Mara ed Ernst Rüegg

Transcript

Mara ed Ernst Rüegg
Demenza: un fardello amabile.
Mara Rüegg offre il suo resoconto degli ultimi anni di vita del marito affetto da
demenza.
Il 3 ottobre 2014 il mio amato Ernst ci ha lasciato, dopo aver sofferto di demenza per
tre anni. Dopo la sua morte ho avuto bisogno innanzitutto di un periodo per me stessa,
per elaborare il lutto e riprendermi. A dicembre 2015, a più di un anno di distanza, mi
sono sentita abbastanza in forze e pronta per rivolgere uno sguardo obiettivo su quel
periodo e mettere per iscritto con il dovuto distacco la mia esperienza del morbo.
Ho letto molto sulla demenza, molto ne ho sentito parlare e molto ho vissuto in prima
persona. A sostenermi è stata solo la mia fede, il grande amore per il mio meraviglioso
marito... e gli opuscoli dell'Associazione Alzheimer. Nel raccontare la mia storia non ho
la pretesa di formulare una verità assoluta sul morbo; vorrei piuttosto condividere la
mia esperienza con parole schiette e spassionate, nei suoi aspetti positivi così come
negativi, e in questo modo incoraggiarvi, care lettrici e cari lettori, ad affrontare la
malattia senza nascondere la realtà, qualora dovesse colpire voi o i vostri cari.
I primi subdoli segnali
Il momento preciso in cui mio marito fu colpito dal morbo non sono in grado di dirlo;
quello che è certo è che fu un inizio subdolo. Credo che già da qualche anno Ernst
avesse notato che c'era qualcosa che non funzionava più come prima e che l'avesse
tenuto nascosto: alcuni mesi dopo la morte ho trovato nelle sue vecchie agende brevi
annotazioni, ricordi e moniti rivolti a sé stesso. Alla luce di quegli appunti posso
affermare con una certa sicurezza che il morbo era insorto circa sette-otto anni prima
della morte.
I primi segnali si manifestarono con problemi sempre maggiori concernenti nomi e
persone. Non ricordava i nomi, o magari sapeva di conoscere una persona ma non era
in grado di collegarle il nome giusto. Essendo sua moglie mi accorsi presto della cosa,
1
ma trovavo anche più scuse di lui per giustificare quei vuoti: «È sempre in viaggio per
lavoro, ha tante responsabilità, è sommerso fin sopra i capelli». In quel processo
subdolo, per amor suo mi tenni per me molte osservazioni e incassai le sue frecciate
per non metterlo in imbarazzo.
Finii per dargli ragione
Col tempo mi accorsi che quando sbagliava si giustificava sempre con veemenza e
non gradiva per nulla essere corretto. Spesso addossava la colpa agli altri: «Io non
c'entro, sarai stata tu, sei stata l'ultima a uscire dal soggiorno, io ero in cucina…» Di
queste ne ho sentite tante. Più la malattia progrediva e meno mi addentravo in
discussioni del genere: finii per dargli ragione. In seguito constatai che si trattava di un
punto cruciale.
Da quando era stato colpito dal morbo, Ernst aveva bisogno di continue conferme e
riscontri che gli fornissero sicurezza, punti di riferimento e la speranza che non fosse
tutto senza senso e perduto. Nelle discussioni era irremovibile dalle sue posizioni;
succedeva che sollevasse lo stesso argomento a distanza di un quarto d'ora e non
ricordasse più nulla della conversazione precedente. Mi resi conto perciò che non
serviva a nulla inoltrarsi in lunghe argomentazioni, ma era assai meglio fornirgli
conferme e riscontri e accettare il tutto di buon grado con affetto... anche se spesso era
estenuante.
Sono al corrente di casi in cui il coniuge, i parenti e i badanti avevano finito per
arrendersi; ritenevano inutile parlare col malato, perdevano la calma e finivano per
rimanere in silenzio. Posso capire che succeda, ma lo ritengo un vero peccato: finché
si ha la forza di farlo, bisognerebbe cercare di parlare col malato. È anche una
questione di dignità e rispetto.
Il segnale successivo che ebbi fu un rallentamento nei processi di pensiero di mio
marito e la falsità di molte sue affermazioni, soprattutto concernenti la cura personale.
Una volta gli dissi che era ora di andare dal barbiere e mi rispose che ci era già stato,
che non era il caso; fu solo con enorme sforzo che riuscii a convincerlo ad andarci.
Una volta lì, non si sedette sulla sedia indicatagli dal barbiere, ma su un'altra, e fu
impossibile indurlo a spostarsi. Per sopportare questa ostinazione nell'aggrapparsi a
qualcosa, c'è bisogno da parte di chi è vicino al malato di una enorme dose di
pazienza, forza, empatia e affetto.
Anche per mio marito arrivò il momento di dover rinunciare alla licenza e, per
compensare, gli regalai un abbonamento generale delle ferrovie, anche se dal punto di
vista economico era uno spreco. La cosa però gli diede sicurezza, oltre che la
possibilità di salire su qualunque mezzo volesse. Ricordo che, fiero come un bambino,
raccontò a tutti che adesso aveva un AG e che era molto meglio della macchina.
La sicurezza dell'abitudine
Voler dare il proprio contributo in una relazione o in una comunità fa parte degli
elementari impulsi umani e una persona affetta da demenza spesso non ha il
permesso di fare più nulla; si sente dire: «Tu non puoi» o «Non sei più in grado di farlo
come si deve». Vedevo soprattutto negli istituti che si riteneva la cosa migliore che
Ernst se ne stesse seduto in un angolo senza far nulla; se si rifiutava, lo sedavano.
2
Per far star buono il paziente ho visto anche che lo si ricovera in strutture psichiatriche,
gli si usano violenze e minacce e addirittura lo si lega.
Ernst amava poter svolgere alcune semplici attività in casa o in giardino. In quelle
occasioni dovevo trattarlo con molte precauzioni, perché era incline a spaventarsi e a
sentirsi destabilizzato; erano momenti in cui poteva perdere il controllo.
Per fornirgli punti di riferimento nel quotidiano mi assicuravo che la sua vita seguisse il
più possibile il corso solito, abitudinario. Nel suo ambiente regnava un'atmosfera
silenziosa e cercavo di evitare in ogni modo che subentrassero cambiamenti.
Col tempo mi resi conto che, quando conversavo con lui, dovevo prestare attenzione a
non cambiare argomento. Se lo facevo lui non mi seguiva: il suo pensiero rimaneva
ancorato al filone precedente e, se cercavo di introdurre un argomento nuovo e magari
assai più interessante e gli facevo una domanda in merito, spesso non ci badava e
continuava la conversazione precedente. Se forzavo il cambio di argomento o lo
guidavo con delicatezza verso la novità, si innervosiva e diventava verbalmente
aggressivo, evidenti segnali di stress.
Un'eterna contraddizione
Occupandomi di Ernst imparai ad avere pazienza, tanta pazienza. Imparai a prestargli
ascolto senza interromperlo; quando parlava spesso ci metteva un'eternità, ma a volte
anche un attimo. Avevo l'impressione che non avesse più il senso del tempo, che si
perdesse e non si ritrovasse più. Il disorientamento temporale e l'ostinazione estremi
erano sintomi del morbo. Faccio un esempio: a volte Ernst si alzava nel cuore della
notte, si vestiva e mi chiamava: «Mara, è mattina. Che cosa facciamo adesso? Dove
andiamo?»
Divenne sempre più evidente che aveva difficoltà a comprendere conversazioni o frasi
prolungate. In occasione di una votazione gli feci notare che non aveva compreso
correttamente una cosa, ma non mi credette; telefonò a un amico e lo sentii dire: «Sì, è
quello che ho capito anch'io». Quando poi mi riportò le parole dell'amico, erano
praticamente identiche alle mie; si era dimenticato del tutto della sua opinione
originaria. C'erano giornate in cui a parlare con lui si accumulava una contraddizione
dietro l'altra. Se con me si comportava con un'esasperante ostinazione, mi
sorprendeva la passività con cui si lasciava influenzare da persone come i suoi amici o
il suo medico di famiglia, persona amabile e di tutto rispetto.
«No, io non l'ho detto»
E poi un continuo «No, io non l'ho detto»; anche se l'avevo sentito io appena due
minuti prima. Quando ero troppo stanca per sostenere una conversazione o una
discussione e gli davo ragione, c'erano momenti in cui non gli bastava. Gli piaceva
discutere a lungo e percepivo che la cosa aveva molta importanza per lui: lo faceva
sentire forte, gli dava occasione di avere sempre qualcosa in più da dire e di esibire
autorità. Solo in seguito mi resi conto che parlare e discutere rivestivano un'estrema
importanza per lui; il fatto di esprimersi gli procurava sollievo e lo rilassava.
3
Col progredire della malattia, Ernst si mise a raccontare a tutti una gran quantità di
dettagli personali, spesso esagerando o inventando di sana pianta. A casa avevamo
una vasta collezione di conchiglie, alcune raccolte da noi, la maggior parte acquistate
in occasione dei nostri viaggi. Ernst raccontava di aver trovato (e mangiato)
personalmente quelle conchiglie. Un'altra storia inventata fu quando raccontò che
l'anno seguente sarebbe disceso dal Jungfraujoch con gli sci, o che 50 anni prima
nell'Honduras Britannico avesse assistito a un violento tornado. Erano storie che
raccontava continuamente senza posa, con qualche variante qua e là, ma venne il
momento in cui non sopportavo quasi più di sentirle.
Nel quadro patologico rientrava anche l'atteggiamento estremo verso gli stranieri:
«Devono andarsene, ci portano via quel po' di pane che ci è rimasto». Se gli facevo
notare che nemmeno io ero nata in Svizzera, non si lasciava convincere: «No, tu sei
svizzera». Il suo atteggiamento irriducibile era il prodotto del morbo e l'espressione
delle sue angosce esistenziali. Percepiva la minaccia della malattia, me l'ha
confermato un amico medico.
Per parte mia ho vissuto la malattia, quel lento processo di degenerazione attraverso
gli anni, non come badante, non come accompagnatrice e nemmeno come compagna;
l'amore profondo che mi legava a lui me l'ha fatta vivere e soffrire come se fossi la sua
metà. Nemmeno le volte che reagiva con aggressività nei miei confronti e mi
minacciava avevo paura. Nonostante le avversità ci siamo amati fino in fondo fino alla
sua morte.
«Sono sano come un pesce. La malata sei tu»
Ai tipici problemi della demenza col tempo se ne aggiunsero sempre di nuovi. Ernst
usava apparecchi acustici, spesso li perdeva, dovevamo cercarli e provarne
continuamente di nuovi. C'erano problemi ad andare dal dentista e alla fine si aggiunse
anche un'insufficienza cardiaca, che in seguito rese necessario impiantargli un
pacemaker. Dopo l'operazione mi dedicai a lui con ancora più solerzia, volevo evitargli
qualsiasi tipo di sforzo. Lui non comprendeva e si ostinava a ripetere: «Io non ho
niente. Sono sano come un pesce. La malata sei tu». Nell'intimità non cambiò nulla per
lui, ma io ero molto tesa perché temevo gli venisse un infarto; mi resi conto solo col
tempo di come cominciasse a sottrarsi a me.
Qualche tempo dopo gli presero di nuovo dolori al petto. Ci muovemmo senza indugi e
presto divenne chiaro che era necessaria un'operazione alle valvole cardiache. Il
rischioso intervento ebbe luogo poco prima del suo ottantesimo compleanno; per
fortuna nostra figlia lavorava come medico all'ospedale universitario, il che ci diede una
certa sicurezza. Durante l'intervento Ernst entrò in uno stato di delirio e il suo cervello
ne fu danneggiato ulteriormente. Qualche mese dopo, in un articolo del New York
Times sulle anestesie preoperatorie, lessi che certi sedativi possono essere molto
dannosi per la memoria.
Nonostante le difficoltà, Ernst si riprese molto bene dall'operazione (anche
psichicamente) nel giro di alcuni mesi e riuscì quasi a riacquistare la sua precedente
autonomia. Chi lo osservava dall'esterno non notava nulla che non andasse. Facemmo
ancora un paio di viaggi all'estero, cosa che per me rappresentò un fardello e uno
stress, ma le cose si svolsero senza grossi problemi. Solo negli ultimi 18-24 mesi della
4
malattia non fu più possibile viaggiare all'estero; nel nostro ultimo volo verso Belgrado,
all'aeroporto lui era evidentemente sotto stress e si ribellò. Da quel momento in poi vidi
le sue condizioni deteriorarsi rapidamente.
Da principio Ernst prendeva i suoi farmaci da solo in scatolette settimanali, ma a un
certo punto mi resi conto che non era più in grado di gestire la cosa. Un giorno se ne
dimenticava, un altro ne prendeva una dose maggiorata. Diventò diffidente nei miei
confronti, non voleva che glieli dessi io; per fortuna c'era il nostro medico di famiglia,
che lo convinse che fosse la cosa migliore, e Ernst lasciò fare.
«Non può essere demente!»
Ernst iniziò ad avere problemi anche con i soldi; non comprendeva più il valore del
denaro. Quando al ristorante pagavo dieci franchi per le bevande, reagiva con
indignazione: «Non dovrebbero costare più di due franchi». Ciononostante mi
assicuravo che avesse sempre con sé una banconota da dieci o da venti e un
bancomat (senza PIN), perché lo ritenevo giusto per lui. Una volta mi regalò per Natale
una piccola croce d'oro e rimasi altamente perplessa; la desideravo già da molti anni.
Mentre la tenevo fra le mani dopo averla scartata, gli chiesi come e dove l'avesse
comprata. Mi rispose: «Che domanda stupida. Non sono scemo. L'ho ordinata
dall'orefice e ho prelevato in banca». In quel momento pensai: «Non può essere
demente!»
Mai da solo
Nella vita quotidiana mi trovai in molte situazioni estreme con lui. Rifiutava il mio aiuto,
soprattutto nella cura personale; se cercavo di aiutarlo a svestirsi prima della doccia,
mi insultava: «Non sono scemo! Vattene, cosa pensi, che non sia capace!» Facendo la
doccia non era più in grado di regolare la temperatura dell'acqua; girava la manopola
del calorifero. Così arrivò quasi a provocare un incendio in casa nostra, spaventandosi
a morte. Quando per l'ultimo dell'anno accesi un fuoco nel caminetto, scappò via in
preda al panico; stava andando a prendere dell'acqua per spegnerlo.
Via via che le sue difficoltà aumentavano, non potei più lasciarlo solo neanche una
mezz'oretta. Una volta era inverno e fuori c'era la neve; ero scesa in cantina per
qualche minuto e, quando tornai nel soggiorno, lo trovai sul balcone seduto a petto
nudo. Voleva prendere il sole. Col tempo iniziò a non percepire più le temperature;
dovevo sempre badare che fosse vestito in accordo con il clima.
Disorientamento emotivo
Delle sue emozioni, o meglio delle modalità con cui le esprimeva, non riuscivo mai a
raccapezzarmi. Un giorno reagiva alla presenza delle persone come se fossero statue
di pietra inanimata, un altro voleva regalare all'assistente della Spitex un oggetto a cui
teneva molto. Sì, Ernst era senz'altro in grado di esprimere emozioni, ma la modalità,
l'intensità e la persona con cui le esprimeva cambiavano di continuo. Come nel campo
razionale, anche in quello emotivo iniziò a perdere l'orientamento e l'ordine.
5
L'infanzia come ancora di salvezza
Nel corso della malattia i suoi pensieri si soffermavano spesso sul passato, soprattutto
sull'infanzia. Erano i momenti in cui si sentiva più sicuro, come se avesse un'ancora di
salvezza. Quando me ne resi conto, presi una scatola e la riempii con vecchie foto di
famiglia, e da quella volta riconobbe tutti fino alla fine, compresi cugini e cugine. In quel
mondo passato si sentiva molto più a suo agio che in quello presente. Nella scatola
misi anche il suo passaporto, che per tanti anni era stato un compagno fedele per lui.
Ernst aveva viaggiato molto per il mondo nella sua vita e nel corso degli anni aveva
raccolto numerosi souvenir, che aveva esposto in bella mostra in casa. Aveva sempre
tenuto a conservare certi oggetti come ricordo. Col tempo mi resi conto che avere tanti
oggetti intorno gli procurava uno stress crescente, per cui li riducevo di continuo senza
che lui se ne accorgesse.
Lo stesso accadeva per i vestiti: ne usava sempre meno, voleva solo un abbigliamento
essenziale e pratico. Il morbo significò per molti versi un lento, impercettibile addio a
tante cose. Arrivò il momento che se ne stava quasi sempre alla finestra a guardare
fuori. Credo volesse vedere persone vive invece di oggetti inerti; mi chiedeva di
continuo se fossimo soli, lasciava sempre le luci accese e voleva uscire. Per me si
trattava di chiari segnali di solitudine e angoscia.
Riconciliazione nell'oblio
Per Ernst fu una grande fortuna abitare nello stesso luogo dove era nato e dove aveva
frequentato le scuole. Conosceva a menadito le stradine agricole, i sentieri, le
scorciatoie e i prati. I percorsi non li dimenticò fino all'ultimo, soprattutto quello verso la
casa dei genitori. Lì abitava sua sorella, con cui era da anni in cattivi rapporti a causa
di questioni ereditarie; mio marito ne soffriva molto e aveva cercato a lungo invano di
rappacificarsi. In seguito non aveva più sentito la sorella... fino a quando il morbo non
si trovò a uno stadio avanzato. Allora dimenticò del tutto i problemi e i dissapori con lei,
la andò a trovare, bussò alla porta e cercò di entrare a tutti i costi, senza riuscirci. Così
la chiamò ad alta voce; lei era in sedia a rotelle e non poteva aprirgli, per cui gli
rispose. Lui non poteva sentirla, perché era quasi completamente sordo e non aveva
messo l'apparecchio. Nei mesi seguenti andò a trovarla molto spesso. Sono venuta a
conoscenza di questo episodio solo dopo molto tempo e ringrazio Dio che il morbo lo
avesse finalmente portato a rappacificarsi con la sorella.
Profonda preoccupazione e gratitudine
Un giorno lo sentii parlare a voce alta nella sua camera. Le sue parole mi commossero
profondamente: stava pregando; parlava con Cristo di me, era preoccupato di come
me la sarei cavata senza di lui, dato che non era più in grado di lavorare e io non
avevo soldi. Alla fine disse, probabilmente per consolarsi: «Almeno ha una macchina
nuova». Oltre a momenti tristi, gravosi e commoventi ogni tanto c'era anche spazio per
un sorrisetto. Fino all'ultimo vidi Ernst preoccuparsi per me; lo vidi mostrare profonda
preoccupazione e gratitudine. Sapeva scrivere bene e con una bella calligrafia e molto
spesso mi esprimeva la sua grande gratitudine per me per mezzo di lettere, il che mi
faceva sentire ancora più male. Mi sentivo a casa solo con lui, tutto il resto passava in
secondo piano, perfino la mia vita non aveva più grande importanza. Ero diventata un
automa. Arrivai al punto di rischiare la vita e quasi morire; era il 1o agosto 2013 e
6
intorno alla mezzanotte mi svegliai con febbre e dolori lancinanti all'addome. Il medico
al telefono mi disse che dovevo correre in ospedale, così mi misi al volante da sola
lasciando Ernst a casa a dormire. All'ospedale mi diagnosticarono un calcolo biliare
che doveva essere operato d'urgenza. Per me era fuori discussione lasciare ancora
mio marito a casa da solo.
I medici mi fecero seriamente presenti i rischi che correvo a non farmi operare subito;
quasi mi proibirono di tornare a casa. Io rimasi irremovibile e dovetti firmare una
dichiarazione per cui mi assumevo la responsabilità di tornare a casa. Poi mi dettero
della morfina per placare il dolore e chiamai un taxi. Una volta a casa, preparai tutto
perché Ernst potesse venire con me: lo svegliai, gli preparai la colazione e lo portai con
me in ospedale. Lui non reagì minimamente; mi venne semplicemente dietro. Mi
procurai una camera a due letti e pagai la tariffa aggiuntiva per lui; sembrava andare
tutto bene... finché lui non si perse. Per fortuna lo trovarono in breve tempo all'interno
del complesso. In quel momento e in quelle circostanze non potevo farmi operare, ma
potemmo rimanere temporaneamente in ospedale finché io non avessi trovato una
camera per lui in casa di riposo. Solo a quel punto potei sottopormi all'operazione.
In casa di riposo
Una notte fui svegliata da rumori provenienti dal bagno; sentivo tirare l'acqua di
continuo. Quando andai a controllare, mi spaventai a morte: c'era sangue dappertutto;
Ernst aveva un'emorragia nasale. Il sangue gli usciva dal naso a fiotti, senza potersi
fermare per via dei farmaci anticoagulanti che prendeva. Ernst non se ne curava:
«Lascia che scorra, prima o poi si fermerà». Per me però la cosa era pericolosa, per
cui chiamai l'ambulanza; una volta giunta, il medico stentava a credere che io vivessi
da sola con mio marito affetto da demenza e mi disse senza mezzi termini: «Signora
Rüegg, lei non può gestire questa situazione, la esorto caldamente a trovare un posto
per suo marito in un istituto». Mise per iscritto la sua valutazione e la recapitò al nostro
medico di famiglia. Fu in seguito a questo episodio che Ernst venne trasferito in casa di
riposo. Avevo fatto di tutto per assisterlo a casa, eppure dovevo lasciarlo andare; la
separazione la vissi quasi peggio della morte. Ernst era già stato qualche volta in casa
di riposo in vacanza, quando io ero ricoverata in ospedale o ero andata a trovare i
parenti in Serbia.
A gennaio 2014 Ernst era completamente sordo. Avevo grosse difficoltà a comunicare
con lui, ci provavo usando le mani, i gesti, le smorfie e la scrittura. Il peggio in quella
fase fu che quando mi faceva una domanda non sentiva la risposta, per cui mi
rimbrottava di continuo: «Perché non ci parli con me?» Io scrivevo su un foglio che in
realtà gli rispondevo, ma lui non poteva sentirmi; non capiva. Aveva sempre maggiore
difficoltà a comprendere. Ce la faceva solo se si trattava di frasi brevi ed elementari; da
ultimo riusciva a capire solo singole parole.
A un certo punto non sapeva più dove si trovasse. Quando gli facevo visita in istituto,
passato il primo momento di gioia mi chiedeva: «Dov'eri finita? Ti ho cercata
dappertutto in questo albergo. Dov'è la tua camera?» Per lui quell'istituto non fu una
bella esperienza, per cui voleva mandarmi via presto: «Vattene adesso per favore, non
è posto per te». Voleva proteggermi dalle sue esperienze negative.
7
La residenza confinava con un pascolo. Agli inizi dell'estate, quando c'erano gli animali,
Ernst passava molto tempo all'aperto a osservare le mucche. Essendo figlio di
contadini, si trattava di una scena famigliare per lui. Una volta mi disse: «Sto qui di
guardia al bestiame; non so ancora quanto prenderò, comunque non ti toccherà più
pagare perché io stia qui».
La sordità lo induceva a urlare, spaventando di continuo gli altri ospiti dell'istituto e gli
infermieri; la cosa finì per diventare un disturbo non indifferente per chi gli stava
intorno. E ormai non era in grado nemmeno di scrivere, al più di leggere frasi brevi ed
elementari. Io visitavo alcuni istituti e facevo di tutto per trovare un posto adatto a lui.
Sapevo che si trovava molto a suo agio soprattutto se la struttura era dotata di un
giardino ben tenuto con sentieri, panchine, alberi e fiori. Se non poteva uscire, godeva
della vicinanza della natura stando alla finestra, ma preferiva trovarsi in giardino. Ogni
volta che lo portavo fuori a passeggio ammirava il paesaggio, si entusiasmava per i
bellissimi fiori e ne coglieva uno per regalarmelo. Anche quando ormai non percepiva
più da tempo tutto quello che gli succedeva intorno, aveva senz'altro sentore della
bellezza della natura e ciò gli procurava gioia.
Una saracinesca sull'anima
Circa sei mesi prima della morte avevo la sensazione che si sentisse gravemente
oppresso da qualcosa dalla quale poteva solo fuggire senza una meta, scappare e
basta. Mi pareva che cercasse di sfuggire al morbo. In quel periodo si perse
ripetutamente, ma grazie a un chip che gli era stato inserito nella cintura lo trovavamo
relativamente presto e in buone condizioni. La casa di riposo non era pensata per
ospiti affetti da demenza e per loro era impossibile stargli dietro costantemente. Per
questo, su direttiva dello psichiatra responsabile, sedavano Ernst per tenerlo tranquillo.
Quando gli feci visita dopo il trattamento ero inorridita, non mi piaceva: i sedativi lo
avevano cambiato completamente, insieme alla sua personalità e alle sue
competenze; di colpo non aveva più alcuna capacità di esprimersi, come se sulla sua
anima fosse calata una saracinesca. Io non potevo e non volevo permetterlo, per cui
decisi di riportarlo a casa. Nello scantinato avevamo un appartamento disabitato, che
dotai del minimo indispensabile: un arredamento essenziale, semplice da gestire e al
tempo stesso confortevole. La Spitex approvò la sistemazione e io riportai mio marito a
casa. I primi giorni andò tutto liscio, anche se non voleva restare da solo neanche un
minuto; appena ero salita di sopra per preparare il pranzo batteva e mi chiamava. Mi
chiamava incessantemente anche di notte; non riuscivo a dormire, non potevo fare la
spesa e una volta uscì dalla finestra e non volle più tornare in casa. Si faceva sempre
più aggressivo. L'assistente della Spitex non riusciva a fare quasi più niente con lui,
che accettava di fare la doccia solo se c'ero anch'io, e a un certo punto non poté più far
fronte alla situazione.
Sospettavamo che i farmaci non fossero del tutto adatti a lui, così mia figlia (la
dottoressa) insistette perché Ernst fosse ricoverato in psichiatria in modo da migliorare
la terapia farmacologica. A quel punto non vedevamo altra strada. Per il tragitto volevo
evitare l'ambulanza, che avrebbe turbato Ernst. Optammo così per la nostra macchina.
Fu durissima, perché Ernst non voleva uscire di casa né salire sulla macchina né
tantomeno sedersi sul sedile posteriore; ci volle parecchio per convincerlo. Io gli tenni e
gli accarezzai la mano durante tutto il tragitto.
8
Di nuovo lui
Il primo provvedimento che presero in clinica psichiatrica fu eliminare gradualmente i
farmaci e tenerlo sotto osservazione. Notai ben presto la differenza: cominciò a
ritrovare se stesso e spesso faceva discorsi molto ragionevoli. Era convinto, però, di
lavorare nella clinica e voleva dare una mano agli altri; una volta mi disse: «Questi non
li si può aiutare, purtroppo». Anche se mio marito aveva iniziato a tornare se stesso in
quel luogo, ebbi molte esperienze negative con la struttura. Quello che vidi non aveva
nulla a che fare con una casa di cura: l'atmosfera generale era opprimente e
trascurata; a quanto pare c'era una carenza di personale e come «sorveglianti» erano
impiegati soggetti non qualificati, mentre il personale specializzato passava il tempo
per lo più in ufficio a scrivere o a discutere invece che insieme ai pazienti. Questa
perlomeno è l'impressione che ebbi.
Oltre a medici competenti, intraprendenti e comprensivi, ve n'erano certi che si
comportavano con i pazienti in modo scorretto o perfino sfacciato, per non parlare degli
atteggiamenti che avevano con i famigliari. Malgrado la clinica fosse chiusa, un giorno
mio marito era sparito nel nulla e si trovava già molto lontano quando la polizia lo
ritrovò. In seguito mi mostrò, come un bambino che rivela un segreto, come era uscito
dal giardino: un gioco da ragazzi.
«Ti prego, Mara, portami via di qui»
Provammo una nuova terapia farmacologica per lui, ma le sue condizioni
ricominciarono a peggiorare. Un'infermiera gentile mi disse: «Suo marito non ha niente
che giustifichi la sua permanenza qui. Sarà anche sordo, ma non è aggressivo e
potrebbe stare in una struttura per normodotati». Molto spesso lo sorprendevo in
preghiera a parlare con Cristo. A circa la quinta settimana in clinica mi supplicò: «Ti
prego, Mara, devi aiutarmi, portami via di qui». Volevo esaudire il suo desiderio.
La nostra esperienza con istituti diversi fu logorante; ci sarebbe materiale sufficiente
per un libro. Dovevo sempre combattere con le unghie e con i denti. Un esempio:
figuratevi che in una clinica per dementi si trovava una preziosa sedia antica; era
quello il posto dove tenerla? Pensai: «No, è rischioso, qualcuno potrebbe romperla».
Infatti si ruppe e la colpa se la prese mio marito. Altro esempio: gli estintori erano
piazzati in modo che per un paziente era molto facile maneggiarli, e far scattare
l'allarme antincendio era un gioco da ragazzi; così i pompieri furono chiamati per nulla
e a dover pagare l'intervento fui io. Mi riesce difficile credere che non si possa allestire
diversamente gli impianti di sicurezza. Con l'aiuto di Dio, che mi diede la forza, ottenni
che mio marito fosse trasferito in una casa di riposo per persone affette da demenza. Il
giorno del trasloco si era preso una brutta polmonite con febbre e non si rese conto di
nulla. Credevamo che fosse in punto di morte. Quando lo andai a trovare il giorno
seguente ero preparata al peggio... ma mi trovai di fronte a un miracolo. Ernst aveva
reagito così bene agli antibiotici che era già in piedi e in grado di parlare, ed era
felicissimo di vedermi.
9
Per alcuni mesi passammo un bel periodo insieme, malgrado i soliti alti e bassi a cui
ero già abituata. Rimanevo a bocca aperta quando riconosceva i nostri nipotini che
venivano a trovarlo: era felice di stare con loro, li prendeva tra le braccia e soprattutto
era perfettamente in grado di distinguerli al parco giochi tra tutti gli altri bambini. Ero
particolarmente sorpresa perché da tempo confondeva le parentele. Spesso mi
chiedeva: «Dove hai lasciato la bambina?» intendendo la nipotina, ma credeva fosse
sua figlia; nostra figlia invece credeva fosse sua sorella e successe anche che credette
che anch'io fossi sua sorella. Dato che ero la «sorella», la vicinanza che mi consentiva
non andava oltre un abbraccio e magari una timida carezza sul viso o sul braccio.
Ormai non c'era più intimità tra di noi.
Immobile come la morte, ma caldo
Anche nell'istituto per dementi lo trovavo spesso sedato, completamente apatico;
immobile come la morte, ma caldo. Ovviamente reagivo e volevo sapere che cosa
fosse successo. La risposta: «Forse gli abbiamo dato troppa Temesta». Mi rivolsi al
medico della struttura e lo pregai di sorvegliare più da vicino la somministrazione di
farmaci da parte degli infermieri. Quando il medico se ne interessò, la direttrice volle un
colloquio con la psichiatra precedente. Io non lo ritenevo necessario, ma mi
minacciarono di trasferire di nuovo mio marito in clinica, cosa che rifiutai
categoricamente.
Mi predisposi spiritualmente a riaccoglierlo a casa. Mi fu chiarito che avevano il diritto
di trasferirlo e che avevo sottoscritto una dichiarazione in questo senso al momento
dell'accoglienza; senza la firma non lo avrebbero ospitato. Volevano perfino limitare le
mie visite. Ero fuori di me: un istituto per i cui servizi pagavo profumatamente cercava
di levarmi il diritto di vedere mio marito; il medico della struttura, però, mi assicurò che
potevo venire quando volevo.
Quando si svolse il colloquio io ribadii con forza la mia posizione, soprattutto nei
confronti della psichiatra. Lei si era sempre basata su cartelle cliniche e dichiarazioni
degli infermieri per valutare lo stato di salute di mio marito; quando le chiesi se avesse
visto mio marito anche solo una volta, mi rispose: «No». Replicai: «Le sta a soli tre
metri di distanza». Non le interessava minimamente di mio marito, continuava solo a
dire: «Chi è aggressivo deve essere ricoverato in clinica psichiatrica». In seguito mi si
chiarirono le motivazioni che si celavano dietro a quell'atteggiamento: avevano a che
fare con il grado di assistenza. Più altro era il grado di assistenza richiesto per mio
marito, maggiore era l'onorario che potevano richiedere.
Trovo umiliante attribuire atti gravi a una persona inerme e bisognosa di aiuto solo per
motivi finanziari. Mio figlio ha così descritto la situazione: «Si preoccupano di adeguare
il più possibile il paziente all'istituto, invece di preoccuparsi per lui».
Il morbo ha cambiato anche me
Osservavo come Ernst perdesse sempre più il senso del tempo e mi chiedevo come ci
si deve sentire: è una fortuna o una maledizione? È il principio dell'eternità? Non so
rispondere. Il morbo ha cambiato anche me, rendendomi più sensibile, empatica e
comprensiva. Ciò ha avuto degli effetti indiretti sulle persone che mi stanno intorno.
Oggi la mia visione della malattia è molto più complessa che in passato: non è mai
pura insensatezza, è anche arricchimento.
10
Con lui se n'è andata una parte di me
Le ultime settimane di Ernst in casa di riposo trascorsero tra alti e bassi. Anche lì aveva
la sua scatola di fotografie; quella della chiesa di Mario Botta l'aveva tirata fuori e la
portava sempre con sé. Durante una delle mie visite un'infermiera mi chiese che cosa
significasse «Mara», dal momento che ripeteva continuamente quella sola parola.
«Mara» è il mio nome. In quel periodo, mentre si avvicinava il momento dell'addio,
sedevo spesso al suo capezzale. Ormai comprendeva solo singole parole scritte,
quindi gli scrissi «Gesù» su un foglio per appunti, glielo mostrai e lo posai sul
comodino; alla fine della vita per lui doveva esserci quella parola.
Il suo ultimo tratto di strada su questa terra, quel processo di graduale commiato e
partenza dal mondo, l'abbiamo percorso insieme; una strada meravigliosa verso Dio e
la Sua luce. Mi sentivo sempre più vicina a Dio, che è anche la sorgente della mia
forza e del mio amore; avevo la sensazione di staccarmi da terra e fluttuare
nell'universo. In quel momento percepivo che anche Ernst si trovava molto vicino a Dio
e pregai: «Signore, sia fatta la Tua volontà, io non lo tengo più stretto a me». Alla sua
morte ebbi la sensazione che una parte di me se ne andasse con lui e una parte di lui
rimanesse con me. In quel momento ero pronta a lasciarlo andare e accesi una
candela per illuminargli la via verso la luce divina. Provavo grande sollievo, gioia e
tristezza al tempo stesso. Dio mi ha dato molta forza nei giorni, settimane e mesi
seguenti. Ha portato a buon fine tutto ciò che ho fatto fino a oggi, mentre scrivo queste
parole, e per questo lo ringrazio dal profondo del cuore. Ringrazio anche tutti coloro
che a qualsiasi titolo mi hanno fornito sostegno, coraggio e assistenza.
Mara Rüegg
Avete fatto anche voi esperienze simili e vorreste confrontarvi con me?
Contattatemi tramite l'Associazione Alzheimer.
Traduzione: bmptranslation ag, Basilea
11