Cronache di un viaggio a Parigi: Sarrur Abdalla
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Cronache di un viaggio a Parigi: Sarrur Abdalla
Cronache di un viaggio Parigi: Sarrur Abdalla a Ci sono storie che fanno parte della vita di un uomo che sembrano essere frutto di un racconto inventato, qualcosa che sembra poter essere solo immaginato. Ce ne sono altre, invece, che si leggono sui giornali, si ascoltano alla televisione, delle quali si discute persino con gli amici, ma che sembrano così lontane da rubare solo qualche secondo del nostro tempo. Non toccano da vicino, quindi perdono importanza. Quando però si riesce ad incrociare lo sguardo di chi, effettivamente, ha vissuto sulla propria pelle quelle stesse storie che si ritenevano troppo distanti per essere un problema reale, qualcosa cambia. Ci si rende conto che dietro i numeri delle vittime di guerra, dietro le spaventose cifre di morti per l’immigrazione, ci sono vite, storie, racconti, sentimenti, famiglie che perdono un figlio ed esistenze che cambiano radicalmente. Dietro quei dati aridi ed enunciati senza passione, come le liste della spesa che si compilano prima di andare al supermercato, ci sono persone. Uomini, non cose. Sarrur Abdalla è un uomo di trentasette anni, studente alla Summer School dell’Università Sciencespo, con la passione per l’economia e la politica. È un sudanese scappato dalla guerra clandestinamente, che immagina un futuro migliore per sé stesso e per il proprio paese, ma con la consapevolezza che la strada per raggiungere questi obiettivi è tutta in salita. Sarrur è mio amico ed è un rifugiato politico. La sua storia forse è simile a quella di tanti altri uomini, molti dei quali non hanno più il fiato in gola per raccontarla. Qualcuno ha chiuso gli occhi prima del tempo sotto i colpi di mitragliatrice e qualche altro si è addormentato nel cimitero del mediterraneo, portando sott’acqua la speranza di vivere la propria, unica e sola vita in modo diverso, forse migliore. Sarrur è nato nel 1979, in una fattoria del paese di “Domazin”, nel sud del Sudan, in mezzo alla natura dove viveva con altri 4 fratelli e 3 sorelle. Ricorda sempre quel posto con particolare affetto perché dice di essersi sentito un piccolo “re della foresta”. Tutto ciò di cui aveva bisogno si trovava in quella fattoria: una vita felice che molti bambini sognano di avere. Nel Sudan, però, la guerra civile tra nativi africani ed arabi non ha mai cessato di esistere e nel 1986 la città di Domazin, scenario di guerriglie, diventa troppo pericolosa per continuare a pensare di poterci vivere, così, la famiglia Abdalla è costretta ad emigrare altrove. Trovano rifugio nella città di Omdounman dove però le cose non sembrano andare per il verso giusto. È un periodo storico in cui la fazione araba ha il sopravvento e per i nativi africani sono tempi durissimi. La discriminazione razziale e l’emarginazione sociale sono sentimenti shoccanti con cui un giovanissimo Sarrur è costretto a convivere giorno dopo giorno, fino al raggiungimento della maggiore età: “Ero costretto ad andare in una scuola diversa. Un edificio creato apposta per noi africani, con compagni e professori solo africani. La nostra gente veniva trattata male perché non eravamo arabi e per me, abituato com’ero alla vita in natura dove mi sentivo padrone di me stesso, è stato terrificante. Volevo solo andarmene da quella scuola e fare un lavoro in grado di aiutare la mia gente.” Finiti gli studi liceali, torna nel sud Sudan, dove la guerra ha portato via tutto. Nessun bambino va a scuola, i campi da coltura abbandonati e il terrore è sparso ovunque. Diventa insegnante, spingendo i ragazzi della sua comunità a battersi per avere un’istruzione e riesce anche a portare avanti questo suo lavoro per diversi anni. Poi, nel 2009, la guerra torna a farsi sentire. Il Sudan si spacca in due, nord e sud diventano stati diversi e l’esercito arabo entra nella casa di Sarrur e distrugge tutto. Lo cercano perché lui è africano ed insegna ad altri africani: “Non potevo più restare nel mio paese, luogo che ancora adesso continuo ad amare” – mi dice con lo sguardo triste mentre morde il suo panino nella pausa pranzo tra una lezione e l’altra – : “sono dovuto scappare illegalmente fino ad arrivare in Libia. Lì sono entrato in una barca enorme, con tantissima altra gente e sono arrivato in Grecia. È stato il viaggio della speranza, ma sono stato costretto a farlo. “Ascolto in silenzio le sue parole, colpito da questa storia e preda delle mille emozioni che mi suscita. Mi chiedo come continui questo racconto, come lui sia arrivato fino a Parigi e la mia attesa dura pochissimo, perché riprende immediatamente a parlare. Appena ingoiato l’ultimo boccone mi dice: “In Grecia ho raccolto arance per qualche mese. Avevo bisogno di soldi e quello era l’unico lavoro che ho trovato. Poi, con qualche risparmio in tasca, ho pensato che Atene potesse essere il luogo giusto per ricominciare e sono andato a vivere lì.” Ad Atene ha trovato una comunità del Sudan pronta ad accoglierlo, che gli ha insegnato il mestiere di informatico e che gli ha dato un lavoro nella loro ditta. Era il 2009 e Sarrur ricomincia a vivere. Le cose vanno talmente bene che decide di iscriversi alla pubblica università greca, in economia e management, alternando gli esami al lavoro. Passano 4 anni e riesce persino a laurearsi. È una grande soddisfazione, uno scacco alle sfide della vita, un risarcimento per tutti quegli anni di fatiche, ma non durerà per molto. Nel 2015, a seguito della crisi nera che investe tutta la Grecia, la ditta in cui Abdalla lavorava, perde numerosissimi clienti e viene investita dalle difficoltà economiche. Come se non bastasse, la xenofobia comincia a farsi sentire e la comunità sudanese inizia a subire attacchi violenti: prima alle vetrine dell’ufficio, poi direttamente agli impiegati. Per Sarrur arriva il momento di andarsene anche dalla Grecia. Ecco allora come e perché arriva in Francia, individuando in questa nazione l’unica ancora di salvezza in Europa. Il multiculturalismo, che sta alla base della società francese, rappresenta per lui una soluzione, nella convinzione che ci sia posto, in questo territorio, per persone che sono state costrette a scappare via da casa. Ma non è semplice. Avvia le procedure per lo status di “rifugiato politico”, quella condizione che consente a chi scappa dalla guerra di essere protetto dallo Stato in cui risiede, senza alcun obbligo di rimpatrio. Una condizione molto diversa da quella di “immigrato economico” e per la quale i tempi di approvazione sono lunghi. Passano sei mesi, infatti. In questo periodo di tempo Sarrur non ha una casa, non ha un lavoro, non ha un amico che si occupi di lui e diventa un senzatetto. Vaga facendo la spola tra Parigi e Lione, sperando di diventare un rifugiato politico al più presto e chiedendo supporto per qualche pasto e qualche doccia alle organizzazioni che, come la Caritas in Italia, sono disposte ad offrirlo. “Non avrei mai pensato nella mia vita di fare il senzatetto, soprattutto non dopo una laurea in economia. Però, ho imparato tanto da questa esperienza e adesso credo di poter affrontare tutto col sorriso”. Nell’aprile 2016 ottiene il riconoscimento e diventa un rifugiato politico in territorio francese. Vive con 260 euro che lo Stato gli garantisce ogni mese e da giugno studia all’Università di SciencesPo nella Summer School. Sogna di proseguire gli studi con un master e, ad agosto, il Consiglio di Dipartimento dell’Università lo convocherà per discutere del suo caso e decidere se fargli proseguire gli studi in quella stessa sede. È ottimista. Dice che alla fine andrà tutto per il meglio. Quando gli ho chiesto se gli manca il Sudan, mi ha risposto: “Continuamente, perché è casa mia. Spero di poterci tornare un giorno, ma per adesso non posso riabbracciare la mia famiglia.” Cosa pensa dell’Europa?: “Per me ha rappresentato la libertà, nonostante tutto”. Come si immagina tra dieci anni? Ride e dice: “Come un uomo dotato di quella stabilità di cui è stato privato”. Come riassumerebbe tutta la sua vita vissuta fino adesso, in una sola parola? “Hope”. Speranza. Dietro gli occhi di ogni uomo, dietro ogni respiro sputato nei centimetri di quei barconi, c’è la speranza. E dietro ogni sguardo assente, sprofondato nel blu di un mare ridotto a cimitero, c’è una speranza che è stata, ma che non potrà più essere tale.