace il soggetto. Di qui l’alternarsi di
anoressia e bulimia in un circolo vizioso che trascina il soggetto in un
vortice terribi­le dove domina comunque, sia nell’impero anoressico
del­la volontà, sia nella frana catastrofica dell’abbuffata buli­mica, la
stessa insoddisfazione, lo stesso inestinguibile senso di vuoto.
28
Elogio del fallimento
S. Zavoli: Lei ha scritto che l’anoressica scegliendo di non mangiare niente
rifiuta il mondo dell’avere e reclama il suo diritto di essere. Una protesta,
dunque, nei confronti di una società che an­tepone l’apparenza e le merci
ai valori e alle emozioni. Questo disturbo mentale si presenta, dunque,
soltanto nelle società svi­luppate? Sarebbe pensabile laddove a uccidere non
è l’abbon­danza, ma la fame?
M. Recalcati: Nel mio libro L’ultima cena: anoressia e bulimia2 ho cerca­to
di porre in evidenza la connessione tra l’attuale diffu­sione epidemica
della malattia e le società industrialmen­te più avanzate, dominate dal
mito del consumo fine a se stesso e dal mito dell’immagine. Bulimia e
anoressia costi­tuiscono, a livello soggettivo, la declinazione patologica
di questi due miti tipici del nostro tempo. Il sogget­to bulimico incarna, infatti, il mito puro del consumo per il consumo: trita, mastica,
ingoia tutto. Ma questo «tutto», alla fine di ogni abbuffata, rivela in
realtà la propria totale inconsistenza. In questo modo chi è affetto
da bulimia svela anche l’inganno intrinseco al discorso capitalistico:
il consumo infinito degli oggetti non è sufficiente a colma­re il vuoto
che abita il soggetto. Non esiste, in effetti, la possibilità di acquistare
il dono d’amore. Il dono d’amore per sua natura è senza prezzo, fuori
mercato, gratuito. Il soggetto anoressi­co, dal canto suo, rifiutando
la logica del consumo, met­tendo in crisi l’offerta dei beni dell’Altro
(materno e sociale), si vota al culto narcisistico del corpo magro.
Culto privato, autistico, antisociale. Culto mortifero, che condu­ce a
una consunzione senza ritorno. Culto perverso del­l’immagine di cui,
in realtà, nella nostra epoca patisce non solo l’anoressica ma tutto il
corpo sociale. L’illusione fondamentale che anima il nostro tempo non
è forse quella di annulla­re attraverso l’offerta illimitata di oggetti di
consumo e attraverso il culto assoluto dell’immagine, la dimensione
della man­canza come dimensione propria della realtà umana? Il nostro tempo non si nutre forse della falsa promessa di poter riempire
tutte le mancanze del soggetto, in primis la sua più propria, quella
che ci costituisce tutti come esseri mancanti? A mio parere, questa
è la nuova forma storica che assume, nei Paesi industrialmente più
M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano 1997.
2
Anoressie, bulimie e il disagio del nostro tempo
29
avanzati, la falsa democra­zia del mercato: riempire di godimento il
soggetto perché possa non solo non mancare di niente, ma essere anche
animato dalla continua spinta a consumare ogni cosa in modo che
il consumo stesso apra continuamente nuove pseudomancanze… È
ciò che Lacan definisce l’astuzia propria del discorso del capitalista.
Ciò che si dimentica è che la mancanza nell’essere umano non è un
deficit da correggere, ma la condizione vitale per ogni realizzazione
creativa. Il soggetto bulimico divora ogni cosa per non sentire la
mancanza e quello anoressico non domanda più niente per annientare
ogni possibile mancanza. Perché, in effetti, è la mancanza ciò che
angoscia terribilmente l’essere uma­no, ma è sempre la mancanza a
rendere creativa l’esistenza. Il discorso sociale attualmente egemone
si schiera contro la mancanza e sembra avere una risposta per tutto.
La mancanza viene ridotta alla parodia di una pseudomancanza che
può es­sere risolta facilmente attraverso il consumo dell’oggetto. Il
mercato moltiplica le sue offerte di consumo all’in­finito. Ma è proprio
all’apice del consumo, rappresentato, nel suo aspetto più patologico,
dall’abbuffata bulimica, che si ritrova la stessa insoddisfazione di
partenza... Tutto il pane del mondo, in effetti, non è sufficiente a
sanare l’essere umano dalla mancanza che porta con sé.
 13 
Quello che resta del Padre1
Conversazione con Loredana Lipperini
Loredana Lipperini: Oggi andremo in cerca di padri, tenendo conto che parlare di padri non significa soltanto riferirsi alla figura maschile capo della
famiglia, come verificheremo tra pochissimo insieme all’ospite di Fahrenheit:
Massimo Recalcati. Prima di salutarlo, racconto un aneddoto che viene da
L’interpretazione dei sogni di Freud. Lo stesso Freud racconta che, mentre
il padre stava passeggiando, si trovò di fronte un uomo che, sullo stesso marciapiede proveniva dalla direzione opposta. Con arroganza, questi volle che
gli si lasciasse il passo, gettando nel fango il suo berretto e gridando offensivamente: «Giù dal marciapiede, ebreo!». Di fronte a questa umiliazione,
la domanda del piccolo Sigmund fu incalzante: «E tu, che cosa facesti?».
«Andai in mezzo alla via e raccolsi il berretto» rispose mestamente il padre.
Buon pomeriggio a Massimo Recalcati.1
Massimo Recalcati: Buon pomeriggio a voi.
L. Lipperini: In queste pagine Lei accosta questo episodio a quello famosissimo
ricordato, tra gli altri, da Luigi Zoja, che gli ha dedicato proprio un saggio,
e cioè di un altro padre, di Ettore, che si toglie l’elmo da guerriero, davanti
al figlio spaventato, e prende il bambino tra le braccia sollevandolo in alto,
più in alto di lui, volendo così auspicare per lui un futuro migliore. Lei
accosta invece questo padre «troppo umano» di Freud...
Intervista a cura di Loredana Lipperini andata in onda durante la trasmissione «Fahrenheit»
su Rai Radio3 il 16 marzo 2011.
1
174
Elogio del fallimento
M. Recalcati: Sì, in fondo, quello che sconcerta il piccolo Sigmund è
il rovescio di quello con cui si trova confrontato il figlio di Ettore. Il
piccolo Sigmund si confronta con il carattere impacciato, goffo, persino umiliato del padre, cioè il contrario di quello che lo stesso Freud
teorizza intorno alla figura paterna come luogo della Legge, luogo della
minaccia di evirazione, cioè luogo di un potere che funziona da puntoperno dei legami familiari. Già in quella scena dove Freud ci racconta
della sua infanzia noi vediamo apparire due facce, due volti, una doppia
rappresentazione del padre. Da una parte, il padre che è appunto il
garante della tenuta dei legami familiari, una sorta di architrave della
famiglia; dall’altra, un padre che si svela come indebolito, umiliato,
spaesato. Come direbbe il Lacan degli anni Sessanta, è un padre che
già ai tempi di Freud mostrava una sua iniziale evaporazione.
L. Lipperini: Quindi quel Padre mitico comincia già allora a scendere dal
piedistallo?
M. Recalcati: Sì, ed è quello con cui ci confrontiamo oggi. In quella
scena è prefigurata la condizione del nostro tempo, caratterizzato dal
fatto che c’è un declino evidente della funzione Ideale, normativa,
strutturante del padre.
L. Lipperini: Quella della Legge e anche quella suscitatrice del desiderio?
M. Recalcati: Per la psicoanalisi la funzione del Padre è duplice: da una
parte il padre è colui che introduce un limite all’esperienza e, nella
misura in cui sa introdurre un limite, sa rendere possibile l’esperienza.
Se non c’è un «no!», se non c’è un argine che delimita il campo di
gioco, il gioco del desiderio è impossibile. Freud ha molto accentuato
questa funzione normativa, limitatrice, interdittrice del padre. L’altra
funzione, che mi pare oggi debba essere ripensata e recuperata fortemente, sta nel fatto che nel momento in cui si introduce un’interdizione simbolica, una limitazione del campo di gioco, bisogna anche
dare testimonianza del gioco. Bisogna dare testimonianza che si può
giocare, che si può vivere questa vita con desiderio, con passione, con
slancio. Questa è la seconda grande funzione del padre, cioè quella
Quello che resta del Padre
175
di donare la possibilità del desiderio. Il padre, attraverso la propria
testimonianza incarnata apre la possibilità di vivere con desiderio.
L. Lipperini: Mi piacerebbe però che Lei ci aiutasse a capire perché, per esempio,
proprio Lacan parlava del declino del Padre, come Lei ricorda nel suo Cosa
resta del padre?, in due momenti storici molto precisi, due momenti chiave,
direi, della storia del secolo scorso. Forse questo ci può aiutare a capire come
è avvenuta questa evaporazione. Lei ci ricorda che Lacan ne parlava nel
1938, quindi nella stagione dei totalitarismi, e nel 1969, cioè negli anni
della contestazione giovanile che sembravano aver ucciso il padre...
M. Recalcati: In Lacan c’è il ricorrere di quest’espressione, «tramonto»,
«evaporazione» del padre, in due tornanti così differenti della nostra
storia. Il suo ragionamento mi è parso di poterlo ricostruire così: nel
caso dei totalitarismi il piccolo Sigmund, di fronte alla goffaggine
e alla codardia del proprio padre, immagina un Padre-Duce, un
Padre-Führer, un padre che proteggerà i suoi figli reclutandoli in una
comunità folle di cui si fa garante; è il miraggio del Padre Onnipotente alimentato dai vari totalitarismi. Lo sguardo invasato del Führer,
la passione identificatoria per il Duce, offrono a una popolazione
socialmente smarrita, che attraversa un momento di grande crisi economica e sociale, l’illusione di un rifugio e di una protezione sicura.
Quindi, da questo punto di vista, il padre dei totalitarismi, che si
incarna nella figura dei grandi leader, è in fondo il padre che assicura
protezione in cambio della sudditanza, in cambio della rinuncia al
potere della ragione critica. Dall’altra parte abbiamo, nell’esperienza
del Sessantotto, i figli che si ribellano contro l’autoritarismo dei loro
padri, che denunciano la dimensione borghese, amministrativa della
vita dei loro padri in nome di un altro Ideale di vita possibile. Ecco,
in entrambi i casi, fa notare Lacan, quello che viene meno, quello
che viene frainteso è la funzione simbolica del padre; la funzione del
padre non è infatti solo quella di assicurare protezione, né quella di
esercitare una autorità formale e repressiva, bensì quella di riuscire a
trasmettere il desiderio. I giovani del Sessantotto non colgono che non
c’è desiderio senza Legge, mentre le masse del totalitarismo abdicano
al desiderio nel nome di una Legge assoluta. La funzione paterna è
176
Elogio del fallimento
invece quella funzione che riesce, come scrive Lacan, a unire il desiderio
alla Legge. Non pensare il desiderio senza la Legge, come accade nella
deriva post-sessantottina, né pensare alla Legge come ciò che opprime
e alla fine cancella il desiderio, deriva tipica del totalitarismo storico,
ma pensare a un annodamento fecondo di Legge e desiderio.
L. Lipperini: Senta, mi verrebbe da chiederle una cosa... come mai quelli che
erano i figli che nel 1968-’69 e si ribellavano ai padri sembrano ora, una
volta divenuti padri, se non addirittura nonni, essi stessi provare soprattutto
il desiderio di essere amati, cioè di ricevere l’altrui approvazione, e non
tollerare la critica? Sembra che ci sia un vulnus generazionale come residuo
di quell’epoca o è una mia impressione?
M.Recalcati: No, questa mi pare una delle angosce inedite che attraversano i genitori. In questo lavoro io metto in rilievo due angosce
che mi sembrano dare il segno dei nostri tempi e che caratterizzano
proprio la posizione dei genitori di oggi. La prima, lei la ricordava, è
quella che essi si angosciano del fatto di non sentirsi sufficientemente
amati dai loro figli. E questa è un’angoscia nuova, impensabile per
la generazione di mio padre. Essa comporta il fatto che ogni atto
che introduce un’interdizione, un limite ai propri figli, si trovi senza
fondamento. Se l’angoscia dei genitori è quella di farsi amare, ogni
atto che introduce un conflitto diventa sempre più difficile da introdurre e da sostenere. La seconda angoscia, tipica del nostro tempo,
è quella del principio di prestazione. Oggi i genitori sono sempre
più angosciati del fatto che i loro figli debbano apparire come capaci
di prestazione, come figli efficienti, capaci di soddisfare un ideale
di adattamento e di prestanza narcisistica che è esattamente quello
richiesto dal narcisismo dei loro padri e delle loro madri.
L. Lipperini: Quindi non migliori di loro, semplicemente efficienti?
M. Recalcati: I figli non devono portare su di loro i segni del fallimento.
L’angoscia dei genitori di oggi è che essi incontrino da qualche parte
l’esperienza dell’ostacolo e del fallimento. Questo è un grave errore
educativo, nel senso che noi sappiamo, non solo dalla psicoanalisi,
Quello che resta del Padre
177
ma anche dai testi biblici che l’errore, l’erranza, il perdersi sono
esperienze decisive nella formazione di una vita.
L. Lipperini: «Non potrai tornare da dove sei venuto!»... questo dice il Padre
nella Bibbia, no?
M. Recalcati: Esattamente. Sappiamo che il fallimento, l’incontro con
il limite, la caduta a terra, l’esodo, la separazione sono dei passaggi
fondamentali nella formazione di un soggetto. Per questo teorizzo che
la psicoanalisi sia un elogio del fallimento. Lacan lo diceva a suo modo
chiedendosi perché uno diventasse psicoanalista... In fondo, per diventare dei buoni psicoanalisti, bisogna essere stati delle cause perse…
L. Lipperini: Credo che sia questo il punto centrale, e volevo tentare di ritornarci,
ma proseguendo il percorso storico che anche Lei fa, perché dice una cosa molto
importante. Con il tramonto, con l’evaporazione, per dirla con Lacan, del Padre,
quello che va a trionfare dal punto di vista sociale è il capitalismo. Perché?
M. Recalcati: È quello che Lacan rimprovera ai giovani del Sessantotto.
Il problema non è tanto quello di rifiutare l’eredità dei padri, perché
non c’è soggetto senza eredità. Il problema è che quei giovani, secondo Lacan, non vedono che sta apparendo alle loro spalle un nuovo
padrone e questo padrone è assai più potente dei loro padri borghesi.
È, in fondo, la stessa tesi sostenuta da Pasolini. Questo nuovo padrone
è il fenomeno della globalizzazione, che Lacan e Pasolini già intravedevano, è il fenomeno del dominio incontrastato del discorso del
capitalista. Questo dominio comporta il trionfo dell’oggetto, il trionfo
del godimento immediato. Comporta che la rinuncia e il sacrificio del
godimento a portata di mano e di bocca, di corpo, diventino sempre
più privi di senso. Il motto che governa il nostro tempo è un motto
perverso che potremmo riassumere così: «Perché no?».
L. Lipperini: Abbiamo parlato due giorni fa con Elena Pulcini a proposito del suo
saggio sull’invidia,2 e ci raccontava che l’invidia in fondo, oggi, non può essere
E. Pulcini, Invidia. La passione triste, il Mulino, Bologna 2011.
2
178
Elogio del fallimento
disgiunta da quello che è il mito del successo legato al presente. Avere tutto qui, ora,
subito: «Mi spetta». Ecco, anche questo è un effetto dell’evaporazione del Padre?
M. Recalcati: Sì, diciamo che al posto dell’Ideale del pater familias, al
posto dell’Ideale del padre, oggi domina l’oggetto del godimento. Questo mi sembra il passaggio epocale che è stato interpretato da diversi
autori della psicoanalisi e, ancor prima, da Pasolini e dalla Scuola di
Francoforte, che mi pare ci offra la cifra per intendere il nostro disagio
attuale. Il problema è questo: se il nostro tempo è il tempo del dominio
dell’oggetto, il tempo del godimento senza Legge, dell’evaporazione
del Padre, è il tempo anche della liquefazione dei legami sociali, come
se ne esce? Questo piccolo libro cerca di introdurre una pars construens
riabilitando la dimensione della testimonianza.
L. Lipperini: Ci torniamo... ci sono molte domande che stanno arrivando. Alcune
sono personali, cioè riguardano proprio la figura del padre carnale, del pater
familias, altre riguardano la situazione italiana in particolare. Sono arrivati
due messaggi che riguardano la figura fisica e familiare del padre. Per esempio,
Anna chiede che cosa resta del marito compagno/amante, mentre un altro
ascoltatore le chiede perché non sia giusto per un padre voler essere amato.
M. Recalcati: Il problema non è tanto che un padre non possa desiderare
di sentirsi amato, anzi mi pare che una delle grandi rivoluzioni che
hanno investito la figura paterna negli ultimi anni riguardi proprio
il fatto che i padri reali si occupano di più dei loro figli e questo mi
pare una novità non trascurabile. È l’esito di una trasformazione
culturale che io giudico positivamente. Il problema è quando il
farsi amare diventa un’esigenza angosciante: questo mi pare il tratto
più preoccupante che troviamo spesso presente, come clinici, nelle
famiglie ipermoderne. Quando la ricerca di segni d’amore, la necessità di avere conferme dell’amore dai propri figli diventano una
vera e propria ossessione che comporta un’alterazione profonda della
differenza generazionale e della responsabilità che investe gli adulti
rispetto ai figli. Le famiglie ipermoderne sono famiglie dove tutti
parlano e nessuno si assume mai le conseguenze di quello che dice,
anche perché il diverso valore della parola di un padre rispetto a un
Quello che resta del Padre
179
figlio o di una madre rispetto a una figlia, sembra essersi annullato.
Nel mio libro faccio l’esempio di una ragazzina anoressica, che seguo
da qualche anno, che mi racconta come il padre, che si era separato
quando lei era ancora molto piccola dalla madre, abbia passato tutto
il tempo, da allora fino ad adesso, che è poco più che ventenne, a
raccontarle tutte le sue storie d’amore e i loro esiti fallimentari… In
questo caso si vede bene che c’è qualcosa che non funziona, che è precisamente proprio questo eccesso di prossimità, di contiguità, questa
cancellazione dell’asimmetria delle generazioni. Tutto ciò comporta
una distorsione profonda della funzione educativa dei genitori, degli
adulti. Il problema è che non si capisce più dove siano questi adulti e
che spesso i figli si trovino anche a dover rimpiazzare la loro funzione
latitante. Poi, c’è il fenomeno opposto: una volta il bambino nasceva
in una famiglia e doveva adattarsi ai suoi ritmi, alle sue funzioni, ai
suoi riti simbolici. Adesso la nascita di un bambino-dio comporta
che sia la famiglia a strutturarsi su questo iperinvestimento allucinato
del figlio che diventa il cardine attorno al quale gli adulti ruotano.
L. Lipperini: Mentre Lei parlava mi venivano in mente molti esempi letterari
di vario segno. Penso per esempio alle parole che usò David Foster Wallace
in un celebre articolo nel quale diceva: «Noi dobbiamo essere i genitori
di noi stessi», e ricordava i coetanei della sua generazione come coloro i
cui genitori spesso mancavano e che invitano gli amici in casa e facevano
baldoria, semi-distruggevano tutto — però poi non arrivava nessuno, né a
rimproverare il figlio né, tanto meno, a rimettere a posto le cose. Ecco, questo,
«Noi dobbiamo essere i genitori di noi stessi», effettivamente è qualcosa che
torna in tantissimi scrittori. Torna in America, naturalmente, dove molti
scrittori, Jonathan Franzen è l’ultimo, dedicano romanzi alla famiglia, ma
anche qui a Fahrenheit è capitato di ospitare come libri del giorno tanti e
tanti romanzi scritti da trentenni e quarantenni, che hanno al loro centro
proprio la narrazione della famiglia. Che è, anche qui, qualcosa che qualche
anno fa non sembrava pensabile. Come mai secondo Lei?
M. Recalcati: Ecco, io su questo punto voglio ricordare una formula di
Lacan, spero non troppo enigmatica, che dice: «Per fare a meno del
padre bisogna servirsene». Questo vuol dire che per essere genitori di
180
Elogio del fallimento
noi stessi, per riuscire ad abbandonare la casa del padre, per riuscire
a produrre un desiderio che sia proprio, che non sia l’imitazione o
la fotocopia del desiderio dei nostri genitori, bisogna aver ricevuto
un’eredità, bisogna provenire da un orizzonte, bisogna aver avuto una
casa, una radice, un sentimento di appartenenza; questo mi pare un
primo punto. Il generarsi da se stessi è l’illusione degli uomini di Babele che inseguono il sogno delirante di farsi un nome da sé. È come
quando il tossicomane dice: «Io mi faccio». Ecco, il farsi da sé è una
grande illusione narcisistica del nostro tempo; noi abbiamo sempre a
che fare con l’Altro. Le faccio un esempio banale che riguarda la mia
pratica: quando uno psicoanalista inizia una cura invita il paziente a
dire tutto ciò che gli passa per la mente. Ebbene tutti i pazienti per
parlare liberamente di se stessi si trovano a parlare dei loro Altri senza
che lo psicoanalista glielo chieda, ma per una sorta di automatismo
strutturale. Per raccontare di sé, per raccontarsi, il soggetto deve parlare
di suo padre, di sua madre, della sua famiglia, delle sue origini, della
sua matrice, della sua provenienza… Bisogna diffidare molto dell’idea
che ci si possa generare da se stessi. Noi veniamo sempre dall’Altro,
noi portiamo il destino dell’Altro e casomai la libertà consiste, come
diceva bene Sartre, nel riuscire a fare qualcosa di quello che l’Altro ha
fatto di noi. Ma noi non possiamo avallare il mito dell’autogenerazione;
questo è un mito filosofico, antropologico che cancella la dimensione
vulnerabile, fragile, strutturalmente dipendente dell’essere umano.
L. Lipperini: Scivolando sul piano sociale, da quello personale, sono tentata di
chiederle quanto questo mito sia vivo, soprattutto nell’Italia contemporanea.
Ovviamente stanno arrivando molti messaggi che le chiedono se quest’Italia
senza desiderio, oppure con un desiderio eccessivo, continuo, senza legge, sia
un’Italia senza Padre. A proposito, questa mattina si parlava sui quotidiani
di un libro di Alessandro Amadori, uno psicologo che ha scritto un saggio sul
Presidente del Consiglio, in questo caso sul lato materno, più che paterno, che
dimostrerebbe nella relazione più affettiva con l’elettorato.3 Io ovviamente
inserisco questo come elemento di discussione...
Ci si riferisce al testo di A. Amadori, Madre Silvio. Perché la psicologia profonda di Berlusconi
è più femminile che maschile, Mind, Milano 2011.
3
Quello che resta del Padre
181
M. Recalcati: Be’, insomma, com’è noto, io ho delle idee abbastanza
precise sul nostro Presidente del Consiglio. Parlo come psicoanalista,
ovviamente, e mi limito a constatare che la diffusione recente nella
cronaca politica del termine «papi» indica proprio la degradazione di
cui stiamo parlando. In fondo, il passaggio dal «padre» al «papi» è il
passaggio da una funzione che mantiene insieme la Legge e il desiderio
a una funzione che li dissocia in modo aberrante. Perché il «papi» che
noi conosciamo attraverso le notti di Arcore è qualcuno che, sotto il
significante della paternità, realizza il rovescio di quello che dovrebbe
realizzare la figura paterna, e cioè, anziché introdurre un limite al
godimento, anziché articolare la Legge al desiderio, rende possibile
un godimento che si offre come illimitato, senza Legge o, meglio, che
pone se stesso come l’unica forma possibile della Legge, e dunque che
appare, da un punto di vista clinico, profondamente perverso.
L. Lipperini: Stanno arrivando molte mail... Vorrei leggerne una, di Sergio,
che dice: «morte di Dio, morte del Padre, morte della società», e chiede se
la psicoanalisi abbia qualche responsabilità.
M. Recalcati: Secondo me la psicoanalisi ha delle responsabilità in senso
positivo nell’aver contribuito a smascherare una certa versione teologica, idealizzata del Padre, nell’aver mostrato che dietro l’immagine
ideologica del padre come Dio in terra c’è quello che sgomentava il
piccolo Sigmund: l’elemento della castrazione, l’elemento del limite,
del carattere imperfetto e debole della figura del padre. Allora, il
problema è: come si può riabilitare qualcosa del padre se la sua stessa
funzione simbolica oggi sembra evaporata? Appunto: cosa resta del
Padre al di là della sua rappresentazione teorica, moralistica, al di là
del Padre padrone? Cosa resta del padre al di là della sua immagine
teologica? I riferimenti che faccio nel mio libro sono a Philip Roth,
Cormac McCarthy e Clint Eastwood; ecco, lì reperisco una funzione
paterna che non ha più niente di teologico, di ideale, di normativo e
che pure funziona anche se, per così dire, «dai piedi».
L. Lipperini: Infatti volevo arrivare a questo, che forse è la parte più affascinante
da raccontare. Partiamo da McCarthy, ovviamente il romanzo in questio-
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Elogio del fallimento
ne è La strada.4 In questo caso la funzione del Padre non è solo quella di
proteggere il figlio ma di portarlo verso una speranza, anche sacrificando la
propria vita. La cosa importante, però, è che si continui a portare il fuoco e
quindi a poter immaginare una vita dopo la tragedia in cui questo padre e
questo figlio vivono. È una figura molto particolare di padre...
M. Recalcati: Si, io ho letto con gli occhi di uno psicoanalista La strada,
che mi è apparso come una grande metafora del nostro tempo, cioè
del tempo in cui Dio è morto, del tempo in cui gli ideali non sono più
sufficienti a orientare come bussole infallibili la nostra vita. Sulla strada
troviamo di tutto: stupratori, cannibali, ladri, sbandati... È il tempo
della pura anomia, come direbbe McCarthy, della totale assenza di
Legge. Ecco, in un mondo senza Dio e senza Padre simbolico cosa resta
del padre? Resta, questo trovo in McCarthy, un padre che resiste alla
tentazione della morte. Un padre che sopravvive. Questa dimensione
del padre resistente, che continua a offrire al proprio figlio l’idea che
se non esiste più in questa vita un senso codificato teologicamente, è
possibile comunque dare un significato alla vita. È possibile avere un
avvenire, andare verso Sud, andare verso il mare, andare in una parte
del mondo dove esistono ancora altri bambini. Questo mi pare un
punto importante che è anche una cifra teologica notevole di questo
romanzo; l’idea è che nel nostro tempo, caratterizzato dalla morte di
Dio, il problema non sia più come il Verbo, cioè Dio, si incarni, ma
come possa l’esistenza di un bambino fare esistere Dio. È attraverso
il bambino che, infatti, Dio può continuare a esistere. Cosa significa?
Significa che nel tempo dell’indebolimento simbolico del padre la
sua funzione può essere recuperata solo passando per la via stretta
della testimonianza, finanche per la via stretta dell’esistenza di un
bambino. Significa che è solo attraverso un bambino che si può dare
ancora senso alla vita, in quanto egli è l’incarnazione dell’avvenire.
Non è il simbolo del padre a fare esistere la possibilità reale di un
padre, ma sono un padre e suo figlio che possono fare esistere il Verbo
simbolico del padre. Nella conclusione del romanzo ci troviamo di
fronte a una trasmissione fondamentale: sono la fiducia nel bambino,
C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino 2007.
4
Quello che resta del Padre
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la fiducia nell’avvenire, la nuda fede verso il proprio figlio che danno
un senso nuovo alla paternità.
L. Lipperini: Concludiamo questa conversazione con l’analisi che Lei ha fatto
di due film di Clint Eastwood: «Million dollar baby» e «Gran Torino». In
questo caso c’è una paternità non carnale ma una paternità dell’anima.
M. Recalcati: Sì, mi pare che se La strada mette in luce la dimensione
del padre resistente, che insiste a portare il fuoco, cioè a portare la
funzione della parola, in Eastwood ci sia l’idea del padre come fondamentalmente adottivo, cioè della paternità come gesto d’adozione.
Si tratta di un gesto che trascende la biologia, la genealogia, la discendenza di sangue, perché sia Maggie, la protagonista di Million
dollar baby, sia Tao, il giovane protagonista di Gran Torino, non sono
figli naturali. Ma questa idea dell’adozione in Eastwood è ancora più
radicale. Essa eccede non solo la genetica, ma anche i generi, il sesso.
In fondo il gesto adottivo della paternità non pertiene esclusivamente
a un genere ma investe l’umano in quanto tale. Mi sembra che tutto
il cinema dell’ultimo Eastwood vada in questa direzione, ovvero nel
mostrare che i legami familiari a volte sono legami di pura prevaricazione e di bieco utilitarismo, come si vede bene nella scena iniziale
di Gran Torino, in cui, anziché partecipare al lutto della morte della
compagna di Walt, i familiari giocano con il cellulare e non hanno
rispetto del rito. Irridono la morte. Tutta la paternità si gioca invece
a un altro livello, che è il livello dell’adozione simbolica. Per questa
ragione Françoise Dolto diceva che ogni paternità è sempre adottiva.
Ci vuole un «sì!» alla vita che ecceda la dimensione del biologico. E
allora diventa importantissima quella scena di Million dollar baby
dove a un certo punto, dopo molti tentennamenti, l’allenatore Frankie dice «sì!» alla domanda insistente di Maggie di essere allenata da
lui. «Sì, sarò il tuo allenatore!». Ecco, questo «sì!» va pesato nella sua
giusta misura, perché è un «sì!» che va contro le leggi stabilite per
consuetudine: «Il pugilato è uno sport per uomini, non per donne»,
«Tu hai 31 anni e sei troppo anziana per diventare una promessa
del pugilato», «Io alleno solo uomini»... insomma, è un «sì!» che
fa posto all’eccezione, è un «sì!» che fa sorgere una particolarità. In
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Elogio del fallimento
questo «sì!» possiamo condensare la funzione paterna: c’è funzione
paterna ogni volta che c’è l’incontro con un «sì!» che buca l’universale piatto e anonimo di una Legge come puro automatismo e che
invece sa introdurre e difendere la dimensione dell’eccezione e della
particolarità del soggetto.