E se dovesse succedere di nuovo

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E se dovesse succedere di nuovo
Ci siamo: quello che segue è l’epilogo della saga degli psicovirus. Si tratta di una serie di 5 racconti autonomi che
possono essere letti in ordine cronologico o indipendentemente l’uno dall’altro. Tutto è iniziato con “Indirizzi
IP” (Webtrekitalia di gennaio 2004), per continuare poi con “Psicovirus A”, “Psicovirus B” e “Psicovirus C”
(tutti sullo stesso sito) che hanno delle parti in comune e si svolgono in parallelo. Siamo al quinto racconto: si
intitola “Alt F4” e andrebbe letto per ultimo.
Ringrazio Giancarlo Manfredi e webtrekitalia.it che mi danno l’opportunità di pubblicare questa robaccia.
Per commenti, suggerimenti e critiche contattatemi pure tramite il sito o all’indirizzo [email protected].
4/5/2004, Stefano Massera
Alt F4
Luca, si chiama Luca. E’ un uomo vestito con un cappotto di policarbonato. Chiude la macchina e si
incammina sotto una luce di ghiaccio; la sagoma si muove silenziosa, è animata solo dalla musica
degli innesti attivi. Un velo di nebbia, il riflesso di un lampeggiante. Entra in un portone, abbassa il
volume, si rivolge all’identificatore che gli apre la porta. Luca sente una voce di donna che lo saluta
da qualche parte della casa, un cane gli scodinzola tra le gambe. La sagoma si lascia andare su un
divano di poliuretano e chiude gli occhi…
Monia. Lei, invece, si chiama Monia ed è la moglie di Luca. E’ una bella donna in tuta da
ginnastica, ha capelli sottilissimi e mani di cera. Si avvicina a Luca e gli accarezza il viso
stanchissimo. «Com’è andato il viaggio?»
«La solita merda.» Gli risponde lui massaggiandosi gli occhi.
«E quel lavoro? E’ andato a finire bene?»
«Sì, quello è andato bene. Tutto a posto.» Luca abbozza un sorriso sporco di fondotinta e gli
ripete: «Quello tutto a posto.»
Monia si china su di lui e gli da un bacio sulla testa. «Anche questa è andata», si sposta davanti al
divano per guardarlo negli occhi: «Fatti un bagno; andiamo a mangiare qualcosa fuori.»
Dopo un po’ la donna lo vede ancora sul divano a massaggiarsi gli occhi, si avvicina in silenzio e
porge al marito un piccolo vassoio con una pasticca d’alcool e un negraf®. Gli sussurra in un
orecchio: «Non ti va?»
«Lo sai com’è ogni volta che finisco un lavoro…» gli risponde lui; poi prende le pillole e le ingoia
accentuando il movimento della testa all’indietro. «Quando finisco un lavoro ho un senso di
vuoto…»
Rompe di nuovo il silenzio dopo un paio di minuti: «Se solo sapessimo dov’è andata a finire. Mi
basterebbe sapere questo.»
Gli occhi della donna si velano di tristezza. «Non siamo gli unici ad aver perso…»
Luca la interrompe poggiandogli delicatamente il palmo della mano sulle labbra, stringe poco a
poco le dita trasformando la carezza in una presa decisa, poi la abbraccia e gli sussurra tra i
capelli: «Scusa. Mi faccio un bagno... usciamo.»
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Paolo Ramasti aveva quasi raggiunto i sessanta. Avrebbe presto festeggiato il suo compleanno
scaldandosi le chiappe in qualche mare all’altezza dell’equatore. Da trent’anni occupava la sua vita
come cacciatore di psicovirus: messaggi senza significato apparente che attraversavano in poche
ore il pianeta e diventavano agli occhi di alcuni delle micidiali offese. Manager, impiegati,
professionisti. Era solo una questione di statistica. Per qualcuno quei messaggi avevano un
significato terribile così come terribili erano le conseguenze: aggressioni, omicidi, suicidi.
Quando gli psicovirus si erano affacciati alla cronache non c’era modo di scoprire chi li
confezionasse. Drammatici scherzi della modernità, terrorismo informatico, pubblicità occulta.
Paolo in trent’anni aveva sgominato organizzazioni e singoli hacker che “si divertivano” a creare e
diffondere psicovirus. Non c’erano dati ufficiali ma si stimava che i messaggi devianti uccidessero
migliaia di persone ogni anno.
La pioggia era illuminata a tratti dalle insegne, il fiume di macchine fluiva compatto e ordinato.
C’era un odore di bruciato che racchiudeva tutti i profumi e le puzze dell’agglomerato: il grasso e la
senape degli hot dog, la brace dei fuochi accesi per riscaldare la nottata, l’ozono dei trasmettitori, il
sentore degli inibitori di sudorazione.
Paolo si avvicinò sicuro verso un contenitore di rifiuti. Scelse nella tasca una moneta da una rupia,
gettò il sacchetto di rifiuti e fece cadere a terra la moneta con discrezione. Si allontanò
distrattamente, fece un centinaio di metri tra la folla e si voltò di nuovo verso il punto di partenza.
Ritornò con calma verso il contenitore dei rifiuti, giusto in tempo per verificare che la moneta era
stata raccolta.
Vide un gruppo di ragazzi che avanzavano tra la gente schiamazzando. Avevano tutti i capelli rasati
a zero e le teste lucide dalla pioggia, gli occhi erano coperti da occhiali a fascia, gli innesti nascosti
da fazzoletti di carbonio. Erano due coppie: le ragazze portavano delle vesti grigie lunghe fino a
terra, i ragazzi, nonostante il freddo umido, vestivano calzoncini di policarbonato e calze a rete.
Quando Paolo gli passò accanto uno di loro rimase immobile per un attimo, lo fissò negli occhi e
tirò fuori dalla bocca la lingua tatuata. Fece il gesto di leccare l’aria. Paolo guardò impietrito la
scena mentre gli altri scoppiavano a ridere. Il ragazzo sfilò accanto all’uomo e continuò ridendo.
Paolo aveva avuto modo di vedere la moneta ben sistemata sopra il dorso della lingua: era il
segnale.
Dopo pochi minuti era entrato in un portone buio. Non aveva cercato di accendere la luce: aveva
trovato il portone socchiuso, era entrato, si era chiuso il portone alle spalle ed era rimasto
immobile.
Gli occhi e la respirazione si abituarono al buio e al silenzio. Sentì presto il respiro dei ragazzi fermi
nell’oscurità. Una piccola torcia si accese e illuminò il viso di Paolo: «Hai portato i soldi?»
«Contanti.» Rispose Paolo, poi, seguito dalla luce della torcia, infilò la mano in tasca e tirò fuori un
fascio di banconote. Vide una giovane mano emergere dal buio e prendere tutto. La luce illuminò
due mani che contavano le banconote.
«E’ ok. Dategli il badge e scannatelo.»
Paolo vide una mano allungarsi dal buio e consegnargli una piccola tessera magnetica, lui allungò
la mano e aprì il palmo. Vide la linea sottile della luce che gli scannerizzava il palmo, poi prese la
tessera, salutò e fece per andarsene.
Mentre si apprestava ad uscire sentì una voce di donna emergere dal buio: «Ci tieni proprio?»
Lui esitò un attimo con le spalle ai ragazzi e disse: «Ci tieni… a cosa?»
«Ci tieni proprio a venire a vedere?»
Rimase immobile indeciso se andare o rispondere.
«Scommetto che cerchi un no-co…»
Paolo non rispose. Un’altra voce interruppe la ragazza: «Ha pagato. Lascialo stare.»
Ci fu ancora un attimo di silenzio, poi si aprì il portone e Paolo uscì.
Era di nuovo trascinato nel fiume di pedoni. La pioggia fine era quasi cessata.
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Premette un tasto e ascoltò una voce materializzarsi nell’auricolare: «Tutto a posto?»
«Sono appena uscito. Tu hai scannato le voci?»
«Non ho trovato niente di importante. Il ragazzo è uno stronzetto di sedici anni che vive in centro,
la ragazza non l’avevamo mai mappata ma sembra ok.»
«Va bene, allora me ne vado a cena. Per oggi ne ho abbastanza.»
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Quella stessa sera Luca e Monia sedevano in un locale stracolmo di gente. Avevano digitato
l’ordinazione sul terminale e il nastro aveva già consegnato le bevande. Le promo con l’auricolare e
la divisa verde del ristorante si facevano spazio tra i clienti. Risate, voci, dialetti di mezzo mondo.
Loro due si guardavano negli occhi così come facevano da tanti anni. Erano due belle persone: a
guardarle bene sembrava che tutto intorno a loro ci fosse il silenzio. Lei aveva il viso coperto da un
velo di tramex. Era stupenda. Quando parlava con Luca gli occhi esaltati dal tessuto restituivano
espressioni di una bellezza di altri tempi: «Stavo pensando ad una vacanza per noi due… che ne
dici?»
Lui si accarezzava la fronte. Il viso era disteso: «Non ci starebbe poi tanto male…» disse lasciando
qualcosa in sospeso.
Lei lo guardò comprensiva e continuò: «Cosa hai in mente? Hai preso qualche impegno per i
prossimi giorni?»
Lui parlò sottovoce, quasi vergognandosi di quello che diceva: «Un mio collega mi ha messo in
contatto con un ragazzo. Mi possono far entrare in un neurave.» Fece una pausa come se si fosse
tolto un peso e continuò: «E’ domani notte. Domattina lo incontro.»
Lei scosse la testa e bevve un sorso della sua bevanda. Il tramex aveva la caratteristica di
enfatizzare le espressioni del viso: la donna divenne di colpo molto preoccupata. Rimase in silenzio
a sbirciare gli esemplari umani di quel locale. Poi continuò secca: «Perché non la smetti di sprecare
così i nostri soldi?» Disegnava con il dito delle figure sul tovagliolo, «sono passati otto mesi ormai.
Il lavoro va bene, ci stiamo risollevando… non continuare a torturarti. Se non la trova la polizia
come pensi di trovarla tu. Da solo.»
«E’ solo per domani… e i soldi non sono un problema per noi. Pensiamo insieme alla vacanza,
possiamo partire subito dopo.»
L’espressione di Monia divenne furiosa. Parlò sillabando le parole: «E allora questa volta ci vado
io.»
Lui rimase stupito, colpito in piena faccia dalla risposta della moglie. Provò timidamente a
controbattere: «Ma… lo sai che è pericoloso.»
«Se è pericoloso per me lo è anche per te. Questa volta vado io.»
Luca prese le mani alla moglie e le strinse. La guardò negli occhi con tutto l’amore che si poteva
esprimere in un ristorante così affollato. «Va bene,» gli disse, «stavolta tocca a te e quando torni
pensiamo alla vacanza.»
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Paolo si guardò allo specchio e finì di sistemarsi il fondotinta sulle guance: era un po’ troppo
anziano per un neurave ma nessuno lo avrebbe capito. Indossò il cappuccio in kevlar e controllò
che il filo dell’innesto non si vedesse dalla tuta. Quando uscì di casa la città era nel pieno fermento
di una giovane notte, l’odore di bruciato quella sera sembrava dolciastro: forse il vento arrivava
dall’inditown.
Era una vecchia linea di metropolitana. Tanti anni prima le contrazioni avevano liberato le strade
dalle macchine e i tratti sotterranei delle metropolitane, troppo costosi, erano stati abbandonati.
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Paolo arrivò davanti ad un grande edificio all’interno del quale era stato ricavato uno dei tanti
passaggi. C’erano parecchi ragazzi in giro, molti di loro aspettavano di entrare. Lui attraversò un
grande atrio desolato e i suoi passi rimbombarono verso un vasto cortile interno dove vide un
gruppo di una decina di persone davanti ad una porta. Lo guardarono tutti con sospetto, lui
avvicinandosi fece passare la tessera su un lettore. Si accese una luce verde e il gruppo si
disinteressò di lui.
Quando arrivò il suo turno Paolo non dovette fare altro che appoggiare la mano su uno schermo. Il
palmo fu scannato e si aprì la porta.
Scese due rampe di scale e fu in un locale illuminato da luci al neon di altri tempi, seguì le
indicazioni e raggiunse finalmente la galleria. Il fondo era allagato, si camminava in fila indiana su
una passerella sistemata sopra i binari arrugginiti. Camminò così per un quarto d’ora e arrivò ad un
piazzale nel quale confluivano altri due binari con altrettante file di persone.
Monia invece arrivava da un altro binario. Aveva avuto l’accesso la mattina stessa. Camminava a
disagio sulla passerella, emozionata e preoccupata. Aveva indossato una tuta riflettente bianca
come la neve. I capelli raccolti in una coda le davano l’aria di una ragazzina; aveva nascosto i suoi
cinquanta anni dietro un filo di trucco olografico.
Vedeva la folla avanzare silenziosa con le teste in fila disegnate dalla luce fioca. Sentiva i rumori
sordi della città arrivare da sopra la galleria. Quando raggiunse il piazzale vide le file di persone
ordinate che e iniziò a sentire l’emozione della folla. Vide uomini in tuta che passavano tra le file e
facevano qualche verifica sui palmi delle mani della gente. C’erano due portelloni con grandi
saracinesche, ogni tanto si aprivano e lasciavano entrare un gruppo di un centinaio di persone.
Quando le saracinesche si aprivano Monia curiosava sulle luci della sala. Era emozionata come
un’adolescente. Era lì per cercare sua figlia ma quella situazione le ricordava una gioventù di tanti
anni prima. Quella alla quale avrebbe assistito era una festa molto particolare.
Quando arrivò davanti alla saracinesca era praticamente accanto a Paolo. Le fu controllato ancora
una volta il palmo della mano e la saracinesca si aprì.
Entrarono praticamente insieme.
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I sonori di sottofondo, gli schermi giganteschi, gli ologrammi e quell’odore di carne umana: tutto
come una sniffata di sintetica. Monia rimase senza fiato: nella folla gente di tutti i colori e di tutte
le età. Qualcuno già ballava, un gruppo di DJ si passavano il microfono commentando la serata.
Dal soffitto grandi ventole, negli schermi immagini di morte alternate a scene di amore.
Monia non riusciva a fare una stima precisa ma pensò che c’erano già diverse migliaia di persone.
Rifletteva sulle tante storie di quell’agglomerato umano quando sentì un tuono che fece tremare il
locale. Un tuono che fece girare la folla che esultò con le braccia al cielo. Un basso iniziava a
scandire i suoi sonori, le vibrazioni arrivavano allo stomaco accompagnate dalle prime ovazioni del
gruppo, Monia cercava tra i visi i caratteri della figlia ma non riusciva a trattenere le gambe
dall’accompagnare quella musica assordante. Non sarebbe stato facile riconoscerla. I visi erano
trasformati dalle acconciature, non si riusciva a distinguere tra maschi e femmine. Diversi sonori
iniziarono ad accavallarsi tra loro, Monia sentì l’odore acre del esamox che un gruppo vicino a lei
stava inalando. Lei inghiottì una pasticca di alcool e continuò a vagare con difficoltà tra la gente.
Dopo mezz’ora non era riuscita ancora ad attraversare tutta la sala gigantesca. I ragazzi,
arrampicati da tutte le parti, ballavano danze tribali completamente rapiti dai sonori. Un uomo si
avvicinò a Monia e le mise in mano un terminale. Si avvicinò al suo orecchio e le urlò: «Ti amo. Sei
stupenda.» Le prese la mano con il terminale e continuò: «Connettiti a me. Sono tuo, connettiti a
me.» Lei si voltò e provò a restituire il terminale all’uomo che continuava a urlare “connettiti a me,
connettiti a me, amore mio”. Lei riuscì finalmente a restituirgli il terminale e lo lasciò rapito da un
cambio nei sonori.
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Le luci e gli schermi iniziarono a lampeggiare, i sonori cessarono per un attimo e gli speaker
annunciarono l’arrivo dell’atropizina, salutato da un boato della folla. Si levò un fumo sottile e
aspro che inondò per qualche minuto tutta la sala. Monia, che non aveva mai inalato la sostanza,
esplose qualche colpo di tosse e sentì presto gli effetti della sostanza. La musica divenne più forte,
ma forte nel senso che ne poteva sentire il sapore in bocca, tutto il suo corpo fu scosso da tremiti,
continuò a tossire e dopo qualche minuto si accorse che aveva difficoltà a distinguere gli
ologrammi dalle figure umane che si scatenavano rapite dalla musica e dalla sostanza. Era dentro
da più di un ora quando il neurave iniziò ad entrare nel vivo. Le figure intorno a lei si
trasformarono lentamente in rettili. Un cavaliere si alzò al di sopra della folla e iniziò a gridare con
una voce di infero, si strappò di dosso l’armatura e mostrò il corpo completamente tatuato alla
folla che lo acclamava. Lei lo guardò cercando di capire cosa fosse finché non fu sballottata verso
un gruppo di ancelle che sembravano ignorare tutto il resto e si abbracciavano scambiandosi baci
e ridacchiando. Ognuna di loro aveva una veste bianca che lasciava intravedere i corpi giovani e
nudi, i loro capelli scendevano sul viso come in una improbabile immagine di un secolo prima.
Monia si avvicinò a una di esse, la guardò con aria stupita, poi non riuscì a fare altro che
abbracciarla, baciarle avidamente il collo e far scivolare le sue mani sulle spalle tornite. La ragazza
gli sussurrò nell’orecchio “connettiti a me” e gli mise in mano un terminale. Monia trasformò il suo
bacio in un leggero morso finché non sentì la presa allentarsi. “Connettiti a me” ripeteva la
ragazza, ora in lacrime. Monia fece scorrere le mani sul collo dell’ancella fino a sentire la placca
metallica e fredda dell’inserto. La baciò sulle labbra e la perse nella folla.
Paolo aveva inserito i setti alle narici per sfuggire agli effetti dell’atropizina. Si aggirava disperso tra
la folla in attesa degli eventi quando la luce si abbassò e il volume della musica divenne appena
percettibile; tutte le teste si rivolsero agli schermi e fu lanciato il primo psicovirus.
Apparve su tutti gli schermi e i monitor della sala: una scritta azzurra su sfondo giallo. “Lampi
l’ombra, accoglie influsso”. Una frase breve, semplice e chiara. La musica ricominciò a salire e la
folla sembrò indifferente alla frase. Qualcuno iniziò a ripeterla e si levò un coro di grida “Lam-pi
l’om-bra, acco-glie in-flusso, Lam-pi l’om-bra, acco-glie in-flusso”.
Paolo ripetè la frase in modo da farsi sentire dall’auricolare dell’innesto: «Lampi l’ombra, accoglie
influsso»
Gli rispose qualcuno dall’altra parte e lui continuò: «Sì. Ho capito. L’hai trovato ed è in archivio.
Un asiatico uscito tre anni fa. Ok. A dopo.» Paolo si mosse tra la folla e si avvicinò ad una consolle
dietro la quale si accalcava un gruppo di uomini vestiti con calzamaglie bianche. La massa
continuava a ballare, qualcuno ripeteva ancora la frase.
La musica calò di nuovo e gli schermi restituirono un’altro psicovirus: “ritiene ma avallare, sistema
dove negozio”. Questa volta la folla sembrò colpita al cuore. Si crearono subito dei circoli intorno a
ragazzi e ragazze isolate che si dimenavano come bestie ferite. Il boato della folla era
insopportabile, furono tutti travolti da un’ondata di eccitazione, i getti continuavano ad irrorare
atropizina. Era una bolgia vera e propria, il servizio medico continuava a tagliare la folla
trasportando via persone svenute o ferite. Paolo urlava nell’auricolare: «Non è mai uscito? Cazzo!
Come sarebbe a dire che non è mai uscito?» I sonori avevano ripreso al massimo volume, «Va
bene, ho capito. Ci penso io. A dopo.»
Si fece spazio con facilità tra la folla impazzita. Era l’unico che non aveva inalato il gas e riusciva
agevolmente a spostare la gente che gli ballava davanti. Una ragazza completamente nuda gli si
avvicinò. In un primo momento pensò a un ologramma poi la evitò e andò avanti: aveva visto ciò
che cercava. Si avvicinò a un uomo che se ne stava in disparte a godersi lo spettacolo. Lo
raggiunse e gli diede una pacca sulla spalla inserendo un ago ipodermico: «Ciao Ale, come stai?»
L’altro ebbe solo il tempo di riconoscere Paolo e di dire “non mi chiamo Ale”, poi la droga iniettata
si espanse dalla spalla e raggiunse i centri nervosi. Paolo lo prese sotto braccio e lo portò in
disparte. Gettò il corpo inerme su una poltroncina completamente ignorato dalla folla in delirio, si
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avvicinò alla faccia dell’uomo e gli appoggiò l’ago di un’altra siringa sul collo: «Ne ho anche un’altra
se vuoi, testa di cazzo!»
L’uomo riusciva a malapena a rispondere: «Ma che vuoi da me?»
Paolo infilò l’ago senza iniettare la droga e continuò: «Dove l’hai preso quello che hai mandato
adesso? Dimmelo o ti faccio mettere dentro, sai che posso farlo» L’uomo rimase inerme
terrorizzato dall’ago nel collo mentre Paolo lo incalzava: «Quel virus non è mai uscito. Come hai
fatto ad averlo?»
L’ago aveva bucato una vena, l’uomo si portò le dita in corrispondenza della siringa e sentì il caldo
appiccicoso del sangue sul collo; delicatamente, con il pollice e l’indice, convinse Paolo a sfilare
l’ago, lasciò un dito a tamponare la vena e rispose: «Quel messaggio non è tuo, conosco il
divergente che te l’ha venduto.»
Paolo rimase sorpreso dalla risposta, fissò l’uomo negli occhi e continuò: «Quale divergente, che
stai dicendo...»
L’altro iniziò a sorridere e parlò verso l’orecchio di Paolo: «Tu il tuo virus l’hai comprato da uno
della setta dei biogeni che hai messo dentro un anno fa. E’ un deviatore di primo livello ma l’avete
riempito di miotripina.»
Paolo era rimasto di stucco e ascoltava l’altro che iniziava a ridere per effetto della droga. «Hai
comprato il messaggio tramite connessione protetta. Hai usato i suoi codici, vero?» Porse a Paolo
un terminale e continuò: «Connettiti a me e vedi quali sono i miei codici, forse sono gli stessi che
usi per lui, oppure gli stessi che usi per vendere i tuoi cazzo di messaggi. Forse il deviatore è
morto da un pezzo oppure il deviatore sono io.» L’uomo a questo punto iniziò a ridere di cuore, gli
occhi gli si iniettarono di sangue e puntò il dito sporco di sangue verso Paolo: «Cazzone che sei.
Hai paura vero... connettiti a me e vediamo cosa ci trovi dentro, stronzo. Forse ci trovi tutti quelli
che hai venduto,» abbassò il dito e avvicinò la bocca all’orecchio di Paolo. Sussurrò con un alito di
morte dettato dalla droga: «Anche io sono un deviatore di primo livello, ci credi? Potrei mandarti a
sfracellare in quella bolgia con una sola frase, posso mandarti a finire la carriera calpestato da
quella mandria di rincoglioniti. Ci credi o no?»
Dai lati della bocca fluirono due rigagnoli di bava verdastra. Si accasciò ridendo e chiuse gli occhi.
La droga lo aveva collassato. Paolo rimase con il terminale in mano senza il coraggio di connettersi
per verificare. Si trattenne a guardare il ragazzo che adesso sembrava dormire, la folla intanto
ondeggiava impazzita sotto l’azione di qualche altro messaggio. Vide un corpo che si arrampicava
su una struttura e iniziava a ballare attaccato a un fascio di cavi elettrici. I sensori lo ripresero e
presto il suo viso fu inquadrato in tutti i monitor del locale.
Paolo era ancora con il terminale in mano quando, vedendo quel viso che ballava, fu incuriosito da
uno strano tatuaggio sul collo. Nella zona dell’inserto c’era un tatuaggio: forse quello era un no-co.
La figura continuava a ballare come impazzita finché non perse l’equilibrio e cadde sulla folla
fracassandosi la testa in terra. Paolo accorse e si fece spazio sul corpo che veniva ignorato dalla
folla, la ferita sanguinava ma la persona non sembrava in pericolo grave. Era una ragazza. I capelli
erano rasati a zero, il viso era martoriato dai marchi a caldo ma da vicino si riconoscevano i dolci
lineamenti di una ragazza. Paolo gli passò la mano sul collo per cercare l’inserto, quando lo trovò
inserì il terminale e controllò. Il piccolo schermo si illuminò: il codice era quello di un indiano di
cinquant’anni, impiegato, due figli. Scorse gli altri dati e poi staccò il terminale. Era un codice
clonato, la solita storia: sequestrare la ragazza, identificare con il DNA, assegnare di nuovo il
codice e condannare per violazione di identità. La guardò e pensò che non aveva proprio nessuna
voglia di portarsela via, la ferita sulla testa aveva smesso di sanguinare, un occhio si stava
gonfiando per la botta ma era bella, si accorse che era una bella ragazza. Si accingeva a lasciarla
stare lì per terra quando vide una donna farsi largo tra la folla. Arrivò di corsa e controllò il viso
della ragazza. La fissò a lungo, poi distolse lo sguardo. Paolo ebbe l’impressione che stesse
cercando qualcuno. Vide la delusione dipinta sul volto della donna, si avvicinò per dire qualcosa
proprio mentre i sonori si erano abbassati e i monitor avevano vomitato un altro messaggio. “Luna
di sempre a volte colora messaggio solare”. I sonori divennero tuoni e la folla esplose in un delirio
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animalesco. Monia e Paolo erano abbassati sul corpo della ragazza. Lei aveva gli occhi gonfi di
lacrime e ripeteva qualcosa che era impossibile capire. Paolo fissò ancora la scena, poi si tolse gli
inserti dal naso, aspirò una boccata di atropizina e si avviò verso la bolgia.
Monia rimase sola. Si stava asciugando le lacrime quando sentì una mano sulla spalla. Non era una
mano qualunque, era una mano dalla quale scorreva un soffio vitale di amore che scosse la donna
già turbata. Avvicinò la sua mano e toccò l’altra timorosa, la accarezzò e la riconobbe. Si girò e la
vide. Era magra, aveva i capelli legati in una treccia e vestiva una tunica di lino. Sentì il tuono del
sentimento, la gioia del sangue e il pianto che gli esplodeva nel petto; dimenticò la bolgia e tutto il
resto, fu un silenzio rallentato e irreale, un silenzio popolato da figure che si agitavano intorno al
suo amore che non vedeva da mesi. Vide che la ragazza teneva per mano un giovane con un
drago tatuato sul cranio. Si alzò malferma sulle gambe e fu davanti a lei. La abbracciò piano, senza
stringere, come se avesse avuto paura di stritolarla; le passò la mano sulla testa e pianse in
silenzio. Tutti i sonori e i fumi della sala sembravano un ricordo. Sentì solo la voce della figlia che
gli sussurrava in un orecchio: «Sto bene mamma. Lui è Luca, si chiama come il mio papà. Sto
bene.»
Monia scosse leggermente la testa come per chiedere di non rompere quel silenzio incantato.
Continuò ad accarezzare la testa della figlia e sentì le dita fermarsi su una grossa cicatrice alla
base della nuca. Seguì la ferita con le dita e la coprì con il palmo della mano mentre sentiva nelle
orecchie la frase che confermava tutto: «Ho tolto gli inserti mamma… sono una no-co.»
Lei gli rispose “sì” con gli occhi e le accarezzò ancora la ferita. Riuscì finalmente a sussurrarle nelle
orecchie due parole con tutta la dolcezza di cui una madre può essere capace: «Come hai fatto?
Non hai avuto paura?»
Sul loro viso arrivò uno schizzo di qualche liquido: saliva, sudore o vomito che fosse nessuna delle
due si preoccupò di pulirsi la faccia da quello schifo. Si avvicinarono di nuovo finché Monia sentì
ancora: «No mamma, non ho avuto paura. Va bene così. Vai da papà e digli che sto bene. Digli
che ho fatto la cosa giusta e che nessuno adesso può connettersi a me.»
Questa volta si strinsero in maniera più decisa. Poi Monia si voltò e iniziò ad attraversare la sala
invasa dalla bolgia. Dopo qualche metro si girò e riconobbe la figlia che la stava guardando; era
ancora in piedi, mano nella mano con il ragazzo che si chiamava come il suo papà. Monia sorrise a
quell’immagine, poi camminò per qualche altro metro e quando si voltò di nuovo non riuscì più a
riconoscere nessuno tra la folla.
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